Le Marche sono una regione che offre paesaggi incredibili, perché si passa dal mare, alla collina, alla montagna nel giro di pochi chilometri: un territorio ricco di piccoli borghi che raccontano la loro millenaria storia, un susseguirsi di bellezze naturali ed artistiche che accompagnano chiunque voglia godere della varietà che il territorio offre. Questa poliedricità è declinata anche nella ricchezza della gastronomia che spazia egregiamente tra preparazioni a base di carne, di pesce e offre tipicità come i tartufi di Acqualagna o il mosciolo selvatico di Portonovo. La cucina marchigiana presenta ricette nate dalle contaminazioni tra i prodotti dell’orto e i prodotti del mare, risultato dovuto alla eterogeneità del paesaggio, ma i piatti più noti sono a base di carne: l’oliva ascolana e i vincisgrassi.
L’oliva Ascolana del Piceno DOP è una oliva verde da tavola, che può essere consumata in salamoia o ripiena e fritta: le piante della varietà d’olivo Ascolana Tenera presenti nel Piceno hanno origini antiche, già nell’epoca romana erano note per le loro caratteristiche. L’oliva di colore uniforme, con una polpa compatta, fragrante e una forma leggermente allungata, presenta una drupa che risulta tenera e succosa, con un sapore originale e una dimensione che consente il denocciolamento rigorosamente fatto a mano con un coltellino, in modo tale da ricavare una spirale. L’idea del ripieno risalirebbe al 1800 grazie alla ricetta dell’ascolano Benedetto Marini: i cuochi che lavoravano per le famiglie della nobiltà locale inventarono il ripieno per utilizzare al meglio la varietà di carni a disposizione. Nel disciplinare sono indicate le percentuali di carni tra manzo, maiale e pollo da impiegare nel ripieno, queste carni vanno cotte in olio extravergine con aggiunta di vino bianco secco, cipolla, carota, costa di sedano, sale. Per ottenere l’impasto vengono inoltre elencati ingredienti aggiuntivi, tra cui uovo, noce moscata, formaggio stagionato grattugiato e tra i facoltativi la scorza di limone la cui presenza caratterizza in particolar modo le innumerevoli versioni casalinghe. La panatura prevede un primo passaggio nella farina, un secondo nell’uovo sbattuto e infine nel pangrattato. II prodotto finito deve risultare con un 40% del peso di sola oliva denocciolata.
L’oliva ascolana è l’esempio perfetto di finger food, un capolavoro del food design che si presta benissimo come aperitivo, ma anche come secondo piatto a seconda delle occasioni: le olive fritte vanno accompagnate da un vino bianco fermo e strutturato, perfetto un Falerio dei colli ascolani, una DOC prodotta con i vitigni Trebbiano toscano (20-50%), Passerina (10-30%) e Pecorino (10-30%); Il Falerio è un vino fresco, secco, sapido, all’olfatto fruttato e floreale, con note di mele verdi e fiori di prato.
Si racconta che i vincisgrassi (qualificati come Specialità Tradizionale Garantita nella variante “alla maceratese”) siano stati preparati in onore del generale austriaco Windisch Graetz, protagonista nella difesa della città di Ancona contro le truppe napoleoniche nel 1799, una seconda teoria sposta la nascita di questa grandiosa ricetta cinquanta anni dopo, sempre in occasione di un assedio, ma al di là delle ipotesi storiche vediamo esattamente cosa ci offre questo piatto. Ad oggi mangiamo una rivisitazione dei Princisgras del famoso cuoco Antonio Nebbia che pubblicò la sua ricetta nel libro Cuoco maceratese (1776). La ricetta attuale prevede la sfoglia di pasta all’uovo stesa a mano come da tradizione in tutte le famiglie marchigiane, all’impasto può essere aggiunto del vino cotto, vino dolce tipico delle Marche del sud. La pasta va sbollentata e poi lasciata raffreddare su un telo che assorbirà anche l’acqua in eccesso. Il condimento per la composizione della lasagna prevede un sugo fatto aggiungendo tutto ciò che la tradizione contadina aveva a disposizione: gli animali da cortile inclusi colli, ali e zampe di pollo, anatra o oca, il tutto non macinato bensì tagliato. Abbiamo anche la carne di vitello e maiale (con ossa, midollo e muscolo) sempre non macinati, le rigaglie di animale da cortile (stomaci e fegati) anche esse tagliate in pezzi. I vincisgrassi prevedono l’uso di besciamella, compatta e consistente, con una buona dose di noce moscata. La diffusione di questa lasagna nelle trattorie e ristoranti della regione ne decretò il successo ed è sicuramente una delle ricette più caratteristiche della regione Marche.
Per un piatto così apriamo una bottiglia di Rosso Conero, una DOC ottenuta dal vitigno Montepulciano all’85%, un vino dal colore rosso rubino che al palato risulta sapido, con sentori di prugna e frutti di bosco, secco, di corpo e armonico.
Il brodetto è una ricetta tipica che troviamo in tutto il litorale della regione Marche e si possono contare diverse tipologie, esattamente cinque: la ricetta di Fano, quella di Ancona, Porto Recanati, Porto San Giorgio e San Benedetto del Tronto. Le diverse tipologie sono dovute alla disponibilità di pesce che i pescatori avevano per preparare questo piatto ‘’povero’’, una ricetta nella quale si utilizzava ciò che rimaneva dal venduto, quindi pesci di piccolo taglio e meno pregiati, ma dal sapore unico. La cottura avveniva a bordo, si aggiungevano anche prodotti dell’orto e del vino bianco che dobbiamo immaginare fosse già in avanzato processo di acetificazione: questo contribuiva non solo ad insaporire la pietanza, ma anche ad evitare che le carni più delicate si sfaldassero in fase di cottura. Nel procedimento si partiva dai pesci che richiedevano maggior tempo di cottura come le seppie, e man mano si inserivano tutti gli altri ingredienti. Vediamo nello specifico la ricetta del brodetto di Porto Recanati perché contempla un prodotto davvero straordinario: la zafferanella o zafferanone. Tra gli ingredienti di questa preparazione manca il pomodoro e spicca la presenza dello zafferano selvatico del Conero, che conferisce al piatto uno strepitoso color oro. I pesci presenti in ricetta sono quelli tradizionali da fondale in base alla stagionalità: seppie, palombo, razza, lumaconi (cassidaria echinophera adriatica), sogliole, rana pescatrice, triglie, mazzancolla, scampi, boccaincao o pesce prete, pannocchie o cicale, San Pietro, gallinella o mazzolina. Per il procedimento si fa soffriggere la cipolla in olio EVO, si aggiungono le seppie a pezzi, si sfuma con vino bianco, attenzione però al vino che si utilizza, perché al contrario della scadente qualità del vino usato anticamente dai pescatori, oggi possiamo contare su una scelta di grande qualità di vini locali. Si procede aggiungendo in cottura il brodo di pesce e i pistilli di zafferanella in infusione. Di seguito si inseriscono a strati gli altri pesci, inserendo per ultimi quelli più teneri, tutto il pesce deve essere freschissimo, il sapore della polpa bianca viene esaltato dallo zafferano. I pesci non vanno mai toccati, pertanto è consigliabile utilizzare una casseruola a due manici in modo da smuovere il contenuto di tanto in tanto. A cottura ultimata si accompagna il piatto con le fette di pane abbrustolito.
Gustiamo questo sontuoso piatto con l’Offida Pecorino DOCG, dall’omonimo vitigno la cui riscoperta e relativa produzione risale al 1990. La produzione vinicola di alta qualità è andata di pari passo con un’operazione culturale che ha valorizzato la storia del vitigno autoctono e del territorio del Piceno. Il pecorino è un vino bianco longevo, piacevolmente sapido, di notevole struttura, dotato di profumi molto marcati e netti, con prevalenza erbacei, calde note fruttate e accenni di fiori gialli, ma anche note minerali ed erbe aromatiche come timo e maggiorana, la sua gradazione alcolica è intorno ai 13,5°.
Il frustingo è il dolce di Natale delle Marche, preparazione antichissima risalente ai Piceni, come tutte le ricette ha subito variazioni e contaminazioni nel corso del tempo. All’epoca romana si cuoceva sulle olle di creta, l’impasto era fatto di grano, spelta, orzo, marzaiolo e alica, veniva amalgamato con succo di uva passita. Il suo nome antico era panis picentinus, una preparazione citata persino da Plinio. Partendo da questi primi elementi vediamo come il tempo abbia adattato la ricetta in base ai gusti e alla disponibilità degli ingredienti; di certo questo dolce ha rappresentato per la nostra campagna marchigiana un rituale che vedeva nella preparazione degli ingredienti una particolare cura.
In tutte le Marche si contano parecchie varianti non solo nella scelta delle materie prima ma anche nel nome: derivato dal latino frustum che tradotto significa “pezzetto” o “tozzo” in provincia di Ascoli viene chiamato Frustingo, salendo verso nord nella vicina provincia di Fermo è chiamato sia Fristingo che lu ficusu (dolce di fichi). Proseguendo a Macerata troviamo il nome di frostengo e pistingo fino al pesarese dove prende il nome di brostengo. Citiamo l’elenco degli ingredienti generalmente utilizzati: fichi secchi, uva passa, zucchero, farina, canditi, mandorle e noci, caffè, vino cotto, rhum, mistrà all’anice, buccia d’arancia, cacao amaro, olio EVO. La lavorazione prevede come prima cosa l’ammollo dei fichi secchi in acqua tiepida, essi vanno successivamente scolati e tritati, una parte viene fatta a pezzetti; le mandorle vanno tostate fino a quando sono ben cotte colorite e croccanti, una volta raffreddate vanno tritate con un matterello; anche l’uvetta va messa in ammollo in acqua tiepida per 10 minuti. In una ciotola vanno messi fichi macinati, quelli tagliati a pezzetti, aggiungiamo le mandorle tritate, le noci spezzettate, il cacao, i canditi, l’uvetta strizzata, la scorza di arancia, il cacao, il caffè, il vino cotto. Mescoliamo il tutto e aggiungiamo farina ed olio che aiutano ad amalgamare gli ingredienti, il composto deve risultare morbido ma non lento; va fatto riposare per almeno 4 ore in modo che si insaporisca bene, dopodiché va in forno a 180 gradi per 50 minuti – un’ora circa.
È importante che il composto si asciughi ma che mantenga un po’ di umidità, questo permette al prodotto finale di risultare morbido e di esaltare tutti i sapori; a fine cottura si aspetta che si freddi per poi proseguire con la decorazione a base di noci, ciliegie candite e mandorle. Possiamo abbinare questo dolce alla Vernaccia di Serrapetrona DOCG, vino spumante ottenuto da uve del vitigno Vernaccia nera per almeno l’85%; la spumantizzazione della Vernaccia di Serrapetrona DOCG avviene mediante tre differenti fermentazioni: dopo la prima fermentazione del vino base, parte delle uve parte delle uve vengono messe ad appassire fino a gennaio, una volta pigiate e diraspate si ottiene il mosto che verrà aggiunto al vino base. Abbiamo quindi la seconda fermentazione alcolica, a cui seguirà un processo di maturazione. Questo vino verrà poi trasferito in autoclave per la terza fermentazione a seguito dell’aggiunta di zuccheri. A seconda del residuo zuccherino abbiamo entrambe le versioni dolce o secca, ma in abbinamento al dolce va sempre servito in concordanza un vino dolce. La Vernaccia di Serrapetrona DOCG è di colore rosso rubino non troppo intenso, con perlage sottile e persistente, dal profumo aromatico e vinoso, ricorda la frutta rossa matura, le marmellate, i fiori appassiti, gusto morbido ed equilibrato, con un piacevole retrogusto amarognolo.
La storia ci racconta che il commerciante veneziano Pietro Querini salpò per le Fiandre nel 1431, durante il viaggio di ritorno a causa di una burrasca si arenò sulle isole Lofoten, con il suo equipaggio rimase in terre norvegesi fino all’arrivo della primavera e fu proprio in quella occasione che scoprì lo stoccafisso. Quando ripartì portò con sé questo pesce essiccato e lo introdusse per la prima volta in Italia. Grazie al suo metodo di conservazione lo stoccafisso si rivelò un prodotto ideale da imbarcare nelle cambuse delle navi e presto diventò un cibo presente nelle coste del mediterraneo compresa Ancona. Gli ingredienti per la ricetta dello stoccafisso all’anconitana prevedono stoccafisso, acciughe sotto sale, patate, pomodorini, cipolla, aglio, prezzemolo, rosmarino, capperi, olive nere, vino bianco secco, olio EVO.
Lo stoccafisso va bagnato, deliscato e tagliato in piccoli pezzi, le patate vanno pelate e tagliate in grossi spicchi. Una volta tritati cipolla, aglio, prezzemolo e rosmarino procediamo alla preparazione della salsa aggiungendo capperi e le acciughe dissalate e spinate. Utilizzeremo una pentola capiente per disporre le patate, la salsa e lo stoccafisso in strati, va ricoperto il tutto con la salsa rimanente e vanno aggiunte le olive denocciolate, con i pomodorini e sfumatura di vino bianco. La pentola va coperta con un coperchio e di procede con la cottura che deve essere lenta, anche più di un paio di ore. Come per il brodetto, si sconsiglia di muovere il prodotto per evitare che si sfaldi.
Senza dubbio consumiamo lo stoccafisso abbinandolo al Verdicchio dei Castelli di Jesi DOC: parliamo di un vino dai grandi profumi, strutturato, corposo ed elegante, la sua fragranza, vivacità e freschezza si affiancano ai profumi decisi di biancospino e fiori di campo. Va apprezzata anche la nota fruttata di pesca, mela, agrumi, con uno strepitoso retrogusto di mandorla amara.
Manuela Titta, cuoca per passione, gastronomo di professione e sommelier per vocazione
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