C’è un’erba che sa di primavera e di tradizione contadina, un’erba che nasce selvatica tra i campi incolti, lungo i muretti a secco e nei terreni che profumano ancora di pioggia. Si chiama cardillo, e per molti potrebbe sembrare solo un’erbaccia, una pianta da strappare e dimenticare. Ma per chi è cresciuto nelle campagne dell’entroterra campano — tra le colline del Sannio, le valli dell’Irpinia e i pendii dell’Alta Valle del Sele — il cardillo è un tesoro, una presenza familiare, un sapore dell’infanzia. È la base di zuppe rustiche, frittate spesse e piatti poveri che oggi tornano sulle tavole più attente, quelle che cercano autenticità e stagionalità.
Il cardillo è la prova che la cucina più vera non nasce da ingredienti raffinati o rari, ma dalla conoscenza profonda del proprio territorio. Ed è proprio nei mesi tra marzo e maggio che lo si vede comparire nei mercatini rionali, legato a mazzetti da mani sapienti. Ma è nei racconti delle nonne e nelle cucine delle case di campagna che il cardillo diventa magia, trasformandosi da erba spontanea a regina della tavola.
Conosciuto anche come “galantina” o “scarola di campo”, il cardillo è una pianta erbacea spontanea appartenente alla famiglia delle Asteraceae. Il suo nome scientifico è Scolymus hispanicus, anche se nelle province di Avellino, Benevento e Salerno viene chiamato semplicemente “cardillo”, con accento affettuoso e un tono di appartenenza. Cresce spontaneamente nei campi non coltivati, ai margini dei sentieri e tra i filari dei vigneti abbandonati, dove il terreno è ricco e l’esposizione è buona.
La raccolta del cardillo è un rito antico, che richiede pazienza e occhi allenati. Si va nei campi all’alba, con un coltello piccolo e la cesta di vimini, cercando i ciuffi più teneri, ancora giovani e privi di spine. Le foglie, verdi e frastagliate, hanno un sapore leggermente amarognolo, ma non invadente, perfetto per abbinamenti robusti. Non si coltiva: lo si prende dove nasce, come una benedizione della natura.
In cucina, il cardillo diventa protagonista di ricette rustiche, spesso tramandate a voce, mai scritte. Una delle preparazioni più diffuse è la frittata di cardilli, spessa, cotta lentamente e arricchita con pecorino, uova fresche e, talvolta, un pizzico di peperoncino. Poi c’è la zuppa di patate e cardilli, povera ma incredibilmente saporita, che un tempo si preparava nelle sere d’inizio primavera, quando ancora l’orto offriva poco ma la terra iniziava a risvegliarsi.
In alcune zone del beneventano, il cardillo viene anche lessato e condito con olio nuovo, aglio e limone, come contorno o antipasto, mentre in Irpinia non è raro trovarlo abbinato alla salsiccia paesana, in un connubio perfetto tra l’amaro vegetale dell’erba e la sapidità del maiale.
Oggi, chef e ristoratori attenti alla riscoperta dei sapori antichi stanno riportando il cardillo al centro dell’attenzione, rivalutandolo come ingrediente identitario e stagionale. Ma per chi lo conosce da sempre, resta prima di tutto un sapore di casa: quello di un’erba raccolta a mano, cucinata con amore e servita in semplicità. Come si faceva una volta.
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