Farro dicocco del Sannio, pane e pasta di farro

PaesidelGusto  | 10 Gen 2019  | Tempo di lettura: 6 minuti

Territorio interessato alla produzione
Ufita, Fortore, e aree cerealicole della Campania interna (AV e BN)

Descrizione
Nell’area considerata vengono coltivate due specie: Triticum monococcum e Triticum dicoccum e identificate con nomi diversi, rispettivamente “Speuta italiana” e “Speuta francese” dove “Speuta” è una forma dialettale della parola “spelta”.

IL Farro dicocco (Triticum dicoccum) è un frumento vestito; è la specie progenitrice dell’attuale frumento duro, dal quale, tuttavia, si differenzia in modo evidente per caratteristiche morfologiche, agronomiche ed organolettiche. Una delle differenze più spiccate rispetto al frumento duro riguarda il glutine. Nel farro, infatti, il contenuto di glutine (che pur sempre presente e quindi non adatto a chi soffre di celiachia), non solo è minore, ma l’aspetto più interessante è legato alla qualità di questo, che risulta più “soft” e quindi meglio digeribile.
La pianta è adattabile a condizioni ambientali difficili, ed è la specie tipica delle aree tradizionali di coltivazione del farro dell’Italia centro meridionale.

Caratteristiche biometriche:
taglia media, culmo sottile, spiga modeste dimensioni e aristata, glume color variabile, cariosside a frattura tendenzialmente vitrea, semina autunnale.
Caratteristiche organolettiche:
si caratterizza per la particolare aroma che trasferisce anche alla pasta. Il chicco e molto resistente alla cottura e presenta una notevole elasticità alla cottura. Conserva un sapore forte, indelebile che neppure una cottura prolungata riesce a scalfire. Il chicco, dopo la cottura, rimane croccantino e particolarmente gustoso, in quanto libera l’aroma che ne caratterizza la specie.

Il farro dicocco si differenzia dai frumenti tenero e duro per alcune peculiari caratteristiche legate al maggior contenuto in sali minerali, ricco di vitamine e proteine funzionali, alla ricchezza in beta-glucani (gomme naturali con preziosa funzione di protezione dell’apparato digerente e di agevolazione della digestione). Il farro dicocco inoltre ha un basso indice glicemico (dovuto alla lenta trasformazione degli amidi durante la digestione che evita un alto picco glicemico, favorendo un miglior apporto energetico) e per questo particolarmente adatto a chi pratica attività sportive ed agonistiche, ma anche per chi svolge lavori sedentari.

Il prodotto, dopo la sbramatura può essere avviato al mulino per ottenere semola da avviare alla pastificazione. In alternativa, il mulino, possibilmente a “pietra”, può ottenere farina da utilizzare nel panificio per preparare il Pane di Farro, come da antica tradizione fiorente nell’antica Roma.

Pasta di farro

Pasta integrale: Il contenuto proteico della Pasta di farro rispetto alle altre paste è maggiore. valori nutritivi: kilocalorie 347 – kilojoule 1.470; proteine 13,4 g; carboidrati 65.10 g; grassi 3,5 g; fibre 6,5 gr. E’ ricca di vitamine e di sali minerali e povera di grassi. La pasta si ottiene miscelando semola di farro con acqua purissima. La lavorazione artigianale prevede il passaggio dell’impasto nella trafila tradizionale in bronzo che la rende ruvida e porosa, capace di assorbire il condimento; successivamente, la pasta viene essiccata naturalmente (richiede tempi lunghi: 24-48 ore). Questo processo conferisce al prodotto un aroma ed un sapore particolare.

Pane di farro

Viene tipicamente cotto nel forno a legna, prodotto con farina integrale, acqua e lieviti (madre o lievito di birra).

Metodiche di lavorazione
Pratiche colturali tipiche di tutti i cereali autunno-vernini; l’essiccazione viene effettuata al sole; segue la sbramatura, al fine di eliminare le glumelle e le ariste che ricoprono il chicco. Nella precitata operazione, oltre a “svestire” il chicco, si provvede a ripulirlo di eventuali impurità organiche (residui di culmi della stessa specie o di altre specie presenti) e non organiche – recuperate dalla mietitrebbia nella fase di raccolta (pietrisco, zollette di terra et similia) e di semi di infestanti. La conservazione avviene in locali adeguati da un punto di vista igienico-sanitario, asciutti e con temperatura costante. Successivamente, si provvede a confezionare il prodotto in pacchetti di peso variabile: da 250 gr. A 3 kg cadauno. La lavorazione artigianale della pasta di farro prevede l’impasto, secondo la consuetudine artigianale dell’area, il passaggio dell’impasto nella trafila tradizionale in bronzo che la rende ruvida e porosa, capace di assorbire il condimento; successivamente, la pasta viene essiccata naturalmente (richiede tempi lunghi: 24-48 ore). Questo processo conferisce al prodotto un aroma ed un sapore particolare. La lavorazione artigianale del pane di farro prevede di amalgamare farina, acqua e lieviti siano ad ottenere un impasto abbastanza elastico. L’impasto, secondo la consuetudine artigianale dell’area, viene lasciato lievitare secondo le caratteristiche che si sceglie di trasferire alla tipologia di pane che si vorrà ottenere. Dopo i tempi prescelti per la “crescita” dell’impasto, si provvede a riporre in apposite casseruole, secondo tradizione locale, la parte di impasto che si vorrà avviare al forno. Quest’ultimo rigorosamente caldissimo e ben pulito, preparato con legna molto secca di quercia. La cottura è anch’essa figlia dell’esperienza e della tipologia di pane che si vorrà ottenere. I locali delle operazioni sequenziali sopra riportate sono adeguatamente aerati e non inquinati da agenti biotici e/o abiotici. La conservazione avviene in ambiente con un’umidità piuttosto bassa.

Cenni storici e curiosità
La diffusione del Farro (dalla cui radice linguistica deriva la parola “farina”) è stata opera delle popolazioni italiche già in epoca neolitica (7200 AC) in Puglia e Basilicata, aree notoriamente interessate dalla colonizzazione greca. In seguito le precitate specie si diffusero anche nelle regioni settentrionali (6.500 a.C.) insieme ad orzo ed ai frumenti nudi. Orzo e farro rimasero per tutto il periodo di affermazione della lavorazione dei metalli (Età del Ferro e del Bronzo) i cereali più diffusi, in particolare nelle specie dello spelta e del farro grande. Dalle fonti storiche, secondo quanto riporta Plinio il Vecchio (Naturalis historia, libro XVIII,cap.7), al tempo del re Numa Pompilio venne formalizzato il rito religioso che precedeva le pratiche agricole dell’aratura e della mietitura. La focaccia di farro era utilizzata come suggello religioso nelle antiche cerimonie nuziali (confarreatio), durante le quali, alla presenza del Pontefice Massimo, la coppia, consacrata in famiglia, mangiava l’alimento prescritto (panis farreus), simbolo della loro unione: un’usanza ancora riscontrabile nelle cerimonie di alcuni popoli (rito ortodosso ed ebraico). Il farro costituì, infine, la base dell’alimentazione del legionario: in luogo del pane, che creava all’esercito problemi di conservazione ed ingombro, si preferiva assegnare al soldato un quantitativo di frumento (Catone dice 4 modi, all’incirca 5.500 grammi ciascuno) che, arrostito e macinato tra due pietre, costituiva la base dell’antica pulsche che ogni milite provvedeva a prepararsi da sé.
Ancora nel IV secolo d.C. l’imperatore Giuliano l’Apostata dava l’esempio alle truppe cibandosi esclusivamente di pulmentum. “Pultenon pane vixisse longo tempore Romanos”, scrive Plinio il Vecchio a proposito dell’alimentazione nei primi secoli della civiltà romana, che aveva appreso dalla Magna Grecia i sistemi più avanzati nel campo delle coltivazioni dei cereali. Ovidio chiamava il farro “Tuscam semen”, mentre presso i greci esso era stato denominato “zea”.
Cercando tale termine tra gli autori della letteratura italiana, autori come De’ Crescenzi, Burchiello, Pascoli, D’Annunzio e Monelli riportano come unico termine quello di “farro”.
La storia del pane di farro è antica quasi quanto la storia dell’uomo. I Romani conobbero il pane dopo il 168 a.C., anno in cui impararono le tecniche della panificazione da alcuni schiavi macedoni. Plinio ci racconta che prima i latini erano soliti consumare focacce non lievitate e polta, una densa zuppa preparata con grani di cereali schiacciati e bolliti nell’acqua. Numerose sono le testimonianze archeologiche e artistiche che raccontano la presenza del pane nella società della Roma antica: dall’affresco della Casa del fornaio e dalle forme di pane fossilizzate di Pompei al sepolcro di Marco Virgilio Eurisace a Porta Maggiore a Roma, fino ai rilievi e ai mosaici che illustrano il lavoro quotidiano del fornaio. In molti casi le forme di pane raffigurate corrispondono alla tipologia del pane “quadratus”: una pagnotta divisa in otto spicchi da quattro tagli. Questo stesso tipo di pane compare anche in contesti paleocristiani dove i tagli sono due o tre, per ottenere pagnotte segnate con l’immagine della croce o il simbolo semplificato od occultato del monogramma di Cristo. Il nome “quadratus” deriva dall’incisione a croce che favoriva la divisione in quattro parti, “quadrae” parti angolari che compongono un angolo a giro. Il farro come specie era diffuso dalle legioni romane, in particolare lungo l’antica via Appia e nei territori sanniti dopo la conquista romana.

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