Tomino del Bec

Materia prima: latte intero.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte previa pastorizzazione a circa 18 gradi, aggiungendovi fermenti lattici più caglio liquido. Dopo la coagulazione, la massa viene messa negli appositi stampi. Matura in un giorno, in ambiente a temperatura di 4-5 gradi.

Stagionatura: non si effettua. Al massimo può essere conservato per qualche settimana.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 2; diametro: cm 6-7; forma cilindrica; crosta: assente. Superficie liscia; pasta: morbida, di colore bianco perlaceo.

Area di produzione: Acqui Terme (AL) e, in misura assai minore, nell’area di Roccaverano (AT).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: un tempo latte esclusivamente caprino prodotto nel periodo in cui le capre sono in amore (ottobre/novembre) e quindi sensibili al becco. Oggi viene prodotto industrialmente con solo vaccino da un caseificio che ha assunto il nome per una specie di robiola. In particolare é importante la presenza del timo serpillo nella flora locale, secondo alcuni produttori.

Primolino

Materia prima: latte intero. Eccelle quello da razza piemontese. Alimentazione: a foraggio fresco o fieno dell’area dell’Astigiano ai confini con le provincie di Alessandria e Cuneo.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte previa pastorizzazione alla temperatura di coagulazione, aggiungendovi caglio liquido. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata, si lascia riposare per tre quarti d’ora. Dopo queste operazioni, la massa viene posta nelle formine apposite, per circa 15 minuti. Matura in un’ora circa. Resa 15%.

Stagionatura: non si effettua. Si consuma freschissimo.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 3-4; diametro: cm 10; peso: Kg 0,2; forma: cilindrica; crosta: assente; pasta: con occhiatura rada, di colore bianco perlaceo.

Area di produzione: Roccaverano (AT).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: é un tomino da consumarsi fresco, prodotto e studiato in questi anni dai produttori del Caseificio sociale di Roccaverano.

Grana Padano DOP

Materia prima: latte di due mungiture, di cui una scremata per affioramento o centrifugazione. Alimentazione: erba verde e mangimi in primavera-estate; insilati, fieno e mangimi in autunno-inverno.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a 32-35 gradi, aggiungendovi siero-innesto più caglio liquido. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata (a dimensione di chicco di mais) si aggiunge dello zafferano e si cuoce in due fasi: prima a 45 gradi, si spurga e poi si riscalda fino a 55 gradi. Dopo queste operazioni, la massa viene estratta con tele, previa eliminazione di gran parte del siero, e messa in mastelli di legno a spurgare per trenta minuti. Si deposita poi nelle fascere e si sottopone a pressione per 8-10 ore. La salatura si effettua a secco, ad intervalli di due giorni per 15 giorni, oppure in salamoia per 30-40 (tipo lombardo) o 15-20 giorni (tipo emiliano). Matura in circa 60 giorni, durante i quali le forme vengono periodicamente unte con olio di lino. Resa 7%. Additivi: formaldeide, nei limiti consentiti dalla legge.

Stagionatura: da 12 mesi fino a tre anni. Resa 6%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 16-20; diametro: cm 40-45; peso: Kg 35-40; forma: cilindrica; crosta: dura, spessa, di colore giallo scuro; pasta: granulosa, a volte umida e attaccaticcia, di colore giallo chiaro.

Area di produzione: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto, nelle provincie definite dal Decreto 30.10.1955 numero 1269.

Calendario di produzione: tutto l’anno, nelle sorti maggengo (primavera-estate) e invernengo (autunno-inverno).

Note: il Consorzio di tutela nasce il 18.6.1954. Da testimonianze del XIV secolo si deduce che la tecnica migliore per produrre il grana fosse appannaggio di Piacenza e dei piacentini. Benvenuto da Imola annotava che gli esperti mercanti, durante i loro lunghi viaggi per mare, si rifornivano di grana piacentino perché “più serbevole e resistente a tutte le malattie”. Il primo documento che parla di questo formaggio risale al 1184, mentre le prime fabbriche di formaggio detto “di grana” si localizzarono all’epoca del XII secolo nel quadrilatero compreso tra il Po, il Ticino, l’Adda e la latitudine di Milano. Dai ritagli delle forme del grana si ottiene il cosiddetto “tosello”, che consiste in fettuccine quasi gommose, di colore grigio paglierino tenue, dal gusto leggermente salato. I caseifici lo regalano, in quanto non ha mercato. Si consumava un tempo come “complimento” ammorbidito sulle fette di polenta abbrustolite sulle braci. Altro sottoprodotto del Grana è il “balon”, ossia formaggio grana mal riuscito, con sapore molto piccante provocato da particolari alterazioni fermentative. La maggior parte dei “balon” viene rilavorata per ottenere vari formaggi molli industriali o formaggi fusi. Va citato infine il “formaggio nisso”, costituito da Grana o formaggelle di montagna andate a male. In alcuni casi si accelerava il processo di fermentazione lasciandolo al sole spalmato di olio. E’ ricercato dai bevitori ed ha un gusto molto piccante. Nel Cremonese viene chiamato “tara”, ma è conosciuto, prodotto e consumato soprattutto in Emilia, nel Piacentino, in una quantità stimata di circa 50 quintali annui.

Toma Piemontese DOP

Zona di produzione: La zona di provenienza del formaggio comprende il territorio amministrativo delle province di Novara, Verbania, Vercelli, Biella, Torino e Cuneo e di alcuni comuni in provincia di Asti ed Alessandria

Tipologia: Formaggio semicotto a pasta morbida (con latte intero) o a pasta semidura (‘semigrasso’)

Descrizione: Ha forma cilindrica, facce piane o quasi piane con scalzo leggermente convesso, peso compreso tra 1,8 e 8 chilogrammi, altezza tra 6 e 12 centimetri e diametro tra i 15 e i 35 centimetri. La pasta è di colore bianco paglierino con occhiatura minuta e diffusa; la stagionatura è variabile dai 15 ai 60 giorni a seconda della dimensione

Note: Le origini della Toma piemontese risalgono all’epoca romana, ma solo in documenti dell’XI secolo si trovano citazioni che la identificano con precisione. Incerta è l’etimologia della parola toma, che viene usata in Piemonte, in Valle d’Aosta, in Francia e in Sicilia; potrebbe forse riferirsi alla fase di caduta della caseina durante la coagulazione, che in dialetto è appunto detta ‘tomè’. In ogni caso la denominazione richiama il nome tradizionale del formaggio prodotto nella relativa zona di produzione, costituita in prevalenza da territori montani e pedemontani.

Riferimenti normativi: Prodotto DOP, Registrazione europea con regolamento CE n. 1107/96 pubblicato sulla GUCE L148/96 del 21 giugno 1996; riconoscimento nazionale con DPCM 10 maggio 1993 pubblicato sulla GURI n. 196 del 21 agosto 1993; incarico di vigilanza con DM 26 maggio 1995 pubblicato sulla GURI del 28 giugno 1995

Robiola di Roccaverano DOP

Materia prima: latte intero vaccino-ovino, oppure vaccino-caprino, con un massimo dell’85% di latte vaccino. Eccelle quello da razza piemontese. Alimentazione: foraggio fresco o fieno della zona di Roccaverano-Acqui.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte, previa pastorizzazione o crudo, a circa 18 gradi, aggiungendovi caglio naturale liquido più fermenti lattici(se il latte é pastorizzato). Coagula in circa 24 ore. Successivamente, la massa viene sistemata negli appositi stampi dove rimane per una giornata. La salatura si effettua solo talvolta, tramite aspersione di sale fino. Resa 18%.

Stagionatura: facoltativa, si protrae fino a 20 giorni circa. In questo periodo le forme vengono spesso cosparse di senape. Resa 14%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 3-4; diametro: cm 12-16; peso: Kg 0,2; forma: cilindrica; crosta: assente; pasta: tenera, friabile, compatta, bianca o colore paglierino, tendente al giallo se il prodotto viene stagionato. Grasso: 48-50%; sapore: piccante se stagionato.

Area di produzione: come di Roccaverano (AT) ed Acqui Terme (AL).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: già nota nel Medioevo, la Robiola di Roccaverano ha sempre ottenuto il massimo consenso dei consumatori. Oggi é di particolare interesse il fatto che ne venga proseguita la preparazione anche con latte caprino. Si ritiene che il sapore caratteristico della Robiola di Roccaverano si debba, oltre all’erba medica ed alle essenze prative locali, alla presenza di notevoli quantità di timo serpillo e di pruni. Viene spesso conservato in appositi barattoli, sottolio, a pezzi; oppure é immerso nel latte di pecora o in salse speciali (al peperoncino o in ” bagnet vert “, salsa di prezzemolo e aglio). É riconosciuto Doc dal 14 marzo 1979.

Seirass (sairass) di latte o ricotta piemontese

Il Seirass di Latte o Ricotta Piemontese viene ricondotto erroneamente ad un latticino della tipologia “ricotta”. In effetti la sua tecnica di produzione lo fa rientrare a pieno titolo tra i formaggi, essendo il risultato di una coagulazione acida e presamica del latte. A differenza delle altre ricotte, questa è prodotta a partire da puro latte, in passato principalmente di pecora, adesso solo di latte vaccino. La forma del Seirass di Latte o Ricotta Piemontese è tradizionalmente quella del caratteristico cono arrotondato che deriva dall’impiego di tele cucite a formare appunto un cono.

Territorio interessato alla produzione: E’ probabile che il Seirass di latte o Ricotta Piemontese abbia visto la luce nella zona cuneese di Roaschia, molto conosciuta per la fervente attività di allevamento transumante di greggi ovini. In seguito si è diffuso anche in altri territori cuneesi e torinesi ma è più corretto definire, in mancanza di dati storici precisi, il territorio in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàRelativamente al Seirass di latte o Ricotta Piemontese sono state reperite numerose testimonianze orali.

Caprino lattico piemontese

Il formaggio Caprino Lattico Piemontese è la denominazione che raggruppa produzioni caseariepiemontesi a latte caprino, rientranti nelle tipologie casearie genericamente definite come “lattiche”. In Piemonte l’allevamento della capra da latte non ha mai avuto una evoluzione paragonabile a quella vaccina. In molti casi la tecnologia casearia non era dissimile da quella applicata con il latte di vacca, generalmente ne differiva la pezzatura finale del formaggio e, di norma, se ne diminuiva anche la stagionatura. Negli ultimi decenni si è diffusa anche la versione tecnologica definita “a coagulazione lattica”, storicamente appartenente al formaggio conosciuto anche come “Formaggetta”.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il Piemonte

Cenni storici e curiositàIl termine Caprino Lattico Piemontese non compare in testi storici, è stato coniato per raggruppare formaggi di simili tecnologie che in passato acquisivano nomi territoriali per abitudine ma senza specifiche caratteristiche abbinate.

Caprino presamico piemontese

Il formaggio Caprino Presamico Piemontese è la denominazione all’interno della quale si comprendono produzioni casearie piemontesi a latte caprino, rientranti nella tipologie casearie genericamente definite come “Toma” o “Caciotta”.

Territorio interessato alla produzione: L’intero territorio del Piemonte.

Cenni storici e curiositàIl termine Caprino Presamico Piemontese non compare in testi storici, è stato coniato per raggruppare formaggi di simili tecnologie che in passato acquisivano nomi territoriali per abitudine ma senza specifiche caratteristiche abbinate.

Seirass di siero di pecora

Il Seirass di siero di pecora è un latticino della tipologia “ricotta”, prodotto a partire da siero dilavorazione di formaggio presamico di pecora, quali la Sola di Pecora, il Murazzano, il Testun di Pecora ed altri formaggi di latte ovino. Nella tradizione, le due principali razze ovine da latte allevate in Piemonte, sono la pecora di razza delle Langhe e la pecora di razza Frabosana-Roaschina. Si presenta in forme differenti, tradizionale è quella simile ad un panettone un poco schiacciato ricavato dalla disposizione della ricotta messa a scolare in una tela appesa.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il territorio piemontese.

Seirass stagionato

Il Seirass stagionato è un latticino della tipologia “ricotta”, prodotto a partire da siero di lavorazione di formaggio presamico di vacca, capra o pecora in purezza o misti. Oggigiorno è poco prodotto, limitato particolarmente al periodo estivo e di alpeggio, il Seirass stagionato in passato era la principale modalità di consumo della ricotta perché, attraverso la asciugatura e stagionatura, si poteva portare nel tempo la caratteristiche nutrizionali della ricotta fresca. Si presenta in forme differenti, sia leggermente tonda o a panettone che più schiacciata per effetto della pressatura.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il territorio piemontese.

Mula

Tecnologia di preparazione: la carne magra di testa viene tagliata grossolanamente con guanciale: si unisce circa il 40% di impasto per salame, e si condisce. Si aggiunge poi la lingua di maiale precedentemente tenuta sotto sale per circa quattro giorni, lavata e asciugata, e si insacca il tutto nel budello equino (che dà il nome al salume). Il prodotto finito prende l’aspetto di un melone a causa della legatura con spago, che lo divide in tanti spicchi. Si consuma bollito e viene servito caldo.

Composizione
a) Materia prima: carni di suino di seconda scelta e lingua di suino.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, aglio, noce moscata, chiodi di garofano, cannella.
c) Additivi: salnitro.

Maturazione: alcuni giorni.

Periodo di stagionatura: circa due mesi. Poi può essere messa sotto strutto fuso, in un orcio di coccio: in questo caso si mantiene, rimanendo morbida, per più di un anno.

Area di produzione: province di Novara, Vercelli e, in provincia di Asti, nel Monferrato.

Batsuà

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: E’ una preparazione per una particolare ricetta gastronomica
Metodiche di lavorazione: Pulitura ed eventuale rasatura degli zampini. Bollitura con un po’ di aceto. Disossatura e taglio a strisce. Le striscette così ottenute verranno impanate e consumate fritte.

ZONA DI PRODUZIONE: Diffusa in varie zone del Piemonte
MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI: Non si segnalano attrezzature particolari

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA: Normali salumerie

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: Tradizione orale.
Citiamo inoltre Imbriani L.: Roseo Piemonte. Edito APS Piemonte, p.100

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Frisse (fresse) o grive

Le Frisse sono polpettine preparate con fegato, frattaglie varie, carnetta (carne intercostale e rifilature di lavorazione) e grasso di maiale, impastate ed avvolte nell’omento (o rete). Le polpettine hanno pezzatura variabile compresa tra 50 e 100 g, possono essere cosparse con farina di mais per evitare che si attacchino le une alle altre. In alcune zone si usa aggiungere dell’uvetta lasciata a bagno nel vino, presenza che conferisce al prodotto un sapore leggermente dolce.

Territorio interessato alla produzione: Le Frisse sono prodotte nel Monferrato, nel Canavese e nelle Langhe dove vengono chiamate Grive ed hanno dimensioni leggermente superiore ed una composizione dell’impasto più semplice.

Cenni storici e curiositàLe Fresse o Frisse, sono un’altra fra le tante preparazioni per non sprecare nulla del maiale. Sono di origine antichissima tanto che Bartolomeo Scappi nella sua “Opera” del 1570 dà addirittura tre ricette ” per far tommacelle di fegato di porco” che sono simili a quelle attuali. Ne “Il Cuoco Piemontese perfezionato a Parigi” del 1766 troviamo invece una ricetta dal titolo “Fegato di vitello alla rete di porco, ossia crépine” che sostanzialmente sono fresse.

Lardo

Si presenta di forma rettangolare o quadrata, di peso variabile tra 2 e 4 kg, la consistenza è compatta. La parte grassa ha un colore bianco latte, il magro ha un colore che va dal rosa al rosso vivo, determinato dai fasci muscolari. Il lardo, macinato o in cubetti (analogamente a quanto avviene per la pancetta), entra a far parte dell’impasto degli insaccati, oppure, dopo adeguata lavorazione, è consumato come antipasto o impiegato in varie preparazioni culinarie.

Territorio interessato alla produzione: Diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale conferma la necessità di conservare un prodotto altamente calorico.Fin dai tempi più antichi veniva utilizzato come grasso in cucina, per insaporire le carni o per insaporire/condire zuppe e minestre povere.Tra le varie preparazioni, meritano di essere menzionati il Lardo al Rosmarino (Cavour) ed il Lardo della Doja tipico della zona di Ronco Biellese (Biella). Il Lardo della Doja è del tutto peculiare sia per le modalità di preparazione, sia per l’utilizzazione gastronomica. Infatti, il Lardo è posto in una giara di terracotta (doja) assieme a sale, spezie e bacche di pino mugo per un periodo di 4-5 mesi, durante il quale assume un colore rosso mattone.La tradizione popolare ricorda anche l’uso terapeutico di questo prodotto per la cura per esempio del “Fuoco di Sant’Antonio”e per la cura di alcune forme infiammatorie.Osservando le gabelle dei secoli passati relative ai prodotti presenti sui mercati delle varie città del Piemonte si può notare che il lardo era sempre menzionato. Ne è un esempio la Lettera della Camera Ducale di Torino del 1627 (Archivio di Stato 14:2°) che stabilisce le tasse sui prodotti commercializzati sul mercato di Torino che prende in considerazione tre tipologie di lardo.

Pancetta con cotenna

La Pancetta con cotenna ha forma rettangolare, si presenta ripiegata su se stessa in modo da mantenere all’esterno la cotenna e cucita con lo spago; in molti casi viene semplicemente ripiegata a libro e legata.

Territorio interessato alla produzione: Diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale ha trasmesso nel tempo le antiche ricette contadine, esistono inoltre salumifici che producono pancetta mantenendo le vecchie ricette da più generazioni.

Prosciutto cotto

Il prosciutto cotto è un prodotto diffuso in tutto il Piemonte, è costituito dalla massa muscolare dellacoscia del maiale sottoposta a salagione e cottura. Al taglio, la fetta si presenta di colore rosato,generalmente contornata dal grasso di copertura della coscia. La consistenza della fetta è morbida, non secca e non gommosa. Il sapore è delicato, poco salato e con sentore di erbe e spezie.

Territorio interessato alla produzione: Prodotto diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàIn Piemonte esistono salumifici che operano da oltre 50 anni ma la produzione del prosciutto è certamente più antica se Giovanni Vialardi, vice-capocuoco dei Re Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II nell’elencare gli “Hors-d’oeuvre” (antipasti) cita, tra gli altri sia il Giambone cotto e crudo che il Presciutto cotto e crudo. Curioso il fatto che faccia la distinzione tra Giambone e Presciutto dato che in piemontese il prosciutto cotto viene denominato “giambun”. E’ possibile che il primo fosse di spalla o viceversa o che il secondo avesse una diversa provenienza.

Crudo di Cuneo DOP

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: Prosciutto crudo prodotto a partire da cosce suine fresche. I suini sono macellati ad almeno otto mesi di età. Le cosce rifilate sono prive del piede e con l’anchetta presente. La stagionatura del prodotto dura almeno 10 mesi dall’inizio della lavorazione. Peso finale 7-10 kg.
Metodiche di lavorazione: La salagione é eseguita a secco con sale essiccato o parzialmente umidificato. Il sale può contenere piccole quantità di pepe nero spaccato e aceto e può essere miscelato con spezie o
estratti di spezie.
Segue un riposo di almeno 50 giorni in ambienti tali da garantire un adeguato asciugamento a
freddo del prodotto.
La successiva fase di toelettatura ha lo scopo di rimuovere le asperità derivanti dall’asciugamento
superficiale. Si effettua poi un lavaggio ed un secondo asciugamento.
La stagionatura é condotta in ambienti con adeguato ricambio d’aria.

ZONA DI PRODUZIONE: Intero territorio della provincia di Cuneo e parte delle province di Torino e Asti.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI: Non si segnalano attrezzature particolari.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA: Locali con temperatura ed umidità adeguate nelle fasi di riposo e stagionatura.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: Tradizione orale.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Salami aromatizzati del Piemonte

I salami aromatizzati del Piemonte sono particolari produzioni di salumeria, diffuse sul territoriopiemontese, preparate con carne di suino e con tecnologia di produzione paragonabile fra loro.Le caratteristiche principali che distinguono le varie tipologie sono la concia ed il tipo di insacco.

Territorio interessato alla produzione: Diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale tramanda di generazione in generazione le ricette per la preparazione di questi prodotti e molte salumerie ancora oggi producono secondo antiche ricette.

Sanguinacci

L’aspetto è quello di un salsicciotto di piccole dimensioni, con una lunghezza di 12-15 cm e diametro di 4-5 cm, di colore scuro, per la presenza di sangue, privo di muffe di superficie. Il profumo è delicatamente speziato, il sapore intenso, ma con note di dolce Si tratta di un insaccato povero, preparato con rifilature di maiale, patate (in alternativa riso o pane) e sangue.

Territorio interessato alla produzione: Tutti i Comuni della Valsesia, alcune zone del novarese e del vercellese.

Cenni storici e curiositàNon è stata reperita documentazione bibliografica relativa a questa tipologia di sanguinacci, ma la tradizione orale conferma la necessità di utilizzare al meglio tutti gli ingredienti poveri del maiale e quindi anche il sangue, per potersi sfamare. La disponibilità di patate, nelle zone montane, e in particolare in Valsesia, ha fatto sì che il sanguinaccio con patate diventasse un prodotto tipico delle zone alpine (si pensi per esempio ai sanguinacci valdostani che a seconda della disponibilità di patate o barbabietole potevano contenere l’uno o l’altro ortaggio). Il sanguinaccio con riso e con pane è caratteristico delle zone risicole e di pianura.

Bue di carrù

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: Si tratta del bovino di razza Piemontese ‘nostrano’, che fino al dopoguerra si utilizzava per lavorare i campi e a fine carriera (3 anni circa) era avviato al macello. Il temine ‘nostrano’ è qui
utilizzato per indicare gli animali diversi dai bovini Piemontesi ‘della coscia’.
Attualmente sta diventando una produzione legata al prestigio dell’azienda, il che porta ad allevare un bovino anche fino a 4-5 anni.
A Carrù (CN) vengono valutate classi differenti di buoi dai 16 ai 18 mesi (Vitello in bocca), fino al bue finito in bocca (4 anni almeno)
Metodiche di allevamento: I vitelli sono castrati a 3-6 mesi. E’ questo il momento migliore, ma alcuni castrano in epoche diverse.
In genere si utilizzano piani alimentari non specifici, almeno per i primi tempi, basati sulla
somministrazione di foraggi e pochi concentrati. Poi nell’ultimo anno si effettua il finissaggio,
incrementando gli sfarinati.
Attualmente il numero di buoi sta aumentando e vi sono miglioramenti anche in termini di qualità
del bestiame.

ZONA DI PRODUZIONE: Tutto il Piemonte, in particolare Piemonte meridionale.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI:

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA 7) DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: La Fiera si tiene ormai da 100 anni ed appartiene alla tradizione.
Il bue era già utilizzato prima dell’avvento delle trattrici agricole, la sua ‘storia produttiva’ ha
dunque più di 25 anni.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Lingua di bovino cotta

La Lingua di bovino cotta è una preparazione a base di lingua di vitellone o di bovino adulto.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il Piemonte, in particolare le zone nord-occidentali.

Cenni storici e curiositàIn molte salumerie del Piemonte si produce la Lingua cotta da più di 50 anni.La lingua cotta in vari modi è riportata su tutti i ricettari di cucina piemontese sia settecenteschi che ottocenteschi. La lingua cotta e servita con il bagnetto verde o il bagnetto rosso è invece un piatto più popolare, diffuso in quasi tutto il Piemonte e che compare su gran parte dei ricettari piemontesi pubblicati dall’ultimo dopoguerra ad oggi.

Bresaola di cavallo

Tecnologia di preparazione: la carne di cavallo, magra, ricavata dalle cosce, fesa, sottofesa, noce e lombata, viene salata a secco, poi legata con spago o rivestita con la pellicola della bondeana, infilata in tessuto a fitta rete di cotone o di naylon e messa ad asciugare.

Composizione
a) Materia prima: carni magre di prima scelta di equini da carne.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, cannella, chiodi di garofano, timo, rosmarino, alloro, bacche di ginepro.
c) Additivi:

Maturazione: in salamoia in frigorifero a zero gradi per una-due settimane. Poi sette-otto giorni in locali a 18-20 gradi.

Periodo di stagionatura: due o tre mesi in ambienti freschi, arieggiati e ad umidità costante. I produttori più esigenti la mandano a stagionare in montagna dove il prodotto acquista un gusto più delicato e un colore più gradito al consumatore.

Area di produzione: zona collinare tra il Ticino e l’Agogna, in provincia di Novara (famose quelle di Borgomanero). A Colliano e Moncalvo, nel Monferrato, in provincia di Asti.

Castrato Biellese

La razza ovina biellese è una razza autoctona del Piemonte originaria della zona del biellese poi diffusasi anche nelle province di Torino, Cuneo, Asti, Novara e Vercelli.L’attitudine produttiva prevalente è la produzione di carne anche se, nella pianura torinese e cuneese, non sono rare le pecore biellesi munte e il loro latte trasformato per la produzione di tomette e di ricotta di pecora.

Territorio interessato alla produzione: Il biellese, l’alto canavese, il Verbano Cusio Ossola.

Cenni storici e curiositàNell’area del biellese, si hanno notizie relative all’allevamento di pecore e contestuale artigianato laniero fin dal Medioevo. I primi censimenti dell’agricoltura (e del settore ovino in particolare) risalgono alla fine del 1700. Uno standard della razza biellese fu definito ufficialmente nel 1959 con un D.M. poi modificato nel 1985.

Salame o Salamino di capra o Susiccia d’crava

Descrizione del prodottoIl Salame di Capra è un insaccato confezionato con carne di capra, in genere a fine carriera, nella proporzione del 70% e lardo per la parte restante. Può anche essere prodotto sostituendo il 20% di carne di capra con carne suina o bovina. Ha forma cilindrica, sottile, leggermente ritorta, colore rosso scuro.
Il prodotto ha un peso di circa 100 g ed una lunghezza di 10-13 cm. La consistenza non è omogenea poiché dipende dal periodo di stagionatura. La produzione avviene generalmente in primavera ed in autunno.In alcuni casi si usa anche la carne di pecora.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il Piemonte. É un prodotto diffuso su tutto l’arco alpino in particolare nelle zone della Valsesia, del Verbano Cusio Ossola e delle Valli di Lanzo, del Canavese e del Biellese.
PreparazioneL’impasto prevede: carne di capra ben sgrassata, carne di maiale, lardo o pancetta, carne di bovino. La carne è macinata, conciata con sale pepe e spezie per formare salami di 15-20 cm legati in file. Il tutto è insaccato nel budello torto di bovino. Seguono il prosciugamento per una settimana nella cosiddetta “paiola”, una cella con una temperatura di 20°C ed un’umidità relativa del 65%, e la stagionatura in ambiente fresco (10-12°C) con umidità relativa del 70-80% per un periodo di 20-30 giorni od anche di alcuni mesi, nel qual caso il salume diventa molto secco.In Valsesia la carne è insaccata in budello fine, la legatura è semplice. Il salame è stagionato a lungo finché non è completamente duro, per venire poi tagliato in fette sottilissime.
Cenni storici e curiositàL’origine del Salame di capra deriva da un’esigenza di conservabilità della carne per gli allevatori dei territori montani. In Valle di Lanzo rappresentava, assieme alla toma, un componente caratteristico del pasto dei boscaioli e dei minatori.L’aroma risente dell’influenza delle spezie impiegate nella concia, che mascherano in parte il sentore di selvatico della carne di capra.Può anche essere consumato fresco, dopo 15 giorni.

Cappone di San Damiano d’Asti

Si tratta di una produzione tradizionale molto diffusa nelle campagne del Piemonte, in particolare a San Damiano d’Asti si è sempre tenuta una fiera intorno alla metà di dicembre in cui gli agricoltoripresentavano i loro capponi.

Territorio interessato alla produzione: San Damiano D’Asti frazioni di San Damiano e zone circostanti.

Cenni storici e curiositàLa fiera del cappone di San Damiano si tiene da tempi remoti.Le testimonianze sul metodo di allevamento e di produzione sono per lo più orali e le metodiche sono state sempre tramandate di padre in figlio.Per quanto riguarda invece la vendita di capponi da consumo, basta vedere le gabelle sui prodotti venduti nei grandi mercati del Piemonte per avere riscontro di quanto fossero diffusi e pregiati già nei secoli passati. Ne è un esempio la lettera della Camera Ducale del 1627 che stabilisce le tasse sui prodotti commercializzati sul mercato di Torino (Archivio di Stato, 14: 2°) ove vengono citati “caponi vecchi” e “caponi novelli”. Su tutti i ricettari di cucina piemontese settecenteschi e ottocenteschi troviamo ricette con il cappone.Anche analizzando i menu di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento si evince che spesso il cappone compariva in occasione dei grandi pranzi, soprattutto nel periodo autunnale. A tal proposito è interessante il libro di Domenico Musci, 100 anni di Menu . . . Grafica Santhiatese, Santhià, 2006.

Cappone di Vesime

Galletti capponati a mano ed allevati in modo tradizionale.

Territorio interessato alla produzione: Vesime (AT).

Cenni storici e curiositàLa fiera del cappone di Vesime si tiene da più di 50 anni.Le testimonianze sul metodo di allevamento e di produzione sono per lo più orali e le metodiche sono state sempre tramandate di padre in figlio.Per quanto riguarda invece la vendita di capponi da consumo, basta vedere le gabelle sui prodotti venduti nei grandi mercati del Piemonte per avere riscontro di quanto fossero diffusi e pregiati già nei secoli passati. Ne è un esempio la lettera della Camera Ducale del 1627 che stabilisce le tasse sui prodotti commercializzati sul mercato di Torino (Archivio di Stato, 14: 2°) ove vengono citati “caponi vecchi” e “caponi novelli”. Su tutti i ricettari di cucina piemontese settecenteschi e ottocenteschi troviamo ricette con il cappone.Anche analizzando i menu di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento si evince che spesso il cappone compariva in occasione dei grandi pranzi, soprattutto nel periodo autunnale. A tal proposito è interessante il libro di Domenico Musci, 100 anni di Menu . . . Grafica Santhiatese, Santhià, 2006.

Salame d’asino

Il salame d’asino è un insaccato preparato con carne di asino e pancetta suina.

Territorio interessato alla produzione: Novarese (Oleggio – Bellinzago) e Vercellese (Borgomanero comuni limitrofi). Astigiano (Moncalvo e Calliano).

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale attesta come il salame di asino sia diffuso in varie zone del Piemonte, soprattutto in quelle aree dove venivano maggiormente utilizzati come animali da soma e a fine carriera venivano macellati per farne salami.

Biova

La biova è il classico pane piemontese di piccolo formato, ed è forse il più comune che si può trovare in Piemonte. Sono pagnotte vendute in due formati, uno di 100-150 g, e l’altro di 500 g circa.

Territorio interessato alla produzione: Le biove sono prodotte in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa biova ha origini assai remote e la sua produzione è attestata da studi storici locali.È conosciuta da sempre, ma anche l’etimo è incerto. È nella memoria collettiva e nei ricordi di tutti i piemontesi, ma le origini di questo pane, veloce da produrre e gustoso, non sono documentate.È fortemente documentata la presenza sul territorio da moltissimo tempo, con documenti commerciali di ogni genere.Nessun paese in particolare rivendica la primogenitura delle biove.

Papera

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua,lievito naturale e di birra.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: si lavora bene farina, acqua salata e lievito. Si attende la prima alzata. Si reimpasta ancora aggiungendo altra farina per ottenere la quantità voluta. Si formano dei pani rotondi e si fa completare la seconda alzata. Prima di infornare si appoggia il palmo della mano sulla parte superiore, lasciando bene in evidenza la sua impronta. Si cuoce nel forno caldo.

Area di produzione: Monferrato, in Piemonte.

Note: è un pane a pasta morbida che, a cottura ultimata, risulta croccante e fragrante. Ottimo nel caffellatte del mattino.

Grissino stirato

I grissini stirati sono forse il prodotto di gastronomia torinese più famoso al mondo. Si tratta di pasta di pane lavorata in modo da assumere una forma molto allungata, anche un metro e mezzo, tanto quanto la larghezza delle braccia del panettiere. Infatti l’impasto, molto morbido, viene diviso in pezzetti lunghi una decina di centimetri, che sono allungati, “stirati”, prendendo le due estremità e tirando le finché le braccia ci arrivano.

Territorio interessato alla produzione: I grissini stirati sono prodotti in tutto il Piemonte, con un epicentro storico a Torino, nelle Valli di Lanzo, nel Canavese, e nel Pinerolese.

Cenni storici e curiositàÈ stato un prodotto di lusso per tavole di signori, prodotti solo con farina bianca e resi ricchi con l’aggiunta di grassi.Fra i grandi appassionati del grissino torinese troviamo lo stesso Napoleone, il quale creò, all’inizio del XIX secolo un servizio di trasporto apposito tra Torino e Parigi, dedicato al trasporto di quelli che egli chiamava les petits bâtons de Turin.Il numero di produttori di grissini stirati, soprattutto nelle valli di Lanzo era enorme, e la tradizione si è mantenuta tramandando la sapienza dai fornai ai garzoni per generazioni.

Rustica

La rustica è una torta salata con all’esterno pasta sfoglia e all’interno formaggi vari, in genere unacombinazione di formaggi molli e duri.La ricetta, che varia un poco tra i produttori, è gelosamente custodita e, pertanto, non è possibile elencare con precisione gli ingredienti che compongono la sfoglia, tantomeno i tipi di formaggio utilizzati per il ripieno, che variano da produttore all’altro, e che nella preparazione casalinga possono essere scelti a piacere; unica avvertenza è che sia un misto di formaggi, possibilmente sia duri che molli, in rispetto della tradizione e dell’origine di questa torta.

Territorio interessato alla produzione: La rustica è prodotta a Rocchetta Tanaro (Asti).

Cenni storici e curiositàSi racconta che, in frazione Cornalea (Rocchetta Tanaro), ancora all’inizio del 1900, abitava il formaggiaio (‘l Furmagé), uomo che, con il carro trainato da un cavallo, girava i paesi della Valle Tiglione e della Valle Tanaro per vendere formaggi. La sera, quando rientrava a casa, le donne acquistavano a prezzo ridotto gli avanzi della giornata che, tagliati a pezzetti, stesi in una sfoglia rustica di farina di grano e cotti nel forno a legna, diventavano gustose ed economiche focacce ai formaggi, da consumarsi appena sfornate.La pro loco, negli anni ’70, in occasione del I° Festival delle Sagre, ne rievocò il ricordo e nobilitò il piatto, arricchendo l’impasto, la qualità dei formaggi e mantenendone la cottura nel forno a legna.Da allora la pro loco di Rocchetta Tanaro partecipa, con la rustica ai formaggi, al famoso festival delle sagre di Asti, che si tiene il secondo weekend di settembre. Nel tempo la rustica ha conseguito numerosi premi come antipasto e preparazione gastronomica.

Plin

I plin, o “agnolottini al plin”, più impropriamente raviolini al plin, sono dei piccoli agnolotti, eseguiti alla moda piemontese, e quindi con il ripieno di carne, ma, a differenza degli agnolotti, sono molto più piccoli (almeno la metà se non un terzo) e la sfoglia è molto più sottile.Di solito poi la sfoglia è molto ricca in uovo, seguendo la tradizione della Langa di usare molti tuorli per la pasta all’uovo.

Territorio interessato alla produzione: Sono tuttora un primo piatto caratteristico della cucina piemontese, in particolare della Langa e dell’astigiano, normalmente consumato in occasione di ricorrenze.

Cenni storici e curiositàLa presenza dei plin nell’area compresa tra le province di Torino, Cuneo e Asti è indubbia, ma soprattutto basata sulla tradizione agreste e non facilmente reperibile sui testi i cucina antichi.Le testimonianze locali hanno memoria perenne dei plin, facendoli risalire almeno all’inizio del secolo scorso.Un’unica antica citazione testuale risale al 1846 ad opera di F. Chapusot, cuoco torinese.

Tajarin

Si tratta di un particolare formato di pasta all’uovo. In pratica sono sottili tagliatelle, con la caratteristica di essere tagliate a mano,e quindi presentarsi con una certa irregolarità.

Territorio interessato alla produzione: I tajarin si producono in tutto il territorio piemontese e, in particolare, nelle Langhe e nel Monferrato.

Cenni storici e curiositàI tajarin vantano origini antiche e il loro radicamento sul territorio addirittura sposa note canzoni piemontesi di cui si è persa l’origine: ricordiamo la “Monferrina”, dove “…ris e còj e tajarin /guarda un pòch coma balo bin…” .Nel suo “Grandi piatti del Mondo” Robert Carrier pone i tajarin e il bunet come soli rappresentanti della cucina piemontese nel mondo.L’origine è talmente remota da non poter essere certamente datata, ma essendo già codificati nel 1801, se ne può presumere una storia che affonda le sue radici nella cucina popolare di sempre.

Agnolotti

Gli agnolotti sono costituiti da due fogli di pasta all’uovo, di forma quadrata o vagamente rettangolare, con all’interno un ripieno a base di carne.Sono tuttora un primo piatto caratteristico della cucina piemontese, tradizionalmente consumato inoccasione di ricorrenze.

Territorio interessato alla produzione: Gli agnolotti sono preparati, secondo varianti multiple e non classificabili univocamente, su tutto il territorio della regione.

Cenni storici e curiositàNon mancano le leggende, tra cui una che fa derivare il nome da un certo “Angelotto”, cuoco del Marchese di Monferrato, che preparò un piatto con gli avanzi rimasti dopo l’assedio del Principe d’Acaja.Secondo le più recenti considerazioni, anche se non del tutto condivise a livello popolare, gli “agnolotti” si distinguono dai ravioli per il tipo di ripieno.Gli agnolotti infatti prevedono sempre la presenza di carne, mentre i ravioli sono preparati con formaggio e verdure. A supporto di ciò si può constatare come già nel 700 il Vocabolario degli Accademici della Crusca distingua il raviolo dall’agnolotto, definendo: “ricco d’erba e cacio il primo, più ricco di carne e uovo il secondo”.L’inizio della separazione concettuale tra ravioli ed agnolotti si può datare al 1570, quando Bartolomeo Scappi, nell’Opera, descrive un tipo di pasta ripiena ma con la definizione di “anolini”. la diffusione ne ha probabilmente alterato il nome, ma la presenza di carne nel ripieno marca da allora la diversità tra le due paste ripiene.

Tinca Gobba Dorata del Pianalto di Poirino DOP

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE
AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: La Tinca comune (Tinca tinca) presenta una colorazione base giallo-verde, il dorso più scuro, tendente al verde, i fianchi più chiari, spesso con tonalità bronzee o dorate, il ventre è giallastro o grigio. La bocca è bordata di rossiccio. Macchie nere sono sparse irregolarmente sul dorso e sulle pinne. La Tinca Dorata invece, che è una variante della Tinca comune, presenta una colorazione della livrea prevalentemente giallo-rossiccia, dovuta alle “terre rosse” caratteristiche dell’altopiano poirinese. Un’altra caratteristica che la differenzia dalla Tinca comune è la presenza di una gibbosità all’altezza delle prime vertebre cervicali.
Metodiche di allevamento Per i contadini della zona la tinca, considerata un alimento di notevole valore proteico, ha sempre rappresentato una fonte non trascurabile di introito economico avendo infatti carni delicate e sode, non grasse e non ricche di miospine. Presentando dunque rinomate qualità organolettiche è da sempre fatta oggetto di commercio. L’abbandono delle classiche attività agricole e zootecniche e l’adozione delle monocolture e dell’allevamento intensivo dei bovini hanno alterato le tradizionali pratiche gestionali dei bacini; successivamente l’introduzione di fauna acquatica alloctona, predatrice e/o competitrice alimentare, ha contribuito alla drastica riduzione del numero dei bacini nei quali si trova la tinca, compromettendone il successo riproduttivo. Essa è anche quasi scomparsa dai torrenti locali nei quali abbondava e prosperava. Attualmente nell’area di distribuzione di quella che era sempre nota come “Tinca Gobba e Dorata di Poirino” permane comunque un buon numero di laghetti, circa 100, nei quali è ancora allevata, ma sono circa 250, e non più utilizzate, le cave idonee all’allevamento di questo pesce , il cui valore commerciale è tra i più elevati fra tutti i pesci autoctoni di acqua dolce.

ZONA DI PRODUZIONE: La Tinca Dorata è prodotta in quello che anticamente era chiamato il “Pianalto di Poirino”, che
comprende i comuni di: Poirino, Isolabella, Pralormo, Carmagnola, Villasteloone, Santena (in provincia di Torino); Dusino San Michele, Valfenera, Cellarengo (in provincia di Asti); Montà, Santo Stefano Roero, Monteu Roero, Somariva Perno, Pocapaglia, Sanfrè, Sommariva del Bosco, Ceresole d’Alba (in provincia di Cuneo).

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI:

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA:

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO
PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: I contadini per abbeverare il bestiame erano soliti raccogliere e conservare le acque piovane in fossi e peschiere in cui allevavano tinche e le commercializzavano a Torino ed in altri luoghi già prima del 1800, nella zona di Carmagnola, come attesta Milo Julini nel testo “Uso a scopo alimentare dell’ittiofauna del Piemonte”. Tradizione antica quella dell’allevamento della tinca che, nell’Altopiano di Poirino, ha portato alla produzione di un pesce dalle caratteristiche organolettiche particolarmente apprezzate; citate anche da Sandro Doglio nel “Dizionario di Gastronomia del Piemonte” (1997, Daumerie).

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Trota affumicata

Materia prima: trote.

Tecnologia di lavorazione: le trote vanno eviscerate e lavate in acqua e aceto o acqua e limone. Metterle in salamoia aromatizzata con pepe, alloro, coriandolo, seme di finocchio, ecc. e lasciarle per 3-5 giorni, a seconda della grandezza, riguardandole almeno una volta al giorno. Tolte dalla salamoia, vanno appese all’aria per qualche giorno. Successivamente vengono affumicate esponendole al fumo per 3-4 giorni, ad intervalli di 4-5 ore. Conservare all’asciutto in luogo fresco.

Maturazione: 10-15 giorni.

Area di produzione: Trentino Alto Adige, Piemonte, Lombardia, Veneto,
Marche, Umbria.

Calendario di produzione: primavera, inizio estate, fine estate, inizio autunno.

Note: é un prodotto che si conserva bene per qualche tempo in zone non molto umide. Diversamente é meglio tenerlo in frigorifero. Si consuma in insalata, o sulle tartine come antipasto. La specie di trota più indicata per questo tipo di preparazione é quella salmonata.

Tinca in carpione

Materia prima: tinca.

Tecnologia di lavorazione: il pesce, precedentemente salato e infarinato, viene fritto in abbondante olio bollente. A parte si lascia bollire una quantità di aceto e una di acqua a cui si aggiunge il sedano, le cipolle, l’aglio, la salvia, l’alloro, il rosmarino ed il sale. La salsa ottenuta viene versata sul pesce precedentemente sistemato nei vasi di vetro. Si lascia riposare per tre giorni e si conserva in frigorifero per alcuni mesi.

Maturazione: 3 o 4 giorni.

Area di produzione: tutto il Piemonte.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: la tinca é un pesce diffuso in tutta Europa. In Italia si trova ovunque anche se non in modo abbondante. Ha un corpo tozzo coperto di piccole squame e di un abbondante strato di muco. Di colore verdastro, la tinca può superare i 5 Kg. di peso e difficilmente si trovano individui sessualmente maturi al di sotto dei 25 cm. L’accrescimento non é molto rapido: la femmina matura verso i 4 anni, il maschio al terzo anno di età.

Prodotti ittici in carpione

Sono preparazioni ittiche ormai poco in voga ma molto importanti in passato.Era consolidata la tradizione di conservare in carpione i prodotti della pesca tipo tinche, anguillee trote.

Territorio interessato alla produzione: Un tempo le Lamprede erano diffuse un po’ dappertutto: famose quelle della pianura del Po tra Vigone e Carignano e anche quelle di Chivasso. Ma il “paese delle Lamprede” è oggi soprattutto Cercenasco, piccolo centro nella pianura torinese, tra Airasca e Vigone.

Cenni storici e curiositàTradizione orale e libri di cucina del 1800.

Asparago saraceno di Vinchio

L’asparago saraceno di Vinchio (Asparagus officinalis) appartiene alla famiglia delle liliacee ed è una specie ortiva perenne le cui parti commestibili sono i turioni, germogli di sapore particolarmente delicato, che si sviluppano dai rizomi sotterranei e possono assumere diverse colorazioni: verdi, bianchi o violetti.

Territorio interessato alla produzione: L’areale di produzione dell’asparago saraceno di Vinchio è il comune di Vinchio.

Cenni storici e curiositàNell’immediato dopoguerra, anni in cui il vino non trovava sbocco sul mercato, si sentiva l’esigenza nel comune di Vinchio, di altre produzioni agricole senza rinunciare alle vigne. Così, in mezzo ai filari, si iniziò a piantare le asparagiaie. In pochi anni, Vinchio ha scoperto la vocazione all’asparago e la sua terra di origine marina, ricca di fossili, ha fatto il prodigio di fornire un prodotto primaticcio (a metà aprile è già pronto) e assai gustoso, tanto quanto è stata faticosa la ricerca del nutrimento da parte della sua pianta, in competizione con le lunghe radici della vicina vite.La denominazione “saraceno” ricorda una cresta di colline vitate che si chiama “bricco dei Saraceni”. Si dice che, durante lo scasso per l’impianto delle nuove vigne, sia venuto alla luce qualche cadavere armato di spade. La fantasia popolare attribuì questi resti ai mitici Saraceni.A Vinchio si svolge un appuntamento classico ormai da 35 anni: La Sagra dell’Asparago Saraceno.La manifestazione, organizzata dalla proloco, si svolge la prima domenica di maggio ed in quell’occasione oltre ad acquistare il prelibato ortaggio dai produttori locali e possibile gustare un pranzo preparato dalle cuoche dell’associazione che propongono un ricco menu’ a base di asparagi e di altri piatti tipici locali.

Cardo avorio di Isola d’Asti

Il Cardo Avorio di Isola d’Asti (Cynara cardunculus var. altilis) è un ecotipo locale astigiano.Le piante raggiungono, a fine ciclo, un’altezza di circa 100-120 cm, sensibilmente superiore a quella delle cultivar comunemente diffuse e ciò ne costituisce un carattere distintivo.

Territorio interessato alla produzione: L’areale di produzione del Cardo Avorio di Isola d’Asti comprende il comune di Isola d’Asti, la frazione Motta di Costigliole e tutto l’areale pianeggiante lungo l’asta del Tanaro.

Cenni storici e curiositàNegli orti della piana alluvionale del Tanaro, in particolare nella zona di Motta di Costigliole e Isola d’Asti, il cardo è stato coltivato con successo sin dall’inizio del ‘900.Al riguardo si è trovata documentazione relativa a un “concorso a premi per la razionale coltivazione degli orti nel circondario di Asti” del 1914, bandito per iniziativa della Società Orticola Astigiana, in cui viene evidenziata la produzione di cardi da parte di numerosi agricoltori della zona.

Cipolla bionda astigiana

La cipolla bionda astigiana autoctona presentava la tipica colorazione bianco giallognola uniforme delle tuniche carnose (che diveniva bianca in quelle rinsecchite) e una forte vestitura esterna con conseguente buona tolleranza alle manipolazioni.

Territorio interessato alla produzione: L’areale di produzione della cipolla bionda astigiana comprendeva il comune di Asti e tutti i comuni della provincia situati nella Valle Tanaro.

Cenni storici e curiositàNegli orti della piana alluvionale del Tanaro, la cipolla bionda astigiana è stato coltivata con successo dall’inizio del secolo.Al riguardo si è trovata documentazione relativa a un “concorso a premi per la razionale coltivazione degli orti nel circondario di Asti” del 1914, bandito per iniziativa della Società Orticola Astigiana in cui viene evidenziata la produzione della cipolla bionda da parte di numerosi agricoltori della zona.

Cipolla rossa astigiana

La cipolla rossa astigiana si distingue per il colore rosso intenso brillante delle tuniche carnose(lievemente sfumato nelle tuniche rinsecchite) e la fitta vestitura esterna (che le conferisce buonaresistenza alle manipolazioni). L’intenso sapore dolce la rende un prodotto particolarmente apprezzato e ricercato.

Territorio interessato alla produzione: L’areale di produzione della cipolla rossa comprende Asti e tutti i Comuni della provincia situati nella Valle Tanaro.

Cenni storici e curiositàNegli orti della piana alluvionale del Tanaro, la cipolla rossa astigiana è stato coltivata con successo dall’inizio del secolo.Al riguardo si è trovata documentazione relativa a un “Concorso a premi per la razionale coltivazione degli orti nel circondario di Asti” del 1914, bandito per iniziativa della Società Orticola Astigiana, in cui viene evidenziata la produzione della cipolla rossa astigiana da parte di numerosi agricoltori della zona.

Peperone di Capriglio

Il Peperone di Capriglio, appartiene alla specie Capsicum annuum. Si tratta di una cultivar localecaratterizzata da frutti di medio-piccole dimensioni, selezionata e coltivata da più di 100 anni nel Comune di Capriglio d’Asti.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione è limitata al comune di Capriglio d’Asti.

Cenni storici e curiositàLa varietà di peperone in oggetto è giunta fino ai giorni nostri grazie all’opera di pochi coltivatori che hanno tramandato questo importante patrimonio genetico. Sino agli anni ’60 questo peperone era particolarmente ricercato sui mercati di Chieri, Asti e Torino. Oggi è presente solo negli orti familiari e coltivato a livello amatoriale. In seguito alla nascita del Presidio Slow Food, gli orticoltori si sono riuniti in Associazione e, coltivando secondo tradizione, cercano di ridare forza a questo tradizionale prodotto.

Peperone quadrato d’Asti

La coltivazione del Peperone quadrato d’Asti era particolarmente diffusa nelle aziende astigiane sino alla metà degli anni ’90; la perdita di omogeneità e rusticità della semente hanno determinato, in questo ultimo decennio, una significativa contrazione della coltura su tutto il territorio.

Territorio interessato alla produzione: L’area di produzione del Peperone quadrato d’Asti comprendeva il comune di Asti e tutti i comuni della provincia situati lungo l’asta fluviale del Tanaro.

Cenni storici e curiositàNegli orti della piana alluvionale del Tanaro, in particolare nella zona di Motta di Costigliole e Isola d’Asti, il peperone è stato per decenni una coltivazione privilegiata. Al riguardo, esiste una documentazione relativa a un “concorso a premi per la razionale coltivazione degli orti nel circondario di Asti” del 1914, bandito per iniziativa della Società Orticola Astigiana in cui viene evidenziata la produzione di peperoni da parte di numerosi agricoltori della zona.Ancora negli anni ’60-’70 del secolo scorso, partivano numerosi camion verso i mercati di Torino e Milano. A quei tempi, i coltivatori di peperone erano numerosi e la coltura era redditizia tanto che, ogni anno, si producevano ingenti quantità di peperoni quadrati.Negli anni ’90 alla mostra (che si tiene ancora oggi a luglio ed agosto a Motta) si presentavano non più di una decina di produttori, che garantivano appena la sopravvivenza della varietà.Oggi la produzione di Peperone quadrato d’Asti è stata abbandonata; le aziende hanno dirottato l’attenzione su ibridi commerciali di recente introduzione caratterizzati da maggiori rese ed elevata tolleranza ad alcuni patogeni.

Sedano dorato d’Asti

La produzione del Sedano dorato d’Asti si effettua su suoli alluvionali lungo l’asta fluviale del Tanaro, caratterizzati da una struttura sabbioso-limosa e buona fertilità.

Territorio interessato alla produzione: Si colloca nel comune di Asti ed in tutti i comuni astigiani situati lungo l’asta del Tanaro.

Cenni storici e curiositàTra la fine del diciassettesimo e l’inizio del diciottesimo secolo Italia, Francia e Inghilterra avviarono le prime attività di miglioramento genetico su questa coltura, con l’obiettivo principale di eliminare il pungente aroma del sedano selvatico.Negli orti astigiani, situati nella piana alluvionale del Tanaro, il sedano viene coltivato a partire dall’inizio del ‘900. Documenti storici narrano di un “concorso a premi per la razionale coltivazione degli orti nell’astigiano” bandito dalla locale Società Orticola Astigiana, in cui si fa menzione della produzione di sedano da parte di numerose aziende orticole locali.

Pisello di Casalborgone

Il Pisello di Casalborgone, ed in particolare l’accessione Quarantin, si presenta con baccellotendenzialmente piccolo (max 5 cm), seme di piccola pezzatura, superficie liscia, colore verde chiaro, sapore dolce e consistenza pastosa. È’ particolarmente adatto per la preparazione di zuppe e vellutate.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione comprende i comuni di Casalborgone, Cinzano, Rivalba, Sciolze, Castagneto Po, San Sebastiano da Po, Lauriano, Verrua Savoia in provincia di Torino e Berzano San Pietro, Aramengo e Tonengo in provincia di Asti.

Cenni storici e curiositàDal 1960, è stata delimitata la zona di coltivazione del Pisello di Casalborgone contrassegnata da un marchio di qualità e comprendente i seguenti comuni oltre a Casalborgone: Cinzano, Rivalba, Sciolze, Castagneto Po, San Sebastiano da Po, Lauriano, Berzano San Pietro, Aramengo, Tonengo.Le testimonianze storiche di tale coltura si possono far risalire almeno al 1920, anno di nascita del Mercato di Casalborgone. È comunque probabile che la coltivazione abbia origini ancora più antiche, poiché altre testimonianze indicano che prima della nascita del Mercato esistevano alcuni commercianti di Casalborgone che vendevano piselli a Torino.Secondo la testimonianza orale di coltivatori locali (in particolare, del Cav. Stefano Vittone), il mercato per la vendita del Pisello si svolgeva nei seguenti periodi: fine di aprile, maggio, giugno, luglio, settembre, ottobre, con vendite medie di 350 quintali di prodotto a sera.Oggi si svolge ogni anno a giugno la tradizionale Sagra del Pisello, giunta nel 2011 alla 57° edizione.

Conserva di granoturco

Materia prima: pannocchie di granoturco allo stadio di maturazione cerosa, intere o sgranate.

Tecnologia di lavorazione: si fa cuocere il mais per non più di 5 minuti. Si lascia raffreddare conservando nei vasi di vetro in soluzione salina, a temperatura non superiore ai 14-15°C.

Maturazione

Area di produzione: tutta la Padania.

Calendario di produzione: agosto-settembre.

Note: ii prodotto si consuma saltato in padella fino all’apertura del chicco. E’ molto gradito alle nuove generazioni, tanto che la produzione industriale è in costante espansione.

Conserva di rose

Materia prima: petali di rosa canina.

Tecnologia di lavorazione: le rose vengono sfogliate e ad ogni petalo si recide la “unghia”, ossia quella parte del petalo attaccata alla corolla, perché di sapore amarognolo. I petali così tagliati si mettono in una terrina aggiungedovi una pari quantità di zucchero e del limone spremuto. Strofinarli bene con le mani per favorire la rottura delle fibre e la fuor uscita degli umori. Si lascia macerare il tutto per qualche tempo, si incorpora dello sciroppo di zucchero preparato a parte lasciando bollire fino al raggiungimento della giusta consistenza. Si mette nei barattoli e si chiudono ermeticamente conservandoli al buio.

Maturazione:

Area di produzione: tradizionale in Piemonte, Veneto e Toscana.

Calendario di produzione: maggio e giugno.

Note: La conserva di rose, tradizionale in Piemonte, viene fatta anche nel convento dell’isola di S.Lazzaro, ad opera dei fratelli armeni, ma solo per uso interno. Le conserve di rosa che si trovano in commercio sono quasi tutte importate dai paesi dell’Est europeo, soprattutto dalla Bulgaria.

Peperoni sott’aceto

Materia prima: peperone, della varieta “piacentino” verde da orto.

Tecnologia di lavorazione: i peperoni, previa lavatura e pulitura, sono bolliti in
aceto per 2 o 3 minuti, insieme al sale e alle spezie, che ogni famiglia sceglie sulla
base del proprio gusto. Una volta bolliti e raffreddati vengono sistemati in
damigiane a bocca larga coperti di aceto e un filo d’olio. In superficie viene
sistemato un pezzo di marmo (non poroso), che tiene pressati i peperoni evitando
il contatto con l’aria.

Maturazione: 10-15 giorni.

Area di produzione: tutta la Padania, ma con altre varietà in tutta Italia.

Calendario di produzione: agosto-settembre.

Note: il consumo viene fatto durante il periodo invernale e accompagna i lessi misti
e i piatti grassi come cotechino, zampone, lingua di vitello, ecc. Nell’alto Sannio ottengono il caratteristico nome di “pipauri”.

Tartufo bianco

Il tartufo bianco ha il peridio liscio e la forma globosa, spesso molto appiattita ed irregolare. La gleba, percorsa da venature bianche molto ramificate, ha un colore che varia dal latte al rosa intenso, con sfumature brune. Le spore sono di tipo reticolate-alveolate, ad alveoli grandi. È il più grande tra i tartufi: raggiunge le dimensione di una grossa mela e, ogni anno, si raccolgono pochi esemplari che superano, anche abbondantemente il chilogrammo.

Territorio interessato alla produzione: Il Tuber Magnatum Pico del Piemonte è tipico dei territori delle Langhe, del Monferrato e del Roero, benché vi siano stati ritrovamenti anche nell’Alessandrino e sulle colline torinesi. La città di Alba vanta il più vecchio mercato che, per la qualità del prodotto trattato, ne determina il prezzo“ufficiale”.

Cenni storici e curiositàLe iniziative piemontesi dedicate al tartufo bianco sono numerose e disseminate in diverse località del Piemonte meridionale.

Tartufo in salamoia

Materia prima: tartufo sia bianco che nero.

Tecnologia di preparazione: i tartufi vengono selezionati a mano, ripuliti
dalla terra con uno spuzzolino uno per uno, lavati, messi in barattoli. Si
aggiunge la salamoia e si sterilizza in autoclave. Si conservano in lungo
fresco e buio.

Maturazione:

Area di produzione: Piemonte, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo.

Calendario di produzione: autunno, inizio inverno.

Note: oltre al tartufo hianco (Tuber magnatum pico) e a quello nero (Tuber
melanosporum) anche il tartufo estivo scorzone (Tuber aestivum) è oggetto
di trasformazione. Di colore blu-nerastro con cuticola verrucosa, si
distingue dal più pregiato tartufo nero di Norcia per la carne più chiara
tendente al bianco nocciola marmorizzato. Il melanosporurm è invece nero.
Un altro (Tuber mesentericum) è molto diffuso nella zona di Ariano Irpino
oltrechè nel Lazio, in Toscana e nel sud delle Marche e dell’Umbria, dove
viene consumato insieme a formaggi freschi di capra in insalata.

Mela di San Marzano Oliveto

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATE NEL TEMPO: La mela di San Marzano è coltivata sulle colline Sanmarzanesi, dove, le peculiari caratteristiche pedoclimatiche della zona, conferiscono al prodotto finale, mele della varietà Golden, eccellenti qualità organolettiche che ne esaltano, in particolare, i profumi, ed hanno un giusto equilibrio tra acidi e zuccheri che assicurano anche una buona conservabilità del prodotto. La mela di San Marzano è una mela di buona pezzatura, croccante, con alto valore biologico.
I frutti vengono raccolti manualmente all’incirca nella prima decade di settembre quando l’insieme di colorazione, acidi e zuccheri hanno raggiunto i livelli qualitativi ottimali. Essi sono posti in cassette o bins e trasferiti in azienda, dove è effettuata una selezione dei frutti, per scartare quelli che presentano difetti visivi dovuti alla presenza di danni da agenti patogeni o a traumi meccanici di raccolta e di trasporto. E’, inoltre, effettuata una calibratura dei frutti per uniformare il prodotto posto in vendita. La maggior parte delle mele è rivolta al consumo immediato mentre le partite destinate ad essere consumate dopo qualche mese vengono stoccate in celle refrigerate.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di produzione si estende su tutto il territorio del comune di San Marzano Oliveto, Mosca, Calamandrana e Nizza Monferrato.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Per lo stoccaggio e la vendita diretta in azienda, si utilizzano casse di legno che possono contenere 15-18 kg di mele mentre, per quanto riguarda la vendita al minuto, i materiali impiegati per il confezionamento sono sacchetti di materiale plastico o cassette di cartone che contengono 8 – 10 kg di mele. Le uniche attrezzature impiegate per la lavorazione del prodotto sono le macchine calibratici che dividono il prodotto in base alle sue dimensioni.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: Non esistono particolari locali di lavorazione del prodotto ad eccezione delle celle refrigerate dove la temperatura viene mantenuta costante intorno ai 2–3°C per evitare fenomeni di sovramaturazione.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Le metodiche di lavorazione del prodotto sono sempre le stesse, con il passare degli anni si sono solo affinate le tecniche di raccolta che prevedono una più accurata scelta del momento ideale per lo stacco dei frutti.
La produzione di mele, nell’areale considerato, avviene da parecchi decenni, come documentato da studi storici locali.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Mele autoctone del Piemonte

In Piemonte sono coltivate molte varietà autoctone: Mela Buras, Mela Carla, Mela Gamba Fina Lunga, Renetta Grigia di Torriana, Mele autoctone del Biellese, Mele del Monferrato, Valle Grana, Mele della Val Sangone, Mele della Valle di Susa, Mele della Val Sesia, Mele della Val Sessera, Mele delle Valli di Lanzo, Mele di Cavour,

Territorio interessato alla produzione:La produzione di mele interessa l’intero territorio regionale.

Cenni storici e curiositàFino alla prima metà del Novecento la melicoltura piemontese si diffonde soprattutto lungo le vallate alpine, nelle zone pedemontane e collinari. In seguito si espande anche in pianura affiancandosi alle tradizionali colture erbacee. In tale periodo e fino agli anni ’40 dello scorso secolo il Piemonte ha rivestito un ruolo di tutto rilievo nel contesto della melicoltura italiana contribuendo per oltre il 20% al totale nazionale. Nei primi anni ’50 del XX secolo il sistema colturale è perlopiù promiscuo e pochi sono gli impianti specializzati. Le piante sono lasciate libere di svilupparsi a pieno vento. Come portainnesto si utilizzava in genere il franco per far sì che la pianta vivesse e fruttificasse il più a lungo possibile. Le varietà a maturazione invernale erano conservate nelle cantine fresche e ventilate. Oppure le mele erano talvolta immerse in grandi recipienti di vetro colmi d’acqua aromatizzata con chiodi di garofano, dove i frutti infrollivano conservandosi fino a giugno.

Mele del Monferrato

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATE NEL TEMPO: Brevemente, si indicano le principali caratteristiche delle varietà locali di mele ancora coltivate e commercializzate nel Basso Monferrato:
· Canditin-a: mela rinvenuta nel territorio di Odalengo Piccolo e nei paesi confinanti. I frutti sono grossi, di forma arrotondata, di colore rosso sfumato; la polpa bianca è leggermente asprigna e molto succosa. Nel passato, era usata molto in giugno come dissetante durante la mietitura. Si ipotizza che il nome di questa varietà sia derivato dal nome di una donna che si chiamava Candida (diminutivo dialettale affettuoso “Canditin-a”) che aveva un melo selvatico in una vigna di sua proprietà. Pur non essendo innestata, questa pianta si mise a produrre frutti grossi, abbondanti e originali. Furono subito parecchi i conoscenti che chiesero alla “Canditin-a” un rametto per l’innesto.
· Ciucarin-a: mela diffusa in tutto il Monferrato, dalla forma allungata, di colore giallo sfumato rosso; la polpa è croccante e dolce. La sua caratteristica principale sono i semi che, al momento della maturazione, si staccano dal loro alveolo, e, agitandola, producono un suono caratteristico.
· Pom Marcoun: mela tipica del Monferrato Astigiano Casalese. La forma è arrotondata, il colore rosso verde, la polpa è croccante, dolce e aromatica. Può essere conservata fino a marzo se mantenuta in ambienti freschi. Questo tipo di mela viene anche usato per preparare dolci con ricette di una volta.
· Ruscai-o: mela tipica di Odalengo Piccolo. Le sue caratteristiche sono la lunga conservazione naturale fino a maggio, la forma arrotondata leggermente appiattita, il colore verde giallo sfumato di rosso, con la polpa croccante non esageratamente dolce. Gli anziani del paese ricordano che, al momento della raccolta, questa varietà di mela veniva interrata per la sua conservazione e mangiata in primavera.

ZONA DI PRODUZIONE: La coltivazione delle cultivar di melo del Basso Monferrato avviene da Cavagnolo ad Asti a Moncalvo, Odalengo Piccolo, Vignale e Casale Monferrato. Si è notato che, per garantire la loro tipicità, dovrebbero essere coltivate ad un’altitudine superiore ai 200 metri.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Non si segnalano particolari attrezzature e materiali impiegati per la conservazione o l’imballaggio delle cultivar di mele in oggetto.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali per la conservazione delle mele sono costituiti da magazzini e/o cantine in regola con le attuali disposizioni di legge riguardanti la sicurezza igienico-sanitaria degli alimenti, ove il prodotto viene collocato in attesa della maturazione e delle commercializzazione.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Non esistono testi documentati di questi tipi di cultivar, ma solo le testimonianze di persone anziane.
Peraltro, le piante madri secolari, ancora presenti nella zona, testimoniano la tradizionalità locale delle cultivar in oggetto a rischio di estinzione.

Bibliografia:
· Il Monferrato, anno CXXIII, n. 78

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Agresto

Materia prima: uva non matura raccolta nel mese di luglio (lugliatica).

Tecnologia di lavorazione: i grappoli di uva acerba vengono mostati in un piccolo tino e il succo raccolto va messo in una botticella ed esposto al sole per un certo tempo. Un altro metodo consiste nel far bollire il mosto fino a ridurlo di due terzi. Oppure si passava il mosto al setaccio versandolo poi in piccoli recipienti esposti al sole per tre o quattro giorni. Il prodotto che ne risultava era denso e si conservava in vasi. Al momento dell’uso se ne stemperava una piccola quantità in acqua o brodo per dare carattere ai cibi o anche per preparare bibite rinfrescanti.

Maturazione:

Area di produzione: Area della Padania (solo a livello amatoriale).

Calendario di produzione: estate.

Note: nel Medio Evo era il condimento per eccellenza, sempre presente sia sulla mensa dei ricchi che su quella dei poveri. Dal gusto piacevolmente acidulo ma non aggressivo come l’aceto, è stato fino alla fine del secolo scorso il condimento più usato. Nel Nord Europa lo preparavano con le mele acerbe. Aveva anche proprietà terapeutiche e veniva indicato negli stati febbrili, nelle angine e nelle stomatiti. Il suo declino coincide con la diffusione della coltura del pomodoro, la cui salsa venne usata proprio sui piatti precedentemente insaporiti con l’agresto.

Mostarda piemontese

Materia prima: uva.

Tecnologia di lavorazione: si mette a bollire in un recipiente l’uva ammostata. Quando bolle vanno tolti gli acini d’uva e la schiuma. Man mano che il volume diminuisce il calore deve essere sempre più moderato per evitare che si attacchi. Va poi filtrata con un panno bianco e rimessa sul fuoco fintantoché non si é ridotta di due terzi. Si mette nei vasi e si conserva al buio.

Maturazione:

Area di produzione: Piemonte. In Calabria con l’identica tecnica e le stesse modalità di esecuzione si produce il mosto cotto.

Calendario di produzione: autunno.

Note: la mostarda piemontese non ha la senape ed é l’unica mostarda che ha due versioni: quella con il solo impiego dell’uva Barbera (il vero Mustum) e l’altra che addiziona al mosto cotto pere, mele cotogne, cannella, chiodi di garofano, zucche, fichi e – in alcune odierne versioni commerciali – anche gherigli di noce, nocciole e mandorle tostate.

Sapore d’uva

Materia prima: mosto, acini d’uva, senape, aceto.

Tecnologia di lavorazione: al mosto si aggiungono gli acini d’uva. Si porta ad ebollizione e si lascia raffreddare. Si passa al setaccio, si invasa aggiungendo senape ed aceto. Viene usato per insaporire le vivande e per la preparazione di dolci.

Maturazione:

Area di produzione: area della Padania.

Calendario di produzione: autunno.

Note: molte erano le preparazioni a base di mosto, uva e spezie varie. Servivano per dare tono a piatti per lo più semplici e dal sapore monotono, quando ancora non c’erano dadi concentrati, salse di pomodoro e agrumi a buon mercato.

Mostarda d’uva o cognà

La mostarda d’uva è il prodotto costituito da mosto d’uva cotto cui viene aggiunta frutta distagione; essa assume la consistenza di una confettura e il colore scuro è dovuto all’uso del mosto(le uve più comuni utilizzate sono: barbera, dolcetto, nebbiolo e moscato). Non è assolutamentepiccante. Si gusta con polenta, bolliti, formaggi, e, come un sorbetto, con la neve.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione comprende i territori del Monferrato alessandrino e casalese, in cui il prodotto viene chiamato “mostarda d’uva monferrina” e dell’astigiano e cuneese dove il prodotto viene chiamato “Cognà”.

Cenni storici e curiositàLa ricetta antica si tramanda di cascina in cascina con evidenti modifiche negli ingredienti in base ai frutti che sono disponibili al momento.
La cognà era la salsa dei poveri; in autunno si raccoglievano tutti gli avanzi di frutta e l’uva rimastasui filari, dopo la vendemmia, e si cuocevano. La frutta sana si ritirava in dispensa per l’inverno.

Composta di marroni

Materia prima: marroni.

Tecnologia di lavorazione: dopo aver tolto la prima buccia ai marroni, si sbollentano in acqua tanto quanto basta per togliere agevolmente la pellicola. Si rimettono sul fuoco con acqua a cui si aggiunge un pizzico di sale, qualche foglia di alloro e dei semi di finocchio. Si fa cuocere quanto basta per ottenere una purea morbida, dopo aver aggiunto lo zucchero e la vaniglia.

Maturazione:

Area di produzione: tutto il Piemonte, Appennino.

Calendario di produzione: autunno.

Note: in tutto il Piemonte la castagna viene consumata il giorno dei morti. Un tempo, quando tradizione e magia si intrecciavano poeticamente, si lasciava un grande piatto in cucina perché le anime dei defunti potessero servirsene. Cibo consumato anche dalle donne romane durante i riti di Cibele e Cerere(in sostituzione dei cereali proibiti durante il rito),il castagno deve la sua diffusione nell’Italia del nord e nell’Europa centrale proprio ai romani mentre il miglioramento della coltura nel Medioevo lo dobbiamo ai frati benedettini e camaldolesi che ne fecero una pianta fondamentale per l’economia delle zone alto collinari e montane. La sua importanza viene meno solo intorno agli anni ’50, anni del grande esodo: coincidente – circostanza davvero singolare – con la diffusione del cancro corticale.

Polentina astigiana

La polentina astigiana è una vera e propria torta, di forma rotonda, spessa pochi centimetri e che si taglia a fette.La consistenza è quella di un pandispagna, molto arricchito negli ingredienti.È caratterizzata da alcuni ingredienti particolari, quali l’uva sultanina, le mandorle, o in certe versioni le nocciole, ma soprattutto da profumo del liquore che la inzuppa, il maraschino; questo è un liquore dolce ottenuto dalle “marasche”, una varietà di ciliegie amarene.

Territorio interessato alla produzione: La polentina astigiana si produce in alcune pasticcerie di Asti e dei comuni vicini.

Cenni storici e curiositàLa polentina astigiana è una specialità originale di Asti, e fu creata nel 1928 da un noto maestro pasticcere di Asti, da allora ricorre nella produzione pasticcera della città e dei suoi dintorni.Durante la “Giornata Dedicata Alla Gastronomia Piemontese”, organizzata dall’APT delle province piemontesi in collaborazione con l’ENIT di Nizza, a Marsiglia, la polentina astigiana fece ufficialmente parte dei dolci della cena tenuta all’Hotel de Noailles, la sera del 21 ottobre 1970.

Tirà

Attualmente la forma più comune di questo dolce, preparato da artigiani della zona per la vendita, ma tuttora preparato in casa, è quella di ciambella, ma tradizionalmente era anche preparato come una specie di pagnotta oblunga di grande formato.Una ulteriore variazione dalla ricetta tradizionale, ormai comunemente accettata, consiste nel profumare la torta con scorza di limone grattugiata.

Territorio interessato alla produzione: La Tirà si produce a Rocchetta Tanaro (AT), ma la produzione casalinga è estesa a tutta la zona circostante, soprattutto verso sud, fino ai paesi di Castelnuovo Calcea, Montegrosso, ecc…

Cenni storici e curiositàLa Tirà, torta ormai tipica del Comune di Rocchetta Tanaro (AT), vanta una tradizione familiare ultra centenaria.La documentazione è scarsa, ma la tradizione orale la attribuisce senza dubbio al momento della scelta del corpo in cui svolgere il servizio militare, scelta che avveniva, almeno in teoria, secondo criteri di casualità, con una vera e propria “estrazione a sorte”, in piemontese tirage.

Torta del Palio

La torta del palio è di forma tonda, spessa pochi centimetri e ricoperta di gocce di cioccolato.

Territorio interessato alla produzione: La torta del palio si produce in alcune pasticcerie di Asti e dei comuni vicini.

Cenni storici e curiositàLa torta del palio è una specialità originale di Asti, e fu creata nel 1938 da un noto maestro pasticcere di Asti. Proviene direttamente dalla tradizione casalinga, e pare venisse prodotta dalle massaie astigiane in occasione della festa finale dopo il “Palio di Asti”.

Torta di castagne

In questa torta possiamo trovare molti ingredienti diversi, tra cui uova, burro, amaretti, cacao o altri frutti come mele o pere. Si aromatizza con arancia, limone, rhum, marsala o noce moscata.L’ingrediente principale è però sempre la farina di castagne, ottenuta tritando le castagne fresche bollite o usata come farina vera e propria ottenuta dalle castagne secche.

Territorio interessato alla produzione: La torta di Castagne si produce in tutto il Piemonte, ma è particolarmente diffusa in Monferrato. È molto nota quella del comune di Pontestura (AL).

Cenni storici e curiositàLa sua presenza nei ricettari data da almeno l’inizio del secolo, ma la tradizione orale testimonia della torta di Castagne da un periodo molto più vecchio, e potremmo dire che sia nata con le castagne stesse.Ricordiamo che con le castagne, anticamente, in assenza di grano si preparava pane di necessità.Nel comune di Pontestura (AL), i primi riferimenti alla produzione di questo dolce risalgono al 1800 quando, per la festività della Pasqua, oltre ai fornai anche le famiglie preparavano queste torte, che erano cotte nei forni, allora, a legna. Ora rimane un solo fornaio, e le famiglie dispongono del proprio forno, mantenendo però viva la tradizione della preparazione della torta.Non esiste una ricetta originale, poiché la produzione casalinga, con i suoi mille trucchi e segreti, rende impossibile una codifica univoca.

Baci di dama di Tortona

I baci di dama di Tortona sono dei dolci di composizione originale, consistenti in due semisfere di pasta di biscotto alla mandorla, tenute insieme da una goccia di cioccolato fondente.Il nome ricorda, secondo alcuni, il fatto che il profilo dei baci di dama rassomigli ad una bocca di donna appena socchiusa.

Territorio interessato alla produzione: La produzione dei baci di Dama di Tortona avviene a Tortona, in provincia di Alessandria, ma con la medesima ricetta si produce in pratica in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàI baci di Dama di Tortona sono una specialità tortonese che alcune pasticcerie della zona producono da oltre un secolo, la ricetta si trova già nei manuali di cucina di fine ‘800, anche se non è riferita direttamente ai “baci” prodotti a Tortona.Sicuramente questi dolci hanno valicato i confini di questa bella città, e sono prodotti in tutto il Piemonte; la “Guida Gastronomica d’Italia” del Touring Club Italiano, nel 1931, cita i baci di dama come prodotti tipici di Novi Ligure, ma nell’edizione dell’”Italia Turistica” dello stesso Touring, all’inizio degli anni ’70, si indicano i “Baci di Dama” come di origine tortonese.I “Baci di Dama”, secondo il principale studioso ed esperto di questo dolce, il Dr. Carlo Sterpone, furono inventati però nel 1890 a Tortona, a seguito dell’intuizione dei fratelli pasticcieri Angelo e Secondo Zanotti, registrati come pasticceri operanti a Tortona dal 1885. Questi depositarono nel 1890 il marchio di fabbrica “Baci di Dama Zanotti”. Un’altra pasticceria nacque dalle collaborazioni di Angelo Zanotti con Stefano Vercesi, e quest’ultimo, dopo una vera e propria “disfida” per rivendicare la primogenitura dei dolci, decise di depositare il marchio “Baci Dorati Vercesi”.Il marchio “Baci di Dama Zanotti” depositato nel 1890 rimase in vigore fino agli anni ’30. Dopo di allora la produzione e l’uso della denominazione divennero liberi.

Biscotti della salute

I Biscotti della salute sono delle specie di fette biscottate ricavate da un filone di pane, in genere cotto su una placca e non su uno stampo. Questo conferisce a questi biscotti una forma tipica di fetta di pane, ovale a forma di una mezza luna.Il gusto è poco dolce, sono particolarmente ricercati per la leggerezza e la grande friabilità, può essere presente anche un leggero sentore di anice.

Territorio interessato alla produzione: I Biscotti della salute sono prodotti in tutto il Piemonte, l’epicentro produttivo più importante è Ovada, crocevia delle culture culinarie piemontese e ligure (AL).

Cenni storici e curiositàI biscotti del Lagaccio, progenitori del biscotto della salute, nacquero nel 1593 nel quartiere del Lagaccio, a Genova, dove esistette, fino agli anni ’60 un bacino artificiale. All’epoca un forno iniziò a produrre questi biscotti, che erano l’ideale per la conservazione in barca.Questo tipo di versatile pane dolce si diffuse rapidamente, e dalla Liguria si diffuse in Piemonte, tramite quel crocevia di culture che era ed è l’Oltregiogo, area dell’alessandrino al confine con la Liguria.I Biscotti della salute, anche conosciuti come “crocion” in Piemonte, sono talmente radicati sul territorio piemontese, che ne troviamo due citazioni molto antiche: da V. di S. Albino, nel Gran Dizionario piemontese-italiano del 1859, dove nella ricetta compaiono le uova e non i grassi; e nell’ancora più antico Vocabolario Piemontese-Italiano di Michele Ponza da Cavour, edito a Torino nel 1830.La fortuna e la diffusione dei Biscotti della salute in Piemonte, è certamente dovuta all’imprenditore Walter Marchisio, che fondò a Torino nel 1922 la Wamar.

Coppi di Langa

I coppi di Langa sono biscotti secchi dalla suggestiva forma di tegola o coppo. Hanno un gusto ed un profumo di nocciola molto spiccato, in quanto la farina di nocciole tostate è l’ingrediente principale, insieme a farina, uova zucchero, miele e sale.

Territorio interessato alla produzione: La produzione è limitata al comune di Canelli (AT).

Cenni storici e curiositàLa prima produzione risale al 1970 ad opera di un pasticcere di Canelli, sulla spinta della ricerca di un biscotto preparato solo con materie prime locali. Dopo un periodo di sperimentazione nacquero delle “tartellette” che solo in seguito si mutarono, per forma e per nome, nei coppi di Langa.

Finocchini

I finocchini sono biscotti di forma rettangolare che devono il nome alla presenza nell’impasto dei semi di finocchio. Nella forma sono simili a fette biscottate regolari, dorati e friabili.Potrebbero essere definiti scherzosamente dei “triscotti”, poiché subiscono dapprima una cottura, poi una doppia tostatura.

Territorio interessato alla produzione: I finocchini sono prodotti in tutto l’astigiano e nel torinese, ma i più famosi sono quelli di Refrancore (Asti).

Cenni storici e curiositàDi anicetti abbrustoliti parla il Vialardi nel suo “cucina Borghese” nel 1890, e questa forse è la prima codifica della ricetta ancora usata.I finocchini sono però nati a Refrancore (Asti) molto prima, ai primi dell’Ottocento. Una leggenda alternativa a quella della nascita in drogheria, parla di un pasticcere che, producendo biscotti all’uovo cotti e tostati, per errore versò anche aroma di anice nell’impasto. Il risultato di questo “errore” fu molto apprezzato dagli abitanti del luogo, ed è così che ebbe inizio la produzione di questo biscotto.

Paste di Meliga

Le paste di meliga sono dei biscotti preparati con una miscela di farina di mais e di farina bianca, uova, zucchero e burro, dalla superficie rugosa e di solito vagamente striata, a forma rotonda, o di mezza luna, di “S”, di bastoncino o a seconda degli usi locali. Hanno colore dorato e sono molto friabili e croccanti.

Territorio interessato alla produzione: Le paste di meliga si producono in quasi tutto il Piemonte, ma la tradizione associa alle paste di meliga il monregalese, soprattutto Pamparato e Vicoforte Mondovì, le vallate cuneesi in generale e la zona di Barge in particolare. Sono molto diffuse, con piccole variazioni compositive e di forma, anche nelle Valli di Lanzo, in Canavese e nel Biellese.

Cenni storici e curiositàLe paste di meliga hanno una ricetta antica che si perde nel tempo. Le prime tracce delle paste di meligasi trovano nel “Confetturiere piemontese” del 1790 in cui compaiono con il nome di michette di meliga.La tradizione di Barge, in provincia di Cuneo, vuole l’origine almeno al 1850, ed è una famiglia da allora produttrice, di generazione in generazione, che porta la testimonianza diretta della storia di queste paste.Proprio questa famiglia ricevette nel 1934, in occasione della tradizionale festa locale detta “ottobrata bargese”, il “Diploma di Medaglia d’Oro”, per la produzione delle batiaje.

Tirulen

Il Tirulën è un biscotto di grandi dimensioni, rotondo e moderatamente spesso, dal gusto leggermente amarognolo.Il nome ricorda la antica modalità di preparazione, poiché dopo aver preparato la pasta se ne “tirano” dei pezzetti che arrotolati e cotti costituiscono il biscotto finito.

Territorio interessato alla produzione: I Tirulën si producono a Isola d’Asti in provincia di Asti.

Cenni storici e curiositàI Tirulën hanno una ricetta che data dal 1948, quando furono prodotti per la prima volta da un pasticcere di Isola d’Asti; allora erano impastati a mano e cotti nel forno a legna.La tradizione produttiva continua con gli eredi dell’inventore.Da allora sono sempre stati prodotti, nel 1970 è nata la “Sagra del Tirulen e del Barbera”. Da alloraquesto biscotto è diventato il biscotto caratteristico di Isola.

Bonet

Il bonet è un dolce tecnicamente simile ad un budino. La base della ricetta prevede sempre la presenza di uova e latte che rapprendono durante la cottura.Si prepara in stampi rettangolari da circa 1-1,5 kg, le dimensioni finali del dolce sono circa 12x8x25 cm.È comunemente preparato anche in stampi monoporzione o multiporzione con forme di fantasia;tradizionalmente infatti, lo stampo tronco-piramidale ricordava il tipico cappello piemontese da cui deriva il nome del dolce stesso.

Territorio interessato alla produzione: Il bonet è prodotto sull’intero territorio piemontese.

Cenni storici e curiositàL’etimo del nome è evidente: si rifà al termine bonet, che in piemontese significa berretto.Il nome bonet significa anche attrezzo da cucina di forma congruente al nome.

Panna cotta

La panna cotta, dolce al cucchiaio avente una consistenza simile a un budino, appartiene a tutta latradizione piemontese, ma la sua diffusione maggiore e capillare appartiene alla Langa. Classicamente è di colore bianco, di consistenza cremosa e soffice. Normalmente è servita leggermente irrorata con zucchero caramellato. Non è infrequente trovarla accompagnata da salse leggermente acide a base di frutta, soprattutto frutti di bosco.

Territorio interessato alla produzione: La panna cotta è prodotta sull’intero territorio piemontese, ma è originaria della Langa.

Cenni storici e curiositàSembra che la panna cotta sia stata “portata”, come ricetta, da una signora ungherese in Langa, dove, vista la facile reperibilità della panna, ha trovato fertile terreno di diffusione in tutto il Piemonte.Si fa notare, per inciso, che in piemontese non esiste un termine specifico per la “panna”, che è sempre stata chiamata “fiore del latte”, con una crasi dei termini fiore e affioramento, molto comuni nel passaggio dal lessico tecnico a quello popolare.Questo starebbe a testimoniare la recente introduzione del dolce nella tradizione piemontese, ed una origine non territoriale.

Caramelle classiche dure

Le caramelle classiche dure si distinguono dalle comuni pastiglie di zucchero perché il processo di produzione è un processo “acaldo”, in cui lo zucchero è portato ad alta temperatura e formato in stampi di varie fogge e disegni.Oltre allo zucchero, tra gli ingredienti, troviamo il glucosio, miscelato con lo zucchero per evitarne la cristallizzazione, e essenze varie, succhi, addirittura marmellate e aromi, quando non paste di frutta.

Territorio interessato alla produzione: Le caramelle classiche dure sono prodotte in Piemonte.

Cenni storici e curiositàDa sempre, si dice “Caramelle di Torino” per indicare un prodotto derivante dall’esperienza nella quale si sono confrontate più generazioni.Una prima sorta di caramella (in verità, forse, dei bastoncini di zucchero di canna) fu importata dalla Siria da Goffredo di Buglione, all’epoca della prima Crociata (1097–1099), ma la sua vera origine è riconducibile alla diffusione dello zucchero comune, ottenuto dalla lavorazione industriale della barbabietola e, conseguentemente, alla scoperta ed alla produzione di confetti, di tondini di zucchero aromatizzati e delle pasticche di orzo per “mollificare la tosse”. Le prime “caramelle” furono confezionate da un confettiere piemontese con “sucher d’ördi” (zucchero d’orzo).I prodotti della confetteria erano, un tempo, consumati solo dai componenti di case reali e da nobili famiglie aristocratiche. La commercializzazione di questi prodotti incominciò solo nella seconda metà dell’800, le piccole botteghe confettiere si ingrandirono fino a diventare vere e proprie industrie e la città di Torino incominciò ad essere conosciuta per la produzione di pastiglie e di caramelle di qualità.Tra l’800 ed il ‘900 si pensò di “vestire” le caramelle, sia per proteggerle che per abbellirle.Le caramelle classiche dure conquistarono tutti i mercati e poterono fregiarsi, essendo consumate dalla casa reale, di stemmi, medaglie e nodi di Savoia, simboli grafici di un successo tradizionale.

Cioccolatini torinesi

I Cioccolatini Torinesi sono presenti e lavorati su tutto il territorio piemontese e, sulla base dellatradizione pasticcera torinese, la grande fantasia dei maestri cioccolatai fa sì che vengano continuamente riproposti in gusti e formati sempre nuovi.Si può però tentare di classificare i prodotti tradizionali per macrocategorie, quali:- Cremini- Cioccolatini ripieni- Cioccolatini al liquoreQuesta classificazione si riferisce soprattutto alla forma dei cioccolatini ed al tipo di ripieno.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione, originaria di Torino, è allargata a tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàAnche se la lavorazione del cioccolato data dal 1700, allora non si produceva il cioccolato come lo si conosce adesso. In quel tempo i “cicôlatè” miscelavano cacao, zucchero e aromi ottenendo forme grossolane di pani o salami di cioccolato, chiamati “pan” e “rolò”. Questi col tempo diventano sempre più raffinati, fino a evolvere nei celebri “diablotin ‘d cicôlata”, ovvero dei pezzetti di cioccolato, sovente aromatizzato, da consumarsi in un sol boccone. Di quei primi “cioccolatini”, battezzati appunto “diablotin”, abbiamo una definizione precisa di V. di Sant’Albino: ” pezzetti di cioccolata in figura di rotella piana, girella, troncisco di cioccolato che si mangia crudo”.Si sostiene che l’origine del termine “diablotin” sia da attribuire addirittura a Cagliostro (1743-1795), uso a preparare pasticche con virtù particolari per i suoi pazienti.La ricetta dei “diablotin” compare ufficialmente sul “Confetturiere Piemontese” nel 1790.Dall’inizio dell’800, poi, il ruolo di Torino nell’evoluzione della tecnica di lavorazione del cioccolato assume un’importanza che si ripercuoterà in tutta Europa, Svizzera compresa.Si passa infatti da un cioccolato ottenuto faticosamente con lunghe lavorazioni manuali a un cioccolato raffinato morbido e piacevole, ottenuto dalla prolungata lavorazione meccanica, e con un processo controllato. La prima macchina per la lavorazione del cioccolato è stata inventata in Olanda nel 1828, anno che segna l’inizio della era moderna del cioccolato. A Torino queste macchine compaiono grazie all’intraprendenza dei pionieri del cioccolato, e la forza motrice per la lavorazione era data dall’acqua dei canali di Torino, primo fra tutti quello della Pellerina.Si abbandona quindi il “diablotin” per passare al “givu”, in dialetto “cicca, pezzetto” che diventano i capostipiti di tutti i cioccolatini a venire.

Cioccolatino cremino

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E TECNICHE DI PRODUZIONE, CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI: IL “Cremino” è un cioccolatino costituito da due strati di cioccolato gianduia inframmezzati da una pasta di cioccolato contenente nocciole, caffè o limone. Oltre le selezionatissime materie prime del cioccolato, si utilizzano pasta di nocciole del Piemonte (Tonda Gentile delle Langhe), pasta di caffè ed estratto di limone di Sicilia.
Il prodotto è incartato in alluminio ed avvolto con una fascetta di carta.

ZONA DI PRODUZIONE: Il “Cioccolatino Cremino” è prodotto in Piemonte.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE E L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO INDICATO NELLA
PRESENTE SCHEDA: Le linee di produzione sono di moderna concezione per soddisfare tutte le esigenze di igienicità, nel
rispetto delle tecnologie tradizionali consolidate.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali di produzione e di stoccaggio sono concepiti nel pieno rispetto delle attuali norme igienicosanitarie e climatizzati alle opportune condizioni di temperatura e di umidità relativa.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE TECNICHE DI PRODUZIONE SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI: Nel 1858, Ferdinando Baratti, che già nel 1853 lavorava come cameriere in uno dei più importanti
caffè di Ivrea ed era così svelto da essere soprannominato familiarmente dagli avventori “friciulin”, conobbe a Torino Edoardo Milano e, insieme, decisero di aprire una confetterie-liquoreria in Via Dora Grossa.
I due amici, grazie al patrimonio ricevuto da Edoardo Milano in dote dalla moglie, dopo aver acquistato macchinari più moderni ed aver studiato nuove ricette, iniziarono la produzione di prodotti che sarebbero stati legati alla storia del Piemonte, tra i quali si annoverano i “Cioccolatini Cremini”.
Sull’onda dei successi ottenuti, nel 1875 fu inaugurato a Torino, in Piazza Castello, il salone pubblico di gusto tardo liberty tutt’ora esistente.
I primi documenti ufficiali attestanti la produzione dei cremini risalgono, tuttavia, al 1934.

Bibliografia:
– Mario Marsero, Dolci Delizie Subalpine, Lindau, 1995.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Giandujotto

Il giandujotto è un cioccolatino a forma di spicchio allungato o, secondo altra interpretazione, di barchetta rovesciata; sicuramente la forma è inconfondibile, e deriva da un antico metodo di lavorazione manuale.Il giandujotto è composto di cioccolato e di una parte rilevante di pasta di nocciole, il che lo rendeprofumatissimo.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione è allargata ormai a tutto il Piemonte, ma Torino e provincia comprendono almeno il 90% della produzione totale di giandujotti.

Cenni storici e curiositàIl vero inventore del cioccolato “gianduja” fu Michele Prochet, cioccolatiere a Torino, che già nel 1852 lo produceva. Solo nel 1865 sono stati prodotti e messi in commercio i primi giandujotti.La consacrazione del nome è avvenuta ufficialmente nel 1869 ad opera direttamente di Gianduja, re del carnevale torinese. La maschera, che durante il carnevale era investita di una specie di grottesca e benevola autorità di governo sulla città, dopo aver platealmente assaggiato i già famosi cioccolatini, rilasciò una “pergamena economica” a Monsù Caffarel Prochet Gay in cui si attesta “lippis et tonsoribus a sia notori che chiel a l’a ben merità a la nosta fera fantastica del 1869”.Il legame con la maschera torinese non si ferma qui: secondo un celebre burattinaio del tempo, la forma del giandujotto evocherebbe l’ala del tricorno di Gianduja, ma soprattutto colpì all’epoca il fatto che questo “moderno” cioccolatino fosse incartato, primo tra tutti i futuri epigoni, con regale carta dorata.

Torrone di nocciole

Si presenta come una massa compatta, biancastra, con in grande evidenza le nocciole, incastonate nella dolce matrice zuccherina. È venduto a blocchi a volte anche molto grandi, oppure in barre rettangolari racchiuse da una sottile ostia.Abbastanza recentemente, rispetto alla storia secolare del torrone di nocciole, si produce in una versione cosiddetta “morbida”, che si distingue da quella “friabile” più classica.

Territorio interessato alla produzione: Il torrone di nocciole si produce ad Asti e nelle zone limitrofe, dove prende il nome di Torrone d’Asti. Si produce poi nell’area albese delle Langhe e del Roero (CN), ma anche in numerosi opifici disseminati in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàNella Historia Naturalis, Plinio il Vecchio cita un dolce fatto dai Taurini, la popolazione che abitava anticamente il Piemonte, e chiamato “aquicelus”: “in melle decoctos nucleos (pineos) Taurini aquicelos vocant”. Possiamo considerarlo l’antenato del torrone, fatto con i pinoli ed il miele.Nell’astigiano il torrone venne introdotto nella prima metà del ‘400 dai cuochi della famiglia Visconti, nobili milanesi, signori di Asti, che intrattenevano rapporti commerciali con i banchieri delle case astigiane.

Panettone basso glassato alle nocciole

La forma del panettone basso glassato piemontese è quella di una cupola, circolare, contenuta in uncilindro di carta da forno bruna detta “pirottino”. Si serve a fette dopo aver tolto il pirottino, e si consuma tal quale accompagnato da un bicchiere di moscato dolce o da vino passito, o con zabaione, o panna montata, oppure, “passate le feste”, inzuppato nel latte della colazione. Prodotto versatile, quindi, ma rigorosamente abbinato alle feste natalizie. Infatti si può considerare il prodotto di ricorrenza più comune.La preparazione del panettone è disciplinata da norme specifiche, le quali consentono l’aggiunta della glassatura caratteristica del panettone piemontese.

Territorio interessato alla produzione: Si produce in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàNel 1876, nell’appendice al “Vocabolario Italiano Della Lingua Parlata” di Giuseppe Rigutini si definisce il panettone con la postilla”lo fanno bene a Milano”. La prima codifica di un impasto in tre fasi compare soltanto nel “Re Dei Cuochi” di Giovanni Nelli, 1868.Queste, ed altre possibili citazioni, ad attestare la antica origine del panettone, e soprattutto della sua origine lombarda.Il Piemonte è un interprete importante della produzione di questo dolce, e l’attitudine alla conservazione delle tradizioni contribuisce a mantenere, ancora oggi, la ricetta e la metodica produttiva nei canali della tradizionalità e dell’uso del lievito madre come ingrediente principale del prodotto.Ma l’origine del panettone basso glassato piemontese data al 1922, rivendicata della azienda Pinerolese Pietro Ferrua, che su involontario suggerimento di un amico artista, subito recepito dalla moglie Regina, lo chiama “galup”, che in piemontese significa “goloso”. Questo diventerà poi il nome della azienda di famiglia.

Pastiglie di zucchero

Le pastiglie di zucchero sono dolci di zucchero aromatizzato e colorato, dure ma friabili allamasticazione, e che si preferisce succhiare lentamente, lasciandole sciogliere in bocca, in modo cherilascino la componente aromatica lentamente.I gusti e le fogge in cui si trovano questi antichi dolci sono moltissimi, anche se meno vari di quelli delle caramelle.Si differenziano dalle caramelle perché il processo produttivo avviene a freddo, e il calore è usato solo per “asciugare” il prodotto finito nella fase finale.

Territorio interessato alla produzione: Le pastiglie di zucchero sono prodotte in Piemonte, soprattutto nel torinese e nell’alessandrino.

Cenni storici e curiositàGià nel “confetturiere piemontese”, stampato nel 1790, è presente una ricetta ancora attuale per produrre pastiglie, che in questo caso sono alla cannella.Le pastiglie di zucchero, così come le caramelle e i confetti, per tutto l’800 sono una prerogativa dei benestanti, della buona società e persino dei membri del Parlamento: le pastiglie gommose “Senateur”, al sapore di liquerizia, furono inventate da un pasticcere di Alba per i senatori del Regno, che ne facevano largo uso per sciogliere l’eloquio. Questo pasticcere si trasferì poi a Torino alla fine nel 1880, dove sorse la più famosa delle fabbriche di pastiglie; le fabbriche più antiche, e le intuizioni più geniali, punteggiano però tutto il Piemonte.

Bagna Càuda

La Bagna Càuda (Salsa Calda) è un condimento tradizionale piemontese. Per la preparazioneoccorrono (ingredienti per 4 persone): 40 g di burro, 250 g di olio extravergine di oliva, 200 g diaglio, 200 g di acciughe sotto sale.

Territorio interessato alla produzione: La Bagna Càuda è un condimento tradizionale del Piemonte.

Cenni storici e curiositàSi narra che, i vignaioli, nel tardo Medioevo, desiderassero un piatto insolito per festeggiare la spillatura del vino nuovo, che segnava la messa al sicuro del raccolto più travagliato, più faticato e più insidiato: il vino.Pare che si volesse anche, con una certa polemica sociale, adottare e valorizzare un piatto festivo rustico e popolare, saporito e forte, da contrapporre ai consueti, magri e snervati arrostini glassati di zucchero e profumati di essenza di rose e di viole dei signori.Fu scelto, così, di appaiare materie prime largamente diffuse e localmente disponibili: i buoni ortaggi piemontesi ed il prezioso aglio (prescritto dagli Statuti Medioevali e dai Bandi Campestri come coltura obbligatoria per ogni coltivatore proprietario), l’acciuga salata in barili, che cominciava ad arrivare capillarmente ad ogni borgo e ad ogni collina grazie agli Acciugai ambulanti occitani della Val Maira e l’olio di oliva, scarsamente prodotto in Piemonte (che pure a quel tempo prima delle grandi variazioni climatiche aveva ulivi) e, per la maggior parte, importato dalla vicina Liguria in cambio di grano, burro e formaggio.Così, la Bagna Càuda divenne un piatto della stagione fredda anche perché la temperatura rigida se non, addirittura, il gelo, era ed è un requisito necessario alla tenerezza perfetta delle verdure da intingere, specie dei cardi.

Vermut o Vermouth

Il vermut deve il suo nome all’assenzio (Artemisia Absinthium), che viene usato nella suapreparazione e dà a esso un’aroma ed uno speciale sapore amaro.

Territorio interessato alla produzione: Il vermut è prodotto in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa fama del vermut è indissolubilmente legata al Piemonte e a Torino, in particolare, dove, alla fine del 1700, era una vera e propria arte la preparazione di questo vino aromatico. E’ uno dei più interessanti e tipici vini aromatizzati italiani. La vecchia grafia del nome stesso era vermut (o Wermouth, o Wermuth). L’origine di questo nome non è sicura; generalmente si fa risalire al tedesco Wermuth “assenzio” (Artemisia absinthium). Si vuole che un vino di questo genere fosse già preparato nell’antichità dai Romani, sotto il nome di Absinthiatum (o Absinthianum) vinum. Il primo autore italiano che parla di questo vino è C. Villifranchi, nella sua Oenologia toscana (1773).Il primo produttore e negoziante di vermut fu Antonio Benedetto Carpano che, nel 1786, aveva il suo negozio nel cuore di Torino. Un altro famoso negozio era quello di Rovero che annoverava il re Carlo Alberto tra la sua clientela. Nel 1838, i primi a saggiare le vie dell’esportazione furono i fratelli Giuseppe e Luigi Cora. Il loro esperimento di vendita in America ebbe notevole successo, tanto che la Casa Cora si dovette ingrandire. Da questo momento, altri stabilimenti per la produzione di vermut sorsero nelle province viticole piemontesi. Molte importanti Case parteciparono del successo internazionale di questa bevanda: Bartolomeo Dettoni, Carlo Gancia, Alessandro Martini, Francesco Cinzano, Giuseppe Ballor.La presenza e la produzione di vermut nel torinese è stata documentata da studi storici locali.

Grappa con alambicco a bagnomaria piemontese

La grappa è l’unico distillato al mondo che si ottiene da una materia prima solida e palabile. Leimplicazioni che derivano da questo aspetto sono importantissime: essendo la vinaccia ciò cherimane dal processo di vinificazione (ci si riferisce alle vinificazioni in cui la vinaccia rimane acontatto con il vino); essa raduna e concentra tute le sostanze aromatiche presenti nel vino.

Territorio interessato alla produzione: La zona è il Piemonte.

Cenni storici e curiositàIl Piemonte dedica, da sempre, una grande attenzione alla distillazione della vinaccia: in tutte le epoche, nei castelli e nelle tenute agricole nobiliari ; emblematico il caso del Conte di Cavour che da Grinzane si faceva spedire i campioni della grappa prodotta per accertarne personalmente la qualità. All’epoca si chiamava “branda” e, ancora, oggi in dialetto, si fa fatica a pronunciare il neologismo giunto dall’Italia orientale.Gli alambicchi a bagnomaria sono coevi di quelli a fuoco diretto e simbolo dell’antica distillazione gentilizia; differiscono da quelli a fuoco diretto in quanto hanno una doppia caldaia dotata di un’intercapedine nella quale l’acqua, messa in ebollizione da un fuoco di legna o da una fiamma alimentata a gas o, in alternativa, del vapore prodotto da una centrale indipendente che fornisce un manto di calore che fa dolcemente evaporare gli umori della vinaccia. Questi confluiscono, poi, normalmente, in una colonna a piatti di piccole e medie dimensioni e, concentrati, vengono, quindi, liquefatti e trasformati in acquavite. Sono naturalmente alambicchi discontinui la cui cotta dura tra le due e le sei ore e, difficilmente, esistono caldaie che superano i dodici ettolitri di capacità. Da un’indagine effettuata, si è potuto evidenziare che almeno 40 alambicchi a bagnomaria hanno operato ancora in una delle ultime vendemmie, di questi 38 sono bagnomaria di stile trentino mentre due sono bagnomaria di stile piemontese.La differenza tra le due sottocategorie è data dalla diversa geometria della caldaia e nel modo in cui la vinaccia viene posta in essa: in quelli di stile trentino viene messa alla rinfusa insieme ad una certa quantità di acqua (sempre che non risulti grondante di vino ), mentre negli altri è disposta su cestelli forati, di rame, in caldaie troncoconiche di capacità generalmente non superiore ai 300 chili di materia prima.

Monferrato DOC

Zona di produzione: 230 comuni in provincia di Asti e Alessandria, mentre il Monferrato Casalese viene prodotto in 39 comuni in provincia di Alessandria

Vitigni: Chiaretto: uve dei vitigni Barbera, Bonarda piemontese, Cabernet franc, Cabernet sauvignon, Freisa, Grignolino, Pinot nero, Nebbiolo; il Dolcetto, il Freisa e il Casalese cortese si ottengono con una percentuale pari almeno all’85% delle omonime uve (per il Casalese cortese minimo l’85% di uve Cortese); per le versioni Rosso e Bianco concorrono le uve a bacca di colore analogo, non aromatiche, autorizzate delle province di Asti e Alessandria

Gradazione alcolica minima: Monferrato Doc Bianco 10 gradi. Monferrato Doc Rosso 11 gradi. Monferrato Doc Chiaretto o Ciaret 10,5 gradi

Caratteristiche organolettiche: Monferrato Doc Bianco si presenta di colore giallo paglierino; odore caratteristico, intenso e gradevole; sapore fresco, secco, talvolta vivace. Monferrato Doc Rosso: colore rosso, odore vinoso e gradevole; sapore è fresco, asciutto, talvolta vivace. Ha una gradazione alcolica di 11 gradi. Il Monferrato Doc Chiaretto o Ciaret ha colore rosato o rosso rubino chiaro, odore vinoso, delicato e gradevole. Il sapore è asciutto e armonico; la gradazione è di 10,5 gradi

Tipologie: Rosso, Bianco, Chiaretto, Dolcetto, Freisa e Casalese Cortese

Abbinamenti: Monferrato Doc Chiaretto o Ciaret: antipasti di salumi, primi piatti con salse di pesce leggere, anche aromatizzate, carni lessate, carni bianche alla griglia, zuppe di legumi, fritture di crostacei. Monferrato Doc Bianco e Casalese: uova al burro, uova al prosciutto e formaggio, risotti alle verdure, pastasciutte a base di pesce e di verdure. I rossi si abbinano a pastasciutte con ragù di carne, risotti alla piemontese, alla bagna cauda e a formaggi come il Raschera e il Bra.

Riferimenti normativi: La Doc Monferrato è stata riconosciuta con DPR del 22.11.1994, pubblicato sulla GU del 02.12.1994

Piemonte DOC

Zona di produzione: 356 comuni in provincia di Asti, Cuneo e Alessandria. Aree più ristrette sono previste per le tipologie Piemonte Moscato, Piemonte Moscato passito e Piemonte Brachetto

Vitigni: I vini Piemonte versioni Barbera, Bonarda, Grignolino, Brachetto, Cortese e Chardonnay si ottengono da uve dei corrispondenti vitigni per almeno l’85%. Il Piemonte Moscato e il Piemonte Moscato passito si ottengono esclusivamente da uve Moscato bianco; il Piemonte Spumante si ottiene da uve di vitigni Chardonnay e/o Pinot bianco e/o Pinot grigio e/o Pinot nero. Le versioni Pinot bianco, Pinot grigio e Pinot nero si ottengono prevalentemente (almeno l’85%) dalle uve dei rispettivi vitigni

Gradazione alcolica minima: Piemonte Doc Spumante 10,5 gradi. Piemonte Doc Moscato 15,5 gradi. Piemonte Doc Brachetto 11 gradi

Caratteristiche organolettiche: Piemonte Doc Spumante: colore giallo paglierino, odore caratteristico e fruttato, sapore sapido e caratteristico. Piemonte Doc Moscato passito: colore giallo oro, tendente all’ambrato più o meno intenso, profumo intenso, complesso con sentore muschiato caratteristico dell’uva Moscato; il sapore è dolce, armonico, vellutato, aromatico. Piemonte Doc Brachetto: colore rosso rubino più o meno intenso, talvolta tendente al rosato. L’odore è caratteristico, con delicato aroma muschiato, il sapore delicato, più o meno dolce, talvolta frizzante.

Tipologie: Spumante, Pinot bianco, Pinot grigio, Pinot nero, Barbera, Bonarda, Grignolino, Cortese, Chardonnay, Brachetto, Moscato e Moscato passito

Abbinamenti: Brachetto, Spumante e Moscato passito si abbinano a dolci a pasta lievitata, abbastanza consistenti come pan di spagna con frutta rossa, macedonia di fragole e panna, pesche ripiene e dolci di pasta fritti.

Riferimenti normativi: La Doc Piemonte è stata riconosciuta con DM del 22.11.1994, pubblicato sulla GU 282 del 02.12.1994

Cortese dell’Alto Monferrato DOC

Zona di produzione: parte delle province di Asti ed Alessandria. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano preminentemente argilloso-calcarei, sono esclusi dalla Doc quelli del fondovalle e quelli ubicati nei rilievi preappenninici ed appenninici.

Vitigni: Cortese. Sono ammesse altre uve bianche (non aromatiche), purch‚ non superiori al 15%.

Resa massima per ha: 100 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 10%.

Acidita’ totale minima: 6 per mille.

Estratto secco netto minimo: 15 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore paglierino chiaro, talvolta tendente al verdolino; profumo caratteristico, delicato, molto tenue, persistente; sapore asciutto, armonico, sapido, gradevolmente amarognolo.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: viene prodotto anche nel tipo “Frizzante” e “Spumante”.

Abbinamenti : antipasti magri, paste asciutte e risotti marinari o con salse di pomodoro.

Moscato d’Asti DOCG

Zona di produzione: numerosi comuni in provincia di Asti, di Cuneo e di Alessandria. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti ubicati su dossi collinari soleggiati, preferibilmente calcarei, o calcareo-argillosi, con esclusione dei vigneti ubicati su terreni di fondovalle o su terreni pianeggianti, leggeri o umidi.

Vitigni: Moscato bianco.

Resa massima per ha: 110 qli.

Resa massima di uva in vino: 75%.

Gradazione alcolica minima complessiva: 10,5%, di cui ancora da svolgere non meno di 1/3 degli zuccheri riduttori totali.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 20 per mille.

Acidita’ volatile massima: 0,7 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore paglierino o giallo dorato piu’ o meno intenso; profumo caratteristico e fragrante, tipico dell’uva moscato; sapore dolce, aromatico e caratteristico del moscato.

Qualificazioni: nessuna.

Abbinamenti :dolci, frutta e gelato

Tipologie: Asti spumante o asti

Asti DOCG

Zona di produzione: 52 Comuni nelle province di Asti, Cuneo e Alessandria.
in provincia di Asti l’intero territorio dei comuni di Bubbio, Calamandrana, Calosso, Canelli, Cassinasco, Castagnole Lanze, Castel Boglione, Castelletto Molina, Castelnuovo Belbo, Castel Rocchero, Cessole, Coazzolo, Castiglione di Asti, Fontanile, Incisa Scapaccino, Loazzolo, Maranzana, Mombarazzo, Monastero Bormida, Montabone, Nizza Monferrato, Quaranti, San Marzano, Moasca, Sessame, Vesine, Rocchetta Palafea e San Giorgio Scarampi;
in provincia di Cuneo l’intero territorio dei comuni di Camo, Castiglione Tinella, Cossano Belbo, Mango, Neive, Neviglie, Rocchetta Belbo, Serralunga d’Alba, Santo Stefano Belbo, Santa Vittoria d’Alba, Treiso, Trezzo Tinella, Castino, Perletto e le frazioni di Como e San Rocco Seno d’Elvio del comune di Alba;
in provincia di Alessandria l’intero territorio dei comuni di Acqui Terme, Alice Bel Colle, Bistagno, Cassine, Grognardo, Ricaldone, Strevi, Terzo, Visone.

Vitigni: esclusivamente Moscato bianco.

Resa massima per ha: non superiore a quintali 100, pari ad un massimo di 75 ettolitri di vino per ettaro.

Caratteristiche:
spuma: fine, persistente;
limpidezza: brillante;
colore: da paglierino a dorato assai tenue;
odore: caratteristico, spiccato, delicato;
sapore: aromatico, caratteristico, delicatamente dolce, equilibrato;
titolo alcolometrico volumico totale minimo: 12% di cui svolto compreso nei limiti dal 7% al 9,5%;
acidità’ totale minima: 5 per mille; estratto secco netto minimo: 17 per mille

Tipologie: Asti Spumante (la denominazione “Asti” comprende anche il Moscato d’Asti, riservata al vino bianco non spumante).

Note: si ottiene con il metodo della fermentazione naturale in bottiglia o in autoclave, introdotta dal gioielliere milanese Gian Battista Croce.

Abbinamenti: Aperitivo, dolci a pasta lievitata, macedonia

Età ottimale: 6-8 mesi

Barbera d’Asti DOCG

Zona di produzione: la zona collinare di Alba in provincia di Cuneo. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano preminentemente argilloso-calcarei e calcareo-silicei. Sono esclusi dalla Doc i terreni esposti a nord ed i fondovalle semipianeggianti o pianeggianti.

Vitigni: Barbera.

Resa massima per ha: 100 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 12%.

Acidita’ totale minima: 6 per mille.

Estratto secco netto minimo: 23 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino intenso da giovane con tendenza al granato dopo l’invecchiamento; profumo vinoso, intenso e caratteristico; sapore asciutto, di corpo, di acidita’ abbastanza spiccata, leggermente tannico. Dopo adeguato invecchiamento gusto pieno ed armonico.

Qualificazioni: con una gradazione del 12,5% ed un anno di invecchiamento in botti di rovere o di castagno, puo’ portare la qualifica “Superiore”. In questo caso deve figurare, obbligatoriamente, l’indicazione documentabile dell’annata di produzione delle uve.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti :antipasti caldi piemontesi, primi piatti particolarmente saporiti, piatti di carne sia bianche che rosse, pollame e pollame nobile.

Barbera del Monferrato DOC

Zona di produzione: l’Alto ed il Basso Monferrato, in provincia di Alessandria, e parte della provincia di Asti. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano preminentemente di natura argilloso-calcarea o calcareo-argillosa. Sono esclusi dalla Doc i terreni del fondovalle, pianeggianti ed umidi o non sufficientemente soleggiati.

Vitigni: Barbera 85-90%, Freisa, Grignolino e Dolcetto, da soli o congiuntamente, dal 10 al 15%.

Resa massima per ha: 100 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 12 %.

Acidita’ totale minima: 6 per mille.

Estratto secco netto minimo: 23 per mille.

Ceneri minime: 1,7 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso vivo piu’ o meno intenso; profumo vinoso; sapore asciutto, a volte abboccato, acidulo, mediamente di corpo, talvolta frizzante.

Qualificazioni: con una gradazione alcolica del 12,5% e sottoposto ad almeno 2 anni di invecchiamento, puo’ portare la qualifica “Superiore”.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti : bolliti misti, salumi vari di maiale, pastasciutte saporite e risotti.

Dolcetto d’Alba DOC

Zona di produzione: le colline dell’Albese comprendenti 25 comuni in provincia di Cuneo ed il comune di Coazzolo in provincia di Asti. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano di natura argilloso-calcarea o calcareo-silicea. Sono esclusi dalla Doc i vigneti ubicati nel fondovalle.

Vitigni: Dolcetto.

Resa massima per ha: 90 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 22 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino tendente a volte al violaceo nella schiuma; profumo vinoso, gradevole, caratteristico; sapore asciutto, gradevolmente amarognolo, di moderata acidita’, di buon corpo, armonico.

Qualificazioni: con una gradazione alcolica del 12,5% ed un invecchiamento di un anno, puo’ portare la qualifica “Superiore”.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti :pollame e pollame nobile, arrosti di carni bianche, insalata di carne cruda

Dolcetto d’Asti DOC

Zona di produzione: le colline dell’Astigiano, in provincia di Asti. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano di natura prevalentemente argilloso-calcarea o calcareo-argillosa. Sono esclusi dalla Doc i vigneti ubicati nel fondovalle.

Vitigni: Dolcetto.

Resa massima per ha: 80 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 22 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino vivo; profumo vinoso e gradevole, caratteristico; sapore asciutto, vellutato, armonico, di moderata acidita’.

Qualificazioni: con una gradazione alcolica del 12,5% ed un invecchiamento di un anno, puo’ portare la qualifica “Superiore”.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti : carni bianche e pollame, arrosto o in umido

Freisa d’Asti DOC

Zona di produzione: il territorio collinare della provincia di Asti, esclusi i comuni di Cellarengo e Villanova d’Asti

Vitigni: esclusivamente da uve del vitigno Freisa

Gradazione alcolica minima: 11 gradi.

Caratteristiche organolettiche: Freisa d’Asti Doc Secco: colore rosso granato o cerasuolo, odore caratteristico di lampone e rosa, sapore fresco e delicatamente morbido se con breve invecchiamento. Amabile: colore rosso granato o cerasuolo piuttosto chiaro, con tendenza a leggero arancione quando il vino invecchia; odore caratteristico, delicato di lampone e di rosa, sapore amabile, fresco, con sottofondo molto gradevole di lampone.

Tipologie: Secco, da fine pasto se prodotto nella versione Amabile; Frizzante e Spumante

Abbinamenti: Secco: minestre, salami cotti, “bagna cauda”. Amabile: da fine pasto.

Riferimenti normativi: La Doc Freisa d’Asti è stata riconosciuta con DPR del 01.09.1972, pubblicato sulla GU 311 del 30.11.1972

Grignolino d’Asti DOC

Zona di produzione: la zona collinare con epicentro nella citta’ di Asti. Sono da considerarsi idonei unicamente i
vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti.

Vitigni: Grignolino con eventuali aggiunte di Freisa (fino al 10%).

Resa massima per ha: 80 qli.

Resa massima di uva in vino: 65%.

Gradazione alcolica minima: 11%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 19 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino piu’ o meno intenso con tendenza ad una tonalita’ arancione se invecchiato; profumo delicato e persistente, caratteristico; sapore asciutto, leggermente tannico, gradevolmente amarognolo con persistente retrogusto.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti :antipasti all’italiana, minestre sia in brodo sia asciutte, torte di verdura, carni bollite

Ruché di Castagnole Monferrato DOCG

Zona di produzione: il territorio dei comuni di Castagnole Monferrato, Grana, Montemagno, Portacomaro, Refrancore, Scurzolengo e Viarigi, in provincia di Asti. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti, esclusi quelli di fondo-valle, ed i cui terreni siano di natura calcarea, argillosa e mediamente sabbiosa.

Vitigni: Ruche’ per almeno 90% con eventuali aggiunte di Barbera e/o Brachetto.

Resa massima per ha: 90 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 12%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 20 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino non troppo carico con leggeri riflessi violacei talvolta tendenti all’aranciato; profumo intenso, persistente, leggermente aromatico, fruttato; sapore secco, armonico, talvolta leggermente tannico, di medio corpo con leggera componente aromatica.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: nessuna.

Cisterna d’Asti DOC

Zona di produzione: i seguenti comuni delle provincie di Asti e Cuneo: Antignano, Cantarana, Cisterna d’Asti, Ferrere, San Damiano d’Asti, San Martino Alfieri, Canale, Castellinaldo, Govone, Montà, Monteu Roero, Santo Stefano Roero e Vezza d’Alba

Vitigni: uve Croatina in percentuale variabile dall’80% al 100%; possono concorrere alla produzione, congiuntamente o disgiuntamente, uve di altri vitigni a bacca nera, non aromatici raccomandati per la provincia di Cuneo e Asti, per una percentuale non superiore al 20%

Gradazione alcolica minima: 12 gradi

Tipologie: Rosso.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino intenso e brillante, particolarmente carico per l’alta concentrazione di polifenoli antocianici; profumo fruttato con note di confettura di prugna e frutti rossi, sapore corposo ma morbido, di buona persistenza al palato, con un finale leggermente tannico.

Abbinamenti: primi piatti tipici piemontesi come gli agnolotti al sugo d’arrosto e ragù, risotti, ma anche a pietanze di carne e salumi grassi.

Riferimenti normativi: La Doc è stata riconosciuta con D.M. del 17/07/2002 pubblicato sulla G.U. n.196 del 22/8/2002

Albugnano DOC

Zona di produzione: nel Basso Monferrato, nei comuni di Albugnano, Castelnuovo Don Bosco, Passerano Marmorito e Pino d’Asti, tutti in provincia di Asti.

Vitigni: Nebbiolo per almeno l’85% e Freisa, Barbera e Bonarda, da soli o congiuntamente, per un massimo del 15%

Gradazione alcolica minima: 11,5 gradi (11 per il tipo rosato)

Invecchiamento obbligatorio: 14 mesi per l’Albugnano Superiore.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino più o meno intenso, talvolta con riflessi granati; profumo delicato, caratteristico, talvolta vinoso; sapore dal secco all’abboccato, di discreto corpo, più o meno tannico, di buona persistenza, talvolta vivace

Qualificazioni: Il Rosso per definirsi “superiore” deve essere invecchiato per 14 mesi e può essere affinato in botti di rovere

Tipologie: Rosso, Rosso superiore e Rosato

Abbinamenti: vino da tutto pasto abbinato a piatti strutturati: primi con sughi di carne e funghi, carni stufate, arrosti e lessi, ma anche formaggi stagionati. Va consumato a 14°C con un calice da vini giovani entro due anni dalla vendemmia.
Il Rosato si sposa perfettamente con antipasti di salumi, minestroni di verdure e zuppe. Va servito a 12-14°C in calice ampio e aperto

Riferimenti normativi: Riconoscimento della Doc “Albugnano” con DPR del 06.05.97, pubblicato sulla GU del 17.05.97

Brachetto d’Acqui – Acqui DOCG

Zona di produzione: 18 comuni nella provincia di Asti e 8 comuni nella provincia di Alessandria. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti, i cui terreni marnosi siano di natura calcareo-argillosa.

Vitigni: Brachetto con eventuali aggiunte di Aleatico e Moscato Nero, fino ad un massimo del 20%.

Resa massima per ha: 80 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11,5%, di cui almeno il 6% in alcol svolto.

Estratto secco netto minimo: 20 per mille.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino di media intensita’ e tendente al granato chiaro e rosato; profumo muschiato molto delicato, con sentore di rosa; sapore dolce, morbido, frizzante con spuma piu’ o meno abbondante e persistente.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: viene prodotto anche nel tipo “Spumante”.

Abbinamenti : dessert e macedonia, particolarmente adatto con le fragole e le crostate di frutta

Malvasia di Casorzo d’Asti DOC

Zona di produzione: in tutto o in parte i territori dei comuni di Casorzo, Vignale Monferrato, Altavilla, Ottiglio, Grazzano, Badoglio ed Olivola nelle provincie di Asti ed Alessandria. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti e posti preminentemente in terreni argilloso-calcarei. Sono esclusi dalla Doc i vigneti del fondovalle, quelli pianeggianti o non sufficientemente soleggiati.

Vitigni: Malvasia nera di Casorzo, con percentuali di Barbera, Freisa e Grignolino che non devono superare il 10%.

Resa massima per ha: 110 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima complessiva: 10,5%, di cui ancora da svolgere non meno di 1/3 degli zuccheri riduttori totali.

Acidita’ totale minima: 5-8 per mille.

Estratto secco netto minimo: 15-24 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore da rosso rubino a cerasuolo rosato; profumo fragrante e caratteristico del vitigno; sapore dolce, leggermente aromatico, caratteristico.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: viene prodotto anche nel tipo “Spumante”, con una gradazione alcolica complessiva non inferiore all’11%.

Abbinamenti : frutta e crostate a base di frutta, soprattutto frutti di bosco.

Malvasia di Castelnuovo Don Bosco DOC

Zona di produzione: il territorio dei comuni di Albugnano, Castelnuovo Don Bosco, Passerano Marmorito, Pino d’Asti, Berzano e Moncucco, in provincia di Asti. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti e posti preminentemente in terreni argilloso-calcarei, esclusi quelli di fondovalle.

Vitigni: Malvasia di Schierano; pu• concorrere il vitigno Freisa fino ad un massimo del 15%.

Resa massima per ha: 110 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima complessiva: 10,5%, di cui ancora da svolgere non meno di 2/5 degli zuccheri riduttori totali.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 15 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso cerasuolo; profumo fragrante dell’uva di origine; sapore dolce, caratteristico e leggermente aromatico.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: viene prodotto anche nel tipo “Spumante”, con una gradazione alcolica complessiva non inferiore all’11%.

Abbinamenti : frutta e pasticceria.

Loazzolo DOC

Zona di produzione: l’intero territorio del comune di Loazzolo, in provincia di Asti

Vitigni: esclusivamente uve del vitigno Moscato bianco

Gradazione alcolica minima: 15,5 gradi

Caratteristiche organolettiche: colore giallo dorato brillante; odore complesso, intenso con sentori di muschio e di vaniglia, frutti canditi. Ha sapore dolce, caratteristico con lieve aroma di moscato.

Tipologie: vino da dessert

Abbinamenti: dolci a pasta non lievitata, consistenti, pasticceria secca, torta di nocciole, semifreddo al torrone e dolci di vari tipi. Si accompagna anche con formaggi molto stagionati

Riferimenti normativi: La Doc Loazzolo è stata riconosciuta con DPR del 14.04.1992, pubblicato sulla GU del 27.04.1992

Mieli del Piemonte

Tra i tipi di miele prodotti in Piemonte possono essere ricordati, per le loro elevate caratteristichequalitative, varietà monoflorali come:

miele di acacia
miele di tiglio
miele di castagno
miele di tarassaco
miele di rododendro


Territorio interessato alla produzione: La produzione è diffusa in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizionalità della produzione di mieli della Regione Piemonte è dimostrata da vecchi libri di apicoltura che attestano che la metodica di lavorazione è rimasta invariata nel tempo.

Piante officinali del Piemonte

Gli ambienti di fondovalle e montani delle valli piemontesi ospitano numerose specie spontanee epresentano una lunga tradizione nella raccolta e commercializzazione di piante officinali. Tali attività proseguirono con una certa intensità sino alla fine degli anni ’80.

Territorio interessato alla produzione: Le erbe officinali sono prodotte diffusamente in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLe vallate piemontesi ospitano numerose e abbondanti essenze spontanee, divenute poi nel tempo oggetto di coltivazione. Le piante officinali rappresentavano una interessante integrazione di reddito per molti agricoltori che, a cavallo tra la fine della primavera e l’estate, operavano in zona sia con l’allevamento bovino che con la pastorizia.Per quanto riguarda lo zafferano – denominato localmente Sofran – le prime esperienze di coltivazione risalgono al medioevo, nel territorio del marchesato di Saluzzo dove ricadevano i territori della Valle Grana e delle Valle Maira (Fedele Savio, Ferdinando Gabotto – Studi e documenti sul duomo di Saluzzo e altre chiese). La testimonianza più precisa è la premiazione – nell’ambito della “Prima esposizione agraria, industriale, artistica delle provincia di Cuneo” – del caragliese Delpuy Antonio per la coltivazione dello zafferano a Caraglio, nel 1870.Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 dello scorso secolo, grazie anche all’attività del Centro Sperimentale per le piante Officinali promosso dalla CCIAA di Cuneo, furono messi a dimora i primi impianti produttivi di genepy, melissa, lavanda in alcuni areali alpini del Piemonte. Le attività del Centro presero in esame alcuni parametri agronomici delle colture e fornirono preziose linee guida ai produttori.In questi ultimi anni si è evidenziato un significativo incremento di interesse verso queste colture, in particolare per le situazioni montane gestite secondo i principi del Biologico. L’incremento della domanda ha creato crescente specializzazione tra gli operatori, oltre alla diffusione di pratiche innovative di trasformazione e lavorazione.

Carciofo della Val Tiglione

Il carciofo della Val Tiglione (conosciuto anche come “carciofo del Sori”) presenta capolini senza spine.Questi si presentano ovoidali-allungati con una leggera depressione nella zona apicale; le brattee sono di colore verde cinerino tendenti al violetto, ben serrate sulla gemma centrale.

Territorio interessato alla produzione: L’areale di coltivazione del carciofo della Val Tiglione è il comune di Mombercelli in Val Tiglione.

Cenni storici e curiositàSi hanno notizie certe sulla coltivazione del carciofo della Val Tiglione nell’area tipica di produzione a partire dalla seconda metà del 1700.Questo prodotto conobbe la sua massima diffusione negli anni cinquanta del secolo scorso. Attualmente rimane come prodotto di nicchia molto apprezzato dagli estimatori.

Bietola a costa rossa astigiana

Si tratta di una pianta erbacea a ciclo biennale nel primo anno di sviluppo le piante presentano una rosetta di foglie basali avvolte sulla gemma centrale ed un robusto apparato radicale. Nel secondo anno di coltivazione la pianta emette lo stelo fiorale.

Territorio interessato alla produzione: Essa si colloca nel comune di Asti; un tempo questa coltivazione si estendeva su diversi comuni situati lungo l’asta del Tanaro all’interno del territorio della provincia di Asti.

Cenni storici e curiositàA partire dal dopoguerra e sino alla seconda metà degli anni ’90 questa tipologia di bietola a costa rossa a raccolta autunnale-invernale era particolarmente diffusa nelle aziende dell’astigiano.Nella fase di maggior diffusione della coltura si evidenziavano, a livello locale, alcune selezioni ottenute nel tempo dagli operatori agricoli astigiani, caratterizzate da diversa forma dei lembi fogliari, dimensione e spessore delle coste variabili entro le linee e da una diversa vigoria e ciclo vegetativo.I produttori locali provvedevano, secondo testimonianze dirette da parte di operatori professionali del luogo, alla moltiplicazione del seme ed al mantenimento delle linee in purezza (selezionando le piante migliori e allevandole in ambienti isolati).

Zabaione

Lo zabaione, che in Piemonte è chiamato anche zabaglione, è una crema soffice, spumosa e leggera,preparata con vino, zucchero e rossi d’uovo.

Territorio interessato alla produzione: Lo zabaione si produce praticamente in tutte le cucine piemontesi. Alcune gastronomie lo propongono, così come moltissimi ristoranti.

Cenni storici e curiositàL’origine dello zabaione è antichissima, e in quanto tale si presta a versioni quasi leggendarie.Una di queste lo fa risalire al 1500, quando il capitano di ventura emiliano Giovanni Baglioni si accampò alle porte della città di Reggio Emilia; avendo pochi viveri con cui sfamare i suoi soldati, si arrangiò con uova, zucchero e vino trovati nelle fattorie della zona. Non sapendo come combinare questi ingredienti, non gli restò altro da fare che miscelarli, cuocerli e dare questo antesignano dello zabaione ai soldati, che ne furono entusiasti. Il popolo chiamava Giovanni Baglione ‘Zvàn Bajòun’ e la crema ne prese il nome diventando prima ‘zambajoun’, e poi zabaione.

Savoiardi

I savoiardi sono biscotti di forma allungata, morbidi e semplici, si presenta come un bastoncino dorato, quasi sempre cotto in uno stampo svasato che ne delimita il fondo. Hanno una struttura spugnosa e minutamente alveolata, sono leggerissimi; inconfondibili per le estremità arrotondate.La caratteristica saliente è la presenza, sulla superficie, di una specie di sottilissima pellicola data dalla presenza di una spolveratura di zucchero a velo prima della cottura.

Territorio interessato alla produzione: I savoiardi sono prodotti in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa loro origine, chiaramente espressa dal nome, si fa risalire in genere al XV secolo, in corrispondenza ad una visita del re di Francia ai duchi di Savoia. Sembra, però, che un dolce di medesima composizione, sotto forma di grande “gateaux” di pasta spugnosa, sia stato fatto preparare dal conte Amedeo VI nel 1348 per ingraziarsi Carlo di Lussemburgo, e questo abbia addirittura favorito il successivo sviluppo della dinastia.Sebbene questo incontro sia avvenuto a Chambery, nella Savoia francese, è innegabile l’origine di questo morbidissimo biscotto. La ricetta si diffuse in tutti i territori di influenza piemontese, e così si ritrovano con la medesima ricetta anche in Sardegna.Per dare una idea di quanto questi biscotti siano antichi, citiamo il pasticcere Giuseppe Ciocca, che nel suo Pasticcere e Confettiere Moderno, del 1907, afferma: “… così esistono ancora i biscotti detti savoiardi”.

Pesche ripiene

Le pesche ripiene, in piemontese “persi pien” sono un dolce non facilmente classificabile; si presentano come delle mezze pesche rovesciate con il taglio verso l’alto, al centro delle quali, in corrispondenza dell’incavo lasciato dal nocciolo, è stato posato il ripieno, scuro per la presenza di cacao. L’incavo centrale è di solito volutamente ampliato, asportando un po’ della polpa e utilizzandola per il ripieno stesso. Il tutto è servito dopo cottura in forno, e si consumano di preferenza tiepide.Le pesche ripiene sono un dolce povero, prodotto con ingredienti semplici e facilmente reperibili instagione opportuna.

Territorio interessato alla produzione: Le pesche ripiene si producono sull’intero territorio piemontese.

Cenni storici e curiositàLa ricetta delle pesche ripiene nella cucina italiana è vecchia quanto le pesche stesse. Questo piatto nasce quasi sicuramente dall’esigenza di consumare con un po’ di zucchero le abbondanti, ma aspre, pesche di vigna, e da sempre in Piemonte si usa il seme del nocciolo di pesca come amaricante per cucinare o per produrre liquori.Col tempo e con il cambiare delle disponibilità economiche il piatto si arricchisce di amaretti, cacao, burro e uova. Le codifiche del prodotto riguardano già l’Artusi, nel suo “la scienza in cucina” del 1891, senza la presenza degli amaretti.La presenza in Piemonte però data da anteriormente, almeno da quando il Vialardi, cuoco piemontese, nel 1854 ne dà una versione senza il cacao, ma con la cannella. Sono però già presenti gli amaretti.Da allora i ricettari hanno sempre riportato questa semplice ricetta, con variazioni e arricchimenti che non hanno mai snaturato l’idea originaria alla base del dolce.

Frittelle di Carnevale

Le “frittelle di Carnevale” sono piccoli dolci a forma di palline spugnose e leggere, fritte in olio ecosparse di zucchero o zucchero a velo, da mangiarsi da sole o accompagnate da una cioccolata calda.Sono diffuse in tutto il Piemonte con diversi nomi a seconda della zona di provenienza

Territorio interessato alla produzione: Le frittelle di Carnevale si producono in tutto il Piemonte nelle gastronomie o nelle panetterie, soprattutto in occasione del Carnevale sono preparate come fine pasto nei ristoranti.

Cenni storici e curiositàQuesto tipo di dolce è diffuso in tutta Italia, vuoi per quanto è gustoso, quanto per la sua facilità di realizzazione.Le origini della frittelle di Carnevale risalgono come minimo alla nascita della pasticceria in Europa; la prima ricetta simile, infatti, si trova su “Il cuoco piemontese” del 1766, ma la prima ricetta dei “beignet detti pets-de-nonne alla vainiglia” compare sul “Trattato di cucina” del Vialardi, nel 1854.Da allora non si contano le presenze di questi dolcetti nei ricettari regionali.

Bugie o chiacchiere

Le bugie di Carnevale, o meglio conosciute in altre regioni italiane come chiacchiere di Carnevale sono dolci sottili dal bordo quasi sempre frastagliato, a forma volutamente irregolare, rettangolare o di nastro, a volte addirittura annodato o arrotolato a rosone.Le bugie sono leggere e croccanti, sono fritte in olio e cosparse di zucchero a velo prima di essere servite.

Territorio interessato alla produzione: Le bugie si producono nelle pasticcerie o nelle panetterie di tutto il Piemonte in occasione del Carnevale.È frequente che alcuni ristoranti le propongano come omaggio di fine pasto.

Cenni storici e curiositàQuesto tipo di dolce è diffuso in tutta Italia, dove si chiama con nomi diversi, ma che quasi sempre richiamano la forma a nastro o a straccetto della pasta prima della cottura.Le origini delle bugie, o qualunque sia il nome regionale che prendano, risale già ai tempi degli antichi romani e alle loro “frictilia”, dolci di farina fritti nel grasso di maiale e conditi con il miele, vendute per la strada da donne anziane, con il capo cinto di edera, in occasione delle “Liberalia”. Le “Liberalia” erano celebrate il 17 Marzo ed erano dedicate agli dei della fecondità. Il periodo era dunque lo stesso dell’attuale Carnevale.