Caciocavallo podolico

Territorio interessato alla produzione: Aree interne della regione, a zootecnia estensiva

Descrizione sintetica del prodottoFormaggio a pasta filata da latte bovino, esclusivamente di razza podolica; comunque proveniente da allevamenti bradi o semibradi, con alimentazione basata principalmente sul pascolo. Di produzione locale a stagionatura variabile (da 15gg a più di 6 mesi), di forma globosa tipica, con testina e legatura di rafia, colore giallo paglierino, che tende a scurirsi con la stagionatura. Pezzatura di circa 1-2 Kg.

Burrino in corteccia

Materia prima: latte vaccino-siero. Alimentazione: pascolo estensivo naturale.

Tecnologia di lavorazione: scremato il siero di latte la crema viene centrifugata per eliminare l’acqua. La parte grassa va messa in frigorifero per 10-12 ore a refrigerarsi, per essere poi zangolata. Il burro che si ottiene viene lavorato in tante forme sferiche o allungate, che dopo essere state in acqua fredda, vengono ricoperte con pasta filata. La salatura si effettua in salamoia. Matura in 7 giorni circa, in ambiente fresco e aerato, dove le forme vengono legate a coppie con filo di rafia. Resa 10%.

Stagionatura: fino a due mesi circa, in ambiente fresco a temperatura costante.

Caratteristiche del prodotto finito: peso: Kg 0,2-0,3; pellicola esterna sottile, lucida, di colore giallo; pasta: il colore del burro varia col variare delle stagioni; sapore: delicato e intenso, odore gradevole.

Area di produzione: in tutta la Regione; produzioni di qualità vengono segnalate: nel Matese (BN); Terminio-Cervialto (AV); penisola Sorrentina (NA); nei Monti Alburni (SA) e in tutto il Cilento (SA).

Calendario di produzione: tutto l’anno; i migliori da marzo a giugno.

Note: questo sistema di conservazione del burro, adottato dai pastori transumanti del Mezzogiorno, può considerarsi il precursore del sottovuoto. Il burro prodotto in primavera-estate veniva incamiciato per poterlo conservare inalterato fino all’autunno successivo, quando i pastori transumavano a valle.

Fiordilatte

Territorio interessato alla produzione: Intero territorio regionale. In particolare la penisola sorrentina, Alto casertano Sannio, Irpinia e Vallo di Diano.

Descrizione sintetica del prodottoFormaggio fresco a pasta filata, molle, a fermentazione lattica, ottenuto con latte intero vaccino. Il latte utilizzato proviene da animali alimentati con foraggio solitamente ottenuto nella stessa area di produzione del formaggio. Ha forma sferoidale, leggermente schiacciata, di colore bianco meno gessoso rispetto alla mozzarella di bufala, rispetto alla quale ha anche un sapore meno forte (meno acidulo) e una maggiore compattezza della pasta. Il peso è variabile, con un massimo di circa 500 grammi.

Caciocavallo di Castelfranco

Area di produzione: Castelfranco in Miscano e zone limitrofe

Descrizione sintetica prodotto: Formaggio a pasta filata a breve o media stagionatura, di forma globosa tipica, con testina e legatura con rafia, grande pezzatura.

Descrizione delle metodiche di lavorazione: Ingredienti – Latte bovino locale, caglio del commercio, sale
Fasi della lavorazione:
-riscaldamento del latte crudo a 36°37° C
-aggiunta del caglio in pasta
– riscaldamento della pasta
-teli di lino per la raccolta della cagliata e lo spurgo
– maturazione della cagliata
– filatura a caldo
– formatura
– salatura in salamoia

Produzione in atto:

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione: laboratori artigianali e locali tradizionali; contenitori e piani di appoggio in acciaio; attrezzi di lavorazione in legno; teli di lino per spurgo; asta di legno per il rimescolamento della pasta; paletta di legno per la filatura

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: Il prodotto è ampiamente conosciuto nell’area rilevata ed è sicuramente trasformato da almeno 25 anni, come accertato attraverso le testimonianze raccolte in zona.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni: si

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Scamorza

Territorio interessato alla produzione: Intero territorio regionale. In particolare la penisola sorrentina, Alto casertano Sannio, Irpinia e Vallo di Diano.

Descrizione sintetica del prodottoFormaggio prodotto tutto l’anno a livello regionale con latte di vacca allevata al pascolo o a stabulazione fissa, a pasta semicotta e filata, lavorato a mano o meccanicamente, talvolta affumicato e/o farcito, a maturazione rapida, con pasta elastica, uniforme e di colore giallo paglierino; crosta sottile, dal paglierino al bruno, di forma sferoidale con testina più o meno accennata, sapore dolce o aromatico.

Treccia

Territorio interessato alla produzione: Intero territorio regionale. In particolare la penisola sorrentina, Alto casertano Sannio, Irpinia e Vallo di Diano.

Descrizione sintetica del prodottoFormaggio prodotto tutto l’anno a livello regionale con latte di vacca allevata al pascolo o a stabulazione fissa, a pasta semicotta e filata, lavorato a mano o meccanicamente, talvolta affumicato e/o farcito, a maturazione rapida, con pasta elastica, uniforme e di colore giallo paglierino o più chiaro; caratteristica forma a due striscie intrecciate fra loro, data dopo la maturazione; sapore dolce o aromatico.

Primosale stagionato di Cuffiano

Territorio interessato alla produzione
Cuffiano (frazione di Morcone, BN)
Descrizione sintetica prodotto
Formaggio prodotto con latte intero di vacca di animali allevati nell’area di produzione, di razza bruna o pezzata rossa. La forma è a parallelepipedo, alta 8 cm, larga 12 e lunga 25 cm; la crosta, piuttosto sottile, è di colore paglierino intenso, con evidente impronta delle fuscelle, di peso 1,2 – 1,5 Kg; consistenza della pasta, color bianco panna, cremosa, con occhiatura fine e ben distribuita di dimensioni comprese fra 1 e 2-3 mm, di forma ellittica dovuta alla consistenza molle della massa. Al palato ha sapore delicato, fondente, acidulo, fresco.
Lavorazione
Il latte destinato alla produzione proviene dalla mungitura della sera prima, conservato a 4°C, aggiunta a quello del mattino di animali di razza bruna o pezzata rossa. Il latte crudo viene riscaldato a 37-38 °C (38°-39°C in inverno) aggiungendo caglio bovino (titolo 1:18), rimescolando e quindi lasciando riposare per trenta minuti senza somministrare altro calore. Una volta avvenuta la coagulazione, la cagliata viene rotta con uno spino a chicco grande (nocciola). Si rimescola per un tempo variabile fino alla separazione del siero dalla cagliata rotta, quando il singolo grumo assume una consistenza esterna elastica e continua. Il grumo deve trattenere umidità sufficiente; la cagliata viene raccolta manualmente o con le fuscelle affiancate, di forma rettangolare – allargata verso l’apertura (tronco-piramidale) facendola debordare (circa 2,3 – 2,5 Kg di cagliata per fuscella). Non viene pressata e riposa per 45 minuti, quindi vengono separate le masse di ogni singola fuscella con un coltello; avviene lo spurgo del siero e il peso si stabilizza a 1,5 Kg circa. si copre con teli in plastica o piastre d’acciaio per altri 45 minuti. Si scoprono, si lasciano raffreddare per 8-10 ore, si tolgono dalle fuscelle e poste in salamoia al 20% per 6-7 ore. Le forme si tamponano con carta assorbente e si avvia la stagionatura su ripiani grigliati per 7 giorni a 4-8°C secondo la stagione, quindi avviene una asciugatura per 12-13 ore quindi riprende la stagionatura per 20-25 giorni in ambienti ad umidità elevata (> 80°C) ed a temperatura naturale (12-15°C) con la formazione di muffe bianco-verdastre, che vengono eliminate con lavaggi prima della vendita.
Cenni storici e curiosità
Questo prodotto è specifico di una ristretta area del Sannio con peculiarità non riscontrabili in altre aree. La tradizione, prima sporadica (legata al trattamento di partite di formaggio primosale invenduto) è stato codificato da almeno 30 anni ed è molto apprezzato a livello locale. La produzione per la vendita è avviata da pochi anni.

Caciotta

Materia prima: latte ovino e caprino, da razze miste. Alimentazione: pascolo semi estensivo integrato da mangimi.

Tecnologia di lavorazione: la stessa del Pecorino. Matura in 15-20 giorni, in ambiente fresco e viene venduto ai turisti lungo la costa durante l’estate e perciò non viene fatto stagionare. Resa 18%.

Stagionatura: fino a tre mesi circa, in cantina.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 4-7; diametro: cm 14-22; peso: Kg 0,8-3; forma: cilindrica, facce piane; crosta: bianca, rugosa; pasta: compatta di colore bianco crema, con rarissime occhiature, profumata; sapore: dolcemente acidulo.

Area di produzione: in tutta la Regione; particolarmente ricercate quelle prodotte nella zona della Comunità Montana Bussento e Mingardo.

Calendario di produzione: da aprile a settembre.

Pecorino del Fortore

Materia prima: latte ovino, razze Quadrella incrociata con Laticauda e Gentile di Puglia. Alimentazione: pascolo estensivo naturale.

Tecnologia di lavorazione: il latte viene portato a circa 36 gradi, aggiungendovi caglio in pasta. Coagula in 20-30 minuti. Dopo la rottura della cagliata (a dimensione di un chicco di riso) si lascia in riposo per qualche minuto, poi si mette in forma pressandola per far uscire il siero. Passate 3-4 ore le forme vengono scottate nel siero bollente. La salatura si effettua a secco per 24 ore circa. Matura in 30 giorni, in ambiente fresco e ventilato, dove le forme, sistemate su apposite assi di legno, vengono lavate con siero caldo ogni 2-3 giorni, per i primi 15 giorni.

Stagionatura: da 3-4 mesi, fino ad un anno circa, in ambiente a temperatura costante. Durante questo periodo, le forme vengono unte con olio e aceto per evitare il formarsi della muffa. Resa i 80%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 4-8; diametro: cm 14-22; peso: Kg 0,8-2,5; forma: cilindrica; crosta: dura ricoperta di grasso, color nocciola scuro; pasta: compatta di colore bianco avorio tendente al rosa, con rare occhiature; sapore: piano, saporito tendente al piccante se ben stagionato, odore intenso e persistente.

Area di produzione: Comune di S. Marco dei Cavoti, San Giorgio la Molara, Montefalcone.

Calendario di produzione: da marzo a settembre.

Pecorino di Laticauda

Territorio interessato alla produzione: La produzione interessa i comuni delle aree appenniniche della Campania (AV, BN, CE).

Descrizione sintetica del prodottoDi tipica forma cilindrica, con pezzature che variano da 1,5 a 2,5 kg. Al termine della fase di stagionatura, la cui durata oscilla tra i sei e i dodici mesi, il prodotto presenta una consistenza dura, a tratti farinosa, non aderente allo strumento di taglio, morbida con grana fine, priva di cavità interne ed imperfezioni. Il colore varia dal giallo paglierino al giallo brillante, in relazione al tenore di grassi. Di odore gradevole ed intenso di latte pecorino, ha un sapore leggermente piccante. Se ben stagionato, “pizzica” sulla punta della lingua.

Cenni storici e curiositàLa razza Laticauda è tipica delle aree appenniniche della Campania occidentale.Questo tipo di pecorino è noto da tempo antichissimo. Alla fine del XIV secolo erano celebri nella tradizione paesana i formaggi di pecorino di laticauda la cui bontà era dovuta, così come oggi, alle erbe spontanee della montagna e tra queste soprattutto al trifoglio ladino.

Pecorino fresco e stagionato

Territorio interessato alla produzione: Aree interne della regione, zone pianeggianti della transumanza (nolano e piano campano)

Descrizione sintetica del prodottoFormaggio semicotto prodotto da latte intero ovino: si presenta di forma cilindrica, dura e rugosa di colore giallo dorato, la pasta di colore bianco è compatta con una raga occhiatura di piccolo diametro. Ha un sapore persistente tendente al piccante, se ben stagionato, e un odore pungente ricco di aromi dovuti al pascolo. Può essere consumato fresco o se molto stagionato da grattugia.

Pecorino salaprese

Territorio interessato alla produzione: Aree interne della Regione

Descrizione sintetica del prodottoProdotto con latte ovino di razze autoctone. Il prodotto presenta una pezzatura variabile tra 0,8-2,5 Kg. L’altezza delle forme è di cm 4-8 cm ed il diametro di 14 –22 Kg. La crosta è morbida, appena colorata, ricoperta di grasso, color nocciola chiarissima. La pasta è compatta, morbida, pastosa, priva di occhiature, di colore bianco o appena paglierino, sapore privo di carattere piccante, fortemente di latte. Non è soggetto a stagionatura, da cui probabilmente il nome: “salaprese”, cioè che ha “appena preso il sale”, consumato immediatamente dopo la salatura.

Pecorino di Vitulano

Territorio interessato alla produzioneComune di Vitulano (BN)
DescrizioneFormaggio di pecora a pasta prima morbida, di colore paglierino chiaro, poi via via più consistente con la stagionatura, fino a diventare friabile alla frattura, con colore paglierino più marcato, sapore deciso e tendenzialmente piccante. Alla vista si presenta di colore giallo paglierino deciso, lucido per l’applicazione di olio extravergine di oliva sulla crosta, con evidenti impronte delle fascere, fino al colore bruno delle forme più stagionate. Le dimensioni sono variabili, ma non superano di norma i 30 cm di diametro ed i 10 – 12 cm di altezza dello scalzo. La resa è intorno al 22-23%.
Metodiche di lavorazioneIIl latte destinato alla produzione proviene dalla doppia mungitura (sera e mattina) delle pecore allevate nell’area di produzione sostanzialmente riconducibile al versante nord-occidentale del Taburno. Esse vengono alimentate con pascolo di montagna ed in via marginale con l’integrazione di cereali e foraggi prevalentemente coltivati nell’area. Il latte intero, crudo, viene refrigerato in stalla a 4° C e quindi trasferito, una volta al giorno, la sera, con bidoni in acciaio inox al caseificio dove viene coagulato la mattina dopo ad una temperatura fra i 33 ed i 35°C, secondo la temperatura esterna, con l’aggiunta di caglio liquido di vitello. La rottura della cagliata, preceduta da un taglio a croce della massa, avviene dopo circa 30 minuti di rimescolatura con un mestolo di legno detto remenadora, dopo l’aggiunta del caglio, è fatta manualmente o con spini rompicagliata in legno o acciaio inox fino ad ottenere grumi di dimensioni da un chicco di riso ad un chicco di mais. La cagliata così sosta sotto siero per circa 10 minuti quindi viene estratta manualmente con un mestolo e messa in fuscelle canestrate di plastica o di vimini. La separazione del siero avviene per filtrazione dalle forme stesse con teli di cotone non colorati, previa delicata pressatura delle forme con le mani. Le forme vengono immerse nella scotta a 80-82 °C da cui precedentemente è stata estratta la ricotta, per un tempo variabile fra i 30 minuti per le forme più piccole (1-1,5 Kg) oppure fino al completo raffreddamento del siero per le forme più grandi (6-7 Kg). Quindi le forme vengono poste capovolte ed a coppia l’una sull’altra, ancora nelle forme, alternando la posizione (alto/basso) 3-4 volte per 4-5 giorni a spurgare ulteriormente siero dalla massa. Viene effettuata la “rottura dei righi”, cioè l’asportazione delle escrescenze di cagliata fuoriuscenti dalle fessure laterali delle forme. La salatura viene fatta a secco con sale medio per sfregatura della superfice massaggiando a mano le forme, liberate dalle fascere, procedendo al lavaggio e successiva asciugatura delle forme dopo 4-5 giorni.
Quindi vengono poste nei locali di stagionatura su tavolati di legno di essenze non porose, con trattamento a base di olio extravergine di oliva sulle superfici 1-2 volte a settimana, periodiche ripuliture dalla muffa, in locali con aereazione naturale e ventilazione non forzata; la stagionatura dura almeno un mese, fino a sei ed oltre. Una certa quota viene venduta con pochi giorni di stagionatura, come “pimo sale”.
Le fasi della lavorazione sono le seguenti:
mungitura del latte crudo, mattutina e serale, refrigerazione in stalla a 4°C;riscaldamento a 33 – 35°C, secondo la temperatura;Aggiunta di caglio liquido di vitello;Rottura cagliata;Maturazione cagliata sotto siero madre;Estrazione del siero;separazione della cagliata e pressatura nelle fuscelle o fascere;immersione delle forme nella scotta;Salatura delle superfici con sale alimentare a grana media;Asciugatura su piani in legno o graticci;Stagionatura in locali freschi tradizionali, ventilati naturalmente.

Uova di bufala

Materia prima: latte di bufala. Alimentazione: pascolo estensivo naturale integrato da mangimi.

Tecnologia di lavorazione: la stessa della mozzarella. Quando la pasta è filata viene mozzata in piccole mozzarelle grandi quanto un uovo di gallina. Queste vengono raffreddate e messe nella panna di affioramento, dentro piccole anfore di terracotta dette “lancelle”; oppure sigillate in buste immerse in acqua semplice.

Stagionatura: non si effettua.

Caratteristiche del prodotto finito: peso: Kg 0,020-0,030; forma: sferica; pasta di colore bianco porcellana; sapore: acidulo reso più corposo dalla presenza della panna.

Area di produzione: in tutte e cinque le province della Campania; pregiate quelle prodotte nella Valle del Sele (SA) e Mazzoni delle Rose (CE).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: Fedele de Siervo, relatore dell’inchiesta agraria Jacini per la Campania, segnala le Uova di bufala sotto il nome di Borrello. Più recentemente venivano definiti burrielli.

Ricotta di Bufala Campana DOP

Materia prima: siero di latte, da razza Bufala. Alimentazione: pascolo semi estensivo naturale integrato da mangimi.

Tecnologia di lavorazione: previa aggiunta di una piccola quota di siero inacidito, si porta la temperatura a circa 80-90 gradi. Man mano che i fiocchi di albumina affiorano in superficie, vengono raccolti e messi a sgrondare per alcune ore in cestelli di giunco.

Stagionatura: non si effettua. Resa 7%.

Caratteristiche del prodotto finito: peso: Kg 0,5-0,8; pasta: di colore bianco porcellana, meno granulosa delle altre ricotte; sapore: “sui generis”, delicatamente dolce.

Area di produzione: Casertano, Napoletano, Salernitano.

Calendario di produzione: tutto l’anno; le migliori da maggio a ottobre.

Note: una volta la ricotta era confezionata in pezzuole di canapa, e veniva chiamata “ricotta in salvietta”.

Ricotta salaprese

Territorio interessato alla produzione: Area interna della Regione

Descrizione sintetica del prodottoRicotta ottenuta dalla lavorazione del latte ovino o bovino. Il nome salaprese o salabrese non si sa cosa significhi, comunque è una tecnica di conservazione abbastanza classica, cioè conservare prodotti facilmente deperibili con l’uso del sale.Alla salatura erano destinate le ricotte invendute.Bisogna precisare che la tipica ricotta salaprese è ottenuta con solo latte ovino.

Ricotta pecorina fresca ed essiccata

Nome geografico abbinato:

Sinonimi:

Regione: Campania

Provincia/e: tutte

Territorio interessato alla produzione: tutto il territorio regionale

Descrizione sintetica prodotto: Formaggio ovino compatto, a breve stagionatura, di forma cilindrica, pezzatura di circa 200 g

Produzione in atto:

Descrizione delle metodiche di lavorazione: Ingredienti- siero di latte ovino locale, sale
Fasi della lavorazione-
-riscaldamento del latte crudo a 30°32° C
-aggiunta del caglio
-rottura della cagliata con spini di acero
-allontanamento del siero
-riscaldamento del siero a circa 90°
-aggiunta di latte crudo in rapporto di 1/6
-aggiunta di sale
-rimescolamento con spini di acero
-affioramento della ricotta
-raccolta della ricotta e formatura in canestrini di vimini o materiale plastico
-eventuale essiccazione all’aria in locali tradizionali

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione:
– laboratori artigianali e locali tradizionali
– tini di lavorazione in rame stagnato
– piani di appoggio in acciaio
– contenitori in vimini intrecciati o in plastica
– spini di legno di acero
– piani di stagionatura in legno

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: Il prodotto è ampiamente conosciuto nell’area rilevata ed è sicuramente trasformato da almeno 25 anni, come accertato attraverso le testimonianze raccolte in zona.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni:

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Polmonata

Tecnologia di preparazione: si usano carni di terza scelta, scartate dalla preparazione di altri salumi: polmone, milza, sanguicci, cuore, fegato, rognone, tagliati a mano nella versione tradizionale e conciati con sale, pepe e peperoncino piccante. Si insacca il tutto nel budello naturale, si fa asciugare per alcuni giorni. La polmonata viene usata per insaporire minestre di verdure.

Composizione:
a) Materia prima: polmone, milza, carni rosse, cuore, fegato, rognoni di suino.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, peperoncino.
c) Additivi:

Maturazione:

Periodo di stagionatura:

Area di produzione: in tutte le zone rurali della Campania. E’ un prodotto facilmente deperibile.

Salsiccia calabrese di Napoli

Tecnologia di preparazione: l’impasto di questa salsiccia tradizionale è composto di alcune carni provenienti dalla coscia, dal lombo e da altre parti pregiate che vengono tagliuzzate a mano (nella versione artigianale) e addizionate ad una parte di grasso duro, sempre tagliato a mano. Si concia, si insacca nel budello di suino e si lega in pezzi di una decina di centimetri. Si mette poi ad asciugare in ambiente fumoso per alcuni giorni prima della stagionatura.

Composizione:
a) Materia prima: carni di suino, coscia, lombo e grasso.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, peperonicno, vino rosso secco. L’abbondante uso di peperoncino, tipico dei salumi calabresi, dà il nome al prodotto.
c) Additivi:

Maturazione: alcuni giorni esposte al fumo.

Periodo di stagionatura: un paio di mesi in cantina.

Area di produzione: in tutta la regione campana; le migliori sono quelle della provincia di Benevento e Avellino.

Salsiccia di Napoli

Tecnologia di preparazione: l’impasto è composto da due parti di carni magra di suino e una parte di grasso. Si concia e si insacca nel budello naturale, che viene poi legato e piegato ai due capi con un unico spago e prende la forma di una U molto stretta. Viene fatta affumicare per alcuni giorni; si stagiona per un paio di mesi.

Composizione:
a) Materia prima: carne magra di suino e grasso duro.
b) Coadiuvanti tecnologici: esistono due varianti con sale, pepe e semi di finocchio oppure con sale, semi di finocchio e peperoncino.
c) Additivi:

Maturazione: alcuni giorni.

Periodo di stagionatura: due mesi.

Area di produzione: viene prodotta nella zona di Avellino, Benevento, Nola (Na), anche se viene chiamata “salsiccia di Napoli”.

Prosciutto di monte

Territorio interessato alla produzione: Tutta le aree interne della regione, in particolare nel Matese, Sannio, Irpinia, Bussento.

Descrizione sintetica del prodottoProdotto trasformato di carni di suini delle razze Landrace, Large White, Pelatello, Casertana.Caratteristiche a stagionatura ultimata sono: forma naturale semipressata tondeggiante, peso normale tra 10 e 15 kg., comunque non inferiore a kg.10; colore al taglio uniforme tra il rosa ed il rosso inframmezzato dal bianco delle parti grasse; aroma e sapore dolci e fragrante; consistenza della carne uniforme.L’alimentazione dei suini è basata su prodotti naturali dell’azienda, tipo granoturco, crusca, patate, ghiande, castagne e materiale verde. La mattazione avviene tra novembre e febbraio o comunque quando la temperatura non raggiunge i 10°.

Salsiccia sotto sugna

Territorio interessato alla produzione: Aree interne e rurali della regione (Avellino, Caserta, Benevento, Salerno, Napoli).

Descrizione sintetica del prodottoSalumi (salsiccie, ma anche sopressate) prodotte con metodi di lavorazione tradizionali, a volte affumicati, con stagionatura di almeno 1 mese, che vengono conservati in vasetti di tipo tradizionale, in ceramica smaltata, di forma cilindrica, che poi venivano colmati con sugna disciolta.Tale trattamento evita l’ossidazione delle carni, che rimangono rosee e morbide, e nel contempo evitano l’eccessiva oleosità riscontrabile nella conservazione sott’olio, per la scarsa permeabilità dei budelli naturali ai grassi saturi presenti nella sugna.

Soppressata del Sannio

Territorio interessato alla produzione: Tutta la provincia di Benevento

Descrizione sintetica del prodottoProdotto trasformato di carni suine delle razze tipo Landrace, Large White, Pelatello e Casertana, nate, allevate e macellate nella Provincia.L’alimentazione dei suini è basata su prodotti naturali dell’azienda tipo mais, crusca, ghiande.Di colore rosso vivo con localizzati grumi di grassi, la sopressata è di forma classica con una lunghezza di circa 15 – 20 cm ed una sezione di circa 6 cm. Sovente viene legata più volte a mò di rete con uno spago.

Salsiccia fresca a punta di coltello

Territorio interessato alla produzione
intera regione Campania
Descrizione
Salsiccia di carne suina, non stagionata, da consumarsi previa cottura; si presenta di diametro compreso fra 2,5 e 3,5 cm, lunghezza variabile da 5 cm fino al metro senza legatura; il budello viene “strozzato” da legature periodiche effettuate con spago per alimenti; è addizionata di pepe nero (in grani o macinato) oppure semi di finocchio o ancora peperoncino macinato, dolce o piccante. Tagli carnei magri e grassi non sono tritati ma tagliati in pezzi (a dadini) di dimensioni variabili a mano, con coltello affilato (da cui il nome). Esistono versioni con aggiunta di altri ingredienti, quali vino bianco o rosso, formaggi (provola, mozzarella, caciocavallo), friarielli già cotti ed altro.
Il prodotto è ampiamente conosciuto nell’area rilevata ed è molto diffuso, rientrando nelle normali preparazioni di macelleria, sia nei piccoli centri che nelle grandi città; è sicuramente trasformato da almeno 25 anni, come accertato attraverso le testimonianze raccolte in zona.

Prigiotto

Territorio interessato alla produzione
Valle Telesina ed area del Titerno (provincia di Benevento).
Descrizione sintetica prodotto
Coscia di suino privata dell’osso e della parte carnea posteriore distale (fiocco) stagionata per almeno 12 mesi, legato tradizionalmente con vimini (lo stesso usato per la legatura delle viti) o con spago alimentare. il colore è rosso intenso con striature bianche di grasso; sapore deciso e abbastanza dolce al palato. E’ coperto con un impasto di sugna, amido di mais, spezie.
Lavorazione
Ingredienti: coscia di suino; sale marino.N.B.Tutte le fasi di lavorazione, ad eccezione del lavaggio, sono eseguite a mano.
Fasi di Lavorazione
Scelta
Le cosce devono provenire da suini pesanti appartenenti ai genotipi tradizionali, ossia alle razze Large White, Landrace, incroci con Duroc, tradizionalmente erano razze autoctone quale il nero casertano ed incroci con la razza Yorkshire; le stesse devono avere un peso iniziale mai inferiore a 10-12 kg.
Rifilatura
La rifilatura consiste nell’asportazione delle parti di grasso di copertura lasciando la cotenna, asportando l’osso ed il fiocco.
Salatura
con sale marino umido con metodologia “a secco”, dell’intera coscia, anche all’interno dello spazio lasciato dall’osso, per circa dieci – quindici giorni quindi vengono sottoposte a spazzolatura per allontanare il sale residuo.d un procedimento di dissalatura e successivamente risalate.
Asciugatura
Al termine del periodo di salatura le cosce vengono lavate con vino bianco, e poste a riposo per 12-14 ore ad asciugare in locali tradizionali, freschi e con umidità inferiore all’80% in modo da garantire una ottima ed uniforme disidratazione.
Aromatizzazione
avviene con spezie e cospargendo le parti superficiali magre con sugna oppure con il cosiddetto velo, connettivo ricco di grasso che copre alcune frattaglie del maiale (reni, altro).
Stagionatura
La fase di stagionatura avviene in locali appositamente attrezzati, eventualmente anche con ripiani in legno (le cd “scalere”). Contrariamente alla stagionatura del prosciutto, i locali sono caratterizzati da una umidità più elevata e da una bassa temperatura costante.
Toelettatura
vengono tolte le muffe superficiali ed il velo, quindi viene effettuata una rifilatura preparatoria
Cenni storici e curiosità
La preparazione del prigiotto sostituiva per ragioni climatiche quella del prosciutto, sfruttando le caratteristiche naturali delle cantine interrate (spesso grotte) di centri posti ad altitudini piu basse e con esposizione piu riparata rispetto a quelle indiocate per la stagionatura dei proasciutti. In particolare l’esportazione dell’osso evitava l’insiediarsi di larve e muffe dannose all’interno della massa carnea.Versione campana del ben più celebre culatello, si ritrova in modo particolare nelle aree interne, in special modo nel Sannio. Del Prigiotto si hanno testimonianze storiche negli annali del 1700 in vari monasteri sanniti e non solo. Si legge in Cibo e Memoria storica nell’alimentazione nel salernitano(Mibact)per descrivere una bottega medievale nell’entroterra salernitano“un gran deposito di baccalari tonnine ed altre specie di salumi. … sei ventresche, sei piccioli prigiotti e diversi pezzetti di salame” . Nelle “Satire di Orazio Flacco tradotte in volgare dall’avvocato napoletano Giuseppe Onemma tra ‘600 e ‘700, si dice” Il Priggiotto è assai buon, ma più accarezza lo stomaco di quei che son digiuni” .

Busecchia – Mammella di vacca, Busecchia

La busecchia è uno di quegli antichi piatti nati dalla fantasia contadina che tentava di unire il gusto alla necessità di non sprecare alcuna parte degli animali macellati. Si tratta, infatti, della mammella delle vacche da latte ancora in produzione che viene tagliata in pezzi di circa 500 grammi e poi bollita in acqua salata. A questo punto la busecchia è pronta per essere tagliata in piccoli pezzetti di circa 2-3 centimetri e poi cucinata alla pizzaiola oppure semplicemente condita con olio, limone e sale per essere gustata fredda.

Carne di bovino podolico

La carne di vitellone podolico è ottenuta dalla macellazione di bovini, maschi e femmine, di razza Podolica o da incroci di prima generazione tra vacche di razza Podolica iscritte al Libro genealogico e tori di razza specializzata da carne o di razza Bruna, di età compresa fra i 10 e i 24 mesi al momento della macellazione.
Dalla nascita allo svezzamento gli animali sono allevati con le madri al pascolo; successivamente l’allevamento può proseguire al pascolo, con integrazioni alimentari, oppure in stabulazione, tradizionalmente fissa ma anche in stalla libera. Tradizionalmente veniva di norma praticata la transumanza, usop progressivamente in abbandono per le mutate condizioni sociali delle aree tradizionalmente interessate da questo allevamento. L’alimentazione fino allo svezzamento naturale si basa sul latte della madre o di balie; successivamente la base alimentare è costituita da pascolo e foraggi freschi e conservati a base di essenze erbacee ed arbustive, tipiche dell’area di produzione, con aggiunta di concentrati, per lo più semplici, tali da garantire un sano e ragionevole accrescimento dei soggetti; le strutture previste risultano adeguate dal punto di vista tecnico ed igienico sanitario, e rispettose del benessere animale. Per l’allevamento, la macellazione e la commercializzazione dei prodotti sono osservate le vigenti normative nazionali e comunitarie. Alla produzione di carne viene di solito aggiunta quella di latte, che viene destinato, dopo lo svezzamento del vitello, alla proiduzione del caciocavallo podolico.
La razza podolica è probabilmente risalente alle migrazioni indoeuropee tra il tardo neolitico e l’età del bronzo, oppure successivamente, al seguito delle invasionibarbariche provenienti dall’Asia Centrale. La tecnica di allevamento, tradizionalmente di tipo estensivo, con produzione di soggetti di peso ed età elevata, rimane quella più praticata, considerando la spiccata rusticità e frugalità della razza, che presenta una grande attitudine allo sfruttamento di pascoli poveri dell’Appennino Campano.

Vitellone Bianco dell’Appennino Centrale IGP

Tipo di prodotto:
Carne bovina fresca ottenuta da animali delle razze chianina, marchigiana, romagnola, di età compresa tra i 12 ed i 24 mesi. Il bestiame deve risultare nato da allevamenti in selezione e regolarmente iscritto alla nascita nel Registro Genealogico
del Giovane Bestiame. Dalla nascita allo svezzamento, è consentito l’uso dei seguenti sistemi d’allevamento: pascolo, stabulazione libera, stabulazione fissa; in seguito, sono consentite solo la stabulazione libera e la posta fissa.
Sono inoltre controllate l’alimentazione (negli ultimi mesi è vietato l’uso degli insilati) e la macellazione (che deve avvenire, secondo norme definite, in macelli idonei nella zona di produzione).
La carne di vitellone bianco dell’Appennino centrale deve essere immessa al consumo provvista di particolare contrassegno a garanzia dell’origine e dell’identificazione del prodotto; il logo deve essere impresso sulla superficie della carcassa, in corrispondenza alla faccia esterna di 18 tagli.

Zona geografica di produzione:
L’area geografica di produzione della carne di vitellone bianco dell’Appennino centrale è rappresentata dal territorio delle province collocate lungo la dorsale appenninica dell’Italia centrale. Più precisamente, la zona di produzione è rappresentata dai territori delle seguenti province: Bologna, Ravenna, Forlì, Rimini, Pesaro, Ancona, Macerata, Ascoli Piceno, Teramo, Pescara, Chieti, L’Aquila, Campobasso, Isernia, Benevento, Avellino, Frosinone, Rieti, Viterbo, Terni, Perugia, Grosseto, Siena, Arezzo, Firenze, Prato, Livorno, Pisa.

Curiosità storiche e letterarie:
L’affermazione finale di questo brano può avere una duplice lettura. Da una parte, può significare che, come altre razze, anche la romagnola fornisce le carni adatte per le “giustamente celebri fiorentine”. Dall’altra, può suggerire che non esiste
una fiorentina migliore di quella che proviene da carni di razza romagnola.
La prima interpretazione è confermata dalla consuetudine, la seconda non poggia su basi più solide del gusto personale: noi la immaginiamo immediatamente contraddetta da tutti gli autori e gli appassionati provenienti dal versante toscano dell’Appennino.
La IGP Vitellone bianco dell’Appennino centrale comprende varie razze bovine, e quindi vorremmo, per parte nostra,
evitare di dare sostegno a qualsiasi vertenza campanilistica. Tuttavia, le poche note contenute in Romagna gastronomica – guida alla veritiera cucina romagnola, a proposito della ottima qualità della carne bovina di razza romagnola, possono costituire una interessante citazione, a conferma dell’apprezzamento di cui gode una delle pregiate cinque razze bovine italiane.

Il bovino di razza Gentile Romagnola, una delle più pregiate d’Italia, fornisce ottime carni, specie se allevato nei pascoli collinari. Dal vitello al vitellone, al manzo, al bue, infiniti sono i prodotti che ne ricaviamo per le nostre tavole: arrosti, stufati, stracotti, bolliti, bistecche, braciole, frattaglie, ecc., per cui sarebbe necessario un lungo discorso.
Il nostro vitellone, trasportato in Toscana, fornisce le giustamente celebri fiorentine.(*)

(*) Corrado Contoli, Romagna gastronomica – guida alla veritiera cucina
romagnola, Bologna, Edizioni Calderini, 1963, pag. 51

Fonte: Ermes Agricoltura – Regione Emilia Romagna

Carne ovina di Laticauda

Territorio interessato alla produzione: Aree tipiche della pastorizia delle provincie di Benevento, Caserta, Avellino.

Descrizione sintetica del prodottoLa Laticauda è allevata in modo stanziale nelle aziende della media collina beneventana in 4 o 6 capi, più raramente in 10. Le aziende ovine si vanno organizzando in modo che il pascolamento avvenga nella stessa azienda, mediante il turnamento degli appezzamenti destinati al pascolo opportunamente recitanti. In questo contesto, la laticauda trova il suo habitat naturale per sviluppare la sua elevata mole che mal si presta al camminamento e dunque può vivere e rendere di è più rispetto ad altre razze. L’alimentazione nel periodo invernale è basato sul fieno di sulla, lupinella, erba medica mescolato a paglia di avena o di orzo. Questa alimentazione viene spesso integrata da beveroni preparati con crusca. Quando le condizioni atmosferiche lo consentono le pecore vengono fatte pascolare negli incolti produttivi, sugli erbai e prati dopo la falciatura e anche nei campi coltivati a frumento troppo rigogliosi. In primavera l’alimentazione viene basata sul pascolo. Di notte e nelle ore più calde della giornata le pecore vengono condotte nei ricoveri. Le nascite hanno inizio alla fine di ottobre e si prolungano per tutto il mese di gennaio.La produzione media giornaliera di latte oscilla dai 500 ad oltre 1500 grammi e con una resa alla caseificazione di circa il 40%.La resa al macello è molto alta ed i ridottissimi tassi di acido caprolico e caprilico contenuto nelle sue carni fanno di questo prodotto uno tra i più apprezzati sul mercato. Inoltre, il basso contenuto di colesterolo, conferisce alle carni un pregevole valore dietetico e commerciale.

Zuppa di soffritto

Territorio interessato alla produzione: Diffuso in tutta la regione.

Descrizione sintetica del prodottoPreparazione che usa gli scarti della lavorazione della carne suina ed ovicaprina, principalmente polmone, reni, cuore, milza, scarti carnei, cotenne, lardo, tagliati in dadi grossolani di 2 cm di lato, cotti con spezie ed aromi, fra i quali l’alloro, in una salsa densa a base di peperoncino semipiccante e sugna. Viene venduta ed utilizzata per condire la pasta (bucatini) con abbondante formaggio pecorino.

Pane cafone

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, lievito naturale, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: la farina, impastata nell’impastatrice con il lievito sciolto in acqua tiepida, viene fatta lievitare per almeno 5 ore. La durata della lievitazione dipende dalla temperatura dell’aria: più è caldo e prima lievita. Si formano dei pezzi, dal peso medio di circa 1 kg. ai quali viene data la forma rotonda, liscia senza segni di sorta. Si lascia completare la seconda alzata e si cuoce nel forno caldo.

Area di produzione: in tutta la Campania; si segnala quello fatto a Ischia Ponte.

Note: è la classica pagnotta napoletana, che si differenzia dalle altre similari del meridione per l’assenza di segnatura nella parte superiore (da E. Spera, “Il marchio da pane: l’oggetto, il gesto, il segno” da “Il pane”, a cura di Cristina Papa, Perugia. 1992). Un incremento di consumo di questa tipologia di pane, ad Ischia, si ha durante la festa di S. Anna, il 26 luglio, per la regata storica che si celebra da circa 70 anni. Un’altra occasione è la festa di S. Giovanni della Croce, la cui ricorrenza onomastica è il 5 marzo. (Ma la festa in suo onore, che dura 4 giorni, viene fatta sempre ad Ischia la prima domenica di settembre).

Scanata del Sannio

Zona di produzione
Provincia di Benevento
Descrizione
La scanata del Sannio presenta crosta croccante, spessa circa 5 mm, di colore bruno ambrato, con caratteristici segni dovuti al tipico processo di lievitazione in specifiche forme in vimini, da cui il nome “scanata” (tolta dal canestro). La mollica si presenta alveolata e soffice, con occhiatura omogenea e colore bianco perlaceo o giallino, se ottenuta da semola di grano duro. La forma è rotonda, con pezzatura da 0,5, 1, 1,5, 2, 3 Kg.
Preparazione
L’impasto si prepara unendo farina, acqua, sale e lievito naturale (preparato 12 ore prima) viene lasciato riposare in impastatrice per circa 1,5 ore. quindi si procede alla formatura utilizzando le apposite ceste (scanamento) cilindriche. Si ripongono le forme su tavole in legno coperte da teli in lino per 1,5 – 2 ore e si inforna a 180 – 200 °C.
Cenni storici e curiositàLa metodologia di produzione è ampiamente diffusa in tutte le aree rurali del Sannio; alcuni fanno risalire l’etimologia della parola scanata dal greco ìscanan = raffreddare; in realtà sembrerebbe più logica la derivazione della parola scanata dalla contrazione di scanestrare, quindi “estrarre dal canestro” dato che proprio questa fase viene definita dai panificatori come “scanare”.

Vanti

Territorio interessato alla produzione
Comune di San Salvatore Telesino (BN)
Descrizione
Frittelle con listarelle intrecciate tra loro che danno luogo ad una forma grossolanamente rotonda, di colore dorato, del peso di circa 10-20gr., di sapore sapido e speziato, friabili di consistenza. Ingredienti: farina di grano tenero, olio extravergine di oliva, uova freschissime, sale, un pizzico generoso di pepe, olio abbondante per la frittura. LavorazioneImpastare su una spianatoia in legno tutti gli ingredienti. Far riposare per circa mezz’ora. Stendere con il mattarello l’impasto in una sfoglia sottilissima, suddividerla quindi in tanti cerchi all’interno dei quali andranno effettuati con il taglia pasta alcuni tagli paralleli tra loro, sollevare con le dita ed in maniera alternata le striscioline così formatesi e rovesciarle velocemente. Far riscaldare in una pentola l’olio per la frittura. Quando la temperatura dell’olio sarà elevata, cominciare a tuffarvi i vanti, pochi alla volta, fin quando avranno preso un bel colore dorato. Lasciar scolare ed asciugare su della carta da cucina. Cenni storici e curiositàAncora oggi si preparano in occasione dei matrimoni, promesse di matrimonio ed altri eventi del genere. I “vanti” di San Salvatore Telesino hanno origine incerta ma sicuramente molto antica. Il loro nome deriva probabilmente dalla contaminazione del termine “guanto” a sua volta forse collegabile al metodo di preparazione. A differenza dei guanti dolci, diffusi in alcune zone della Campania, i nostri vanti sono salati così da risultare alimento più sostanzioso. Secondo le più antiche memorie tramandate nella nostra cultura contadina, in occasione delle feste nuziali i tavoli sull’aia erano imbanditi esclusivamente con vino, vanti e struppoli (l’altro prodotto tipico di San Salvatore Telesino). Al giorno d’oggi, anche per le migliorate condizioni di vita, i vanti vengono consumati frequentemente ed ogni occasione è buona per prepararne grandi quantità.

Struppolo

Territorio interessato alla produzione
Comune di San Salvatore Telesino (BN)
Descrizione
Di forma tondeggiante ed oblunga, di colore dorato ed aspetto tozzo, del peso di circa 40-50 gr. Abbastanza sapido, leggermente speziato, si percepiscono delicatamente i gusti delle uova e dell’olio extravergine di oliva con cui è stato preparato.
Ingredienti: farina di grano tenero, lievito, olio extravergine di oliva, uova freschissime, sale, un pizzico generoso di pepe, olio abbondante per la frittura. PreparazioneImpastare su una spianatoia in legno tutti gli ingredienti (aggiungere, per ultimo, il lievito stemperato in un po’ di acqua tiepida). Far lievitare in un posto caldo per circa un’ora l’impasto posto in un canestrino, ricoperto con un panno di lana. Rovesciare quindi sulla spianatoia l’impasto cresciuto e tagliare a tocchetti lunghi 8-9 cm., passarli con mano leggera sull’intreccio della canestrella di vimini, precedentemente adoperata, per dare agli struppoli il loro caratteristico aspetto “corrugato”. Far riposare per circa un quarto d’ora. Far riscaldare in una pentola (più alta che larga) l’olio per la frittura. Quando la temperatura dell’olio sarà elevata, cominciare a tuffarvi gli struppoli, pochi alla volta, fin quando avranno preso un bel colore dorato. Lasciar scolare ed asciugare su della carta da cucina. Nella versione senza lievito bisogna lavorare velocemente ed in punta di dita l’impasto, occorre sbattere energicamente le uova prima di aggiungerle agli altri ingredienti. Ovviamente non occorre attendere la lievitazione: si può friggere subito. La ricetta sembra facile; in realtà non lo è, perché, come diceva un grande esperto, Brillat-Savarin (e faceva l’esempio dell’uovo al tegamino) “le pietanze più semplici sono quelle più difficili da preparare”. Almeno la prima volta, occorre la guida di una sapiente massaia, disposta a rivelare insidie e segreti della ricetta.
Cenni storici e curiositàLa “memoria” della preparazione dello struppolo si perde nei più lontani ricordi della tradizione popolare e le modalità di confezionamento sono rimaste immutate nei secoli. Come tutti i miti popolari, lo Struppolo ha origini incerte e probabilmente collettive, non si sa. Di certo si sa che la ricetta è vecchia di secoli e che è nata a San Salvatore Telesino: già a pochi chilometri di distanza la ignorano e molti non hanno mai assaggiato uno struppolo. Da non confondere con gli “struffoli” napoletani (che sono dolci e ricoperti di miele), i nostri struppoli rientrano nella grande categoria dei “rustici”, sono cioè salati. Non è invece azzardato ipotizzare che gli struppoli di San Salvatore Telesino abbiano origini sannito-romane e rappresentino la versione salata dei crustuli (dolci calabresi dei quali condividono l’aspetto). Nel nostro Museo Civico Archeologico di Telesia è conservata un’epigrafe ritrovata durante gli scavi effettuati a San Salvatore Telesino sul sito dell’antica città di Telesia (prima importante centro sannita e poi fiorente città romana) che parla infatti di un ricco banchetto a base di mulsum e t crustulum offerto dal neoeletto seviro Manlio Rufio ai coloni telesini. Proprio perché elaborata all’interno di una piccola comunità contadina, la tradizione dello struppolo è stata tramandata attraverso il racconto e l’esempio dei più vecchi che, di generazione in generazione, hanno trasmesso l’arte della sua preparazione. Lo struppolo non rientrava nell’alimentazione quotidiana data la grande quantità di olio e uova necessari per la preparazione; infatti era destinato insieme ai “vanti” (altro prodotto tipico di San Salvatore Telesino) a banchetti di matrimoni e feste come simbolo di abbondanza e ricchezza.

‘Nfrennula

Zona di produzione: Sant’Agata de Goti, Durazzano, Dugenta, Limatola, tutti in provincia di Benevento
Descrizione del prodottoTarallo salato dalla caratteristica forma ad otto, di forma irregolare. Il colore è dorato con richiami bruni ed evidenza della lucentezza tipica dell’olio extravergine di oliva. il diametro è di circa 5 cm.
LavorazioneUna volta realizzato l’impasto di tutti gli ingredienti, vengono passati a cottura a 220 °C per circa 20-25 minuti in forno a legna o a vapore.
E’ un prodotto presente anche nell’offerta di forni tradizionali dell’area considerata.

Tarallo di San Lorenzello

Territorio interessato alla produzione
comune di San Lorenzello (BN)
Descrizione del prodotto
Tipica forma circolare, diametro 8-10 cm, spessore 1,5 cm, a superficie liscia continua o intrecciata, sezione cilindrica appiattita alla superficie di contatto con la piastra del forno, occhiatura non superiore al millimetro, non uniformemente distribuita; crosta liscia, lucida, di colore dorato, piu chiaro in corrispondenza della parte superiore convessa. peso medio: 20 gr per pezzo circa.
Lavorazione
impasto di farina bianca tipo 00, olio extravergine di oliva, lievito naturale (criscito), acqua, sale, finocchietto selvatico o altre spezie (pepe, peperoncino, rosmarino, piu recentemente sesamo ed altre). L’impasto dura circa 20 minuti, cui segue la fase di lievitazione per un’ora su un banco, quindi avviene la formatura, a mano; l’impasto lievitato viene pressato nelle sfgliatrici in pezzi di 7-8 Kg; quindi la sfoglia ottenuta (40 cm di larghezza per 1,5 cm di altezza) viene tagliata a strisce di 15 cm di lunghezzale strisce vengono ridotte ad uno spessore di 6-7 millimetri; vengono intrecciate a mano e chiuse ad anello su teglie di acciaio, che vengono immerse in acqua bollente, fino all’emersione dei taralli. Tolti dall’acqua vengono posti su teglie ed informati a 220 °C in forno ventilato per 37-38 minuti.
Cenni storici e curiosità
La tradizione dei taralli di san Lorenzello è fortemente radicata sul territorio ove operano almeno cinque forni artigianali specializzatiche esportano su tutto il territorio nazionale.

Ciaola

Territorio interessato alla produzione
comuni di Campolattaro e Morcone, comuni del Matese Beneventano (BN)
Descrizione sintetica prodotto
Rustico di piccole dimensioni (largo circa 5 – 6 cm ed alto 2 -3), ha forma rotonda o subrettangolare; si compone di una pasta sfoglia con un ripieno di formaggi vaccini stagionati ed uovo.
Lavorazione
La pasta si ottiene lavorando farina tipo 0, burro, uova e sale; si forma una sfoglia alta 0,5 cm; il ripieno si ottiene impastando formaggio vaccino stagionato grattugiato (grana, pecorino, caciocavallo) e uova intere. Sulla sfoglia si dispongono palline di ripieno, si taglia la sfoglia in quadrati e si ripiegano i quattro vertici al centro sul ripieno; si spennella la parte superiore con tuorlo sbattuto, e si incide la sfoglia per evitare eccessivi gonfiori. Nel periodo pasquale il ripieno si arricchisce di salsiccia stagionata a pezzetti.La cottura avviene su piastre e carta da forno, in formo elettrico a 180-190 °C.
Cenni storici e curiosità
Si riscontra nell’area considerata soprattutto nei panifici tradizionali; un tempo era una preparazione casalinga, da consumare nelle festività o nelle cerimonie nuziali.Si distingue dal ciaolone (da cui è derivato) per la diversa forma e grandezza, nonché per la tipologia della pasta, che per la presenza del burro tende a “sfogliare” nella ciaola rispetto al ciaolone, che è decisamente piu grande.

Ciaolone

Zona di produzione: Sannio
DescrizioneRustico composto da una sfoglia salata, all’interno della quale viene posto un impasto di formaggi morbidi diversi ed uova. La forma è semicircolare, l’odore è aromatico ed il gusto intenso e corposo. Dopo la cottura assume colore giallo paglierino ed arancio all’interno, per la presenza di formaggi ed uova; caratteristica è l’incisione della crosta superiore non fatta manualemnte ma provocata dal gonfiarsi dell’impasto.
LavorazioneLa sfoglia è realizzata partendo dall’impasto realizzato con farina tipo 00, acqua, sale e lievito madre. Gli ingredienti vengono impastati e quindi lascaiti riposare almeno 30 minuti. L’impasto viene steso con il matterello e quindi vengono ricavati dischi di 7-10 cm di diametro e 3 mm di spessore. l’impasto è composto da uova e formaggi dolci tritati; si pone un cucchiao di tale impasto al centro del cerchio di pasta, si chiude formando una mezzaluna. Si spennella con tuorlo d’uovo e si cuoce in forno per 20 minuti.
Cenni storici e curiositàE’ un prodotto soprattutto casalingo ma presente anche nell’offerta di forni tradizionali e di pasticcerie rosticcerie dell’area considerata.Si distingue dalla ciaola (che è un suo derivato) per la diversa forma e grandezza, nonché per la tipologia della pasta, che per la presenza del burro tende a “sfogliare” nella ciaola rispetto al ciaolone, che è decisamente piu grande.

Casatiello sugna e pepe

Territorio di produzioneRegione CampaniaDescrizioneSi tratta di un rustico a base di farina sugna uova, lievito, abbondante pecorino grattugiato e una piccola parte di parmigiano reggiano imbottito con salumi e pepe. I salumi sono, tradizionalmente, salame e cicoli, ma sono consentite diverse varianti, dalla mortadella tagliata a dadini al prosciutto cotto. L’impasto viene lavorato a mano e fatto lievitare per circa 10 ore, per poi essere cotto in forno, preferibilmente a legna. La forma è rotonda e la ricetta originale prevede che si incastrino delle uova sode intere nella pasta, sulla superficie. Il casatiello viene preparato in tutte le case partenopee durante il periodo pasquale, ma si può anche acquistare nei panifici locali.Cenni storici e curiositàIl termine “casatiello” deriva, probabilmente, dalla deformazione dialettale della parola “cacio”, formaggio; è il formaggio grattugiato, infatti, uno dei principali ingredienti del suo impasto. è il cibo pasquale per eccellenza, immancabile nel cestino del pic-nic della gita del lunedì di pasquetta

Puccellato salato

Territorio interessato alla produzione: Prodotto tipico originario ed esclusivo di Fragneto ‘l’Abate (BN).

Descrizione sintetica del prodottoTipico prodotto da forno originario ed esclusivo di Fragneto l’Abate che viene prodotto durante il periodo pasquale, a base di uova, farina, sugna, sale ed altri condimenti. Le origini, come quelle dell’omonimo dolce sono sicuramente antichissime tanto da perdersi nella memoria della gente anziana del luogo. Certamente era prodotto già dagli ultimi anni del 1800.

Cenni storici e curiositàTestimonianze orali e scritte sulla tradizionalità del prodotto lo fanno risalire, nella forma attuale, almeno agli inizi del secolo XX.

Raviolo di ricotta di pecora

Nome geografico abbinato:

Sinonimi: ravaiuoli, ravioloni di magro

Regione: Campania

Provincia/e: TUTTE

Territorio interessato alla produzione: tutta la regione

Descrizione sintetica prodotto: pasta alimentare ripiena, costituita da una sfoglia all’uovo con ripieno a base di ricotta, erbe selvatiche o spinaci, pecorino, aromi, a forma di mezzaluna o rotonda, di diametro di 3 – 5 cm.

Produzione in atto: attivo

Descrizione delle metodiche di lavorazione: L’impasto, a base di farina di grano tenero 00, acqua, uova, sale marino, viene steso a modo di sfoglia; il ripieno è un impasto di ricotta con pecorino grattugiato, erbe ed aromi. Vengono lessati e conditi con ragu di pomodoro, di castrato o di agnello.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione: laboratori artigianali, attrezzature ed utensili di cucina, impastatrici.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: Il prodotto è ampiamente conosciuto ed è sicuramente trasformato da almeno 25 anni, come accertato da ampia documentazione in ricettari di tutta la regione.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni: si

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Carrati

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Pietraroja e Cerreto Sannita, in provincia di Benevento
Descrizione sintetica prodotto:
Pasta fresca di grano duro realizzata con rettangoli di pasta arrotolati su un ferretto, di lunghezza variabile.
Metodiche di lavorazione
Gli ingredienti sono farina di semola di grano duro, sale q.b., acqua; si lavorano insieme realizzando la cosiddetta “laina” o sfoglia dello spessore di 2-3 mm, da cui si ricavano dei rettangoli larghi 3 cm circa e di lunghezza variabile, che vengono arrotolati (trainati o “carriati”, da cui il nome con un veloce gesto delle dita utnite attorno ad un ferro di diametro pari a 1-2 mm; il movimento è caratteristico (avanti-indietro) poi si sfila il carrato. Il ferretto è patrimonio di ogni famiglia e fa parte del corredo delle spose. All’impasto possono essere aggiunte semola e/o uova; vengono conditi con ragù di pecor o gallina, ragù di carciofi ripieni (ripieno a base di pane, formaggio, prosciutto, uova, aglio e prezzemolo) soffritti e messi a bollire in salsa di pomodoro; ragù di pomodoro con pecorino stagionato e noci. Cenni storici e curiositàI carrati rappresentano, soprattutto nella tradizione pietrarojana, un cibo rituale, connesso alla stagione di semina del grano: la lunghezza del carrato, dovuta all’abilità della massaia, era direttamente proporizonale alla lunghezza delle future spighe. Nei campi i carrati venivano offerti ai mietitori conditi con aceto ed alio, o nei giorni di magro, con ricotta e noci, in bianco.

Cappella (Senatore Cappelli), Saragolla, Marzellina

Territorio di produzioneCappella, Saragolla e Marzellina sono varietà di frumento duro comuni alle aree cerealicole dell’Irpinia e del Sannio. Descrizione del prodottoCappella, il cui vero nome è “Senatore Cappelli”, è una varietà costituita in onore del senatore abruzzese Raffaele Cappelli, promotore nei primi del ‘900 della riforma agraria ed è caratterizzata da una spiga molto alta, fino ad un metro e ottanta, con ariste nere ben evidenti. E’ un cereale utilizzato soprattutto per la produzione della pasta, ma si presta anche alla produzione di pane. La saragolla è una delle più antiche varietà di frumento duro coltivate in Irpinia; la sua semina è autunnale e la raccolta primaverile-estiva. E’ costituita da un culmo alto e da una spiga lunga e aristata e risulta ottima per la panificazione; in passato veniva utilizzata per la produzione del pane di Montecalvo Irpino. La marzellina è una varietà di frumento duro dal culmo alto poco più di un metro, a semina tardiva, avviene, infatti, intorno a gennaio-marzo, e a raccolta nel mese di luglio-agosto. La marzellina è utilizzata soprattutto per la produzione di pasta.

Farro dicocco del Sannio, pane e pasta di farro

Territorio interessato alla produzioneUfita, Fortore, e aree cerealicole della Campania interna (AV e BN)
DescrizioneNell’area considerata vengono coltivate due specie: Triticum monococcum e Triticum dicoccum e identificate con nomi diversi, rispettivamente “Speuta italiana” e “Speuta francese” dove “Speuta” è una forma dialettale della parola “spelta”.
IL Farro dicocco (Triticum dicoccum) è un frumento vestito; è la specie progenitrice dell’attuale frumento duro, dal quale, tuttavia, si differenzia in modo evidente per caratteristiche morfologiche, agronomiche ed organolettiche. Una delle differenze più spiccate rispetto al frumento duro riguarda il glutine. Nel farro, infatti, il contenuto di glutine (che pur sempre presente e quindi non adatto a chi soffre di celiachia), non solo è minore, ma l’aspetto più interessante è legato alla qualità di questo, che risulta più “soft” e quindi meglio digeribile.La pianta è adattabile a condizioni ambientali difficili, ed è la specie tipica delle aree tradizionali di coltivazione del farro dell’Italia centro meridionale.
Caratteristiche biometriche: taglia media, culmo sottile, spiga modeste dimensioni e aristata, glume color variabile, cariosside a frattura tendenzialmente vitrea, semina autunnale.Caratteristiche organolettiche: si caratterizza per la particolare aroma che trasferisce anche alla pasta. Il chicco e molto resistente alla cottura e presenta una notevole elasticità alla cottura. Conserva un sapore forte, indelebile che neppure una cottura prolungata riesce a scalfire. Il chicco, dopo la cottura, rimane croccantino e particolarmente gustoso, in quanto libera l’aroma che ne caratterizza la specie.
Il farro dicocco si differenzia dai frumenti tenero e duro per alcune peculiari caratteristiche legate al maggior contenuto in sali minerali, ricco di vitamine e proteine funzionali, alla ricchezza in beta-glucani (gomme naturali con preziosa funzione di protezione dell’apparato digerente e di agevolazione della digestione). Il farro dicocco inoltre ha un basso indice glicemico (dovuto alla lenta trasformazione degli amidi durante la digestione che evita un alto picco glicemico, favorendo un miglior apporto energetico) e per questo particolarmente adatto a chi pratica attività sportive ed agonistiche, ma anche per chi svolge lavori sedentari.
Il prodotto, dopo la sbramatura può essere avviato al mulino per ottenere semola da avviare alla pastificazione. In alternativa, il mulino, possibilmente a “pietra”, può ottenere farina da utilizzare nel panificio per preparare il Pane di Farro, come da antica tradizione fiorente nell’antica Roma.
Pasta di farro
Pasta integrale: Il contenuto proteico della Pasta di farro rispetto alle altre paste è maggiore. valori nutritivi: kilocalorie 347 – kilojoule 1.470; proteine 13,4 g; carboidrati 65.10 g; grassi 3,5 g; fibre 6,5 gr. E’ ricca di vitamine e di sali minerali e povera di grassi. La pasta si ottiene miscelando semola di farro con acqua purissima. La lavorazione artigianale prevede il passaggio dell’impasto nella trafila tradizionale in bronzo che la rende ruvida e porosa, capace di assorbire il condimento; successivamente, la pasta viene essiccata naturalmente (richiede tempi lunghi: 24-48 ore). Questo processo conferisce al prodotto un aroma ed un sapore particolare.
Pane di farro
Viene tipicamente cotto nel forno a legna, prodotto con farina integrale, acqua e lieviti (madre o lievito di birra).
Metodiche di lavorazionePratiche colturali tipiche di tutti i cereali autunno-vernini; l’essiccazione viene effettuata al sole; segue la sbramatura, al fine di eliminare le glumelle e le ariste che ricoprono il chicco. Nella precitata operazione, oltre a “svestire” il chicco, si provvede a ripulirlo di eventuali impurità organiche (residui di culmi della stessa specie o di altre specie presenti) e non organiche – recuperate dalla mietitrebbia nella fase di raccolta (pietrisco, zollette di terra et similia) e di semi di infestanti. La conservazione avviene in locali adeguati da un punto di vista igienico-sanitario, asciutti e con temperatura costante. Successivamente, si provvede a confezionare il prodotto in pacchetti di peso variabile: da 250 gr. A 3 kg cadauno. La lavorazione artigianale della pasta di farro prevede l’impasto, secondo la consuetudine artigianale dell’area, il passaggio dell’impasto nella trafila tradizionale in bronzo che la rende ruvida e porosa, capace di assorbire il condimento; successivamente, la pasta viene essiccata naturalmente (richiede tempi lunghi: 24-48 ore). Questo processo conferisce al prodotto un aroma ed un sapore particolare. La lavorazione artigianale del pane di farro prevede di amalgamare farina, acqua e lieviti siano ad ottenere un impasto abbastanza elastico. L’impasto, secondo la consuetudine artigianale dell’area, viene lasciato lievitare secondo le caratteristiche che si sceglie di trasferire alla tipologia di pane che si vorrà ottenere. Dopo i tempi prescelti per la “crescita” dell’impasto, si provvede a riporre in apposite casseruole, secondo tradizione locale, la parte di impasto che si vorrà avviare al forno. Quest’ultimo rigorosamente caldissimo e ben pulito, preparato con legna molto secca di quercia. La cottura è anch’essa figlia dell’esperienza e della tipologia di pane che si vorrà ottenere. I locali delle operazioni sequenziali sopra riportate sono adeguatamente aerati e non inquinati da agenti biotici e/o abiotici. La conservazione avviene in ambiente con un’umidità piuttosto bassa.
Cenni storici e curiositàLa diffusione del Farro (dalla cui radice linguistica deriva la parola “farina”) è stata opera delle popolazioni italiche già in epoca neolitica (7200 AC) in Puglia e Basilicata, aree notoriamente interessate dalla colonizzazione greca. In seguito le precitate specie si diffusero anche nelle regioni settentrionali (6.500 a.C.) insieme ad orzo ed ai frumenti nudi. Orzo e farro rimasero per tutto il periodo di affermazione della lavorazione dei metalli (Età del Ferro e del Bronzo) i cereali più diffusi, in particolare nelle specie dello spelta e del farro grande. Dalle fonti storiche, secondo quanto riporta Plinio il Vecchio (Naturalis historia, libro XVIII,cap.7), al tempo del re Numa Pompilio venne formalizzato il rito religioso che precedeva le pratiche agricole dell’aratura e della mietitura. La focaccia di farro era utilizzata come suggello religioso nelle antiche cerimonie nuziali (confarreatio), durante le quali, alla presenza del Pontefice Massimo, la coppia, consacrata in famiglia, mangiava l’alimento prescritto (panis farreus), simbolo della loro unione: un’usanza ancora riscontrabile nelle cerimonie di alcuni popoli (rito ortodosso ed ebraico). Il farro costituì, infine, la base dell’alimentazione del legionario: in luogo del pane, che creava all’esercito problemi di conservazione ed ingombro, si preferiva assegnare al soldato un quantitativo di frumento (Catone dice 4 modi, all’incirca 5.500 grammi ciascuno) che, arrostito e macinato tra due pietre, costituiva la base dell’antica pulsche che ogni milite provvedeva a prepararsi da sé. Ancora nel IV secolo d.C. l’imperatore Giuliano l’Apostata dava l’esempio alle truppe cibandosi esclusivamente di pulmentum. “Pultenon pane vixisse longo tempore Romanos”, scrive Plinio il Vecchio a proposito dell’alimentazione nei primi secoli della civiltà romana, che aveva appreso dalla Magna Grecia i sistemi più avanzati nel campo delle coltivazioni dei cereali. Ovidio chiamava il farro “Tuscam semen”, mentre presso i greci esso era stato denominato “zea”. Cercando tale termine tra gli autori della letteratura italiana, autori come De’ Crescenzi, Burchiello, Pascoli, D’Annunzio e Monelli riportano come unico termine quello di “farro”. La storia del pane di farro è antica quasi quanto la storia dell’uomo. I Romani conobbero il pane dopo il 168 a.C., anno in cui impararono le tecniche della panificazione da alcuni schiavi macedoni. Plinio ci racconta che prima i latini erano soliti consumare focacce non lievitate e polta, una densa zuppa preparata con grani di cereali schiacciati e bolliti nell’acqua. Numerose sono le testimonianze archeologiche e artistiche che raccontano la presenza del pane nella società della Roma antica: dall’affresco della Casa del fornaio e dalle forme di pane fossilizzate di Pompei al sepolcro di Marco Virgilio Eurisace a Porta Maggiore a Roma, fino ai rilievi e ai mosaici che illustrano il lavoro quotidiano del fornaio. In molti casi le forme di pane raffigurate corrispondono alla tipologia del pane “quadratus”: una pagnotta divisa in otto spicchi da quattro tagli. Questo stesso tipo di pane compare anche in contesti paleocristiani dove i tagli sono due o tre, per ottenere pagnotte segnate con l’immagine della croce o il simbolo semplificato od occultato del monogramma di Cristo. Il nome “quadratus” deriva dall’incisione a croce che favoriva la divisione in quattro parti, “quadrae” parti angolari che compongono un angolo a giro. Il farro come specie era diffuso dalle legioni romane, in particolare lungo l’antica via Appia e nei territori sanniti dopo la conquista romana.

Grano romanella

Territorio interessato alla produzione
Ufita, Fortore, e aree cerealicole della Campania interna (AV e BN)
Descrizione sintetica prodotto
Varietà di grano tenero (triticum sativum.a. aestivum) caratterizzata da chicchi di colore rossastro, spiga chiara, piccola, a sezione rettangolare-ellittica, con reste corte, chicco rugoso. Pianta di dimensioni non elevate, con accestimento limitato.
Coltivazione
Pratiche colturali tipiche di tutti i cereali autunno-vernini.
Cenni storici e curiosità
Una delle pochissime varietà di grano tenero tradizionali dell’area appenninica meridionale, probabilmente di epoca romana e originariamente coltivato in Terra di Lavoro (piano campano fra il Garigliano ed i Campi Flegrei) usato per la produzione di farine atte alla panificazione; in fase di recupero da parte di diversi cerealicoltori dell’area di elezione.

Granoturco della quarantina

Sinonimi e/o termini dialettali
Grauligno nostrale, quarantina spiga gialla
Territorio interessato alla produzione
Aree del Titerno e del Fortore (BN)
Descrizione sintetica prodotto
Ecotipo locale con pannocchia di dimensioni medio piccole, raccoricate; cariossidi di colore tendente all’aranciato, di dimensioni medio-piccole, di forma ed andamento sul tutolo irregolare. pianta di dimensioni medie, con altezza dai 150/170 cm e con produzione di massimo due pannocchie a culmo. Se ne ricava una farina con forte componente vitrea, utilizzata per produrre soprattutto polenta che può essere servita calda e accompagnata con pomodoro, carni, pancetta, formaggio a seconda della stagione e può essere anche mangiata rafferma. Le cariossidi tipicamente sono macinate a pietra e setacciata con panni di seta.
Coltivazione
Viene coltivato in asciutta con semina a maggio, in consociazione con i legumi locali, distanza tra i semi di circa 20/25 cm sulla fila e distanze variabili fra le file; la raccolta avviene ad agosto; non necessita di irrigazione in quanto resistente alla siccità; la raccolta viene fatta a mano, in concomitanza con quella dei baccelli di fagiolo, la maturazione è scalare. l’essiccazione avviene su teli di canapa o tela, le pannocchie vengono conservate sospese e legate fra loro per le bratteee essiccate.
Cenni storici e curiosità
Viene utilizzato per l’alimentazione umana e mai per l’alimentazione animale per la produzione di polenta anche nella tradizionale forma del “frattaccio”. Le regole di coltivazione rispecchiano la tradizione colturale dell’area, estensiva e legata al consumo familiare e locale..

Speuta

Nome geografico abbinato:

Sinonimi e/o termini dialettali: SPEUTA – SPEUTONE

Regione: CAMPANIA

Provincia/e: AVELLINO/BENEVENTO

Territorio interessato alla produzione: COMUNI DI : CASALBORE – MONTECALVO IRPINO – GINESTRA DEGLI SCHIAVONI

Descrizione sintetica prodotto: SPECIE GRAMINACEA COSTITUITA DA CULMO ALTO 100 CM CIRCA; SPIGA DI CIRCA 8-10 CM LEGGERMENTE ARCUATA A MATURITA’; OGNI SPIGA PRESENTA INTORNO ALLE 15 CARIOSSIDI CHE PRESENTANO FRATTURA VITREA O FARINOSA.

Produzione in atto: a rischio

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura: TIPICHE DEI CEREALI AUTUNNO – VERNINI

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione: MATERIALI, ATTREZZATURE E LOCALI TIPICI DELLA CEREALICOLTURA

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: CEREALE UTILIZZATO DA SECOLI NELLA MEDICINA TRADIZIONALE SIA PER L’UOMO CHE PER GLI ANIMALI ALLEVATI IN AZIENDA (BOVINI, OVINI):
UOMO: COME DECOTTO DI CARIOSSIDI INTERE PER PROBLEMI GASTROENTERICI; COME ALIMENTO USATO DOPO SFARINATURA PER LA REALIZZAZIONE DI PANE (A LIEVITAZIONE CONTENUTA) O DI PASTA FRESCA PER USO TERAPEUTICO.
ANIMALI: IN GENERE PER MAMMIFERI (BOVINI E OVINI) COME ALIMENTO TAL QUALE O COME DECOTTO DELLE CARIOSSIDI INTERE PER PROBLEMI GASTROENTERICI.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni: SI

Testimonianze certificate: TESTIMONIANZA DELLE AZIENDE AGRICOLE DELLA ZONA – VEDI ALLEGATO.

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Grano arso

Territorio interessato alla produzione
Aree appenniniche campane.
Descrizione sintetica prodotto
Semola integrale ottenuta da cariossidi di grano duro, di varietà diverse, tostate fino a diventare di color tabacco; il colore dello sfarinato è grigiastro, a grana grossa, viene utilizzato per la produzione di pasta fatta in casa (fusilli, lagane) e nella panificazione, in percentuali variabili con altre farine e semole.
Metodiche di lavorazione
Il grano arso veniva ottenuto dalla molitura grossolana delle spighe sfuggite alla mietitura e quindi raccolte successivamente alla bruciatura delle stoppie (la cosiddetta spigolatura). La semola integrale che se ne otteneva era destinata all’autoconsumo delle famiglie piu povere di contadini e braccianti. Attualmente la tostatura è controllata ed avviene su superfici roventi, senza esposizione diretta alla fiamma in modo da evitare bruciature; il prodotto che se ne ottiene è tipicamente caratterizzato da un lieve gusto di affumicato, che conferisce alla pasta (tipicamente fusilli e lagane) un gusto particolare e molto ricercato; recuperato soprattutto dalla ristorazione tipica locale.
Cenni storici e curiosità
Prodotto storicamente povero, tipico delle aree cerealicole del sud italia (irpinia, fortore, foggiano), legato alla pratica della spigolatura praticata dalle donne nei grandi latifondi coltivati a grano, nelle aree interne subappenniniche di Campania e Puglia.

Peperone papaccella, Papaccelle riccie

Territorio di produzioneLe papaccelle, chiamate anche “paprecchie” o “pupaccelle” sono piccoli peperoni di forma globosa coltivati in tutta la Campania. Descrizione del prodottoTondi, di un intenso colore rosso o verde, schiacciati ai poli ed estremamente costoluti, con una polpa dalla consistenza piena e croccante e un sapore molto aromatico e caratteristico. Cenni storici e curiositàAlcuni ecotipi sono più o meno piccanti, e vengono per lo più utilizzati per essere conservati sotto aceto. In ogni zona, però, esistono varianti culinarie per la preparazione delle papaccelle: condite con il sugo di pomodoro o farcite e servite come contorno, utilizzate fresche o conservate, sono, insomma, ingrediente molto caratteristico di numerose ricette tipiche.

Peperone quarantino di San Salvatore

Territorio interessato alla produzione
San Salvatore Telesino (BN)
Descrizione sintetica prodotto
Peperone di dimensioni medie, sapore dolce, usato soprattutto per peperoni ripieni, di forma grossolanamente conica , dimensioni solitamente non superiori ai 10 cm di lunghezza, con base di 3-4 cm al picciolo. ha polpa piuttosto sottile, di colore rosso a piena maturazione, emana intenso profumo durante la cottura e conserva un sapore deciso e caratteristico, che trasmette al ripieno.
Coltivazione
Normali tecniche di produzione: trapianto, sarchiatura, concimazioni, ecc.i semi vengono posti a germinare normalmente in semenzaio tra febbraio e marzo, le piantine vengono trapiantate in aprile maggio e fruttificano circa 40 giorni dopo (da cui il nome) se le condizioni atmosferiche sono favorevoli.
Cenni storici e curiosità
Prodotto di antica tradizione, usato nella Valle Telesina per la preparazione del peperone ripieno, tradizionale piatto parte degli antipasti dei pranzi da cerimonia di tipo tradizionale.

Pomodoro guardiolo

Territorio interessato alla produzione
Guardia Sanframondi e comuni della valle telesina (BN).
Descrizione sintetica prodotto
Forma della bacca ovale oblunga, larghezza 3-4 cm, lunghezza 6-7 cm, buccia liscia con accenno di costolatura (quattro loggie) all’apice, assenza di umbone, colore rosso intenso, polpa dolce, succo acidulo e ricco di semi, buccia sottilissima. per uso allo stato fresco in cucina e nella preparazione delle conserve sempre associato al tipo lungo (San marzano) cui conferisce una caratteristica nota acidula.
Coltivazione
Maturazione fortemente scalare, come la fioritura, con grappoli di 5-6 bacche a diverso grado di maturazione anche nello stesso grappolo; la maturazione avviene da luglio fino a tutto ottobre; la pianta è vigorosa e richiede tutoraggio, arrivando ad altezza di 1,20 mt, pianta a sviluppo indeterminato.
Cenni storici e curiosità
Il pomodoro guardiolo è riconosciuto nell’area di coltivazione per i suoi pregi, ed è destinato all’uso locale previa cottura (non viene consumato in insalata) sia per sughi freschi che per le passate di pomodoro o per la conserva.

Pomodoro sarvatico

Territorio interessato alla produzioneComuni di Telese, Amorosi, Dugenta, Solopaca, (BN); Limatola, Castel Campagnano (CE)
Descrizioneil “Pomodoro sarvatico” è caratterizzato da bacche di piccolissime dimensioni (inferiori al centimetro di diametro), a maturazione scalare, di forma rotondeggiante, riuniti a grappoli di dieci – dodici bacche; la pianta è molto vigorosa, con foglie profondamente incise, molto resistente alle principali fitopatie e parassiti. I frutti vengono utilizzati freschi, per sughi o per ornare insalate ed altre preparazioni.
Metodiche di lavorazioneLa pianta è estremamente rustica e resistente alle avversità; viene riprodotta per seme, ottenuto da bacche dell’anno precedente, direttamente posti negli orti familiari della zona. La forma di allevamento è quella in verticale con tutori idonei e fili orizzontali, oppure viene lasciata svilupparsi al suolo. La raccolta dei frutti è scalare e si protrae per lungo tempo, dall’inizio di agosto fino a quando le condizioni metereologiche permettono lo sviluppo delle bacche. Il sapore è dolce e caratteristico; la resa in polpa è bassa er la presenza di numerosi semi. Non è oggetto di trasformazione ed il suo uso è limitato all’autoconsumo.
Cenni storici e curiositàE’ oggi limitato agli orti familiari dell’areale; potrebbe essere utilizzato soprattutto nella ristorazione per la presentazione di piatti ed insalate.

Patata ricciona o riccia di Napoli

Territorio di produzioneIl territorio interessato è quello dell’intera regione, in particolare l’agro Acerrano-nolano, l’agro Nocerino-sarnese, l’agro Aversano, la Piana del Sele, i Monti Lattari e le aree interne.
Descrizione del prodotto: pianta a portamento alto, con corolla del fiore media, ed epoca di maturazione molto tardiva, il tubero è di forma arrotondata di colore beige chiaro con polpa color crema, il colore alla base degli occhi ( numerosi) è di colore giallo.
ColtivazioneL’epoca di impianto non è molto precoce (fine febbraio-inizi di marzo), l’ investimento non è superiore a 5-5,5 tuberi/m2 (ottenuto disponendo tuberi-seme interi distanziati di almeno 25 cm su file semplici a 75 cm).
Si tratta di una patata molto diffusa in passato, oggi in declino per la presenza di numerosi “occhi”.

Patata sotterrata di Calvaruso

Territorio interessato alla produzione
Cusano Mutri, loc. Calvaruso e Selvapiana; altre aree montane del Matese (BN)
Descrizione sintetica prodotto:
La denominazione è riferibile a vari tipi di patata, di norma a buccia rossa, in passato anche nera, che veniva (ed in alcuni sporadici casi avviene tuttora) interrata dopo la raccolta in buche profonde foderate di foglie di felce femmina. Durante la permanenza nelle buche per diversi mesi avviene una parziale idrolizzazione degli amidi del tubero, che dà un sapore caratteristico, con note dolciastre, trasmesso a preparati quali il cosiddetto “gattò” di patate, ai “crocché” e ad altre preparazioni tradizionali.
Coltivazione
Le buche, di profondità di 2 mt circa, vengono foderate di foglie di felce femmina (Athyrium filix-femina) ampiamente diffusa nei boschi circostanti. La buca viene riempita con le patate scelte per il consumo, prive di marciumi e di difetti evidenti, e quindi coperta con un alto strato di felci, quindi con terreno di bosco sul quale veniva un pempo seminata la “Secena” (segale). Ovviamente la posizione della buca deve assicurare il migliore sgrondo dell’acqua piovana ed evitare ristagni idrici ed infiltrazioni d’acqua nella massa sotterrata. Le patate così conservate vengono dissotterrate nei mesi invernali e primaverili, secondo le necessità della famiglia contadina, e utilizzate principalmente per l’autoconsumo.
Cenni storici e curiosità
Modalità di conservazione delle patate di tipo arcaico, fortemente consolidato nel tempo ed ora pressoché scomparso; interessante per ia della caratteristiche organolettiche assunte dalle patate conservate in questo modo.

Cavolo da minestra

Sinonimi e/o termini dialettali
Vruoccolo d”a Santella
Territorio interessato alla produzione
Area del Titerno, comuni di Cerreto Sannita, Cusano Mutri, Pietraroja (BN)
Descrizione sintetica prodotto
Cavolo (Brassica oleracea L.) simile al cavolo cappuccio ma con disposizione delle foglie aperte, di cui si utilizzano appunto le foglie, caratterizzate dall’assenza di cuticola cerosa.
Coltivazione
La coltivazione avviene in modo tipo tradizionale, con semina in semenzaio, a spaglio, con seme autoprodotto, in aprile, appena le condizioni climatiche lo consentono. La raccolta delle foglie è scalare, secondo le necessità, e la produzione si protrae fino ai freddi autunnali ed oltre.
Cenni storici e curiosità
Le foglie, raccolte scalarmente, sono prive di cuticola cerosa evidente il che le rende adatte al consumo umano, sia come ingrediente fondamentale di minestre, sia come mezzo estemporaneo di cottura (ad esempio, del parrozzo o anche delle salsiccie sotto la cenere). Diffusa nell’orticoltura di montagna, per la resistenza a gelate tardive ed al clima rigido.

Broccolo friariello di Napoli, Friarielli

Territorio interessato alla produzioneIntera Regione CampaniaDescrizione del prodottoI broccoli di rapa o cime di rapa coltivati in Campania sono detti “friarielli”, perché fritti in padella, con aglio olio e peperoncino, grazie al loro caratteristico sapore amarognolo e all’inconfondibile profumo che sprigionano, rappresentano il contorno immancabile per molti piatti invernali, come le salsicce, la carne di maiale o la provola, fresca o alla brace. Sono coltivati tutto l’anno ed in tutta regione, anche se quelli migliori si trovano in commercio dal tardo autunno al principio della primavera; dei friarielli si consumano le foglie più tenere, che, negli ultimi anni, vengono usate anche come ingrediente per nuove ricette, come pizze rustiche o particolari sughi per la pasta.

Cardillo

Territorio interessato alla produzione:
aree interessate alla coltivazione della vite e dell’olivo delle provincie di Avellino, Benevento e Caserta
Descrizione sintetica prodotto:
Il Cardillo è un’erba spontanea, vivace, corrispondente alle specie del genere Sonchus asper (nel Sannio) o oleraceus (Irpinia); vengono anche consumate le specie tenerrimus, maritimus ed arvensis. Si sviluppa su terreni lavorati con una rosetta di foglie lanceolate, con spine ai margini, con fittone sviluppato. si consumano le foglie giovani.
Coltivazione
Cresce spontaneo nei terreni coltivati e lavorati, dove viene attivamente ricercato e raccolto in primavera, prima dello sviluppo dello scapo fiorale, per essere utilizzato cotto, anche assieme a fagioli e crostini di pane raffermo.Viene tagliata la rosetta all’altezza del colletto; è pianta vivace che ricaccia più volte prima di sviluppare lo scapo fiorale.
Cenni storici e curiosità
Viene utilizzato per zuppe e minestre (pane cotto), con legumi e patate, prima lessato e poi soffritto con aglio e peperoncino piccante, oppure nella minestra maritata con altre verdure spontanee (borragine, scarole, torzelle) anche per condire pasta fatta in casa (cicatielli o fusilli).

Carciofo di Pietrelcina

Nome geografico abbinato: Pietrelcina

Sinonimi e/o termini dialettali:

Regione: Campania

Provincia/e: Benevento

Territorio interessato alla produzione: Intero comune di Pitrelcina e comuni limitrofi.

Descrizione sintetica prodotto: Il carciofo è una pianta appartenente alla famiglia delle Compositae. Le infiorescenze immature e soprattutto quelle apicali sono grosse globose. Le brattee sono tutte molto tenere alla base e di un colore verde chiaro che, nella parte superiore del capolino, sfuma in una tinta tra il violetto ed il rosa. Il ricettacolo fiorale è ben sviluppato, carnoso, compatto e di estrema morbidezza. Il sapore è delicato.

Produzione in atto:

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura: L’epoca di raccolta del capolino centrale e quelli della prima corona dovrebbe coincidere con la prima metà del mese di maggio. La coltivazione è ancora legata strettamente al lavoro umano non solo durante la fase di raccolta, ma anche per il diserbo, il taglio estivo degli steli, nonché per scarducciatura, operata prevalentemente nell’autunno inoltrato. Quest’ultima operazione è ripetuta durante la primavera, quando i giovani cardi, appena estirpati vengono deposti sulle infiorescenze immature per preservarle dai raggi del sole che ne altererebbero il colore e ne comprometterebbero l’eccezionale morbidezza.
Per le concimazioni del terreno si fa ancora ricorso ad abbondanti letamazioni, mentre solo di recente comincia a farsi spazio l’uso di composti ternari a base di azoto, fosforo e potassio.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione:

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: Introdotto nella cittadina di Pietrelcina intorno al 1840, ad opera, sembra, di un Prefetto di Bari, certo ing. Cardone, il carciofo è stato sempre coltivato in appezzamenti non molto ampi, dove le peculiarità pedo- climatiche influenzano lo sviluppo della pianta.
Molto apprezzati e richiesti sui mercati icarciofi di Pietrelcina, secondo una vecchia usanza, si confezionano a mazzi: ogni mazzo è composto da quattro “mammarelle”, cioè i capolini centrali; detti anche cimarole, legate con dei giunchi. Questi , in dialetto vinchi, ancora oggi si raccolgono, come una volta, lungo le sponde del vicino fiume Tammaro. L’operazione di legatura è detta ammazzamento.
Consapevoli dell’importanza di questa coltura i pietrelcinesi ne promuovono la diffusione attraverso una sagra che si tiene annualmente a maggio.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni:

Riferimento bibliografico: “Prodotti agroalimentari tipici della Campania” – Università degli Studi di Napoli

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Cardone

Nome geografico abbinato:

Sinonimi e/o termini dialettali:

Regione: Campania

Provincia/e: Caserta, Benevento, Avellino, Salerno.

Territorio interessato alla produzione: L’area tipica di produzione è circoscritta ala provincia di Benevento; allo stato selvatico è presente in tutte le aree interne.

Descrizione sintetica prodotto: Pianta simile a quella del carciofo, ma con costoloni delle foglie più grosse e più tenere. Dal sapore molto delicato.

Produzione in atto:

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura: Si pianta a febbraio; in autunno si interra e la raccolta avviene a dicembre ed oltre.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione:

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: La coltivazione del cardone è diffusa da tempo nella zona.
Inoltre, la tradizione vuole che questo prodotto sia utilizzato soprattutto per la preparazione di una zuppa con polpettine di carne, uova, pinoli. Piatto che nella tradizione delle famiglie beneventane si usa non far mancare la vigilia di Natale.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni:

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Cicoria selvatica

Nome geografico abbinato:

Sinonimi e/o termini dialettali:

Regione: Campania

Provincia/e: TUTTE

Territorio interessato alla produzione: TUTTA LA REGIONE

Descrizione sintetica prodotto: È una pianta spontanea, rinvenibile soprattutto nei pascoli abbandionati e lungo le strade, dalle foglie allungate, a margine seghettato, di colore verde brillante, tenere, croccanti e dal sapore molto pronunciato, amaro.

Produzione in atto:

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura: Normalmente non viene coltivata, ma raccolta allo stato spontaneo, dove si trova comunemente.
Viene utilizzata cruda, in insalata, o più spesso cotta, bollita; ha salutari effetti essendo rinfrescante e depurativa; si raccoglie in dicembre, comunque prima che si formi lo scapo fiorale, epoca in cui (primavera) le foglie perdono le loro caratteristiche.
Sono uno dei componenti della “minestra maritata”.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione: Per la lavorazione della cicoria selvatica non vi sono esigenze di locali o attrezzature particolari.

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: La presenza di questa verdura nella cucina campana è evidentemente molto antica; la si ritrova in numerosi ricettari.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni:

Testimonianze certificate: Testimonianze orali di affidabilità.

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Lenticchia del Sannio

Territorio interessato alla produzioneSannio Beneventano.
Descrizioneecotipo locale di piccole dimensioni, di colore marrone, marrone – bruno, marrone violaceo, buccia (tegumento) sottile, di facile cottura, con sapore caratteristico ed intenso, e caratteristiche organolettiche di pregio.
Metodiche di lavorazionela pianta viene coltivata in aree collinari; il seme viene autoprodotto; la pianta è eretta, alta 40-50 cm, con fiori biancastri, baccelli con 1-2 semi. La semina avviene manualmente a spaglio, interrando a 4-5 cm di profondità, fra la terza decade di ottobre e la terza decade di novembre, seminata insieme al grano; la raccolta si effettua in luglio, quando le piante sono totalmente ingiallite e disseccate ed il seme resiste alla scalfittura con un’unghia. Questa leguminosa ha evidenziato una naturale compatibilità sia con l’orografia del paesaggio, sia con le caratteristiche chimico-fisiche che caratterizzano i terreni dell’area, prevalentemente argillosi, con presenza di scheletro (pietre), poco profondi, collinari ed esposti naturalmente a “mezzogiorno”, e con il clima siccitoso tipico mediterraneo. Ciò determina condizioni particolari di coltivazione che esaltano le elevate qualità del prodotto finale. La produzione di prodotto edibile, però, è modesta: non supera i 1.500 kg per ettaro di prodotto edibile.
Cenni storici e curiositàIl prodotto viene utilizzato soprattutto essiccato, per la preparazione di piatti tradizionali dell’area di coltivazione, come ingrediente principale. le regole di coltivazione rispecchiano la tradizione colturale dell’area, estensiva e legata al consumo familiare e locale.
Le lenticchie, alimento base per i popoli nomadi fin dal Neolitico, assumono fin dalla coltivazione un significato benaugurale. La loro coltivazione inizia nelle terre dell’antico Egitto diventando subito un alimento alla base della dieta. Dall’Egitto già nel 525 a.C. e precisamente dall’antichissima Pelusio sul Nilo che un mito vuole patria del grande Achille, si racconta che le navi egizie rifornivano regolarmente i porti di Grecia ed Italia di lenticchie. Per millenni la lenticchia risulta uno dei prodotti più importanti nell’agricoltura e nel commercio del Mediterraneo e alimento fra i più comuni ed apprezzati ad Atene come a Roma. Nel Medioevo i ceti più abbienti, i nobili ricchi relegarono il consumo delle lenticchie alla mensa dei poveri, servite e mangiate quasi esclusivamente nei conventi e fra la gente umile, che diede alla lenticchia il ruolo che meritava, nutrire bene, piacere e costare poco. Ancora, come a rimarcarne l’inutilità come cibo segno di opulenza, fu definito nel Rinascimento, dal medico Petronio, cibo caldo e secco, adatto a coloro che vogliono vivere castamente. In Francia al tempo di Luigi XIV le lenticchie venivano date come cibo ai cavalli e Alexander Dumas nel suo “Grand Dictionnair de Cuisine del 1873” le considerava un cibo pessimo. Oggi la lenticchia è pienamente rivalutata per le sue virtù salutistiche e per il ruolo fondamentale, millennario, nella dieta mediterranea.

Fagiolo tondino bianco del Sannio

Territorio interessato alla produzioneTerritorio provincia di Benevento ed areali limitrofi.
DescrizioneLegume secco, di colore bianco perla; il seme è di piccole dimensioni (il peso di 1000 semi e di circa 200 g); la tipologia è similare ad una perla cinese.
ColtivazioneIl fagiolo tondino del Sannio è coltivato in asciutto, in terreni collinari e montani; la semina è effettuata nel mese di aprile, nella zona collinare e nella prima decade di maggio nelle regioni montane del Sannio, allorché le condizioni microclimatiche possono favorire la germinazione; si utilizzano seminatrici pneumatiche che collocano il seme a circa 5 cm.; la distanza tra le file è piuttosto variabile: circa 20 / 40 cm, mentre, l’interfila (spazio sulla fila tra i semi) mediamente risulta pari a 10 / 20 cm; ne consegue una densità di investimento pari a circa 25 piante per mq. In alcuni appezzamenti, si assiste ancora ad una raccolta manuale; in appezzamenti adatti alla meccanizzazione, la raccolta è affidata alle moderne mietitrebbie opportunamente adattate; interviene quando i baccelli virano al giallo intenso.
La semina viene effettuata, a seconda degli areali, nel mese di aprile e maggio. La sgranatura avviene alla trebbiatura o, nel caso di raccolta manuale – piccoli appezzamenti – dopo la completa essiccazione dei baccelli sulla pianta esposti al sole per circa 5 giorni. I semi vengono essiccati all’aria; la conservazione avviene in sacchetti di tela o lino, in luoghi freschi e ventilati. I materiali e le attrezzature utilizzati per la coltivazione sono quelli ordinariamente presenti in loco ed utilizzati per la filiera dei cereali.
Cenni storici e curiositàLa coltivazione è costantemente presente nell’area da almeno 150 anni; la tecnica colturale richiama la tecnica ancestrale praticata dai nostri trisavoli negli areali del Sannio.
Le vecchie Masserie che caratterizzano gli areali interessati alla coltivazione sono una testimonianza della coltivazione di legumi destinata, a suo tempo, oltreché all’autoconsumo, a rifornire i mercatini locali. Grazie alla presenza di queste Masserie è possibile mappare non solo la tipologia delle coltivazioni, ma anche il livello organizzativo e produttivo praticato. In questi ultimi anni, si è attivata un’azione di recupero di semi antichi che vengono coltivati utilizzando le più moderne tecniche collegate a macchine che presentano una dotazione tecnologica ultramoderna. Ciò agevola notevolmente la coltivazione e l’attività imprenditoriale dei operatori interessati.

Cece nero del Fortore

Territorio interessato alla produzione
Comprensorio del comune della Valfortore, nella fascia che comprende i comuni di Molinara, San Giorgio la Molara, Castelfranco in Miscano (BN)
Descrizione sintetica prodotto:
Ecotipo locale, con cece di piccole/medie dimensioni, di colore nero, buccia (tegumento) molto spessa e ferrosa, di non facile cottura, con sapore caratteristico ed intenso, e caratteristiche organolettiche di pregio.
Coltivazione
La pianta viene coltivata in aree ad altitudine pari a 600 m s.l.m. o superiore; il seme viene autoprodotto; la pianta è eretta, alta 30-50 cm, con fiori violacei, baccelli con 2 semi. La semina avviene manualmente a file distanziate tra loro circa 60/70 cm interrando a 4-5 cm di profondità e con distanza tra i semi di 10/15 cm , fra febbraio e aprile a seconda dell’altitudine, esposizione dei terreni della stagione e altri fattori che possono contribuire al cambiamento della semina; la raccolta si effettua ad agosto, quando le piante sono totalmente ingiallite e disseccate ed il seme resiste alla scalfittura con un’unghia. Il cece viene asciugato al sole, separato dai baccelli per battitura con bastoni flessibili, e conservato in sacchi di tela o juta, in posti asciutti e bui. Le metodiche di lavorazione sono quelle tradizionali; il cece viene coltivata su ridotte estensioni di terreno, ed utilizzata soprattutto per il mercato locale e per autoconsumo.
Cenni storici e curiosità
Il prodotto viene utilizzato soprattutto essiccato, per la preparazione di piatti tradizionali dell’area di coltivazione, come ingrediente principale. le regole di coltivazione rispecchiano la tradizione colturale dell’area, estensiva e legata al consumo familiare e locale. Ottimo abbinamento con il baccalà.

Cece piccolo del Sannio

Territorio interessato alla produzioneProvincia di Benevento ed areali limitrofi.
DescrizioneLegume secco, di colore chiaro; il seme è di piccole dimensioni (il peso di 1.000 semi è di circa 350 g); la tipologia è similare ad una perla.
ColtivazioneIl cece piccolo del Sannio è coltivato prevalentemente in asciutto, in terreni collinari e montani; la semina autunnale è effettuata nel mese di novembre, quella primaverile avviene nel mesi di aprile, allorché le condizioni microclimatiche possono favorire la germinazione; si utilizzano seminatrici pneumatiche che collocano il seme a circa 5 cm.; la distanza tra le file è piuttosto variabile: circa 20 / 30 cm, mentre, l’interfila (spazio sulla fila tra i semi) mediamente risulta pari a 10 / 20 cm; ne consegue una densità di investimento pari a circa 20 piante per mq. In alcuni appezzamenti, si assiste ancora ad una raccolta manuale; in appezzamenti adatti alla meccanizzazione, la raccolta è affidata dalle moderne mietitrebbie opportunamente adattate; interviene quando i baccelli virano al giallo intenso.
La semina viene effettuata, a seconda dell’ubicazione degli appezzamenti nel mese di novembre oppure nel mese di aprile. La sgranatura avviene alla trebbiatura o, nel caso di raccolta manuale – piccoli appezzamenti – dopo la completa essiccazione dei baccelli sulla pianta; successivamente vengono esposti al sole per circa 5 giorni. I semi vengono essiccati all’aria; la conservazione avviene in sacchetti di tela o lino, in luoghi freschi e ventilati. I materiali e le attrezzature utilizzati per la coltivazione sono quelli ordinariamente presenti in loco ed utilizzati per la filiera dei cereali.
Cenni storici e curiositàLa coltivazione è costantemente presente nell’area dal tempo dei Sanniti (V-IV secolo a.C.); la tecnica colturale richiama la tecnica ancestrale praticata dai nostri trisavoli negli areali del Sannio.
Le vecchie Masserie che caratterizzano gli areali interessati alla coltivazione sono una testimonianza della coltivazione di legumi destinata, a suo tempo, oltreché all’autoconsumo, a rifornire i mercatini locali. Grazie alla presenza di queste Masserie è possibile mappare non solo la tipologia delle coltivazioni, ma anche il livello organizzativo e produttivo praticato. In questi ultimi anni, si è attivata un’azione di recupero di semi antichi che vengono coltivati utilizzando le più moderne tecniche collegate a macchine che presentano una dotazione tecnologica ultramoderna. Ciò agevola notevolmente la coltivazione e l’attività imprenditoriale dei operatori interessati.

Fagiolo bianco di Montefalcone

Territorio interessato alla produzioneComune di Montefalcone di Val Fortore e comuni del Sannio Beneventano
DescrizioneLegume secco, di colore bianco brillante; il seme è di piccole dimensioni (il peso di 100 semi e di circa 150 g); la tipologia è una via di mezzo tra il cannellino ed il tondino.
Metodiche di lavorazioneIl fagiolo bianco di Monfalcone viene coltivato in asciutto, in terreni montani (sopra i 700 m.s.l.); la semina viene effettuata nella prima decade di maggio (quando le condizioni termiche raggiungono valori ottimali per consentire la germinazione); si utilizzano seminatrici pneumatiche che mettono a dimora il seme in solchi; la distanza tra le file è di circa 70 – 80 cm, mentre, l’interfila (spazio tra i semi) viene mantenuta tra i 20 – 25 cm; in questo modo si ottiene una densità di investimento di circa 5 – 7 piante per mq. La tecnica di coltivazione adottata segue i dettami dell’agricoltura integrata; la concimazione viene effettuata in una unica soluzione alla preparazione del terreno per la semina, generalmente si interviene solo con il fosforo; si utilizza perfosfato semplice (250300 KgHa). Durante il ciclo si effettua una sarchiatura; generalmente non sono necessari trattamenti, in qualche caso, nelle fasi iniziali di sviluppo, si rende necessario effettuare un trattamento contro gli afidi. La raccolta viene effettuata a mano, quando la quasi totalità dei baccelli è maturo; la pianta viene estirpata e lasciata essiccare sul terreno per qualche giorno; successivamente, viene raccolta, trasportata sull’aia e sgranata artigianalmente; il prodotto così ottenuto, viene liberato dalle impurità (residui colturali, terreno ecc.) e trasportato in azienda, dove si effettua una ulteriore pulizia ed una calibratura del seme (operazione fondamentale per ottenere lotti omogenei).
Generalmente la coltura avviene in piccoli orti familiari, consociata a colture quali il mais; la semina viene effettuata a mano nel mese di Maggio, inizio Giugno, a postarelle. La sgranatura avviene dopo la completa essiccazione dei baccelli sulla pianta e quindi per 2-3 giorni su teloni, al sole. Quindi avviene la battitura con bastoni di legno e la successiva esposizione alla ventilazione naturale per allontanare i residui di baccelli. I semi vengono essiccati all’aria; la conservazione avviene in sacchetti di tela o lino, in luoghi freschi e ventilati. I materiali e le attrezzature utilizzati per la coltivazione sono molto semplici e rudimentali tipicamente presenti nell’agro-tecnica locale.
Cenni storici e curiositàLa coltivazione è costantemente presente nell’area da almeno 200 anni; la tecnica colturale è quella tradizionale di tutta l’area appenninica.
Questo legume, coltivato in questo ambiente (sopra i 700 m.s.m.), acquisisce particolare sapidità ed è particolarmente predisposto per la cottura.

Fagiolo della regina di San Lupo

Territorio interessato alla produzione
comune di San Lupo – contrade Cortesanta e Capodacqua (BN)
Descrizione sintetica prodotto
Ecotipo locale con baccello schiacciato, con 5-6 semi, seme di forma irregolare, depressa, poligonale; dimensione medio-piccola; colore nocciola molto chiaro, più scuro in corrispondenza della cicatrice ilare, buccia sottilissima, di elevata digeribilità; pianta a portamento rampicante, sviluppo indeterminato, fiore bianco con sfumature violacee.
Coltivazione
Viene coltivato nelle aree irrigue delle contrade di origine, in quanto necessita, per l’allegagione e formazione dei semi, di un sufficiente apporto idrico; le peculiari esigenze pedoclimatiche ne hanno confinato la diffusione all’areale descritto; è mediamente resistente a fitopatie e parassiti. Si semina la terza-quarta settimana di giugno e si raccolgie a fine agosto. viene essiccato su graticci di giunco o di olivo.
Cenni storici e curiosità
Viene utilizzato per zuppe e minestre (pane cotto), sia sotto forma di legumi essiccati sia come baccello verde. Le regole di coltivazione rispecchiano la tradizione colturale dell’area, estensiva e legata al consumo familiare e locale.

Fagiolo di Cera

Sinonimi e/o termini dialettali: Lattino
Territorio interessato alla produzione
Fascia pedemontana del massiccio del Matese, dal comune di Alife (CE) fino a Pontelandolfo (BN)
Descrizione sintetica prodotto
Ecotipo locale con baccello cilindrico, leggermente schiacciato, di colore verde; seme (6-7 per baccello) di forma reniforme accentuata, con cicatrice ilare appena sottolineata da una sfumatura scura del colore, che uniforme, di avorio antico. dimensioni medie, buccia sottilissima, pasta bianca a grana fine; ricco di amido, con la cottura scurisce assumendo toni di marrone molto scuro; sapore tendenzialmente dolce, delicato, persistente. pianta a portamento eretto, sviluppo determinato e limitato, fiore viola chiaro.
Coltivazione
Viene coltivato in asciutta con semina ad inizio giugno (festivitdi S. Antonio di Padova e raccolto a fine agosto. viene estirpata ed essiccata tutta la pianta su graticci sospesi da terra; non necessita di sostegni, la resa di 6-7 qli/ha di prodotto essiccato. prima del raccolto vengono prelevati scalarmente i baccelli verdi, che vengono consumati in insalata previa cottura.
Cenni storici e curiosità
Viene utilizzato per zuppe e minestre (pane cotto), sia sotto forma di legumi essiccati sia come baccello verde; i legumi essiccati vengono accompagnati ad un particolare tipo di pasta nel piatto denominato “quagliatella”. Le regole di coltivazione rispecchiano la tradizione colturale dell’area, estensiva e legata al consumo familiare e locale.

Fagiolo mustacciello

Zona di produzione: tutta la regione
Descrizione del prodottoPianta erbacea annuale rampicante, di altezza fino a 1,7 mt, a sviluppo indeterminato, frutto a forma di baccello di c.a 10-12 cm. dal colore giallo- verde; seme di forma sferica, colore bianco con cerchiatura nera a forma di baffo (da cui deriva il nome) in corrispondenza dell’ilo, buccia sottile.
ColtivazioneViene coltivato in consociazione con il Pomodoro San Marzano, di cui utilizza i sostegni; la maturazione avviene alla fine di ottobre (stato ceroso) e fino alla fine di novembre (prodotto secco). Viene utilizzato per preparazioni gastronomiche tradizionali dell’area, che evidenziano il minor tempo di cottura dovuto alla delicatezza della buccia, che diventa subito tenera, ed alla scarsa tendenza alla frammentazione durante la cottura.Per il prodotto essiccato i semi si essiccano all’aria e conservati di tela grezza.
Cenni storici e curiositàIl prodotto viene utilizzato nella cucina tradizionale dell’area per minestre con pasta (tipicamente i residui delle lavorazioni della vicina Gragnano, la “pasta mischiata”), ma anche bolliti e conditi con sale ed olio extravergine di oliva, sulle tipiche freselle.

Olive in salamoia

Materia prima: olive verdi e nere scure non troppo mature.

Tecnologia di lavorazione: le olive vengono messe in acqua fredda, cambiandola
parecchie volte, per un paio di giorni finchè non perdono il sapore amaro. Si
mettono poi in salamoia agginugendo chiodi di di garofano, semi di finocchio, alloro e
altri aromi. Richiusi, i contenitori vengono riposti in luoghi freschi, al riparo dalla
luce.

Maturazione: anche due anni.

Area di produzione: Italia olivicola.

Calendario di produzione: novembre, dicembre, gennaio.

Note: al momento del consumo le olive si sciacquano in acqua tiepida, si asciugano e
sono piu gustose se vengono condite con fiori essiccati di finocchio selvatico,
scorze di arance o di limone, un goccio d’olio. Questo sistema di conservare le olive
in salamoia era conosciuto anche dai romani, i quali oltre alla salamoia adoperavano
con generosa abbondanza finocchio selvatico essiccato, semi di lentisco, foglie di
ruta, mosto cotto e aceto. A volte le pestavano prima di ricoprirle con gli
ingredienti suddetti, altre volte le spaccavano con una canna tagliente. Quest’ultimo
metodo, benchè richiedesse più lavoro, era ritenuto il migliore in quanto
conservava alle olive un bel colore bianco che quelle pestate perdevano. Nella
evidente impossibilità di quantificare per indagine diretta le olive destinate alla
conservazione sono stati assunti i dati riferiti dall’annuario Inea 1990 alla voce
“Olive per consumo diretto”, al netto del consumo fresco.

Oliva vernacciola di Melizzano

Territorio di produzioneIl territorio interessato è quello del Comune di Melizzano (BN) e zone limitrofe.
Descrizione del prodotto
Olive della cultivar Vernacciola conservate nei seguenti modi: – nere, snocciolate conservate in olio e condite con spezie ed aromi tipici dell’area di produzione; – nere intere appassite in forno a legna e condite con spezie ed aromi tipici dell’area di produzione; – olive nere intere conservate in salamoia.
Metodiche di lavorazione
Olive nere, snocciolate conservate in olio:le olive vengono raccolte in fase di maturazione, selezionate lavate con acqua e private del nocciolo, depositate in una bacinella e ricoperte con acqua abbondante per 48 ore. Cambiare l’acqua aggiungere il sale 70/80 g per chilo di olive e lasciare per ulteriore 48 ore. Togliere l’acqua e sgocciolare poi condirle con sedano, peperoncino, origano, aceto bianco (poco) e preparare contenitori di vetro che andranno poi colmati di olio d’olia e tappati.Olive nere intere appassite in formo:le olive vengono raccolte in fase di maturazione, selezionate lavate con acqua, vengono coperte con acqua bollente e lascate a bagno 24 ore. Vengono adagiate su spianatoia di vimini (legno di olivo) emesse in forno a legna (olive e viti) ad una temperatura di circa 120 gradi per circa 1 ora. Dopo il raffreddamento vengono poi poste in un recipiente di argilla per almeno 24 ore condite con aglio, peperoncino, olio a crudo e a piacere bucce di mandarino, alloro e rosmarino.
Olive nere in salamoia:
le olive vengono raccolte in fase di maturazione, selezionate lavate con acqua e messe in un contenitore coperte d’acqua per 40 giorni. Dopo 40 giorni le olive vengono sgocciolate e riposte nuovamente in un recipiente ricoperte con acqua a cui si aggiunge il sale 70/80g per chilo di olive. Dopo 60/90 giorni le olive sono edibili. , aggiunte di calce in polvere e cenere, quindi coperte con acqua. Viene lasciato il tutto per 48 ore. Quindi vengono scolate e lavate con abbondante acqua.. Quindi le olive vengono scolate ed adagiate su una spianatoia di legno d’olivo o di pietra, schiacciate con un mattarello di legno di olivo togliendo i noccioli. Le olive schiacciate vanno poi raccolte e sistemate in un contenitore di vetro, pressate con le mani, condite con peperoncino piccante ed altri aromi, e ricoperte di olio eztravergine di oliva.
Ricette
Olive nere, snocciolate conservate in olio
6/7 Kg di olive vernacciole nere di Melizzanosedanopeperoncinooriganoaceto di vino biancoolio di oliva0,5 Kg di sale finoattrezzi in legno: spianatoia e cesto di vimini;recipienti in argilla e vetro;ripiano in pietra calcarea.Olive nere intere appassite in formo
6/7 Kg di olive vernacciole nereagliopeperoncinoolio di oliva0,5 Kg di sale finoattrezzi in legno: “ratelle” recipiente di fuscelle di olivo;recipienti in argilla e vetro;ripiano in pietra calcarea.Olive nere in salamoia
6/7 Kg di olive vernacciole nere0,5 Kg di sale finorecipienti in argilla e vetro;ripiano in pietra calcarea.La tecnica di produzione, eminentemente manuale, e gli ingredienti, sono utilizzati nell’area della coltivazione dell’olivo cv. vernacciola e sono rimasti invariati nel tempo.

Pomodori secchi

Materia prima: pomodori.

Tecnologia di preparazione: i pomodori (meglio scegliere i San Marzano) vengono lavati e tagliati in due parti in senso verticale. Si mettono su un asse pulito con le parti tagliate verso l’alto. Si espongono al sole quotidianamente coprendoli con garze per evitare le molestie degli insetti, fin tanto che non siano completamente disidratati. Si conservano in vasi di vetro tal quali con foglie di alloro e basilico, oppure si mettono sott’olio aromatizzandoli a piacere. Ma in questo caso è opportuno salare i pomodori prima di farli essiccare.

Maturazione: qualche settimana.

Area di produzione: in tutto il Mezzogiorno.

Calendario di produzione: luglio, agosto, settembre.

Note: i pomodori essiccati vengono utilizzati per salse e per altre preparazioni. Inoltre una quantità non indifferente viene commercializzata sott’olio aromatizzata all’origano, all’aglio, al prezzemolo, ai semi di finocchio, al timo, al peperoncino, ecc. Originario dell’America Latina, il consumo del pomodoro si è diffuso in Europa con la coltura italiana come punto centrifugo. Questo perché nell’area mediterranea il pomodoro ha migliorato sia il suo aspetto che il suo sapore.

Melanzane sott’olio

Materia prima: melanzane.

Tecnologia di lavorazione: le melanzane, tagliate a fette, vengono messe sotto sale per almeno 24 ore. Eliminata l’acqua si fanno asciugare per altre 24 ore; successivamente vengono sbollentate per due minuti in acqua e aceto e di nuove messe ad asciugare per un altro giorno al termine del quale saranno collocate nei barattoli e aromatizzate a seconda delle tradizioni regionali. Ricoperte di olio si chiudono ermeticamente i barattoli conservandoli in luogo buio e fresco.

Maturazione: 4-5 mesi.

Area di produzione: rinomata la produzione di Puglia, Calabria, Basilicata, Campania e Sicilia.

Calendario di produzione: estate, inizio autunno.

Note: la tecnica di preparazione di base non cambia se non per dettagli insignificanti. In alcune regioni, per esempio, dopo essere state sotto sale per 24 ore, le melanzane non vengono sbollentate in acqua e aceto o vino e aceto, ma semplicemente condite con solo aceto e poi imbarattolate e aromatizzate. Gli aromi che accompagnano questa conserva sono: origano, aglio, prezzemolo, peperoncino, semi di finocchio selvatico, basilico, alloro. Quest’ortaggio, originario dell’Estremo Oriente, rimase pressocché sconosciuto ai greci e ai romani, arrivando in Europa solo nel XIV secolo e da qui è passato poi in America. Queste preparazioni di tipo artigianale, molto richieste dal mercato, vengono acquistate da grossisti i quali etichettano e commercializzano i prodotti nei vari negozi di gastronomia specializzata.

Pomodori secchi sott’olio

Nome geografico abbinato:

Sinonimi e/o termini dialettali:

Regione: Campania

Provincia/e: tutte

Territorio interessato alla produzione: intero territorio della regione

Descrizione sintetica prodotto: pomodori di ecotipi a bacca lunga, tagliati in quattro parti, essiccati al sole o in essiccatore; quindi conservati sott’olio, con aglio, origano, spezie.

Produzione in atto: attivo

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura: i pomodori del tipo “S. Marzano” vengono tagliati in quattro per il lungo e posti al sole ad asciugare, coperti da garze leggere per evitare gli insetti.Una volta essiccati, vengono posti in barattoli di vetro perfettamente puliti, e ricoperti accuratamente con olio extravergine di oliva, aglio, peperoncino, spezie.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione:
– laboratori tradizionali;
– pentole ed utensili in acciaio inox;
– barattoli di vetro;
– forni per essiccazione o garze e spaselle in ginestra

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: la ricetta è tradizionalmente di uso familiare, ma di recente è stata utilizzata per preparazioni artigianali o industriali.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni: SI

Testimonianze certificate: Testimonianze orali raccolte in zona

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Scapece

Materia prima: ortaggi vari.

Tecnologia di lavorazione: gli ortaggi vengono tagliati a strisce sottilissime e messi sotto sale in un recipiente con un peso per 24 ore. Si scolano, si strizzano e si scottano in acqua e aceto in parti uguali. Si scolano, si strizzano ancora e si mettono ad asciugare per altre 24 ore in un panno bianco con un peso sopra. Si condiscono con olio, aglio, menta e si mettono ben premute in vasetti ricoprendoli d’olio.

Maturazione: 2-3 mesi.

Area di produzione: Calabria, Puglia, Basilicata, Campania, Sicilia, Sardegna.

Calendario di produzione: estate-autunno.

Note: con questo sistema vengono conservate: melanzane, zucchine, fagiolini, carote, sedano, cavolfiore, pomodori verdi, carciofini, ecc.

Peperoncini ripieni al tonno

Nome geografico abbinato:

Sinonimi e/o termini dialettali:

Regione: Campania

Provincia/e: Avellino, Benevento, Salerno

Territorio interessato alla produzione: aree interne della regione

Descrizione sintetica prodotto: peperoncini di piccola taglia, rotondi, riconducibili al tipo Topepo, ma di grandezza non superiore ai due – tre cm di diametro, conservati in aceto di vino, quindi ripieni di un impasto di tonno sott’olio, acciuga, capperi, e quindi conservati sott’olio.

Produzione in atto: attivo

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura: i peperoncini vengono privati dei semi e del picciolo, bolliti in acqua acidulata, ripieni di un impasto generalmente composto da tonno sott’olio strizzato, acciuga, capperi, spezie ed aromi, tritati, e quindi conservati sott’olio extravergine di oliva.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione:
– laboratori tradizionali;
– pentole ed utensili in acciaio inox;
– barattoli di vetro

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: la ricetta è tradizionalmente di uso familiare, e non è mai stata utilizzata per preparazioni artigianali o industriali; recentemente vengono prodotti da alcune aziende agrituristiche, a partire da materie prime aziendali.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni: SI

Testimonianze certificate: Testimonianze orali raccolte in zona

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Virni

Territorio interessato alla produzione: aree montane dei comuni di Pietraroja e Cerreto Sannita del Parco Regionale di Matese (BN)
Descrizione sintetica prodotto
Fungo della specie Calocybe gambosa (già Tricholoma georgii) molto ricercato per le ottime caratteristiche organolettiche e per l’epoca di maturazione, che è tipicamente primaverile, da metà aprile alla seconda metà di maggio (da cui il nome con il quale è conosciuto altrove, fungo di S. Giorgio (ricorrenza il 23 aprile); cresce in cerchi o file a zig-zag in radure ai margini dei boschi, anche fra rovi e biancospini o rose canine ad altezze superiori agli 800 mt s.l.m.; le aree di crescita nella zona sono chiamate “vernere”, spesso caratterizzate da un’area a forma “di ferro di cavallo” con il colore dell’erba più scuro, fenomeno attribuito dalla fantasia popolare al passaggio di una “janara” o strega. Il cappello, di dimensioni a maturità fino a 10 – 12 cm, è carnoso, di forma da emisferico-convesso a pianeggiante; spesso ondulato al bordo, con cuticola opaca di colore bianco-crema, macchiata a volte di ocraceo od interamente giallo-bruno, con margine involuto ed ondulato specie negli esemplari giovani, lamelle fitte, situate, smarginate, bianche poi crema pallide con filo irregolare. Il gambo è normalmente tozzo, da cilindrico a subclavato; colore biancastro-crema, pruinoso in alto. la carne è compatta, bianca e con un caratteristico e pronunciato profumo di farina fresca. Nell’area se ne conoscono tre tipologie, secondo la zona di raccolta: con cappello chiuso grigio chiaro e gambo sottile; con gambo sottile, cappello aperto, di colore giallo chiaro; con gambo più grosso, cappello color senape scuro, più chiuso, che è la tipologia più pregiata, soprattutto se si è formato in prati bassi ed aperti.
Metodiche di lavorazione
Nella raccolta è vietato l’uso di rastrelli, uncini o altri mezzi che possono danneggiare lo strato umifero del terreno, il micelio fungino o l’apparato radicale della vegetazione. Devono essere riposti e trasportati in contenitori idonei a consentire la diffusione delle spore (panieri o cesti di vimini o similari). E’ vietata la raccolta di esemplari con diametro del cappello inferiore a 2 cm Sono indicati per condire le tagliatelle, in frittate o con uova strapazzate con formaggio; crudo previa marinatura, o grattato a crudo sulla pasta. viene cotto con olio ed aglio fresco. Essiccato dà un odore fortemente pronunciato; sott’olio viene conservato previa scottatuta in acqua ed aceto.

Cenni storici e curiosità
Il virno è presente nei menù di tutti i ristoranti tipici della zona nell’epoca di raccolta e alimenta una frequentatissima sagra che ha luogo a Cerreto Sannita nel mese di maggio.

Uva cornicella

Territorio di produzionearee pianeggianti e collinari della Regione CampaniaDescrizione del prodottoLa Campania ha una forte tradizione viticola, soprattutto nelle aree pianeggianti e collinari si produce una qualità di uva detta “uva cornicella”, perché presenta acini fortemente allungati e ricurvi, che ricordano dei cornetti. Gli acini sono verdi, di un colore che tende al dorato e rugginoso nelle parti più esposte al sole e la loro polpa è dolce, molto croccante e ricca di vinaccioli, mentre la buccia è piuttosto consistente. Grazie alla consistenza della buccia, la cornicella è dotata di una notevole serbevolezza, caratteristica che fa sì che ancora oggi sia molto diffusa sul mercato regionale, pur avendo perso il primato in seguito alla diffusione di cultivar più moderne.

Mela limoncella

Nome geografico abbinato:

Sinonimi e/o termini dialettali:

Regione: Campania

Provincia/e: Avellino, Caserta, Benevento, Napoli, Salerno

Territorio interessato alla produzione: Tutta la Campania

Descrizione sintetica prodotto: Frutto di peso medio a forma ellissoidale, quasi cilindrica. Buccia di medio spessore, giallo verde piuttosto cerosa, con numerose grosse lenticelle rugginose. Polpa bianca mediamente compatta e succosa, leggermente acidula e particolarmente aromatica con una buona presenza di zuccheri.

Produzione in atto:

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura: La conservazione del frutto è favorita da un equilibrato rapporto acidi – zuccheri presenti nella polpa. Tale caratteristica consente di avere a disposizione il prodotto per un periodo medio lungo riducendo di molto il tempo di condizionamento. Nel campo della trasformazione il frutto è utilizzato soprattutto nella produzione del sidro.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione:

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: Cultivar italiana molto diffusa un tempo in meridione, soprattutto in Campania.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni:

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Mela Sergente

Nome geografico abbinato:

Sinonimi e/o termini dialettali:

Regione: Campania

Provincia/e: Napoli, Caserta, Benevento

Territorio interessato alla produzione: Area IGP Melannurca Campana (proposta)

Descrizione sintetica prodotto: Mela molto simile all’Annurca, di pezzatura media superiore, serbevole ed aromatica

Produzione in atto: a rischio

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura: gli impinati sono caratterizzati da forme di allevamento a vaso classico; la pianta è molto vigorosa, e quindi impone sesti ampi.
Le metodiche di conduzione del frutteto sono quelle tradizionali.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione: normali attrezzature, macchine, locali per la conduzione del frutteto

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: La Sergente, insieme alla più nota Annurca, era alla base della melicoltura campana dell’immediato dopoguerra; è stata soppiantata, nonostante le ottime qualità organolettiche dei frutti, da cloni del tipo red delicious e successivamente dalla stessa annurca, in particolare dai cloni migliorati “bella del sud” e “rossa del sud”

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni: SI

Testimonianze certificate: Testimonianze raccolte in zona

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Mela zitella

Nome geografico abbinato:

Sinonimi e/o termini dialettali:

Regione: Campania

Provincia/e: Avellino, Benevento

Territorio interessato alla produzione: Aree collinari delle due province

Descrizione sintetica prodotto: Mela dal frutto piccolo, forma appiattita, asimmetrica; buccia di spessore medio sottile, giallo chiaro, biancastra, sfumata di rosso chiaro sul 20% circa della superficie, all’insolazione; polpa bianca, mediamente compatta, croccante, mediamente succosa e dolce; acidula, aromatica.

Produzione in atto: a rischio

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura: la pianta è molto vigorosa, e quindi impone sesti ampi.Le metodiche di conduzione del frutteto sono quelle tradizionali.

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione: normali attrezzature, macchine, locali per la conduzione del frutteto

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: La Mela Zitella era un tempo diffusa, assieme ad altre varietà tradizionali, nelle zone collinari e montane. Oggi è presente soprattutto come piante isolate, nei frutteti misti di tipo familiare.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni: SI

Testimonianze certificate: Testimonianze raccolte in zona

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Melannurca Campana IGP

Descrizione: Definita la “regina delle mele” soprattutto per la spiccata qualità, l’Annurca è famosa per la polpa croccante e compatta, gradevolmente acidula e profumata.
Rivendica da sempre virtù salutari: altamente nutritiva, ricca di fbre, frena la diarrea, diuretica, particolarmente adatta ai bambini.
Uno degli elementi di tipicità che certamente caratterizzano questa coltura è l’arrossamento a terra delle mele nei cosiddetti “melai”, un tempo realizzati con strati di canapa, oggi sostituiti da altri materiali (aghi di pino, trucioli di legna, ecc.).
Le indubbie caratteristiche organolettiche di questa mela, apprezzate particolarmente dai consumatori campani e laziali, stanno progressivamente conquistando anche altri mercati, grazie anche all’ingresso nei canali della grande distribuzione organizzata.
I due ecotipi, la classica Annurca e la diretta discendente A. Rossa del Sud, suo mutante naturale date le comuni caratteristiche pomologiche, sono stati unificati sotto il titolo di Melannurca campana, sia pure con due distinte indicazioni varietali.

Cenni storici: La sua raffigurazione nei dipinti rinvenuti negli scavi di Ercolano e in particolare nella Casa dei Cervi, testimonia l’antichissima legame dell’Annurca con la Campania felix. Luogo di origine sarebbe l’agro puteolano, come si desume dal “Naturalis Historia” di Plinio il Vecchio. Proprio per la provenienza da Pozzuoli, sede degli Inferi, Plinio la chiama “Mala Orcula” in quanto prodotta intorno all’Orco (gli Inferi). Anche Gian Battista della Porta nel “Suae Villae Pomarium”, nel descrivere le mele che si producono a Pozzuoli riferisce come queste siano volgarmente dette orcole. Da qui i nomi anorcola e annorcola utilizzati successivamente fino a giungere al 1876 quando il nome “Annurca” compare ufficialmente nel Manuale di Arboricoltura di G. A. Pasquale.

Area di produzione: L’Annurca è coltivata in tutte le province campane anche se le aree tradizionalmente vocate ove si concentra la maggior parte della produzione sono: nel napoletano la Giuglianese-Flegrea, nel casertano la Maddalonese, l’Aversana e la Teanese e nel beneventano le Valli Caudina – Telesina e il Taburno.
Con 60.000 tonnellate medie annue, l’Annurca rappresenta il 60% circa della produzione regionale di mele e il 5% circa di quella nazionale.

Stato della registrazione: Nelle more del completamento dell’istruttoria comunitaria per la definitiva registrazione della “Melannurca Campana (IGP) ”, il MiPAF ha accordato, con DM del 27.04.2001, la protezione nazionale transitoria della denominazione.

Fonte: Assessorato all’Agricoltura della Regione Campania – 2005

Castagna jonna di Civitella Licinio

Territorio interessato alla produzione
Località Fontanelle, Pisciarelli, Campate, Cese, Faito della frazione Civitella Licinio (Comune di Cusano Mutri) (BN)
Descrizione sintetica prodotto
La pianta si presenta di grandi dimensioni, a portamento libero, innestata su polloni scelti direttamente in campo, a gemma o a spacco. La castagna ha dimensioni notevoli (40-50 frutti per Kg), con buccia di colore marrone chiaro con striature poco evidenti, da cui il nome (Jonna = Bionda o Giallanella = di colore giallo). L’episperma (pellicola interna) avvolge in modo regolare la polpa, che non è settata; da questo deriva la facile pelabilità dei frutti privati dall’epicarpo e la spiccata attitudine per la produzione di maron glaces.
Coltivazione
L’allevamento tradizionale con forma naturale, assenza di trattamenti fitosanitari e di concimazione, mantenimento di ottime condizioni di naturalità, con presenza di inerbimento naturale; le cure colturali si riducono alla preparazione pre raccolta, con lo sfalcio del sotobosco e la bruciatura dei residui colturali (ricci e foglie) dell’anno precedente previa rastrellatura. mediamente resistene al cancro corticale, nonché al cinipide del castagno, che viene tollerato in modo sufficiente rispetto ad altre varietà presenti nella zona. I sesti sono variabili, con una densità che è in media di 60-70 piante/ha. La raccolta avviene al suolo in autunno (dall’ultima settimana di settembre alla prima di novembre, secondo la posizione del castagneto); solo in alcuni casi vengono adoperate soffiatrici per allontanare le foglie secche dalle castagne. Dopo la raccolta, vengono eliminate quelle attaccate da parassiti (bucate) ed attualmente direttamente vendute senza alcun trattamento, destinate al mercato regionale e nazionale, oppure trasformate da laboratori locali in prodotti dolciari tipici. La resa è di circa 30-40 qli/ha (prima della cernitura); i quantitativi attualemnte prodotti, con notevole variabilità da un anno all’altro, sono compresi fra i 1500 ed i 2000 qli. In passato venivano conservate, senza estrarle dai “ricci”, in fosse realizzate direttamente nel castagneto, dette “ricciaie”, e quindi ricoperte con strati di felci (athyrium filix-femina) e di terreno. In alternativa, veniva adoperata sabbia di fiume. Ciò permetteva di conservare le castagne per diversi mesi.
Cenni storici e curiosità
La cultivar è specifica dell’areale e costituiva assieme all’allevamento ovicaprino, alla produzione di carbone, alle patate, all’olivo ed alla vite il cardine dell’economia locale.

Noce di Sorrento

Nome geografico abbinato:

Regione: CAMPANIA

Provincia/e: Napoli, Caserta, Salerno, Benevento, Avellino

Sinonimi:

Descrizione sintetica prodotto: Il prodotto è riferibile commercialmente a due biotipi principali della cultivar popolazione “Sorrento”: uno con guscio allungato, regolare, leggermente appuntito all’apice e smussato alla base; il secondo con guscio più rotondeggiante.
In entrambi i casi il guscio è di colore chiaro e sottile, poco rugoso, di media resistenza alla rottura. Gheriglio chiaro, croccante, di sapore gradevole.
I due biotipi presentano omogeneità di caratteristiche organolettiche e di metodi di coltivazione.
Le caratteristiche pedologiche migliori per il noce si riscontrano in molti dei suoli di natura vulcanica della provincia di Napoli. I terreni migliori sono quelli di medio impasto o sciolti, poco profondi, con pH compreso fra 6,5 e 7,6.

Territorio interessato alla produzione: La “Sorrento” ha come area di elezione il territorio della Provincia di Napoli con una presenza di rilievo nella pianura acerrana-nolana, anche se da tempo immemorabile essa è diffusa negli areali frutticoli di tutte le provincie campane. Le zone di maggiore importanza, oltre quella sopra citata, sono il casertano-flegreo, le colline costiere napoletane e sorrentine, il Vallo di Lauro, il Baianese, il Palmese e la Valle dell’Irno.

Produzione in atto: attivo

Descrizione delle metodiche di allevamento e lavorazione: La coltivazione del noce segue le tecniche di allevamento tradizionale. Scarsi sono gli impianti specializzati, la più gran parte poste a corona degli appezzamenti. Poche le cure colturali alle piante e pertanto il prodotto che si ottiene può considerarsi a scarso input energetico.L’essiccazione del prodotto è realizzata all’aperto su graticci in zone areate. L’essiccazione artificiale riduce il contenuto di acqua fino al 12%

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive: A testimonianza e della presenza del noce di Sorrento nella nostra regione sin da tempi remoti sono stati ritrovati ad Ercolano, nella “Casa d’Argo”, resti carbonizzati di noce; mentre a Pompei nella Villa dei Misteri, sulla parete nord del Tablinium, sono stati rinvenuti alcuni dipinti riproducenti frutti di noce. Dal punto di vista storico la cultivar Sorrento è anche citata in testi specifici sin dal 1885 fra i quali il “Savastano” che cita la noce di Sorrento negli Annali della Reale Scuola di Agricoltura. Gli elementi raccolti nel corso dell’indagine effettuata ha evidenziato come questo prodotto sia caratterizzato per fama e per le componenti biologiche, da una forte correlazione con l’ambiente di produzione (soprattutto la provincia di Napoli). L’origine o comunque il forte legame storico con i luoghi e le particolari condizioni pedoclimatiche, costituiscono elementi favorevoli ai fini della registrazione, per questo prodotto, del marchio collettivo ai sensi del Reg. CEE 2081/92.

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni: SI

Riferimento bibliografico:
AAVV. Di alcune colture arboree della Provincia di Napoli. Regia Scuola di Portici, Vol. IV 1885
AAVV. Le varietà in Arboricoltura, Annali della Regia Scuola di Agricoltura, Portici, Vol. I 1899
AAVV La coltivazione del noce nel Sorrentino, Monografia, Bollettino della Arboricoltura Italiana, anno IV, III trimestre 1908.

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Marmellata d’arancio

Materia prima: arance (agrumi).

Tecnologia di preparazione: le arance vengono forate con una forchetta e messe a bagno in una bacinella per 3 giorni cambiando l’acqua 3 volte al giorno. Si tagliano poi a fette molto sottili, togliendo la calotta e aggiungendo lo zucchero ed i limoni a fette altrettanto sottili. Si fa cuocere quanto basta a fuoco basso evitando di mescolare. Si mette nei barattoli quando la confettura è ancora bollente.

Maturazione:

Area di produzione: con qualche variante in tutta l’Italia agrumicola.

Calendario di produzione: durante la stagione degli agrumi, ma il mese consigliato è gennaio.

Note: un tempo questa marmellata veniva fatta più di frequente dalle famiglie italiane e non solo da quelle che vivono nella zona produttiva di agrumi. Il trattamento al depenile a cui vengono sottoposte oggi le arance e gli altri agrumi scoraggia le massaie dal prepararla, a meno che non si abbia la fortuna di trovare frutti non trattati col depenile né tanto meno con la paraffina utilizzata al solo scopo di renderli lucidi, anche se quest’ultima sostanza non è tossica per l’uomo.

Pastiera

Territorio interessato alla produzione: Napoli e, con numerose varianti, tutta la Campania.

Descrizione sintetica del prodottoTorta con involucro di pasta frolla e ripieno di un impasto a base di ricotta e cariossidi di frumento duro.La parte superiore è decorata a losanghe ricavate con striscioline di pasta frolla.

Cenni storici e curiositàDolce tipico del periodo pasquale, è diffuso in tutta la Campania e presenta numerose varianti alla ricetta tradizionale napoletana.La ricetta originale (riportata in questa scheda) risale al secolo scorso e fa riferimento ad una leggenda che ha per protagonista la Sirena Partenope ed i primi abitanti della città.Una variante alla pastiera di grano è quella di riso, che prevede l’utilizzo di riso al posto delle cariossidi di grano.

Zeppola di San Giuseppe

Territorio interessato alla produzione: Napoli e tutta la Campania.

Descrizione sintetica del prodottoDolce cilindrico e basso, di pasta bigné, insaporita con crema pasticcera e confettura di amarene.

Cenni storici e curiositàFamosissimo dolce napoletano preparato per la festa del papà, il giorno di S. Giuseppe.Sono entrate a far parte della tradizione napoletana solo verso la fine del 1800, come modifica arricchita, in onore del papà, della Zeppola classica, molto più antica ma più povera.Una variante moderna è la Zeppola di S. Giuseppe al forno (invece che fritta).

Copeta

Territorio interessato alla produzione: Aree interne della campania, in particolare Irpinia, distretto del Monte Partenio

Descrizione sintetica del prodottoCon il nome “COPETA” si individua un tipo di torrone molto compatto, bianco, con nocciole o mandorle, a volte pistacchi, che viene prodotto in grosse lastre che venivano spaccate all’atto della vendita.

Cenni storici e curiositàConosciuto già dal tempo dei romani e citato negli scritti di Titio Livio, si diffuse in particolar modo nel XVII secolo, periodo a cui risalgono le prime varietà di copeta; da esso discende il torrone di Benevento.

Torrone di Benevento

Territorio interessato alla produzione: Benevento è dall’inizio il luogo di maggior concentrazione dell’attività di produzione ma, per motivi di evoluzione storica tutta la provincia si è sempre contraddistinta per il sorgere continuo di numerosi centri produttivi di eccellenza.Ne sono testimonianza le cittadine di Santa Croce del Sannio e Montefalcone di Val Fortore.

Descrizione sintetica del prodottoCon il nome “Torrone di Benevento” si individuano le seguenti 4 tipologie:

Torrone bianco con mandorle;
Torrone cupedia bianco con nocciole;
Torrone bianco morbido con mandorle;
Torroncino croccantino ricoperto con cioccolato.

Le principali caratteristiche del prodotto sono costituite da: dolcezza, asciuttezza, tenerezza/durezza, friabilità.Composto da albume d’uovo, miele, nocciole e mandorle, arricchito con cioccolato, liquori ed essenze di agrumi.

Cenni storici e curiositàConosciuto già dal tempo dei romani e citato negli scritti di Titio Livio, si diffuse in particolar modo nel XVII secolo, periodo a cui risalgono le prime varietà.

Babà

Territorio interessato alla produzione: Tutta la Campania

Descrizione sintetica del prodottoDolce cilindrico, con testa bombata, quasi a forma di fungo, molto morbido e bagnato al rum.

Cenni storici e curiositàFamosissimo dolce napoletano, di origine polacca, importato a Napoli dai francesi nel 1800: alla corte polacca era però un dolce duro, come usciva dal forno, ai napoletani va il merito di servirlo bagnato di acqua e zucchero, il che ne fa il dolce morbido per antonomasia.Numerose sono le varianti concernenti la forma e la possibilità di guarnitura con panna o creme pasticciere varie.

Calzoncelli

Territorio interessato alla produzione: Tutto il territorio regionale, ed in particolare la provincia di Salerno, il sannio beneventano, l’Irpinia.

Descrizione sintetica del prodottoHa forma di fagotto o di mezzaluna, o in alcuni casi di una sfera schiacciata con lembi di pasta rialzati spolverata di zucchero a velo. L’impasto è costituito da una sfoglia sottilissima di pasta.

Cenni storici e curiositàLa tradizione vuole che questo prodotto sia consumato soprattutto nel periodo natalizio, ma spesso si comincia a prepararlo con la prima caduta delle castagne.

Divino amore

Zona di produzionetutta la regione
Descrizione del prodottoDolcetti di forma ovale, schiacciati, di pasta di mandorle ricoperti di glassa bianca; tipicamente natalizi.
LavorazioneSi macinano le mandorle, non pelate, quindi si unisce lo zucchero e si impasta con un po’ di acqua fredda fino ad avere un impasto di giusta consistenza. Quindi si aggiungono, sempre mescolando, 2 uova intere ed un rosso, la scorza grattugiata del limone, la vaniglia ed i canditi sminuzzati. Con l’impasto si formano delle masse ovali, si infornano quindi su placche foderate di ostie a 180° per una ventina di minuti. Una volta raffreddati, si tagliano i bordi delle ostie, si spennella con confettura di albicocche diluita con poca acqua e zucchero e si ricopre di ghiaccia bianca (ottenuta con zucchero a velo vainigliato, albume sbattuto a neve ferma), eventualmente addizionata di colorante per alimenti rosa.
Cenni storici e curiositàQuesti gustosi dolcetti fanno parte della tradizione gastronomica natalizia napoletana, vennero preparati per la prima volta dalle monache dell’omonimo convento del Divino Amore che si trovava a via San Biagio dei Librai, detta Spaccanapoli a Napoli, in onore, della madre di Carlo II d’Angiò. Del convento, oltre questo dolce, oggi è rimasto soltanto il chiostro monumentale, che è annesso all’Ospedale degli Incurabili.

Panesillo di Ponte

Territorio interessato alla produzione: Comune di Ponte (BN).

Descrizione sintetica del prodottoProdotto dolciario da forno di antica tradizione dall’impasto soffice ed appena guarnito, preparato con farina di grano tenero, uova fresche, zucchero, latte, lievito naturale, succo d’arancia, cioccolato per la copertura.

Cenni storici e curiositàIl Panesillo di ponte è un prodotto tradizionalmente confezionato, nelle famiglie e nei laboratori artigianali, in un ristretto territorio del Beneventano, coincidente di fatto con il solo comune di Ponte; è un dolce tipicamente natalizio, che viene scambiato come strenna.

Raffioli

Territorio interessato alla produzione: Tutta la regione

Descrizione sintetica del prodottoSono dolci a base di pan di Spagna, di forma ovale, ripieni solitamente con marmellata di albicocche sulla faccia superiore e con glassa di zucchero sulla parte inferiore. Esistono anche i raffiuoli “a cassata” che sono farciti con una crema formata da: ricotta, cioccolato, zucchero, canditi, cannella maraschino e vainiglia.

Cenni storici e curiositàSono dolci tipici della tradizione pasquale e di quella natalizia.

Sfogliatella

Territorio interessato alla produzione: tutta la regione

Descrizione sintetica del prodottoHanno forma triangolare con una consistenza morbida ma consistente. Sono composti di farina, zucchero, sale, strutto, uova, semolino, ricotta di pecora o vacca, canditi misti, vaniglia, cannella, zucchero a velo e acqua.

Cenni storici e curiositàNella città di Napoli alcuni laboratori industriali di pasticceria si sono specializzati già da oltre un secolo per alcuni dolci e tra questi soprattutto per la sfogliatella, che sfornano continuamente per offrirla ai passanti sempre appena sfornata, fragrante e profumata di acqua di fiori d’aranci’ e di zucchero a velo.Perchè da quella ingegnosa scoperta effettuata da una monaca del monastero di Conca dei Marini (SA); dagli albori del ‘700 ad oggi la ricetta ci è stato tramandata con solo qualche modifica degli ingredienti ma dalla forma centenaria.La scoperta originale avvenne perché la monaca addetta alla cucina sbagliando in eccesso le dosi del “biancomangiare”, composto da semola cotta nel latte, ebbe l’idea di confezionare un dolce aggiungendo così all’impasto alcune gocce dilimoncello, dei pezzi di susine,albicocche e pere disseccate,poi pose il composto fra due “pettole” cioè pasta di pane insaporita con mezzo bicchiere di vino,dello strutto e dello zucchero, alla fine pose la “grandissima sfogliata” nel forno molto caldo ed attese che si indorasse. La Badessa trovò deliziosa l’invenzione disponendo che fosse preparata ogni 30 agosto in occasione della santa fondatrice dell’ordine. Inoltre la badessa ordinò che ogni monaca donasse un pezzo della “trovata pasticciera” ad ogni famiglia del paese e di tutti i benefattori. La dolce ricetta una volta trapelata, fu poi modificata dai pasticcieri della Campania sostituendo i frutti secchi con i canditi e rimpicciolendone la forma sino alla moderna sfogliatella.

Puccellato dolce

Territorio interessato alla produzione: Prodotto tipico originario ed esclusivo di Fragneto ‘l’Abate (BN).

Descrizione sintetica del prodottoProdotto da forno che viene prodotto durante il periodo pasquale, a base di uova, farina, zucchero, burro ed altri aromi (vaniglia, liquore, cedro, uva passita). Le origini del dolce sono sicuramente antichissime tanto da perdersi nella memoria della gente anziana del luogo. Certamente era prodotto nei primi anni del 900, in epoca anteriore alla I^ Guerra mondiale.

Vino cotto

Territorio interessato alla produzione:
Aree vitivinicole della Campania
Descrizione
Si tratta in realtà di uno sciroppo denso, analcoolico, di colore scuro caramello, profumo caratteristico, intenso sapore dolce. Prodotto di partenza è il mosto ottenuto dalla pigiatura dell’uva, soprattutto di vitigno aglianico. Il mosto viene fatto cuocere in pentole scoperte, a temperatura viva, ottenendo la parziale caramellizzazione degli zuccheri e la concentrazione del prodotto (alla fine il volume ottenuto è pari ad un quarto di quello iniziale). Il mosto viene quindi lasciato a raffreddare e sedimenta spontaneamente, depositando sul fondo residui di bucce e della polpa che vengono utilizzati per confezionare caratteristici tarallini dolci. Viene conservato imbottigliato ed utilizzato per condire la polenta, sull’insalata, per aromatizzare prodotti della pasticceria e gli arrosti di carne.
E’ in uso da decenni e fa parte del rituale della vendemmia di tutte le aree a vocazione vitivinicola della Campania.
Simile alla Sapa dell’Emilia Romagna, mentre in Salento lo chiamano Cuetto.

Ragù napoletano

Territorio interessato alla produzione
tutta la regione
Descrizione sintetica prodotto
Preparazione ottenuta con vari tipi di carne, cotti molto a lungo in salsa di pomodoro, utilizzata per condire la pasta. La carne viene consumata a parte.
Ingredienti
vari tagli di carne, bovina e suina, braciole di carne bovina o cotica, polpette, salsicce di carne e/o di frattaglie;conserva o concentrato di pomodoro;passato di pomodoro;basilico;cipolle bianche o ramate, vecchie;carote, sedano.
Lavorazione
Si utilizzano vari tipi di carne, anche di specie diverse: le più utilizzate sono la “locena” di manzo (corrispondente al taglio noto come “sottospalla” o “spalla” comunque tagli caratterizzati da presenza di grasso, fibrosi, di bovino adulto) in pezzi abbastanza grossi (cinque – sei centimetri) e le “tracchie” di maiale (costine o spuntature, con poca carne e molto grasso); in alcuni casi si aggiungono anche salsiccie di maiale, sia a punta di coltello che di frattaglie (tipo “nnoglia” o “pezzente”, di fegato o polmone suino) o polpette, ottenute impastando mollica di pane raffermo, uova, pecorino grattugiato, e carne bovina e suina tritate insieme. Immancabili le braciole (una fetta piuttosto spessa di carne di “locena” su cui si pone un impasto di formaggio pecorino tritato, aglio, prezzemolo, pinoli ed uva passa, sale e pepe, e che viene arrotolata su sè stessa a formare un involtino, quindi legata con filo di cotone o fermata con stuzzicadenti o spiedini in acciaio. Al posto della carne di manzo può adoperarsi la cotica di maiale, precedentemente sgrassata per bollitura. In tutti i casi la carne viene cotta prima, aggiungendola ad un soffritto abbondante formato da cipolle bianche o ramate “vecchie” (quelle conservate in “serti”), sedano e carota, tritati, in lardo o in olio extravergine di oliva, a fuoco molto basso; la carne può essere steccata con pancetta o prosciutto. La cottura deve avvenire comunque a fuoco bassissimo per evitare una eccessiva disidratazione, aggiungendo vino rosso in più momenti, facendolo evaporare. Una volta rosolata, in tegame, si aumenta di poco la fiamma e si aggiunge concentrato di pomodoro (si usava la conserva, pomodoro passato essiccato al sole in piatti) e quindi, a cottura avanzata, il pomodoro passato, con poco sale, foglie di basilico fresche; alcuni aggiungono un cucchiaio di aceto di vino bianco e dello zucchero in piccolissima quantità.

Cenni storici e curiosità
Tipica preparazione legata al pranzo domenicale napoletano, ha originato la più ricca oleografia della città di Napoli, emblema stesso del patrimonio enogastronomico campano.

Timo delle coste del Mutria

Territorio interessato alla produzione: coste rocciose del monte Mutria, nei territori dei comuni di Pietraroja e Cusano Mutri (BN)
Descrizione sintetica prodotto
Nell’area considerata si rinvengono spontanee due specie del genere Thymus; in particolare si utilizzano, per tisane o per condire minestre ed arrosti, le foglioline e le infiorescenze essiccate di una particolare varietà di Thymus vulgaris che cresce spontanea soprattutto nei terreni aridi e sassosi fino ad un’altitudine di 1.500 m s.l.m.; è una pianta arbustiva perenne alta fino a 40-50 cm con fiori bianchi riuniti a grappolo, fusto legnoso nella parte inferiore e molto ramificato che forma dei cespugli molto compatti, con rami non striscianti; viene invece utilizzata per “conciare” formaggi e ricotta essiccata un’altra specie, Thymus serpillum, comunemente conosciuta in zona con il nome improprio di “pimpinella”, dai fusti più lunghi, striscianti e le foglie più piccole, verde scuro lucido con sfumature violacee e fiori normalmente rosa lilla.
Coltivazione
Cresce spontaneo nei suoli con forte presenza di materiale calcareo, e sulle rocce; tipicamente colonizzatrice di scarpate rocciose, naturali ed artificiali (ad esempio, in corrispondenza di strade montane), dove viene attivamente ricercato e raccolto in primavera – estate, in presenza delle infiorescenze; vengono raccolti i rametti alla fioritura, nel momento di maggiore presenza di olii essenziali; essiccati all’ombra e quindi separate le foglioline ed i fiori, conservati in baratoli in vetro a chiusura ermetica, in luoghi freschi, asciutti e bui.
Cenni storici e curiosità
Il T. vulgaris viene utilizzato soprattutto per tisane, aromatizzare arrosti, zuppe e minestre; il T. Serpillum per la concia di formaggi e ricotta essiccata.

Origano del Matese

Territorio interessato alla produzione
Coste rocciose del massiccio del Matese (CE, BN).
Descrizione sintetica prodotto
Nell’area considerata si rinvengono spontanei diversi ecotipi della specie Origanum vulgare, appartenente alle Lamiacee; in particolare si riconoscono piante a infiorescenza bianca e piante (pirare e secondo alcuni più pregiate) ad infiorescenza di color lilla piu o meno intenso. la pianta perenne, erbacea, alta fra i 30 ed i 40 cm; il tipo piu aromatico e ricco in olii essenziali quello raccolto nelle aree aride sommitali, esposte a mezzogiorno, del massiccio calcareo.
Coltivazione
Cresce spontaneo nei suoli con forte presenza di materiale calcareo, e sulle rocce; tipicamente colonizzatrice di scarpate rocciose, naturali ed artificiali (ad esempio, in corrispondenza di strade montane), dove viene attivamente ricercato e raccolto in estate, in presenza delle infiorescenze; viene raccolto alla fioritura, nel momento di maggiore presenza di olii essenziali; essiccato all’ombra e quindi separate le foglioline ed i fiori, conservati in barattoli in vetro a chiusura ermetica, in luoghi freschi, asciutti e bui.
Cenni storici e curiosità
L’origano viene utilizzato soprattutto nella cucina mediterranea in virtù del suo particolare ed inconfondibile profumo. Si usa in innumerevoli preparazioni su carni e su pesce, nelle insalate di pomodoro e nella pizza cosiddetta “marinara”.

Papaccelle

Nome geografico abbinato:

Sinonimi e/o termini dialettali: papecchia, pupaccelle,

Regione: Campania

Provincia/e:

Territorio interessato alla produzione: Intero territorio regionale

Descrizione sintetica prodotto: Peperoncino della tipologia TOPEPO con frutti tondi rossi o verdi con polpa dolce e spessa che sono utilizzati per la conservazione sottaceto (con diverse varianti culinarie da zona a zona).Si coltivano anche tipologie piccanti.I frutti “conservati” rientrano in molte ricette tipiche campane.

Produzione in atto: a rischio

Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura:

Materiali, attrezzature e locali utilizzati per la produzione:

Osservazioni sulla tradizionalità, la omogeneità della diffusione e la protrazione nel tempo delle regole produttive:

Costanza del metodo di produzione oltre 25 anni:

Fonte: Mappatura dei Prodotti Tipici e Tradizionali 2005 – Regione Campania, Settore Se.SIRCA.

Olio extravergine di oliva Sannio Caudino Telesino

Descrizione del prodotto: L’olio extravergine di oliva “Sannio-Caudino Telesino”, al consumo, si presenta di colore giallo, con sfumature verdi, da giovane. All’olfatto denota piacevoli note erbacee, con chiarissimi sentori di mela matura, evidenti anche al gusto, e, in misura decisamente minore, di pomodoro; all’assaggio è armonico e delicato, con gradevoli note di amaro e piccante.
L’olio deve possedere acidità non superiore allo 0,50%, con un contenuto di polifenoli maggiore o uguale a 100 mg/kg.
Le caratteristiche organolettiche dell’olio sono fortemente influenzate dalla base varietale, imperniata sulle cultivar Ortolana (detta Melella proprio per le note aromatiche che induce nell’olio), Sprina e Racipopella, che devono essere presenti negli oliveti per non meno del 60 %.
E’ ammessa la presenza delle varietà Femminella (o Curatora), Ortice, Pampagliosa, Frantoio, Leccino, Moraiolo, da sole o congiuntamente, in misura non superiore al 30% e di altre varietà nella misura massima del 10%.
La produzione massima di olive per pianta è fissata in 40 kg, la massima per ettaro in oliveti specializzati è di 10 t, la resa al frantoio non può superare il 18%.
Le olive devono essere raccolte, a mano o con l’ausilio di mezzi meccanici, entro e non oltre il 31 dicembre e devono essere molite entro il secondo giorno dalla raccolta.

Cenni storici: L’olivicoltura nella zona ha radici antichissime. Unitamente alla vite, infatti, ha da sempre caratterizzato il paesaggio rurale, costituendo la principale fonte di reddito per le popolazioni locali.

Area di produzione: L’area di produzione interessa 35 comuni, tutti in provincia di Benevento, collocati sulle dolci colline della Valle Telesina, della Valle Caudina e del Monte Taburno. Le operazioni di oleificazione devono avvenire nell’interno della zona di produzione dell olive.

Dati economici: La zona delimitata dal Disciplinare ingloba 6.199 ettari di oliveto, con oltre un milione di piante di olivo, distribuite in oltre 11.000 aziende. La produzione olivicola dell’area è stimata in circa 50.000 qli di olio.

Fonte: Assessorato all’Agricoltura della Regione Campania

Olio extravergine di oliva Sannio Colline Beneventane

Descrizione del prodotto: L’olio extravergine di oliva “Colline Beneventane”, al consumo, si presenta di colore giallo, con intense sfumature verdi, da giovane. All’olfatto rivela piacevoli note erbacee, con netti sentori di pomodoro maturo, percepibili distintamente anche al gusto; all’assaggio è sempre armonico, con gradevoli e, talora, intense sensazioni di amaro e piccante, in armonia con l’elevata percentuale in polifenoli, sempre maggiori di 150 mg/kg. L’acidità non può superare il valore di 0,50% e il punteggio al panel test non deve essere inferiore a 7.
Il pregio dell’olio Colline Beneventane è da attribuirsi in gran parte alla perfetta armonia, consolidatasi nei secoli, tra l’ambiente e le varietà locali, prime tra tutte l’Ortice. Infatti il Disciplinare di produzione in via di approvazione ammette alla produzione della DOP solo oliveti in cui l’Ortice è presente per non meno del 60 % (percentuale che si eleva al 70 % nel caso dei nuovi impianti); possono, inoltre, essere utilizzate le varietà Frantoio, Leccino, Racioppella, Ortolana e Moraiolo fino al 30% e altre varietà presenti nella zona per il rimanente 10%.
Solo il rispetto delle regole fissate dal Disciplinare consente all’olio di manifestare a pieno le caratteristiche di tipicità.
Le olive devono essere raccolte, a mano o con mezzi meccanici, entro il 31 dicembre di ogni anno, trasportate in modo idoneo al frantoio per evitare danni e conservate in condizioni di bassa umidità relativa e di basse temperature. A tale scopo le olive vanno conservate in cassette forate dalla capacità massima di 25 kg e molite entro i 2 giorni dalla raccolta.
La produzione di olive per pianta non può eccedere i 40 kg, quella ad ettaro le 10 t; la resa al frantoio non può superare il 23%.
Per l’estrazione dell’olio sono ammessi soltanto processi meccanici e fisici che preservino il più fedelmente le caratteristiche del frutto.

Cenni storici: In Campania l’introduzione della coltivazione dell’olivo risale ai greci ed ai fenici che diffusero l’uso dell’olio come alimento, ma anche come componente di unguenti e profumi, in tutti i territori colonizzati. I romani, poi, estesero la coltivazione dell’olivo in tutta la regione e, in grande misura, in provincia di Benevento. “Iuvat olea magnum vestire Taburnum (conviene rivestire di oliveti il grande Taburno)” sosteneva Virgilio nelle Georgiche; e l’olivo, già presente nel Sannio al VI sec a.C., si estese rapidamente in tutte le aree a vocazione olivicola, come è ampiamente documentato dai numerosi reperti conservati nei vari musei provinciali.
La tradizionalità della coltura e i suoi pregi, certificati dai numerosi premi ottenuti in questi anni, stanno per essere riconosciuti con il conferimento della DOP all’olio extravergine di oliva Colline Beneventane.

Area di produzione: Il territorio delle Colline Beneventane, che comprende 52 comuni, si estende dalle Colline alte del Tammaro e del Fortore, attraverso la Piana del Calore, fino ai primi contrafforti del Taburno e del Partenio.Le operazioni di oleificazione devono avvenire nell’interno della zona di produzione delle olive.

Dati economici: La zona delimitata dal Disciplinare copre una superficie olivetata di 5000 Ha, con un patrimonio di circa 1,5 milioni di piante di olivo. Le aziende olivicole ammontano a circa 13.000 unità, con una produzione in olio stimata in 50.000 qli.

Fonte: Assessorato all’Agricoltura della Regione Campania

Malaca

Territorio interessato alla produzione
Guardia Sanframondi (BN)
Descrizione sintetica prodotto
Bevanda idroalcolica ottenuta partendo da uve locali a bacca bianca, del tipo “Agostinella” ma anche Malvasia di Candia e Moscato di Baselice raccolte a maturità molto avanzata, lasciando fermentare il mosto previa concentrazione di una parte di quest’ultimo; la gradazione alcolica è normalmente compresa fra i 22 ed i 26 gradi alcolici e 10 – 15° di zucchero; il colore è ambrato caruico, consistenza liquorosa, profumi intensi e persistentidi frutta secca, albicocca ed ananas.
Descrizione delle metodiche di lavorazione, condizionamento, stagionatura
Bevanda idroalcolica ottenuta partendo da uve locali a bacca bianca, del tipo “Agostinella” ma anche Malvasia di Candia e Moscato di Baselice raccolte a maturità molto avanzata, concentrando, per bollitura, una rilevante parte del mosto ottenuto nelle consuete modalità, fino a quando la massa del mosto concentrato risulta essere diminuita di almeno un terzo di quella iniziale, la massa evaporata viene rimpiazzata dopo un periodo di raffreddamento da mosto normalmente fermentato. Durante la bollitura, che dura circa 8-10 ore in caldaie aperte, tradizionalmente di rame, viene allontanata la schiuma che si forma per mantenere limpido il mosto. Il composto viene direttamente posto in botti di rovere o castagno appositamente dedicate a tale produzione, di dimensioni fra i 50 ed i 100 litri, e lasciata fermentare per 40 giorni rabboccando la botte con altro mosto in fermentazione, tenuto da parte in altro recipiente. Dopo i quaranta giorni si rabbocca completamente e si tappa con un sughero sigillato con mastice. la botte viene posta in cantina, ermeticamente chiusa, per tre anni. dopo i tre anni la botte risulta piena per metà; il prodotto viene quindi imbottigliato.

Le cantine sono quelle tradizionali di Guardia Sanframondi, scavate nel sottosuolo calcareo con temperature ed umidità costanti nell’arco dell’anno.

Dugenta IGT

Zona di produzione: provincia di Benevento

Tipologie: Bianco; Rosato; Rosso nelle tipologie normale e Novello

Resa max per ettaro: 16 tonnellate per i vini a indicazione geografica tipica Dugenta bianco e 14 per quelli ad indicazione geografica tipica Dugenta rosso. La resa max dell’uva in vino finito, comunque, non deve superare il 75% per tutti i tipi.

Titolo alcolometrico minimo: 9,5% per i banchi; 10% per i rossi e i rosati. Nel caso di annata sfavorevole tali valori si possono ridurre dello 0,5%. All’atto dell’immissione al consumo, invece, occorre rispettare i seguenti parametri: 10% (bianco); 10,5% (rosso e rosato), 11% novello.

Riferimenti normativi: Dm 22.11.95; Dm 09.04.96

Sant’Agata dei Goti DOC

Zona di produzione: il Comune di Sant’Agata dei Goti

Vitigni: Bianco Doc: 40-60% con uve del vitigno Falanghina, 40-60% con uve dal vitigno Greco e per il resto da altri vitigni della zona. Falanghina: 90% dall’omonimo vitigno con l’aggiunta di altri vitigni a bacca bianca non aromatici. Rosso e Rosato: Aglianico in percentuale compresa tra il 40 e il 60% con Piedirosso (40-60%) con eventuale aggiunta di altre uve della zona per il 20%. Il Greco, il Bianco e il Piedirosso provengono per almeno il 90% dagli omonimi vitigni

Gradazione alcolica minima: Bianco 11 gradi. Rosso e Aglianico 11,5 gradi

Tipologie: Bianco, Rosso, Rosato, Greco, Aglianico, Greco, Falanghina, Falanghina Passito e Piedirosso

Caratteristiche organolettiche: Sant’Agata dei Goti Doc Bianco: colore dal bianco al giallo paglierino, odore intenso, fine, persistente e sapore pieno e delicato. Rosso: colore rubino piuttosto intenso, odore vinoso e sapore secco, fresco. Aglianico: colore rosso più o meno intenso, talvolta tendente al granato, odore armonico, persistente e sapore equilibrato e giustamente tannico

Abbinamenti: Sant’Agata dei Goti Doc Bianco, Greco e Falanghina: antipasti di pesce, pizza Margherita, mozzarella impanata e fritta, pastasciutta al sugo di pesce, fritto di piccoli pesci, carciofi di Paestum, minestroni e lasagne, zuppa alla marinara, timballi, calamari e caciocavallo. Rosato e Rosso: provolone del monaco, salsicce e salame. Falanghina Passito: babà, pastiera, sfogliatelle. Piedirosso: peperoni imbottiti, coniglio alla cacciatora e formaggi tipici locali stagionati.

Riferimenti normativi: La Doc Sant’Agata dei Goti è stata riconosciuta con DM del 03.08.1993 pubblicato sulla GU del 21.08.1993

Benevento o Beneventano IGT

Zona di produzione: provincia di Benevento

Bianco: nelle tipologie frizzante, amabile e passito.

Rosso: frizzante, amabile, passito e novello.

Rosato: frizzante e amabile.

Vitigni: Le uve devono essere quelle raccomandate o autorizzate in provincia. L’indicazione con specificazione di Aglianico, Barbera, Coda di Volpe bianca, Falangina, Fiano, Greco, Moscato bianco, Piedirosso e Sciascinoso è riservata ai vini realizzati almeno con l’85% dei vitigni corrispondenti. È consentito, inoltre, l’uso di uve ricavate da vitigni a bacca di colore analogo purché autorizzati per la provincia di Benevento fino ad un massimo del 15%.

Resa max per ettaro: 17 tonnellate per i vini a indicazione geografica tipica Beneventano bianco, 16 con la specificazione del vitigno; 15 per quelli ad indicazione geografica tipica Dugenta rosso, 14 con la specificazione del vitigno. La resa max dell’uva in vino finito, comunque, non deve superare il 75% per tutti i tipi, tranne se passito (50%).

Titolo alcolometrico minimo: 9,5% per i banchi; 10% per i rossi e i rosati. Nel caso di annata sfavorevole tali valori si possono ridurre dello 0,5%. All’atto dell’immissione al consumo, invece, occorre rispettare i seguenti parametri: 10% (bianco); 10,5% (rosso e rosato), 11% (novello).

Riferimenti normativi: Dm 22.11.95; Dm 06.08.97

Aglianico del Taburno DOCG

Zona di produzione: i terreni collinari di alcuni Comuni della provincia di Benevento. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti i cui terreni siano di orientamento adatto ed ubicati ad una altitudine compresa tra i 100 ed i 600 metri s.l.m..

Vitigni: Aglianico 85%, Piedirosso, Sciascinoso, Sangio-vese, da soli o congiuntamente, fino ad un massimo del 15%.

Resa massima per ha: 130 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Tipologie: Rosato, Rosso.

Guardiolo DOC

Zona di produzione: i comuni di Guardia Sanframondi, San Lorenzo Maggiore, San Lupo e Castelvenere, tutti in provincia di Benevento

Vitigni: Il Bianco è ottenuto al 50-70% da uve del vitigno Malvasia di Candia e da quello Falanghina per il 20-30% con l’aggiunta eventuale di altri vitigni a bacca bianca per un massimo del 10%. Il Rosso proviene dai vitigni Sangiovese per un valore minimo dell’80% con l’eventuale aggiunta di altri vitigni a bacca rossa per un massimo del 20%, mentre lo Spumante proviene al 70% dal vitigno Falanghina con l’aggiunta di Malvasia e/o altri vitigni a bacca bianca per il 30%

Gradazione alcolica minima: Bianco 11 gradi. Rosso 11,5 gradi. Spumante 11 gradi

Caratteristiche organolettiche: Bianco: colore giallo paglierino più o meno intenso; odore delicato e gradevole; sapore secco, fresco e armonico. Rosso: colore rosso rubino, più o meno intenso, tendente al granato per il tipo Riserva; odore vinoso con sfumature di fruttato; sapore secco, giustamente tannico, armonico. Guardia Sanframondi o Guardiolo Spumante: colore giallo paglierino con riflessi verdolini e bollicine abbastanza fini e numerose; odore intenso e persistente, floreale (fiori bianchi e gialli freschi) e sentori fragranti di lieviti, gusto secco, poco morbido, fresco, abbastanza sapido, di corpo, abbastanza equilibrato, con gradevole e delicata sensazione finale amarognola.

Tipologie: Bianco, Rosso (anche Riserva e Novello), Rosato, Falanghina, Spumante e Aglianico

Abbinamenti: Bianco: timballi e calamari in umido, mozzarella di bufala e carciofi di Paestum. Rosso: capocollo campano, salsiccia, cervellatine, carni rosse e selvaggina.
Lo Spumante: antipasti di salumi tipici campani, frittate con salumi ed erbe aromatiche, pesci di mare fritti, zuppa di vongole alla napoletana, pesci al forno ripieni (olio d’oliva, aglio e prezzemolo), crostacei salsati con maionese, pastasciutte e risotti al sugo bianco di crostacei e vegetali

Riferimenti normativi: La Doc Guardia Sanframondi è stata riconosciuta con DM del 02.08.1993, pubblicato sulla GU del 18.08.1993

Sannio DOC

Zona di produzione: tutta la provincia di Benevento

Vitigni: Bianco: almeno 50% uve Trebbiano Toscano con l’aggiunta eventuale di uve di altri vitigni a bacca bianca raccomandati e/o autorizzati della zona. Rosso: almeno 50% uve Sangiovese, a cui possono essere aggiunte quelle di altri vitigni a bacca nera raccomandati e/o autorizzati nella zona; Falanghina: 85% dall’omonimo vitigno, come le tipologie, Greco, Fiano, Moscato, Barbera e Aglianico. Sannio Spumante metodo classico: esclusivamente da uve dei vitigni Aglianico, Greco e Falanghina, da soli o congiuntamente

Gradazione alcolica minima: Bianco 10,5 gradi. Rosso 11 gradi. Spumante 11,5 gradi.

Tipologie: Bianco, Rosso, Rosato, Spumante Metodo Classico, Aglianico, Barbera, Piedirosso, Sciascinoso, Coda di Volpe, Falanghina, Fiano, Greco e Moscato.

Caratteristiche organolettiche: Bianco colore giallo paglierino più o meno intenso; odore vinoso, gradevole, sapore asciutto, armonico, a volte vivace e/o amabile. Rosso colore rubino, più o meno intenso; odore vinoso, gradevole; sapore secco, giustamente tannico, a volte vivace, morbido e/o amabile. Sannio Spumante metodo classico ha spuma fine e persistente, colore paglierino o rosa più o meno intenso, odore gradevole, caratteristico; sapore secco, armonico, fresco.

Abbinamenti: Sannio Bianco: timballi e calamari in umido, pesci alla griglia, zuppe e fritture di pesce. Rosso: capocollo campano, sartu’ di riso, zuppa di cardoni e coniglio all’ischitana. Spumante: ostriche, crostacei e zuppe di vongole.

Riferimenti normativi: La Doc Sannio è stata riconosciuta con DM del 05.08.1997, pubblicato sulla GU del 02.09.1997

Miele campano di girasole

Territorio interessato alla produzioneIntera Regione CampaniaDescrizione del prodottoIl miele di girasole viene raccolto manualmente tra aprile e ottobre e viene lasciato a maturare per 3-4 settimane; è poi confezionato in contenitori di vetro e posto in commercio non oltre l’autunno dell’anno successivo a quello di raccolta.Il miele di girasole, prodotto e confezionato con le stesse modalità di quelli di acacia e di castagno è, a differenza di questi ultimi due, un tipo di miele che tende a cristallizzare. Anch’esso utilizzato da solo o in pasticceria, ha un colore giallo vivo e odore delicato di cera e paglia. Il sapore è molto particolare, leggermente erbaceo e molto rinfrescante.

Miele campano di sulla

Territorio interessato alla produzione: Tutti i comuni della regione.

Descrizione sintetica del prodottoMiele prodotto con nettare di fiori di piante di sulla.Il prodotto ha un colore chiaro quasi bianco. La cristallizzazione avviene in pasta bianca e compatta, non dura con cristalli facilmente solubili.Ha un odore molto tenue. Un sapore delicato con una gradevole nota caratteristica vegetale. Il tenore di acqua non supera il 18%. Si presta a qualsiasi uso.

Cenni storici e curiositàIl miele è parte integrante della cultura e della storia delle popolazioni locali. Oltre al consumo fresco è tradizionalmente impiegato per la preparazione di dolci, tra i quali spicca il famoso torrone, conosciuto e apprezzato sull’intero territorio nazionale.

Sidro di mela limoncella

Territorio interessato alla produzione: Tutta la provincia di Benevento.

Descrizione sintetica del prodottoBevanda idroalcolica ottenuta dal succo di mela limoncella. Ha origini medievali e si sviluppò soprattutto in nord Europa (prevalentemente in Normandia).Nel Sannio dagli inizi del ‘900 le condizioni di una economia, sostanzialmente povera, unitamente alla scarsezza del vino prodotto rispetto al fabbisogno familiare portarono i contadini ad utilizzare mele locali per la produzione di un vino di frutta. Il sidro del Sannio è realizzato con mele limoncelle e annurche coltivate nell’Alto Sannio. E’ un prodotto dolce, fruttato, ha una buona acidità e 8 gradi alcolici.

Sartù di riso

Territorio interessato alla produzione
Principalmente nella città di Napoli, ma esteso a tutta la regione
Descrizione sintetica prodotto
timballo a base di riso, condito con ragù di carne, piccole polpette, piselli, formaggi, rigaglie di pollo.
Lavorazione
La base del sartù di riso è il ragù napoletano, di cui si utilizza sia il condimento che alcuni pezzi di salsiccia. Si preparano delle piccole polpette (della grandezza d’una nocciola) con carne, pane raffermo ammollato, uova e formaggio grattugiato; si friggono le polpette assieme alle rigaglie (fegatini di pollo) tagliate a pezzetti; si aggiungono piselli precedentemente cotti in un soffritto di cipolla; si amalgama il tutto sul fuoco, aggiungendo del ragù. A parte si lessa il riso; quando è cotto al dente si scola e si aggiunge dell’altro ragù , del parmigiano e delle uova precedentemente sbattute. Si pone il riso così preparato in una teglia grande; al centro, dopo uno strato abbondante, si pongono le polpettine, le rigaglie, i pezzi di salsiccia, i piselli, alternandoli a provola, uova sode e prosciutto cotto tagliati a dadini; si ricopre con altro riso condito, e quindi con pangrattato e riccioli di burro; si pone in forno caldo per la gratinatura.
Cenni storici e curiositàTipico “piatto unico” estremamente nutriente, di elaborata preparazione, parte integrante dei menu delle feste delle famiglie napoletane; fa parte, come altri piatti, dell’influenza che ebbero nell’evoluzione della cucina della città di Napoli, i cosiddetti monzù (cuochi francesi che, a partire dal 700, furono al servizio delle famiglie nobili del Regno delle Due Sicilie nei palazzi della capitale partenopea); non a caso il termine deriva dal francese “sur tout” che sta per indicarne la posizione al culmine delle portate, e per la presenza, sulla sua sommità, di polpettine, piselli, rigaglie.

Scarpella di Castelvenere

Territorio interessato alla produzionecomune di Castelvenere (BN)
DescrizionePiatto tradizionale tipico del Carnevale (coincidente all’incirca anche con la celebrazione del santo patrono di Castelvenere, San Barbato, il 19 febbraio). L’aspetto esterno è simile ad una frittata di pasta ma in realtà si tratta di una “lasagna bianca” cotta al forno a legna (tradizionalmente, nel fornetto di campagna, detto “testo”, in terracotta”) con ingredienti variabili e legati a quanto presente nella dispensa casalinga (formaggi, salumi, etc).
Metodiche di lavorazioneIngredienti: olio extravergine di oliva, formaggio vaccino fresco, salsiccia stagionata, formaggio pecorino stagionato. I primi tre ingredienti erano preparati direttamente da ogni famiglia, utilizzando materie prime ottenute direttamente nel proprio podere; il formaggio pecorino stagionato invece era tipicamente donato dai pastori provenienti dalle montagne matesine in cambio dell’uso del pascolo, in inverno, nei vigneti e negli oliveti dei Castelveneresi. I vari ingredienti vengono aggiunti alla pasta secca di semola di grano duro, già cotta, normalmente dei formati “perciati” o “mezzi ziti”. A 500 gr di pasta, lessata in acqua abbondante poco salata, si aggiunge olio EVO, quindi si pone in una teglia unta di strutto e si aggiungono 300 gr di formaggio vaccino fresco del tipo “primo sale”, 250 grammi di salsiccia stagionata, 150 gr di pecorino stagionato grattugiato. Alla fine si aggiungono 8-10 uova sbattute e poste in forno o sul fuoco del camino, con un coperchio caratteristico, di rame o ghisa; la teglia viene coperta di brace e cenere, per circa un’ora, rinnovando ogni tanto per mantenere la temperatura alta.
Cenni storici e curiositàLa ricetta richiama soltanto nel nome una preparazione molisana del tutto diversa (frittelle di pasta servite semplici o condite); si fa risalire alla dominazione longobarda; è piatto legato alla ritualità popolare carnascialesca, e preparato in occasione delle celebrazioni del Santo Patrono (San Barbato). Viene preparato in tutte le famiglie del paese di Castelvenere, e proposta da alcuni agriturismi locali.
Il nome “Scarpella” indica alcune preparazioni (tutte diverse) che si ritrovano nelle aree interne della Campania, Molise, e Abruzzo, contraddistinte dalla dominazione longobarda. Questa preparazione , assieme ad altre analoghe (pastiere montorese e vermicelli pertosani) rappresenta un tipico “piatto di recupero” tipico del Carnevale, inteso come periodo di transizione verso l’astinenza (carnem levare), e quindi destinato ad esaurire le eventuali rimanenze presenti nelle dispense casalinghe in vista della dieta di magro che contraddistingue la Quaresima e della rinascita coincidente con la Pasqua, con i prodotti dei nuovi raccolti, della fine della stagionatura dei salumi preparati nell’inverno e nelle produzioni lattiero casearie tipiche della primavera. Questa tipologia di preparazioni potrebbero poi avere generato, secondo L. Pignataro, noto esperto enogastronomico, la “carbonara” come oggi la conosciamo.

Frittata di scammaro

Territorio interessato alla produzione
tutta la regione, ma specialmente nel napoletano
Descrizione sintetica prodotto
è una frittata ottenuta tipicamente con gli spaghetti
Lavorazione
si cuociono gli spaghetti o vermicelli in abbondante acqua salata, avendo cura di scolarli molto al dente; in una padella si fa soffriggere delicatamente l’aglio in olio d’oliva; si aggiungono olive nere e capperi, prezzemolo tritato, acciughe sotto olio, uva passa, pinoli. Tolto l’aglio, si condisce la pasta scolata, si mescola bene, quindi si cuoce nella padella iniziale in cui si sarà riscaldato dell’altro olio d’oliva. La cottura deve essere tale da favorire l’agglomerarsi della pasta in un’unica massa, come per la frittata normale; si dovrà formare una crosta croccante, non bruciata, esterna.Cenni storici e curiositàUtilizzata in origine nei conventi nei periodi di magro (da cui scammaro: “i giorni di scammaro”, nel Regno delle Due Sicilie erano quelli di quaresima) perché realizzate senza uova.

Gattò di patate

Territorio interessato alla produzione
Principalmente nella città di Napoli, ma esteso a tutta la regione
Descrizione sintetica prodotto
rustico a base di patate schiacciate con latte ed uova, con ripieno di prosciutto cotto, salame, formaggio pecorino, provola, fiordilatte, o altri formaggi.
Lavorazione
Si lessano le patate intere in acqua salata, preferendo quelle a pasta gialla, compatte; una volta lessate, si sbucciano e si passano nell’apposito attrezzo (schiacciapatate). Si aggiungono latte, uova preventivamente sbattute, parmigiano o pecorino grattugiati, noce moscata, pepe, e si impasta con le mani; si pone l’impasto in una teglia da forno precedentemente imburrata; dopo il primo strato si pone un ripieno, tagliato a dadini, di prosciutto cotto, salame tipo Napoli, scamorza o caciocavallo, o ancora provola affumicata o fiordilatte, ponendoli in questo caso tagliati a dadini per dodici ore in frigorifero, ad asciugare. Si ricopre lo strato di salumi e formaggi con altro impasto di patate, si pongono abbondante pangratto, formaggio grattugiato, fiocchetti di burro sulla superficie superiore, spennellando con rosso d’uovo sbattuto, e ponendo in forno caldo.
Cenni storici e curiosità
Tipico “piatto unico” estremamente nutriente, e di buona serbevolezza anche a temperatura ambiente; il termine deriva dal francese “gateaux” che sta per dolce, torta di cui effettivamente il gattò di patate, pur essendo salato, riproduce la forma.

Braciola

Territorio interessato alla produzione
tutta la regione Campania
Descrizione sintetica prodotto
Preparazione ottenuta con carne di bovino adulto detta “locena” (corrispondente al taglio noto come “sottospalla” o “spalla”) o anche con cotica sgrassata di maiale, cotta molto a lungo nel ragù di cui è componente essenziale.
Lavorazione
Si utilizzano vari tipi di carne di bovino adulto: la più utilizzata è il “vacante di natica” (noce), il “reale” o la “locena” di manzo (corrispondente al taglio noto come “sottospalla” o “spalla” comunque tagli caratterizzati da presenza di grasso, fibrosi) in fette di un centimetro su cui si pone un impasto di formaggio pecorino tritato, aglio, prezzemolo, pinoli ed uva passa, sale e pepe, e che viene arrotolata su sè stessa a formare un involtino, quindi legata con filo di cotone o fermata con stuzzicadenti o spiedini in acciaio. Al posto della carne di manzo può adoperarsi la cotica di maiale, precedentemente sgrassata per bollitura. In tutti i casi la carne viene cotta prima, aggiungendola ad un soffritto abbondante formato da cipolle bianche o ramate “vecchie” (quelle conservate in “serti”), sedano e carota, tritati, in lardo o in olio extravergine di oliva, a fuoco molto basso. Quindi si segue la procedura descritta per il ragù.
Ingredientivari tagli di carne bovina o cotica, in fette spesse un centimetro; formaggio pecorino tritato, aglio, prezzemolo, pinoli ed uva passa, sale e pepe – cipolle bianche o ramate, vecchie; carote, sedano.

Peperone imbottito

Sinonimipuparuolo ‘mbuttunato, peperone ripieno
Territorio di produzioneIntera regione Campania.
Descrizione del prodotto
Peperoni di grande taglia, quadrati o lunghi, solitamente rossi o gialli, di varietà non amare né piccanti, svuotati di picciolo e semi e ripieni di mollica di pane raffermo rinvenuta nell’acqua, carne tritata, pepe, sale, prezzemolo tritato, uovo e parmigiano grattugiato. Esistono comunque numerose varianti che tolgono ad esempio la carne tritata ed aggiungono alici salate, capperi ed olive nere; la base è sempre la mollica di pane ammollata in acqua. sono solitamente cotti in forno, tradizionalmente dopo la cottura del pane, sfruttandone il calore residuo.
Lavorazione
Il ripieno viene impastato e quindi si riempie la cavità dei peperoni crudi avendo cura di non lasciare spazio e di non romperli. La cottura avviene in forno, anche utilizzando la carta stagnola per evitare che si essicchino troppo. La cavità del picciolo sarà poi cosparsa di pane grattugiato preventivamente tostato ed olio extravergine di oliva. La ricetta è tradizionalmente di uso familiare, ma viene proposta da numerosi ristoranti come specialità tipica sopratutto del Cilento, del Sannio e dell’Irpinia, nonché del centro storico di Napoli.

Melanzana a scarpone

Sinonimimulignane a scarpone, mulignane a varchetella
Territorio di produzioneIntera regione Campania.
Descrizione del prodotto
melanzane allungate (varietà cima di viola o lunga di napoli) ripiene, dalla forma caratteristica da cui deriva il nome (scarpone o barchetta).
Lavorazione
Si tagliano le melanzane in due parti uguali per il senso della lunghezza, eliminandone l’apice; si svuotano della polpa spugnosa interna lasciando intera la polpa aderente alla buccia: si realizzano così gli “scarponi” o “barchette”, che vengono fritti. Una volta eliminato l’olio residuo con carta assorbente si riempiono con polpa di melanzane tagliata a dadini piccoli (se quelle già preparate non erano eccessivamente spugnose, si potrà adoperare quanto aspostato, oppure si utilizzerà la polpa di altre melanzane), fritti a loro volta con aglio, mollica di pane ammollata e ben strizzata (facoltativa), olive nere, capperi, scamorza o fior di latte asciugati da almeno un giorno in frigorifero, sale e pepe; l’impasto così ottenuto viene posto negli “scarponi”, con alcuni pomodorini del piennolo spezzettati, cosparso di pane grattugiato e di un filo d’olio extravergine di oliva, quindi passati brevemente in forno.
Cenni storici e curiositàLa ricetta è tradizionalmente di uso familiare, ma viene proposta da numerosi ristoranti come specialità tipica sopratutto del Cilento, del Sannio e dell’Irpinia, nonché del centro storico di Napoli.

Parmigiana di melanzane

Territorio interessato alla produzione
tutta la regione, con innumerevoli varianti.
Descrizione sintetica prodotto
timballo a base di melanzane, condito con ragù di carne, formaggi a pasta filata.
Lavorazione
La base della parmigiana di melanzane sono le melanzane del tipo lungo (cima di viola o lunga napoletana). Le melanzane si tagliano per la lunghezza a listelle, con la buccia, e vengono poste sotto sale per qualche tempo. recuperate le melanzane vengono lavate con acqua fredda ed asciugate, quindi fritte in abbondante olio extravergine di oliva avendo cura che non diventino croccanti o, peggio, bruciate. Una prima variante molto praticata prevede che le melanzane siano fritte previa immersione in uovo battuto, con sale, pepe e formaggio grattugiato (pecorino o parmigiano). In tutti i casi vengono poste su carta assorbente perché perdano l’olio in eccesso, quindi poste a strati in una teglia, alternando le fette di melanzana a caciocavallo o provola o fiordilatte tagliati a listelli (gli ultimi due preventivamente asciugati in frigorifero per 12 – 24 ore), ragù di carne (senza la carne) basilico fresco. Si chiude con uno strato di melanzane ed abbondante formaggio grattugiato; facoltativa, per la gratinatura, l’aggiunta di uovo battuto. Si pone la teglia prima su fuoco vivo e poi in forno caldo per la gratinatura.
Cenni storici e curiosità
La preparazione alla “parmigiana” era già presente nel basso Medio Evo per indicare delle preparazioni tipo timballo di carni o pesce, fritti, disposti a strati, chiusi da un involucro di pasta; con il tempo ha perso l’involucro ed è entrato a far parte per la sua versatilità, tipicamente come antipasto o a sostituire la prima portata o anche la seconda, sia dei menu delle feste delle famiglie napoletane che dell’alimentazione veloce di tutti i giorni, potendosi preparare anche uno o due giorni prima del consumo.

Miele campano di castagno

Territorio interessato alla produzione: Tutta la regione.

Descrizione sintetica del prodottoMiele prodotto con nettare di fiori di alberi di castagno Il prodotto ha un colore da ambrato a marrone scuro, non cristallizza. Odore forte e penetrante. Sapore pungente all’inizio poi più o meno fortemente amaro. Il tenore di acqua non supera il 18%.

Cenni storici e curiositàNella tradizione alimentare il miele occupa un posto di grande importanza. L’artigianato dolciariotradizionale si basa sull’impiego del miele, assieme alla frutta essiccata (noci, nocciole, castagne, fichi) prodotto fin da tempi antichissimi.

Polenta stampata, alla cucchiaredda, frattaccio

Territorio interessato alla produzione: Aree del Titerno e del Fortore

Descrizione sintetica del prodottoSi tratta di preparazioni a base di mais di tipo locale, a pannocchia di solito piccola, raccorciata, colore tendente all’aranciato (ad esempio, mais della quarantina o altre) che contrariamente ad altre zone hanno rappresentato, nel territorio considerato, una importante risorsa alimentare fin dagli inizi dell’ottocento.Le farine ricavate, con forte componente vitrea, venivano utilizzate per produrre polenta che poi veniva condita o trattata in diversi modi:

polenta stampata, fatta raffreddare e stesa in uno strato dello spessore di 2-3 cm, quindi arrostita brevemente su pietra o su mattone, usata come pane e quindi condita con carne di ragù o salsiccia o fagioli e verdure;
polenta alla cucchiaredda, servita più morbida e condita con cucchiaiate di ragù frammezzate da strati polenta;
frattaccio: polenta stesa e poi fritta nella sugna, nell’olio o nel burro ed usata come crostino per accompagnare zuppe di legumi e verdure.

Miele campano di acacia

Territorio interessato alla produzione: Tutti i comuni della regione.

Descrizione sintetica del prodottoMiele prodotto con nettare di fiori di piante di acacia.Il prodotto ha un colore molto chiaro, non cristallizza. Odore molto leggero ma caratteristico. Sapore molto delicato, che ricorda leggermente il profumo dei fiori, vanigliato. Il tenore di acqua non supera il 18%.Trova uso come miele da tavola e come dolcificante naturale, nonché nella preparazione di diversi dolci (gli “struffoli” natalizi, ad esempio).

Cenni storici e curiositàIl miele è parte integrante della cultura e della storia delle popolazioni locali. Oltre al consumo fresco è tradizionalmente impiegato per la preparazione di dolci, tra i quali spicca il torrone nelle sue varie tipologie, conosciuto e apprezzato sull’intero territorio nazionale.

Pizza sulla liscia

Territorio interessato alla produzione: Fascia pedemontana del massiccio del Matese Beneventano

Descrizione sintetica del prodottoLa pizza sulla liscia è un prodotto realizzato con farina di mais della varietà locale detta “Quarantina”, acqua calda, sale, pepe, strutto, olio extravergine di oliva e cicoli di maiale, impastati fra loro; l’impasto, in forme schiacciate ed allungate, del peso di 2-6 Kg, spessore 2-3 cm, viene cotto su una pietra arroventata denominata “liscia”.

Pane di patate

Territorio interessato alla produzione: Comune di Cusano Mutri (BN)

Descrizione sintetica del prodottoProdotto in pezzature da 0,5 Kg fino a 2,5 Kg, con forma allungata o rotonda, alte 15-20 cm; il colore della crosta è giallo dorato fino a bruno scuro secondo il livello di cottura, mollica elastica, molto consistente ed abbastanza tenace, con occhiatura di varia grandezza e distribuzione, di colore giallo-paglierino.

Cenni storici e curiositàAnticamente veniva preparato in tutte le case e costituiva l’alimento base per tutte le famiglie. In tempi recenti ha conosciuto un periodo di forte calo nei consumi, ma oggi è nuovamente apprezzato anche grazie all’impegno di un produttore locale.Prodotto di antica origine, la sua preparazione ed i suoi ingredienti sono rimasti pressoché identici ed invariati.E’ molto ricercato in zona e nelle aree limitrofe.Viene prodotto e consumato a livello locale, anche se è molto apprezzato dai visitatori delle sagre che hanno luogo nel comune di Cusano Mutri in estate.

Pecorino di Pietraroja

Territorio interessato alla produzione: Comune di Pietraroja (BN).

Descrizione sintetica del prodottoFormaggio di pecora a pasta morbida con struttura compatta e rarissime occhiature. Si differenzia dagli altri formaggi di latte di pecora per le dimensioni maggiori, in particolare per il diametro delle forme, che può raggiungere i 35-40 cm, con una altezza dello scalzo di 12-15 cm, e per l’uso della cosiddetta “acquazizza”, sorta di caglio liquido prodotto artigianalmente.Con l’avanzare della maturazione e con l’uso di diversi metodi, il sapore passa da dolce con pasta bianca e morbida ad una pasta più elastica con colore leggermente paglierino e sapore dolce ma più marcato, fino ad acquistare consistenza compatta e frattura a scaglie di colore paglierino più marcato, sapore deciso e tendenzialmente piccante.Alla vista si presenta di colore giallo paglierino deciso, lucido per l’applicazione di olio extravergine di oliva sulla crosta, con evidenti impronte delle fascere, fino al colore bruno delle forme più stagionate.

Formaggio duro di latte di pecora, capra e vacca

Territorio interessato alla produzione: Aree montane del Matese Beneventano, comune di Cusano Mutri ed aree limitrofe (BN).

Descrizione sintetica del prodottoFormaggio a pasta dura, prodotto con latte proveniente da allevamenti di piccole e medie dimensioni, da bovine in prevalenza di razza bruna o pezzata rossa italiana, capre e pecore di razze locali, con stagionatura media (da 2 a 6 – 12 mesi), che avviene in locali aereati di tipo tradizionale, in area montana.Colore della pasta giallo paglierino molto chiaro, variabile con la stagione di produzione; crosta color giallastra quindi nocciola chiaro, tendente a scurirsi con l’avanzare della stagionatura. consistenza elastica prima e quindi granulosa con cristalli proteici evidenti, e frattura a scaglie.

Salsiccia rossa di Castelpoto

Territorio interessato alla produzione: Territorio comunale di Castelpoto ed aree limitrofe.

Descrizione sintetica del prodottoSalsiccia di forma cilindrica della lunghezza di 10-15 cm e del diametro di minimo 2 cm, del peso di circa 80 g detta “capuzziello”. Il colore è rosso scuro tendente al mattone; l’odore è intenso e conserva il flavour del peperone “papauli”; la consistenza al taglio è morbida, non elastica; il gusto piccante o dolce a seconda della tipologia.Il prodotto non contiene additivi chimici aggiunti, quali conservanti, coadiuvanti tecnologici, coloranti e antiossidanti. Generalmente per la vendita è esposta sotto forma di catene costituite da 8-10 capuzzielli; è venduta tal quale o in confezioni sotto vuoto, in barattolo di vetro sotto olio extra vergine di oliva o sotto sugna.E’ prodotta una variante prelibata detta “capoziro” in quanto in passato conservata nella “zira”, contenitore di creta utilizzato per mantenere le salsicce sott’olio o sotto sugna. Tale prodotto lungo 20 cm, con diametro di circa 5 cm, pesa fino a 300 gr.

Cenni storici e curiositàLa salsiccia rossa di Castelpoto serba nella sua storia un’impronta di origine Longobarda, tenuto conto che l’allevamento del suino era già praticato in Castrum Potonis dal “porcaio del duca”, come raccontano gli abitanti di Castelpoto. Tale tradizione medievale si è conservata fino ad oggi; infatti, molte famiglie del luogo allevano in proprio il maiale producendo, secondo ricette gelosamente tramandate, questa eccellenza gastronomica. Il prodotto è ampiamente conosciuto nell’area rilevata ed è molto diffuso, rientrando nelle normali preparazioni di macelleria, sia nei piccoli centri che nelle grandi città; è sicuramente trasformato da almeno 25 anni, come accertato attraverso le testimonianze raccolte in zona.

Salsiccia r’ poc

Territorio interessato alla produzione: Comuni del Sannio Beneventano, in particolare Cusano Mutri, Cerreto Sannita, Guardia Sanframondi, Pietraroja (BN).

Descrizione sintetica del prodottoLa Salsiccia r’ Poc si presenta di forma cilindrica, con diametro 2-4 cm., con lunghezza totale max di 100 cm, con una legatura centrale e le due finali accoppiate, in modo da apparire ripiegata.Colore bruno scuro; visibili i pezzi di lardo. Sapore forte e deciso, note evidenti di affumicatura. Viene utilizzata appena appassita cotta nella sugna o conservata in recipienti di terracotta smaltata (ziri), nei ragù, zuppe, cotte sotto la cenere dei camini, avvolta nelle foglie di “minestra”.