Raschera DOP

Materia prima: latte vaccino (raramente si aggiungono piccole percentuali di latte ovino e caprino) da razza bovina piemontese. Alimentazione: costituita da foraggio fresco o fieno composto da più specie vegetali (secondo il disciplinare).Tecnologia di preparazione:si porta il latte crudo, spesso appena munto, a circa 28 gradi, aggiungendovi caglio liquido e coprendo il recipiente(“gerla”) con un telo di lana. Coagula in circa un’ora. Dopo la rottura della cagliata, tagliandola e poi sbattendola con lo spino, la massa viene raccolta con un telo di canapa, sistemata nelle fascere e pressata per circa l0 minuti. Poi viene sminuzzata e nuovamente pressata per 12/24 ore (o 5 giorni per la forma quadrata). La salatura si effettua a secco, sui due piatti delle forme durante 2 o 3 giorni.Stagionatura: da un minimo di 30 giorni, fino a 2 mesi circa su scaffali di legno.Caratteristiche del prodotto finito:altezza: cm. 8 circa; diametro: cm 30/40; peso: Kg 7/9; forma: cilindrica o quadrata (cm 40 x 40 x 15, peso Kg 12);crosta: compatta a frattura concoide (per il tipo a forma cilindrica) più chiara, a volte leggermente erborinata (per il tipo a forma quadrata); colore: giallognolo.Area di produzione:comuni di Frabosa Soprana e Sottana, Roccaforte Mondovi, Montaldo Mondovi, Roburent, Magliano Alpi (al confine con Ormea), Ormea, Garessio (Val Casotto) – tutti in provincia di Cuneo – a quote superiori a 900 metri sul livello del mare per la raschera di alpeggio. Per quella non d’alpeggio tutto il territorio della provincia di Cuneo. (ll disciplinare distingue le due Raschere).Calendario di produzione:tutto l’anno.Note:prende il nome dall’Alpe Raschera (comune di Magliano Alpi), nell’alto Monregalese, presso il monte Mongioie. La forma quadrata è più antica e trae origine dal fatto che il formaggio era trasportato su muli; infatti é più facile impilare forme quadrate anziché rotonde. Classificato Doc con Dpr del 16.12.1982.

Ormea

Materia prima: latte intero o parzialmente scremato, quasi esclusivamente da razza piemontese. Alimentazione: foraggio fresco, tipico della zona di Ormea.Tecnolgia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 30 gradi, aggiungendovi caglio liquido naturale. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata effettuata con un movimento rotatorio, per un tempo variabile, la massa viene sistemata sulle fascere e sottoposta a pressatura per 4-6 ore. La salatura si effettua a secco con sale grosso, sui due piatti della forma durante una settimana circa.Stagionatura: un mese (per il tipo fresco) fino a oltre otto mesi (per il tipo stagionato) nelle cantine di Ormea (intorno ai l0 gradi).Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 8-12; diametro: cm 25 circa;peso: Kg 6 circa; forma: cilindrica; crosta: sottile e chiara, se il prodotto é fresco; dura e più scura se il prodotto é stagionato. Pasta: morbida, di colore giallo avorio o paglierino, per il prodotto fresco. Più asciutta e di colore giallo oro, nel prodotto stagionato; compatta in ogni caso.Area di produzione: Colle dei Termini (in località Stanti, oltre la frazione Viozene ” Pian Rosso “) nell’Ormeasco (CN ).Calendario di produzione: da giugno a settemhre (periodo dell’alpeggio).Note: i produttori di Ormea sono sempre di meno. Attualmente viene privilegiata la produzione della Raschera.

Bruss di Castelmagno

Materia prima: vari tipi di formaggio, ma soprattutto Castelmagno, tagliato a piccoli pezzi.

Tecnologia di lavorazione: si taglia il formaggio a piccoli pezzi, si mescola e si pone in appositi vasi. A volte viene aggiunto latte fresco o siero, o anche
ricotta (seirass). Dopo queste operazioni, la massa viene lasciata fermentare per circa venti giorni. Per regolare la fermentazione si aggiunge infine grappa o rhum o anche genepy. Matura in circa venti giomi in recipienti appositi.

Stagionatura: facoltativa, in ambiente adatto (cantina). Durante questo periodo, la pasta viene rivoltata ogni giorno.

Caratteristiche del prodotto finito: in vasi di terracotta, altezza cm 25-30;diametro: cm 20 circa; pasta: cremosa, spalmabile, di colore biancastro, a
volte tendente al grigio.

Area di produzione: tutto il Cuneese, Castelmagno in particolare.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: un tempo era preparato un po’ in tutte le famiglie sia della montagna che nei fondovalle; era forse un modo per utilizzare avanzi di formaggio e riabilitarli sia per il condimento della polenta, sia per spalmarlo sul pane abbrustolito. Si utilizzava anche come condimento del pane raffermo leggermente inumidito e spalmato con aglio. Un tempo il recipiente di terracotta con il formaggio in fermentazione (la toupino) era esposto al sole.

Bruss di Frabosa

Materia prima: latte e siero di latte residuo della lavorazione della Raschera.

Tecnologia di lavorazione: si porta il siero a circa 100 gradi, per alcune ore. Il coagulo formatosi viene sistemato su teli di canapa o di lino ove viene impastato. Dopo queste operazioni, la massa viene sistemata in recipienti preferibilmente di coccio (ma oggi viene usata anche la plastica). Matura in circa tre settimane, aggiungendo quotidianamente un po’ di latte vaccino.

Stagionatura: facoltativa, fino a oltre un mese, in ambiente fresco.

Caratteristiche del prodotto finito: pasta: cremosa, morbida, spalmabile, bianca.

Area di produzione: Frabosa e zona della Raschera,in genere.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: vedi Bruss di Castelmagno.

Formaggio di “caso”

Materia prima: latte intero o parzialmente scremato.Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 30 gradi, aggiungendovi caglio liquido. Coagula in un’ora. Dopo la rottura della cagliata, svolta in due fasi, la massa viene fatta maturare per tre giorni, previa separazione dal siero. Viene quindi disposta nelle forme e pressata per due giorni. Infine si tolgono le fascere. La salatura si effettua per bagno in salamoia durante un giorno. Matura in un mese, in ambiente a giusta umidità.Stagionatura: fino a tre mesi circa,in ambiente non troppo asciutto.Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 15 circa; diametro: cm 20 circa; forma: cilindrica; crosta: ruvida, marrone chiaro; pasta: bianca con chiazze bluastre. Il prodotto é anche venduto fresco ed ha un sapore assai vicino al Nostrale, più stagionato ricorda il Castelmagno, acquistando un sapore amarognolo e sapido.Area di produzione: Elva (Val Maira, CN).Calendario di produzione: tutto l’anno.Note: questo formaggio é stato sempre prodotto in Elva da ogni singola famiglia da tempi lontanissimi (di qui il nome occitano: formaggio di casa). Il caseificio locale aperto nel 1989 ne ha iniziato la produzione artigianale e la vendita puntando sul ripopolamento del paese.

Toma di Boves

Materia prima: latte appena munto, oppure parzialmente scremato per affioramento, da razza piemontese. Alimentazione: foraggio fresco, oppure fieno con farina e fiocchi di mais.Tecnologia di lavorazione: come per la Toma di Balme. Matura in circa un mese, in ambiente ad umidità media; inadatto il frigorifero.Stagionatura: fino a oltre tre mesi.Caratterstiche del prodotto finito: altezza: cm. 6-7; diametro: cm. 20-30; peso: Kg. 2-8; forma: cilindrica; crosta: ruvida, giallo scuro; pasta: con occhiatura pronunciata, colore giallo-oro.Area di produzione: Boves e zone limitrofe.Calendario di produzione: tutto l’anno.Note: differisce dal modello di Balme solo per la razza e per la forma.

Castelmagno DOP

Materia prima: latte intero vaccino (con rare, eventuali aggiunte di piccole percentuali di latte ovino e caprino) da razza piemontese. Alimentazione: foraggio fresco o fieno proveniente da prati misti o pascoli; di particolare pregio quello di Castelmagno.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 37-38 gradi, aggiungendovi caglio liquido. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata, si lascia riposare il tutto per 35 minuti, quindi viene raccolto in un telo (detto ” risola ” ), pressato leggermente con le mani e appeso per circa 12 ore a sgocciolare. Dopo queste operazioni, la massa viene depositata in un recipiente di legno e si lascia riposare da 2 a 5 giorni. Quindi viene rimescolata, pressata altri l0 minuti e infine riposta nelle fascere, dove viene pressata con torchio per 1-3 giorni. La salatura si effettua a secco sulle forme, una volta liberate dalle fascere durante circa 48 ore.

Stagionatura: da due fino a cinque mesi circa, in ambiente costituito da grotte naturali, fresche ed umide. Ottime anche le cantine del fondovalle, a
Caraglio.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 10-20; diametro: cm 15-20;peso: Kg 2-7; forma: cilindrica; crosta: sottile, giallo-rossastra, invecchiando diviene più scura e rugosa; pasta: friabile, di colore bianco perlaceo o giallognolo, se stagionato a lungo assume colore giallo oro, con venature
blu.

Area di produzione: comuni di Castelmagno, Pradleves e Monterosso Grana in provincia di Cuneo. Il Castelmagno classico é prodotto e stagionato nel territorio omonimo.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: ha origini antichissime, probabilmente la produzione iniziò intorno all’anno mille. Se ne parla nei documenti ufficiali la prima volta nel 1277 (sentenza arbitrale per l’usufrutto di alcuni pascoli tra i comuni di Castelmagno e Celle di Macra), secondo la quale il canone di affitto annuo da versarsi al Marchese di Saluzzo era fissato in forme di Castelmagno. Secondo alcune fonti,che l’indagine non ha confermato, la produzione attuale sarebbe di 1.000 q.li annui, per un valore di 600 milioni. Classificato Doc con Dpr del 16.12.1982. Non manca né di imitazioni né di prodotti analoghi: tra i quali vanno ricordati il Castelgiosina (Boves, Lurisia, Roccavione etc.) e il Roccaforte di Mondovì oggi virtualmente estinti. Al Castelmagno hanno dedicato ampie monografie
G. Del Forno: I formaggi tipici del Piemonte e della Valle d’Aosta, Savigliano 1981
D. Acconci in Insor: Gastronomia e società, ed. Angeli 1984.

Bra DOP

Materia prima: latte bovino parzialmente scremato (al quale vengono talvolta aggiunte piccole quantità di latte ovino e/o caprino), da razza bovina piemontese (in prevalenza). Alimentazione: foraggio fresco o fieno.Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 29-30 gradi, aggiungendovi caglio liquido di vitello. Talvolta, in inverno, si aggiunge prima latte-innesto. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata svolta in due fasi (prima con movimento rotatorio effettuato per mezzo di uno speciale attrezzo, poi con torchiatura di circa 15 minuti), la massa viene ricomposta, sistemata nelle fascere e pressata per circa sei ore. La salatura si effettua a secco con sale grosso, ad intervalli di 24 ore durante 6 giorni a temperatura di l0-12 gradi. Matura in sei mesi in ambiente a temperatura compresa fra i 10 e i 14 gradi.Stagionatura: da sei mesi fino ad un anno circa.Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 7-9; diametro: cm 30-40; peso: Kg 7-8;forma: cilindrica; crosta: liscia, piuttosto spessa, di colore beige; pasta: con piccola occhiatura rada colore paglierino/ocra, profumata.Grasso: 32% minimo. Sapore: pizzicante.Area di produzione: provincia di Cuneo e comune di Villafranca Piemonte (TO).Calendario di produzione: tutto l’anno.Note: lo statuto indica dettagliatamente i comuni in cui i formaggi prodotti e stagionati possono portare la denominazione ” di alpeggio “: si tratta di comuni montani o territori classificati montani (dalla legge 25 luglio 1952 n.991 e successive modificazioni). Il nome Bra gli deriva dal fatto che era venduto soprattutto nella zona di Bra dai malgari che scendevano dalla montagna. Di qui il formaggio era smistato per tutto il Piemonte e in Liguria. Si dice anche che ad acquistarlo un tempo fossero soprattutto i liguri che lo utilizzavano per la preparazione del pesto al posto del più costoso pecorino. In realtà Bra era la zona in cui era fatto stagionare e raccolto tutto il nostrale delle valli cuneesi. Solo di recente con il nome di Bra si indica un ben preciso di tipo di formaggio. Ufficialmente il Bra é nominato per la prima volta dalla legislazione lattiero casearia nel 1941 (Dm 14.4.1941). Classificato a denominazione di origine controllata con Dpr del 16.12.1982.

Tuma

Materia prima: latte intero. Eccelle quello da razza piemontese.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte appena munto a bassa temperatura, aggiungendovi caglio liquido. Dopo la coagulazione, la cagliata viene disposta su un telo, preferibilmente di canapa o lino, oppure sulla paglia. Si consuma fresca.

Stagionatura: non si effettua.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm.1 ; diametro: variabile; peso: variabile; forma: generalmente rotonda, piuttosto irregolare; crosta: assente; pasta: burrosa, morbida e lucida, di colore bianco perlaceo.

Area di produzione: provincia di Cuneo. Famose le tume di Celle Macra, ormai quasi scomparse dal mercato.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: tanto apprezzata in val Maira da entrare addirittura nei proverbi, considerata ottimo condimento per la polenta e – alla fine in Val Maira – per le patate lesse, ha sostituito, per anni, la carne nell’alimentazione quotidiana del montanaro. Da non confondere con le varie tome, é oggi prodotto in via di estinzione. Sopravvive, in parte, nei tomini. É destinata in gran parte all’autoconsumo.

Acceglio

Materia prima: latte scremato.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 18-20 gradi, aggiungendovi caglio naturale; il più indicato è quello di agnello. Dopo la coagulazione, la massa viene posta in appositi fornelli o lasciata sulla canapa, dopo averle dato una forma tonda. Matura in due o tre giorni.

Stagionatura: non si effettua, poiché va consumato fresco, solo in questo caso avendo un tipico sapore di latte.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: pochi centimetri; diametro: cm l0; peso: Kg 0,15; forma: a disco; crosta: assente; pasta: di colore bianco perlaceo.

Area di produzione: Acceglio (CN).

Calendario di produzione: solo in estate.

Note: il prodotto può essere considerato estinto, in quanto esiste una produzione minima destinata esclusivamente all’autoconsumo.

Toumin dal Mel

Il Toumin dal Mel è un formaggio da latte vaccino a pasta molle e crosta fiorita. La forma è cilindrica a disco affusolato.

Territorio interessato alla produzione: L’area di produzione del Toumin dal Mel è tradizionalmente situata nei territori della Bassa e Media Valle Varaita in provincia di Cuneo.

Cenni storici e curiositàIl Toumin dal Mel nasce a metà-fine ‘800 sulle alture della media Valle Varaita, in Provincia di Cuneo, a cavallo tra le borgate di Frassino e Melle, ma studi e ricerche storiche svolte in valle dall’avvocato indicano in quattro abitanti del “Vitoun” di Frassino i veri fondatori del Toumin dal Mel, spinti dalla necessità di trovare un’alternativa al burro, allora principale derivato caseario e già prodotto in eccedenza per l’economia della piccola valle.La produzione si ampliò poi ai comuni vicini, ed il prodotto fu commercializzato presso il mercato fiorente di Melle agli inizi del secolo, dal quale esso ha assunto la denominazione definitiva di Toumin dal Mel.Dopo la seconda guerra mondiale, il mercato di Melle ha perso importanza ed allora, alla vendita diretta, si è sostituta la consegna ai negozi ed alle gastronomie del Cuneese e del Saluzzese, e la vendita ai commercianti.Dal 1974 a Melle si svolge nel mese di agosto la “Sagra del Toumin dal Mel”, quale manifestazione
promozionale del formaggio.

Tomino “Montoso”

Materia prima: latte intero. Eccelle quello da razza piemontese.

Tecnologia di lavorazione: come per i Tomini. Matura in due o tre giorni.

Stagionatura: non si effettua.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 2; diametro: cm 10;forma: cilindrica; crosta: assente; pasta: cremosa, molto umida, di colore bianco.

Area di produzione: Bagnolo Piemonte (CN).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: benché la stagione più propizia sia quella dell’alpeggio sul monte Montoso, ad un’altitudine di circa 1.200 metri, la produzione non si interrompe mai, nemmeno l’inverno.

Tometta di Barge

Materia prima: latte scremato, da razza piemontese. Alimentazione: erba e
fieno della zona di Barge (Punta Ostanetta).

Tecnologia di lavorazione: come per l’Acceglio. Matura come per l’Acceglio.

Stagionatura: non si effettua.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 3; diametro: cm 12; forma: cilindrica.

Area di produzione: Barge e Bagnolo (CN).

Calendario di produzione: tutto l’anno, con punte nel periodo estivo.

Note: la produzione tipica della zona di Barge é scomparsa una decina di anni fa. In passato veniva venduta anche condita col caratteristico bagnet (salsa di prezzemolo, aglio, acciughe e conserva di pomodoro).

Nostrale d’Alpe

Il Nostrale d’Alpe è un formaggio a latte vaccino crudo, intero o leggermente scremato per affioramento, a pasta cruda e pressata, prodotto esclusivamente con latte di alpeggio, la forma è cilindrica a facce piane e scalzo diritto o leggermente convesso.

Territorio interessato alla produzione: Il Nostrale d’Alpe viene prodotto in tutti gli alpeggi del territorio della provincia di Cuneo.

Cenni storici e curiositàIl Nostrale d’Alpe nella sua accezione più generale, viene indicato come antenato della attuale DOP “Bra duro”, la storia del Nostrale d’Alpe si perde nel tempo essendo praticamente l’unico formaggio prodotto nel periodo estivo negli alpeggi cuneesi.

Nostrano di Latteria

Materia prima: latte intero o parzialmente scremato, da razza bruna.

Tecnologia di lavorazione: vedasi Nostrano d’Alpe.

Stagionatura: 70 giorni circa, in ambiente ben areato, a temperatura massima di 15 gradi. Durante questo periodo, le forme vengono rivoltate e pulite con stracci umidi.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 6 circa; diametro: cm 30; peso: Kg 4-6; forma: cilindrica; crosta: liscia ed elastica; pasta: con leggera occhiatura, colore paglierino.

Area di produzione: vedi Nostrano d’Alpe.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: il prodotto più tradizionale proviene dalle latterie turnarie, esistenti dalla fine del secolo scorso. Le latterie sociali, attualmente, tendono a standardizzare la produzione.

Gorgonzola DOP

Materia prima: latte intero di una sola mungitura.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte previa pastorizzazione a 28-34 gradi, aggiungendovi fermenti lattici (streptococchi), muffe (penicillium) più caglio liquido. Coagula in 15 minuti. Dopo la rottura della cagliata (a dimensione di guscio di noce) si lascia riposare per 10-15 minuti. Dopo queste operazioni, la massa viene raccolta in teli di canapa e messa a sgocciolare per 10-12 ore a 15-18 gradi e umidità del 90-95%. Si effettua quindi la stufatura durante 5-6 giorni rivoltando le forme ogni giorno. La salatura si effettua a secco, a giorni alterni durante due-tre settimane. Matura in 20-30 giorni in ambiente a 6-l0 gradi e umidità del 75-80%, dove le forme vengono forate prima sull’una e poi sull’altra faccia con aghi di rame o di acciaio ad intervallo di 4-5 giorni per favorire lo sviluppo delle muffe. Resa 11,5%.

Stagionatura: variabile.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 16-20; diametro: cm 25-30; peso: Kg l0-13; forma: cilindrica; crosta: dura, ruvida, di colore rossiccio; pasta: unita, tenera, di colore bianco o appena paglierino, non opaca, erborinata (dal dialetto erborin = prezzemolo, per via dell’aspetto); grasso: 48%; sapore: dolce.

Area di produzione: dalla Lombardia (Gorgonzola é circa a metà strada tra Milano e l’Adda) essa si é andata spostando verso la pianura piemontese.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: il Piemonte rappresenta un po’ più di metà della produzione. L’aggiunta di muffe artificialmente coltivate venne introdotta per la prima volta all’inizio del secolo su indicazione dello studioso O. Josan Olsen. Riconosciuto Doc con Dpr del 30.10.1955, è ora tutelato da un apposito Consorzio che ha sede in Novara, nuovo epicentro produttivo.

Soera

Materia prima: latte di pecora, con aggiunte di latte vaccino, da razza ovina delle Langhe. Alimentazione: foraggio della zona di Ormea, in particolare della frazione Viozene.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 34-36 gradi, aggiungendovi caglio liquido. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata, la massa viene raccolta su un telo, dove viene impastata. Quindi si sistema il tutto negli stampi e si sottopone a pressatura. La salatura si effettua a secco sulle forme.

Stagionatura: da un mese (in estate), fino a due mesi (in inverno), in ambiente a circa l0 gradi e umidità scarsa.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 3-4; diametro: cm 12 circa; peso: Kg 2-3; forma: cilindrica o quadrata (dimensioni cm. 10 x 10 x 4); crosta: sottile e chiara nel prodotto fresco o più spessa e scura nel prodotto stagionato; pasta: compatta, colore bianco.

Area di produzione: Ormea (Cuneo), nelle Alpi della frazione Viozene e Valdarmella, ma anche Villaro e Cascine Albra. Si produce anche nella zona di Triora (con solo latte di pecora). Si produce con latte di mucca nelle zone di Entracque (Cuneo – Valle Gesso).

Calendario di produzione: tutto l’anno. Eccelle quella prodotta in estate.

Note: il nome le deriva dal particolare aspetto che ricorda la suola delle
scarpe (in dialetto locale soera).

Grana Padano DOP

Materia prima: latte di due mungiture, di cui una scremata per affioramento o centrifugazione. Alimentazione: erba verde e mangimi in primavera-estate; insilati, fieno e mangimi in autunno-inverno.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a 32-35 gradi, aggiungendovi siero-innesto più caglio liquido. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata (a dimensione di chicco di mais) si aggiunge dello zafferano e si cuoce in due fasi: prima a 45 gradi, si spurga e poi si riscalda fino a 55 gradi. Dopo queste operazioni, la massa viene estratta con tele, previa eliminazione di gran parte del siero, e messa in mastelli di legno a spurgare per trenta minuti. Si deposita poi nelle fascere e si sottopone a pressione per 8-10 ore. La salatura si effettua a secco, ad intervalli di due giorni per 15 giorni, oppure in salamoia per 30-40 (tipo lombardo) o 15-20 giorni (tipo emiliano). Matura in circa 60 giorni, durante i quali le forme vengono periodicamente unte con olio di lino. Resa 7%. Additivi: formaldeide, nei limiti consentiti dalla legge.

Stagionatura: da 12 mesi fino a tre anni. Resa 6%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 16-20; diametro: cm 40-45; peso: Kg 35-40; forma: cilindrica; crosta: dura, spessa, di colore giallo scuro; pasta: granulosa, a volte umida e attaccaticcia, di colore giallo chiaro.

Area di produzione: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto, nelle provincie definite dal Decreto 30.10.1955 numero 1269.

Calendario di produzione: tutto l’anno, nelle sorti maggengo (primavera-estate) e invernengo (autunno-inverno).

Note: il Consorzio di tutela nasce il 18.6.1954. Da testimonianze del XIV secolo si deduce che la tecnica migliore per produrre il grana fosse appannaggio di Piacenza e dei piacentini. Benvenuto da Imola annotava che gli esperti mercanti, durante i loro lunghi viaggi per mare, si rifornivano di grana piacentino perché “più serbevole e resistente a tutte le malattie”. Il primo documento che parla di questo formaggio risale al 1184, mentre le prime fabbriche di formaggio detto “di grana” si localizzarono all’epoca del XII secolo nel quadrilatero compreso tra il Po, il Ticino, l’Adda e la latitudine di Milano. Dai ritagli delle forme del grana si ottiene il cosiddetto “tosello”, che consiste in fettuccine quasi gommose, di colore grigio paglierino tenue, dal gusto leggermente salato. I caseifici lo regalano, in quanto non ha mercato. Si consumava un tempo come “complimento” ammorbidito sulle fette di polenta abbrustolite sulle braci. Altro sottoprodotto del Grana è il “balon”, ossia formaggio grana mal riuscito, con sapore molto piccante provocato da particolari alterazioni fermentative. La maggior parte dei “balon” viene rilavorata per ottenere vari formaggi molli industriali o formaggi fusi. Va citato infine il “formaggio nisso”, costituito da Grana o formaggelle di montagna andate a male. In alcuni casi si accelerava il processo di fermentazione lasciandolo al sole spalmato di olio. E’ ricercato dai bevitori ed ha un gusto molto piccante. Nel Cremonese viene chiamato “tara”, ma è conosciuto, prodotto e consumato soprattutto in Emilia, nel Piacentino, in una quantità stimata di circa 50 quintali annui.

Formaggetta di mucca

Materia prima: latte intero, da razza piemontese. Alimentazione: foraggio fresco o secco della zona.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 37-38 gradi, aggiungendovi caglio liquido. Dopo la coagulazione, si cuoce per circa 40 minuti. Dopo queste operazioni, la massa viene lasciata riposare per un giorno e quindi posta nelle apposite formelle. La salatura si effettua talvolta. Resa: 15%.

Stagionatura: facoltativa, fino a due mesi circa.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm. 6-7; diametro: cm. 10-15; peso: Kg. 0,7-0,8; crosta: scura rossastra se il prodotto è stagionato, gialla se fresco; pasta: morbida, di colore giallo oro se stagionata, più chiara se fresca.

Area di produzione: Molini di Triora, Pieve di Teco (IM), Cosio di Arroscia (SV). Si produce inoltre a Garessio in Piemonte (CN).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note:

Gioda

Il Gioda è un formaggio a latte vaccino intero, crudo a pasta semicotta, di forma cilindrica a facce piane.

Territorio interessato alla produzione: La zona sud della provincia di Cuneo ed in particolare nel monregalese.

Cenni storici e curiositàIl formaggio Gioda prende il nome da Alessandro Gioda, agronomo di Padova, che nel 1901 viene nominato direttore della Cattedra Ambulante di Agricoltura a Mondovì e, nello stesso anno, segretario del Comizio Agrario di Mondovì stesso. Il direttore Gioda, durante la sua vita professionale, si occupò anche di insegnare una tecnica casearia agli agricoltori/allevatori che in quel tempo possedevano alcune vacche da latte. La tecnica produttiva soddisfò i discenti che intrapresero la casalinga produzione. Testimonianze del lavoro del direttore Gioda sono presenti negli archivi del Comizio Agrario di Mondovì, compresa la ricetta originale elaborata dal prof. Gioda nel 1928.

Tomino canavesano fresco

Il Tomino Canavesano Fresco è un formaggio a latte vaccino intero, a coagulazione lattica o acido- presamica dalla caratteristica pasta morbida spalmabile, già pronto per il consumo il giorno successivo alla produzione. La forma è cilindrica nel formato singolo, ma è tipicamente presente la forma detta “Tomino a rotolo” dove si uniscono 6 tomini in una sorta di cilindretto, avvolto successivamente nella carta di confezionamento.

Territorio interessato alla produzione: Canavese e parzialmente la provincia di Biella verso il torinese. Attualmente questo formaggio si è diffuso anche in provincia di Cuneo.

Tomino del Bot

In dialetto piemontese il termine Bot ha anche il significato di “di un tempo”, “di una volta”, sta quindi a significare un formaggio che si produce nello stesso modo rispetto a quanto si faceva in tempi passati. Il Tomino del Bot è un formaggio a latte vaccino intero o parzialmente scremato per affioramento a pasta semimolle e leggermente gessata, di breve stagionatura e di forma cilindrica a facce piane e scalzo diritto.

Territorio interessato alla produzione: Bassa Valle Varaita in provincia di Cuneo.

Toma Piemontese DOP

Zona di produzione: La zona di provenienza del formaggio comprende il territorio amministrativo delle province di Novara, Verbania, Vercelli, Biella, Torino e Cuneo e di alcuni comuni in provincia di Asti ed Alessandria

Tipologia: Formaggio semicotto a pasta morbida (con latte intero) o a pasta semidura (‘semigrasso’)

Descrizione: Ha forma cilindrica, facce piane o quasi piane con scalzo leggermente convesso, peso compreso tra 1,8 e 8 chilogrammi, altezza tra 6 e 12 centimetri e diametro tra i 15 e i 35 centimetri. La pasta è di colore bianco paglierino con occhiatura minuta e diffusa; la stagionatura è variabile dai 15 ai 60 giorni a seconda della dimensione

Note: Le origini della Toma piemontese risalgono all’epoca romana, ma solo in documenti dell’XI secolo si trovano citazioni che la identificano con precisione. Incerta è l’etimologia della parola toma, che viene usata in Piemonte, in Valle d’Aosta, in Francia e in Sicilia; potrebbe forse riferirsi alla fase di caduta della caseina durante la coagulazione, che in dialetto è appunto detta ‘tomè’. In ogni caso la denominazione richiama il nome tradizionale del formaggio prodotto nella relativa zona di produzione, costituita in prevalenza da territori montani e pedemontani.

Riferimenti normativi: Prodotto DOP, Registrazione europea con regolamento CE n. 1107/96 pubblicato sulla GUCE L148/96 del 21 giugno 1996; riconoscimento nazionale con DPCM 10 maggio 1993 pubblicato sulla GURI n. 196 del 21 agosto 1993; incarico di vigilanza con DM 26 maggio 1995 pubblicato sulla GURI del 28 giugno 1995

Valcasotto

Materia prima: latte vaccino intero, con piccole aggiunte di latte ovino o caprino, da razza bovina piemontese. Alimentazione: foraggio fresco locale.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 38 gradi, aggiungendovi caglio liquido. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata, la massa viene estratta e fatta riposare a circa 25 gradi per alcune ore. La salatura si effettua in salamoia. Matura in 10-20 giorni, in ambiente a temperatura di 5 gradi. Resa 15%.

Stagionatura: breve; facoltativa.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: variabile; diametro: cm 15 circa; peso: Kg 0,2; forma: cilindrica; crosta: assente; pasta: tenera, colore paglierino.

Area di produzione: alta Valle Tanaro (CN).

Calendario di produzione: da giugno a ottobre.

Note: un tempo era commercializzato in tutto il Cuneese, oggi si trova nella zona di Pamparato e Garessio in quantità molto limitate.

Caprino al pepe di Bagnolo

Materia prima: latte caprino, con piccole aggiunte di latte vaccino. Alimentazione: eccelle quella a base di foraggio dell’area del Montoso.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 18-20 gradi, aggiungendovi caglio liquido di vitello o caglio di agnello. Dopo la coagulazione, la massa viene impastata con del pepe e sistemata in appositi formelli o lasciata così com’è su un telo di canapa, dopo averle dato una forma tonda. Matura in due o tre giorni.

Stagionatura: alcuni giorni. É facoltativa.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 1 circa; diametro: cm 8-9; peso: Kg 0,2; forma: cilindrica; crosta: appena accennata, di colore dal bianco al marrone chiaro; pasta: morbida, spalmabile, di colore bianco-beige (per la presenza del pepe bianco). Sapore: piccante, se stagionato.

Area di produzione: Bagnolo e Barge (CN).

Calendario di produzione: tutto l’anno, ma soprattutto durante il periodo dell’alpeggio.

Note:

Toma della Valle Stura

Materia prima: latte vaccino intero o parzialmente scremato, con aggiunta di latte ovino o caprino. Talvolta solo latte ovino.

Tecnologia di lavorazione: come per la Toma di Balme.

Stagionatura: variabile. É facoltativa.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 5; diametro: cm 10-15;forma: cilindrica; crosta: spessa e di colore giallo intenso o marrone chiaro, se stagionata; pasta: morbida, compatta, colore giallo paglierino o giallo oro.

Area di produzione: Valle Stura (CN).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: con puro latte vaccino si produce la cosiddetta Toma del Bot, consumata ad una stagionatura di tre mesi. Dal punto di vista quantitativo, in valle Stura è la più rappresentata (qualche centinaio di quintali annui).

Sola, Sora, Soera

La Sola è un formaggio di media stagionatura a latte ovino o caprino puro, più raramente prodotto con miscele di latte ovino o caprino e latte vaccino, ed ancora più raramente, anche se ultimamente è più frequente, di puro latte vaccino. Si caseifica sia a latte crudo che a latte pastorizzato. Il nome deriva dal particolare aspetto (forma e consistenza) assunto dal formaggio, per la tradizionale tecnica di messa in forma che ricorda la suola delle scarpe.

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Cuneo, con particolare significato nel territorio del sud-cuneese.

Seirass (sairass) di latte o ricotta piemontese

Il Seirass di Latte o Ricotta Piemontese viene ricondotto erroneamente ad un latticino della tipologia “ricotta”. In effetti la sua tecnica di produzione lo fa rientrare a pieno titolo tra i formaggi, essendo il risultato di una coagulazione acida e presamica del latte. A differenza delle altre ricotte, questa è prodotta a partire da puro latte, in passato principalmente di pecora, adesso solo di latte vaccino. La forma del Seirass di Latte o Ricotta Piemontese è tradizionalmente quella del caratteristico cono arrotondato che deriva dall’impiego di tele cucite a formare appunto un cono.

Territorio interessato alla produzione: E’ probabile che il Seirass di latte o Ricotta Piemontese abbia visto la luce nella zona cuneese di Roaschia, molto conosciuta per la fervente attività di allevamento transumante di greggi ovini. In seguito si è diffuso anche in altri territori cuneesi e torinesi ma è più corretto definire, in mancanza di dati storici precisi, il territorio in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàRelativamente al Seirass di latte o Ricotta Piemontese sono state reperite numerose testimonianze orali.

Murazzano DOP

Materia prima: latte ovino e bovino, da razze delle Langhe. Se prodotto con latte ovino e un tenore lipidico non inferiore al 53%, può fregiarsi dell’etichetta ” prodotto con latte di pecora “. Comunque il latte ovino deve essere sempre nella percentuale del 60%. Alimentazione: foraggio fresco e essiccato proveniente dalla zona di produzione.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte a circa 37 gradi, aggiungendovi caglio liquido. Dopo la coagulazione, la massa viene lasciata riposare tre ore, quindi viene mescolata, estratta e sistemata in forme rotonde col fondo forato, per separare il latticello, ove rimane per 24 ore. La salatura si effettua a secco sulle due facce a distanza di 5-6 ore da una salatura all’altra. A volte durante il periodo della stagionatura il formaggio é lavato ogni giorno molto rapidamente con acqua tiepida. Matura in 4-10 giorni.

Stagionatura: non si effettua. Si consuma in genere dopo 4-5 giorni dalla preparazione, ma può essere anche stagionato per qualche mese, acquistando un sapore amarognolo.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 3-4; diametro: cm 10-15; peso: Kg. 0,3-0,4; forma: cilindrica; crosta: assente; pasta: morbida con scarsa occhiatura, di colore dal bianco al giallo paglierino, fino al giallastro; grasso: 50% minimo.

Area di produzione: Comunità montana Alta Langa Montana (CN), più i comuni di Bastia Mondovì, Ceva, Castelnuovo Ceva, Clavesana, Montezemolo, Priero e Sale San Giovanni.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: il Murazzano è stato riconosciuto con Decreto del Presidente della Repubblica il 16 dicembre 1982. Per tutelare la produzione e la commercializzazione ed incentivare il consumo, nel 1984 è sorto il Consorzio per la tutela e la valorizzazione del Murazzano che ha sede a Bossolasco presso la Comunità montana Alta Langa.

Pecorino di Bagnolo

Materia prima: latte di pecora (raramente si aggiungono piccole quantità di latte vaccino), da razza ovina ” delle Langhe “. Alimentazione invernale: erbe della piana di Bagnolo; estiva: erbe dell’area di Monte Montoso e P.ta Ostanetta.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 35 gradi, aggiungendovi caglio in pasta (di capretto); talvolta si usa quello liquido di vitello. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata si cuoce a circa 48 gradi. Dopo queste operazioni, la massa viene lasciata riposare per 15 minuti. Viene quindi sistemata nelle fascere, facendo fuoriuscire il siero mediante una cannuccia. La salatura si effettua a secco sulle forme.

Stagionatura: fino a un anno circa, in ambiente costituito da apposite cantine (a circa 15 gradi). Resa 15%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm. 10 circa; diametro: cm. 15; peso: Kg. 2; forma: cilindrica; crosta: liscia, generalmente chiara; pasta: dal bianco all’avorio.

Area di produzione: Bagnolo ed aree limitrofe (CN).

Calendario di produzione: tutto l’anno, particolarmente in estate.

Note:

Bruz d’Murazzan

Materia prima: robiole di Murazzano (da latte ovino).

Tecnologia di lavorazione: le robiole, tagliate a pezzi, vengono fatte fermentare con piccole aggiunte di latte ovino. Matura in una settimana circa, in ambiente adeguato. Alla fine l’impasto viene arricchito con grappa o brandy, per bloccarne la fermentazione.

Stagionatura: il prodotto può essere conservato molto a lungo, chiuso in appositi barattolini di vetro.

Caratteristiche del prodotto finito: pasta: cremosa, densa, bianco-grigia.

Area di produzione: alcune aree del Cuneese, Murazzano in particolare.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note:

Testun

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: E’ un formaggio fabbricato a partire da latte di vacca, occasionalmente miscelato con latte di capra o di pecora nei mesi da marzo a luglio. La forma di questo prodotto è cilindrica con dimensioni variabili dai 5 ai 7 Kg. Diametro di 30 – 35 cm, scalzo diritto, rigato alto 8 – 10 cm.
La pasta di colore biancastro o giallognolo , il sapore è dolce per il formaggio più giovane e piccante
se il formaggio e stagionato.
La crosta è rigata, di colore giallo, ma dopo qualche mese di fabbricazione diventa più scura.
Metodiche di lavorazione: Si porta il latte ad una temperatura di 37 °C e si aggiunge il caglio liquido naturale, si lascia coagulare per un’ora circa, si rompe la cagliata e si lascia depositare per circa 50 minuti.
Dopo queste operazione la pasta viene estratta con teli e deposta in fascere. Si esegue una pressione
tramite la panca di caricamento per 1-2 ore, si estrae la pasta dai teli e la si frantuma con le mani. Il
tutto è nuovamente inserito nelle fascere ed è pressato per 4-5 ore. Segue l’estrazione della massa e la
salatura a secco (18-24 ore per faccia).
Il periodo di stagionatura varia da un minimo di quattro mesi fino ad un anno.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di provenienza del latte e di trasformazione in formaggio corrisponde al territorio a sud della provincia di Cuneo, nell’area del Monregalese, ed alla Valle Erro (AL).

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI
PRODOTTI: La caldaia di lavorazione, gli attrezzi di taglio e lavorazione della cagliata in caldaia e gli stampi sono talvolta realizzati in legno. Negli altri casi i materiali sono “lavabili” (acciaio inox, rame stagnato, plastica alimentare). Tele di sgrondo della cagliata in tessuto naturale. Assi di stagionatura in legno. Presse o panca di caricamento in legno.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA: Il locale di caseificazione non presenta caratteristiche particolari. Il locale di stagionatura presenta spesso pareti geologicamente naturali.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: Delforno G. (1981) I formaggi tipici del Piemonte e della Valle d’Aosta. Ed. EDA, p. 174

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Caprino di Demonte

Materia prima: latte puro caprino. Alimentazione: a foraggio contenente timo serpillo, con integrazione invernale a base di mais e altri prodotti agricoli freschi o essiccati.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte a crudo a circa 18-20 gradi, aggiungendovi caglio di vitello o di agnello. Dopo la coagulazione, la massa viene posta in appositi formelli o lasciata così com’è sulla canapa dopo averle dato una forma tonda. Può essere consumato freschissimo.

Stagionatura: 30-50 giorni circa. Durante questo periodo, le forme vengono talvolta messe sott’olio, pepe o peperoncino.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm. 1,5; diametro: cm. 8-10; peso: Kg. 0,1; forma: cilindrica; crosta: bianca e sottile, presente nel prodotto stagionato; pasta: compatta, bianca.

Area di produzione: Valle Stura di Demonte, in particolare Demonte (CN).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: costituisce materia prima per la preparazione del Bruss.

Cachat

Materia prima: latte caprino più formaggi caprini.

Tecnologia di lavorazione: il latte viene mescolato con dei pezzi di formaggio caprino in appositi recipienti, dove la massa viene fatta fermentare. Vi si aggiunge anche del distillato di ginepro e infuso di porri. Matura in circa venti giorni. Successivamente si conserva a lungo in locali freschi.

Stagionatura: facoltativa. Il periodo é variabile.

Caratteristiche del prodotto finito: pasta: cremosa, morbida, spalmabile, di colore bianco.

Area di produzione: Demonte (CN), Valle Stura.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: é assai simile al Bruss, di probabile origine provenzale.

Caprino lattico piemontese

Il formaggio Caprino Lattico Piemontese è la denominazione che raggruppa produzioni caseariepiemontesi a latte caprino, rientranti nelle tipologie casearie genericamente definite come “lattiche”. In Piemonte l’allevamento della capra da latte non ha mai avuto una evoluzione paragonabile a quella vaccina. In molti casi la tecnologia casearia non era dissimile da quella applicata con il latte di vacca, generalmente ne differiva la pezzatura finale del formaggio e, di norma, se ne diminuiva anche la stagionatura. Negli ultimi decenni si è diffusa anche la versione tecnologica definita “a coagulazione lattica”, storicamente appartenente al formaggio conosciuto anche come “Formaggetta”.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il Piemonte

Cenni storici e curiositàIl termine Caprino Lattico Piemontese non compare in testi storici, è stato coniato per raggruppare formaggi di simili tecnologie che in passato acquisivano nomi territoriali per abitudine ma senza specifiche caratteristiche abbinate.

Caprino presamico piemontese

Il formaggio Caprino Presamico Piemontese è la denominazione all’interno della quale si comprendono produzioni casearie piemontesi a latte caprino, rientranti nella tipologie casearie genericamente definite come “Toma” o “Caciotta”.

Territorio interessato alla produzione: L’intero territorio del Piemonte.

Cenni storici e curiositàIl termine Caprino Presamico Piemontese non compare in testi storici, è stato coniato per raggruppare formaggi di simili tecnologie che in passato acquisivano nomi territoriali per abitudine ma senza specifiche caratteristiche abbinate.

Seirass di siero di pecora

Il Seirass di siero di pecora è un latticino della tipologia “ricotta”, prodotto a partire da siero dilavorazione di formaggio presamico di pecora, quali la Sola di Pecora, il Murazzano, il Testun di Pecora ed altri formaggi di latte ovino. Nella tradizione, le due principali razze ovine da latte allevate in Piemonte, sono la pecora di razza delle Langhe e la pecora di razza Frabosana-Roaschina. Si presenta in forme differenti, tradizionale è quella simile ad un panettone un poco schiacciato ricavato dalla disposizione della ricotta messa a scolare in una tela appesa.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il territorio piemontese.

Seirass stagionato

Il Seirass stagionato è un latticino della tipologia “ricotta”, prodotto a partire da siero di lavorazione di formaggio presamico di vacca, capra o pecora in purezza o misti. Oggigiorno è poco prodotto, limitato particolarmente al periodo estivo e di alpeggio, il Seirass stagionato in passato era la principale modalità di consumo della ricotta perché, attraverso la asciugatura e stagionatura, si poteva portare nel tempo la caratteristiche nutrizionali della ricotta fresca. Si presenta in forme differenti, sia leggermente tonda o a panettone che più schiacciata per effetto della pressatura.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il territorio piemontese.

Batsuà

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: E’ una preparazione per una particolare ricetta gastronomica
Metodiche di lavorazione: Pulitura ed eventuale rasatura degli zampini. Bollitura con un po’ di aceto. Disossatura e taglio a strisce. Le striscette così ottenute verranno impanate e consumate fritte.

ZONA DI PRODUZIONE: Diffusa in varie zone del Piemonte
MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI: Non si segnalano attrezzature particolari

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA: Normali salumerie

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: Tradizione orale.
Citiamo inoltre Imbriani L.: Roseo Piemonte. Edito APS Piemonte, p.100

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Frisse (fresse) o grive

Le Frisse sono polpettine preparate con fegato, frattaglie varie, carnetta (carne intercostale e rifilature di lavorazione) e grasso di maiale, impastate ed avvolte nell’omento (o rete). Le polpettine hanno pezzatura variabile compresa tra 50 e 100 g, possono essere cosparse con farina di mais per evitare che si attacchino le une alle altre. In alcune zone si usa aggiungere dell’uvetta lasciata a bagno nel vino, presenza che conferisce al prodotto un sapore leggermente dolce.

Territorio interessato alla produzione: Le Frisse sono prodotte nel Monferrato, nel Canavese e nelle Langhe dove vengono chiamate Grive ed hanno dimensioni leggermente superiore ed una composizione dell’impasto più semplice.

Cenni storici e curiositàLe Fresse o Frisse, sono un’altra fra le tante preparazioni per non sprecare nulla del maiale. Sono di origine antichissima tanto che Bartolomeo Scappi nella sua “Opera” del 1570 dà addirittura tre ricette ” per far tommacelle di fegato di porco” che sono simili a quelle attuali. Ne “Il Cuoco Piemontese perfezionato a Parigi” del 1766 troviamo invece una ricetta dal titolo “Fegato di vitello alla rete di porco, ossia crépine” che sostanzialmente sono fresse.

Lardo

Si presenta di forma rettangolare o quadrata, di peso variabile tra 2 e 4 kg, la consistenza è compatta. La parte grassa ha un colore bianco latte, il magro ha un colore che va dal rosa al rosso vivo, determinato dai fasci muscolari. Il lardo, macinato o in cubetti (analogamente a quanto avviene per la pancetta), entra a far parte dell’impasto degli insaccati, oppure, dopo adeguata lavorazione, è consumato come antipasto o impiegato in varie preparazioni culinarie.

Territorio interessato alla produzione: Diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale conferma la necessità di conservare un prodotto altamente calorico.Fin dai tempi più antichi veniva utilizzato come grasso in cucina, per insaporire le carni o per insaporire/condire zuppe e minestre povere.Tra le varie preparazioni, meritano di essere menzionati il Lardo al Rosmarino (Cavour) ed il Lardo della Doja tipico della zona di Ronco Biellese (Biella). Il Lardo della Doja è del tutto peculiare sia per le modalità di preparazione, sia per l’utilizzazione gastronomica. Infatti, il Lardo è posto in una giara di terracotta (doja) assieme a sale, spezie e bacche di pino mugo per un periodo di 4-5 mesi, durante il quale assume un colore rosso mattone.La tradizione popolare ricorda anche l’uso terapeutico di questo prodotto per la cura per esempio del “Fuoco di Sant’Antonio”e per la cura di alcune forme infiammatorie.Osservando le gabelle dei secoli passati relative ai prodotti presenti sui mercati delle varie città del Piemonte si può notare che il lardo era sempre menzionato. Ne è un esempio la Lettera della Camera Ducale di Torino del 1627 (Archivio di Stato 14:2°) che stabilisce le tasse sui prodotti commercializzati sul mercato di Torino che prende in considerazione tre tipologie di lardo.

Pancetta con cotenna

La Pancetta con cotenna ha forma rettangolare, si presenta ripiegata su se stessa in modo da mantenere all’esterno la cotenna e cucita con lo spago; in molti casi viene semplicemente ripiegata a libro e legata.

Territorio interessato alla produzione: Diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale ha trasmesso nel tempo le antiche ricette contadine, esistono inoltre salumifici che producono pancetta mantenendo le vecchie ricette da più generazioni.

Prosciutto cotto

Il prosciutto cotto è un prodotto diffuso in tutto il Piemonte, è costituito dalla massa muscolare dellacoscia del maiale sottoposta a salagione e cottura. Al taglio, la fetta si presenta di colore rosato,generalmente contornata dal grasso di copertura della coscia. La consistenza della fetta è morbida, non secca e non gommosa. Il sapore è delicato, poco salato e con sentore di erbe e spezie.

Territorio interessato alla produzione: Prodotto diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàIn Piemonte esistono salumifici che operano da oltre 50 anni ma la produzione del prosciutto è certamente più antica se Giovanni Vialardi, vice-capocuoco dei Re Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II nell’elencare gli “Hors-d’oeuvre” (antipasti) cita, tra gli altri sia il Giambone cotto e crudo che il Presciutto cotto e crudo. Curioso il fatto che faccia la distinzione tra Giambone e Presciutto dato che in piemontese il prosciutto cotto viene denominato “giambun”. E’ possibile che il primo fosse di spalla o viceversa o che il secondo avesse una diversa provenienza.

Prosciutto crudo della Valle Gesso

L’aspetto è quello di un prosciutto tradizionale: ha forma tondeggiante a coscia di pollo, privo di piedino.Al termine della stagionatura viene privato dell’osso e legato, per facilitare il taglio della fetta. Il colore è rosso intenso, contornato dal bianco della parte grassa; il profumo è delicato con sentori dolci e piacevoli, al palato si rivela sapido, ma equilibrato.

Territorio interessato alla produzione: Valle Gesso (CN).

Cenni storici e curiositàNon è stata reperita documentazione scritta relativa a questo prodotto. La tradizione orale conferma la necessità di conservare le carni. Il prosciutto crudo della Valle Gesso rientra nella tradizione alpina di conservazione della carne.

Crudo di Cuneo DOP

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: Prosciutto crudo prodotto a partire da cosce suine fresche. I suini sono macellati ad almeno otto mesi di età. Le cosce rifilate sono prive del piede e con l’anchetta presente. La stagionatura del prodotto dura almeno 10 mesi dall’inizio della lavorazione. Peso finale 7-10 kg.
Metodiche di lavorazione: La salagione é eseguita a secco con sale essiccato o parzialmente umidificato. Il sale può contenere piccole quantità di pepe nero spaccato e aceto e può essere miscelato con spezie o
estratti di spezie.
Segue un riposo di almeno 50 giorni in ambienti tali da garantire un adeguato asciugamento a
freddo del prodotto.
La successiva fase di toelettatura ha lo scopo di rimuovere le asperità derivanti dall’asciugamento
superficiale. Si effettua poi un lavaggio ed un secondo asciugamento.
La stagionatura é condotta in ambienti con adeguato ricambio d’aria.

ZONA DI PRODUZIONE: Intero territorio della provincia di Cuneo e parte delle province di Torino e Asti.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI: Non si segnalano attrezzature particolari.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA: Locali con temperatura ed umidità adeguate nelle fasi di riposo e stagionatura.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: Tradizione orale.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Salame Cuneo

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: Si tratta di salami prodotti solo con carni di suini allevati in Piemonte; sia le metodologie di allevamento e di alimentazione degli animali, sia quelle di lavorazione del salame sono ratificate da un apposito disciplinare emesso dal Consorzio CON.SA.TI.
Le categorie dei salami finiti sono due e differiscono per pezzatura e stagionatura:
Le Rose: pezzatura da 700 a 1000 g con stagionatura di 40 gg circa;
Le Rosette: pezzatura da 300 a 400 g con stagionatura di 20 gg circa.
Il prodotto deve essere tenero, di colore rosso vivo al taglio, impasto compatto, grasso bianco, sapore ed aroma caratteristici, anche in funzione della stagionatura.
Tutti i prodotti sono riconoscibili dai marchi del consorzio apposti sui salami.
Metodiche d lavorazione: Per indicazioni più precise si rimanda al disciplinare di produzione CON.SA.TI. di cui vengono riportati i punti fondamentali:
Materia prima: carni di suini allevati in Piemonte, razze ed alimentazione riportati in disciplinare, età almeno 9 mesi, macellati in Piemonte presso strutture associate a CON.SA.TI. Proibito l’uso di carni di verri e scrofe e di carni congelate.
Metodiche di lavorazione: si utilizzano tagli di carne e grasso specifici citati in disciplinare(tagli
di prima scelta), il rapporto carne magra/grassa deve essere 100/40 ed il budello utilizzato per insaccare deve essere naturale; sono indicati in disciplinare anche le quantità di droghe e spezie e le tipologie di vini da utilizzare nella aromatizzazione delle carni macinate e sono state definite anche le caratteristiche dello spago di legatura.
L’asciugatura e la stagionatura variano da 20 a 40 gg a seconda della tipologia del prodotto.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di produzione è stata individuata nella Provincia di Cuneo

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI: Tipiche da salumificio, si evidenzia che nel disciplinare sono anche state fissate le dimensioni dei diametri dei fori del tritacarne.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA: Tipiche del salumificio e rispondenti alle norme vigenti comunitarie.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: La redazione del disciplinare di produzione è avvenuta sulla base delle esperienze e tradizioni della salumeria tipica del cuneese, alcune aziende associate al CON.SA.TI. producono salami e salumi da almeno due generazioni.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Salami aromatizzati del Piemonte

I salami aromatizzati del Piemonte sono particolari produzioni di salumeria, diffuse sul territoriopiemontese, preparate con carne di suino e con tecnologia di produzione paragonabile fra loro.Le caratteristiche principali che distinguono le varie tipologie sono la concia ed il tipo di insacco.

Territorio interessato alla produzione: Diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale tramanda di generazione in generazione le ricette per la preparazione di questi prodotti e molte salumerie ancora oggi producono secondo antiche ricette.

Bue di carrù

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: Si tratta del bovino di razza Piemontese ‘nostrano’, che fino al dopoguerra si utilizzava per lavorare i campi e a fine carriera (3 anni circa) era avviato al macello. Il temine ‘nostrano’ è qui
utilizzato per indicare gli animali diversi dai bovini Piemontesi ‘della coscia’.
Attualmente sta diventando una produzione legata al prestigio dell’azienda, il che porta ad allevare un bovino anche fino a 4-5 anni.
A Carrù (CN) vengono valutate classi differenti di buoi dai 16 ai 18 mesi (Vitello in bocca), fino al bue finito in bocca (4 anni almeno)
Metodiche di allevamento: I vitelli sono castrati a 3-6 mesi. E’ questo il momento migliore, ma alcuni castrano in epoche diverse.
In genere si utilizzano piani alimentari non specifici, almeno per i primi tempi, basati sulla
somministrazione di foraggi e pochi concentrati. Poi nell’ultimo anno si effettua il finissaggio,
incrementando gli sfarinati.
Attualmente il numero di buoi sta aumentando e vi sono miglioramenti anche in termini di qualità
del bestiame.

ZONA DI PRODUZIONE: Tutto il Piemonte, in particolare Piemonte meridionale.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI:

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA 7) DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: La Fiera si tiene ormai da 100 anni ed appartiene alla tradizione.
Il bue era già utilizzato prima dell’avvento delle trattrici agricole, la sua ‘storia produttiva’ ha
dunque più di 25 anni.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Lingua di bovino cotta

La Lingua di bovino cotta è una preparazione a base di lingua di vitellone o di bovino adulto.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il Piemonte, in particolare le zone nord-occidentali.

Cenni storici e curiositàIn molte salumerie del Piemonte si produce la Lingua cotta da più di 50 anni.La lingua cotta in vari modi è riportata su tutti i ricettari di cucina piemontese sia settecenteschi che ottocenteschi. La lingua cotta e servita con il bagnetto verde o il bagnetto rosso è invece un piatto più popolare, diffuso in quasi tutto il Piemonte e che compare su gran parte dei ricettari piemontesi pubblicati dall’ultimo dopoguerra ad oggi.

Salame di giora

È un insaccato a base di carne di vacca, di razza Piemontese, dimesse dalla produzione e ingrassate.

Territorio interessato alla produzione: Areale ristretto compreso tra Carmagnola, Cercenasco e Pralormo.

Cenni storici e curiositàIl Salame di Giora (pronuncia Giura), rappresentava un prodotto secondario e caratteristicodell’allevamento dei bovini di razza Piemontese, ottenuto da carne di vacca, non più ritenuta idonea per proseguire la carriera riproduttiva e poteva raggiungere anche 15 anni di età. La vacca, definita giora, era, pertanto, sottoposta assieme al bue ad un periodo di ingrasso prima della macellazione. Tale periodo si concludeva con l’inizio dell’inverno. La produzione di insaccati permetteva una migliore valorizzazione della carne dell’animale, anche dei tagli meno pregiati, prolungandone nel contempo la conservabilità.Le testimonianze sul Salame di Giora risalgono al periodo della seconda guerra mondiale. Attualmente la produzione è molto limitata.Le metodiche di lavorazione, conservazione e stagionatura si sono consolidate nel tempo e sono state tramandate oralmente.Il comune di Carmagnola ha istituito la sagra della Giora, manifestazione che si svolge nel mese di dicembre, contemporaneamente alla fiera del bovino da carne di razza Piemontese.Tali azioni ed iniziative hanno rappresentato un ottimo stimolo per produttori e macellai locali, infatti nelle macellerie in occasione delle festività Natalizie i consumatori possono acquistare la carne di Giora.

Salamino di pecora e capra

Tecnologia di preparazione: le carni di pecora e capra vengono sgrassate e mondate, macinate a grana media insieme al 30% di grasso duro di maiale (lardo e pancetta), condite e insaccate nel budello torto di manzo.

Composizione
a) Materia prima: carni di capra e pecora di prima scelta (coscio e spalla).
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, aglio, noce moscata e altre spezie e, a seconda delle zone, vino.
c) Additivi: salnitro.

Maturazione: alcuni giorni.

Periodo di stagionatura: da un mese in poi in locali freschi.

Area di produzione: zone montuose del Piemonte, in particolare nei monti del cuneese.

Salame o Salamino di capra o Susiccia d’crava

Descrizione del prodottoIl Salame di Capra è un insaccato confezionato con carne di capra, in genere a fine carriera, nella proporzione del 70% e lardo per la parte restante. Può anche essere prodotto sostituendo il 20% di carne di capra con carne suina o bovina. Ha forma cilindrica, sottile, leggermente ritorta, colore rosso scuro.
Il prodotto ha un peso di circa 100 g ed una lunghezza di 10-13 cm. La consistenza non è omogenea poiché dipende dal periodo di stagionatura. La produzione avviene generalmente in primavera ed in autunno.In alcuni casi si usa anche la carne di pecora.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il Piemonte. É un prodotto diffuso su tutto l’arco alpino in particolare nelle zone della Valsesia, del Verbano Cusio Ossola e delle Valli di Lanzo, del Canavese e del Biellese.
PreparazioneL’impasto prevede: carne di capra ben sgrassata, carne di maiale, lardo o pancetta, carne di bovino. La carne è macinata, conciata con sale pepe e spezie per formare salami di 15-20 cm legati in file. Il tutto è insaccato nel budello torto di bovino. Seguono il prosciugamento per una settimana nella cosiddetta “paiola”, una cella con una temperatura di 20°C ed un’umidità relativa del 65%, e la stagionatura in ambiente fresco (10-12°C) con umidità relativa del 70-80% per un periodo di 20-30 giorni od anche di alcuni mesi, nel qual caso il salume diventa molto secco.In Valsesia la carne è insaccata in budello fine, la legatura è semplice. Il salame è stagionato a lungo finché non è completamente duro, per venire poi tagliato in fette sottilissime.
Cenni storici e curiositàL’origine del Salame di capra deriva da un’esigenza di conservabilità della carne per gli allevatori dei territori montani. In Valle di Lanzo rappresentava, assieme alla toma, un componente caratteristico del pasto dei boscaioli e dei minatori.L’aroma risente dell’influenza delle spezie impiegate nella concia, che mascherano in parte il sentore di selvatico della carne di capra.Può anche essere consumato fresco, dopo 15 giorni.

Cappone di Monasterolo di Savigliano

É un pollo maschio castrato. La razza non è ben definita perché sul posto se ne possono trovare varie. (La “nostrana”, la “Livornese”, la “Bionda”, la “Bianca” ecc..).

Territorio interessato alla produzione: Monasterolo di Savigliano e zone limitrofi (CN).

Cenni storici e curiositàLe testimonianze sul metodo di allevamento e di produzione sono per lo più orali e le metodiche sono state sempre tramandate di padre in figlio.Per quanto riguarda invece la vendita di capponi da consumo, basta vedere le gabelle sui prodotti venduti nei grandi mercati del Piemonte per avere riscontro di quanto fossero diffusi e pregiati già nei secoli passati. Ne è un esempio la lettera della Camera Ducale del 1627 che stabilisce le tasse sui prodotti commercializzati sul mercato di Torino (Archivio di Stato, 14: 2°) ove vengono citati “caponi vecchi” e “caponi novelli”. Su tutti i ricettari di cucina piemontese settecenteschi e ottocenteschi troviamo ricette con il cappone.Anche analizzando i menu di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento si evince che spesso il cappone compariva in occasione dei grandi pranzi, soprattutto nel periodo autunnale. A tal proposito è interessante il libro di Domenico Musci, 100 anni di Menu . . . Grafica Santhiatese, Santhià, 2006.

Cappone di Morozzo

Si tratta di un pollo maschio castrato. La razza è definita come ‘nostrana’: piumaggio rosso, penne nere a livello caudale e penne del collo dorate. Le zampe e la pelle devono essere ben gialle. Mediamente i capponi di razza nostrana raggiungono il peso di 2.5 kg.

Territorio interessato alla produzione: Morozzo (CN) come centro fieristico e zone circostanti.

Cenni storici e curiositàLa fiera del cappone di Morozzo si tiene da più di 50 anni a dicembre, il lunedì prima di Natale.Le testimonianze sul metodo di allevamento e di produzione sono per lo più orali e le metodiche sono state sempre tramandate di padre in figlio.Per quanto riguarda invece la vendita di capponi da consumo, basta vedere le gabelle sui prodotti venduti nei grandi mercati del Piemonte per avere riscontro di quanto fossero diffusi e pregiati già nei secoli passati. Ne è un esempio la lettera della Camera Ducale del 1627 che stabilisce le tasse sui prodotti commercializzati sul mercato di Torino (Archivio di Stato, 14: 2°) ove vengono citati “caponi vecchi” e “caponi novelli”. Su tutti i ricettari di cucina piemontese settecenteschi e ottocenteschi troviamo ricette con il cappone.Anche analizzando i menu di fine Ottocento e dei primi decenni del Novecento si evince che spesso il cappone compariva in occasione dei grandi pranzi, soprattutto nel periodo autunnale. A tal proposito è interessante il libro di Domenico Musci, 100 anni di Menu . . . Grafica Santhiatese, Santhià, 2006.

Gallina Bianca di Saluzzo

Razza di taglia medio-piccola; cresta (4 – 6 denti eretta nel gallo e pendente nella femmina) bargigli e guance sono rossi. Becco e pelle gialli, piume bianche con riflessi paglierini sul collo e sul dorso, coda alta bianca.

Territorio interessato alla produzione: Zone tra il cuneese ed il torinese – zone del saluzzese corrispondenti all’Antica Provincia di Saluzzo.

Cenni storici e curiositàTrattato di statistica della Provincia di Saluzzo a cura del sovraintendente Giovanni Eandi (1800) in cui ci sono elementi sulla consistenza ed importanza dell’allevamento del pollame.

Salsiccia di Bra

Si presenta come una normale salsiccia, insaccato di piccole dimensioni con un diametro compreso tra i 20 e 30 mm. La superficie è liscia, la lunghezza non inferiore al metro. La caratteristica principale consiste nel fatto che la frazione magra dell’impasto è data da carne magra di vitello, che conferisce un caratteristico colore rosato, i globuli di grasso sono bianchi e l’impasto deve risultare compatto, ma tenero e morbido.

Territorio interessato alla produzione: Bra e zone limitrofe.

Cenni storici e curiositàTradizione e Regio Decreto: la salsiccia è un prodotto della tradizione braidese, un tempo veniva preparata solo con carne bovina; il maggiore acquirente di questo particolare insaccato era la comunità Ebraica di Cherasco che si approvvigionava dai macellai di Bra. Un Regio Decreto, emanato a seguito dello Statuto Albertino, autorizzava i macellai di Bra ad utilizzare il bovino nella preparazione di salsiccia fresca.

Salame d’asino

Il salame d’asino è un insaccato preparato con carne di asino e pancetta suina.

Territorio interessato alla produzione: Novarese (Oleggio – Bellinzago) e Vercellese (Borgomanero comuni limitrofi). Astigiano (Moncalvo e Calliano).

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale attesta come il salame di asino sia diffuso in varie zone del Piemonte, soprattutto in quelle aree dove venivano maggiormente utilizzati come animali da soma e a fine carriera venivano macellati per farne salami.

Lumache di Cherasco (Lumache di pianura)

Si tratta di lumache allevate in aziende generalmente della pianura o di collina. Le lumache devono essere allevate all’aria aperta e alimentate con vegetali freschi, queste condizioni determinano una crescita lenta e un periodo di allevamento lungo delle lumache, aspetti che però si ripercuotono positivamente sulla qualità delle carni rendendole sapide e non flaccide.

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Cuneo e di Torino.

Cenni storici e curiositàL’Istituto di Elicicoltura esiste a Cherasco dal 1971.Sui ricettari di cucina piemontese troviamo piatti a base di lumache sin dal Settecento pur non essendo citata la zona di raccolta/produzione.

Lumache di montagna (Chiocciole di Borgo San Dalmazzo)

Sono le lumache raccolte e ingrassate nelle zone di montagna, (esclusivamente di specie Helix pomatia alpina) e presentate alla “Fiera Fredda” come ultimo prodotto dell’“agricoltura” prima della chiusura della stagione dovuta alla pausa invernale. L’attività di raccolta ed ingrasso delle lumache ha fornito da sempre una interessante possibilità di integrazione del reddito alle popolazioni della montagna.

Territorio interessato alla produzione: Le vallate del cuneese, in particolare nei dintorni di Cuneo.

Cenni storici e curiositàLa fiera delle lumache di Borgo San Dalmazzo si tiene da più di 400 anni.Sui ricettari di cucina piemontese troviamo piatti a base di lumache sin dal Settecento pur non essendo citata la zona di raccolta/produzione.

Rane delle risaie piemontesi

La coltura del riso nelle terre vercellesi ha portato alla creazione di un ecosistema che ha favorito laproliferazione di rane che venivano poi catturate per il consumo.Esistevano anche figure di pescatori che erano specializzati nella pesca di tali animali e che vendevano il prodotto sui mercati locali, buona parte del prodotto era invece autoconsumato dalle famiglie degli agricoltori.

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Cuneo e di Torino.

Cenni storici e curiositàTestimonianze orali e libri di cucina che ne descrivono le metodologie di preparazione.L’utilizzo di rane nella cucina Vercellese e Novarese risale all’impianto della coltura del riso in Piemonte. Venivano già commercializzate sul mercato di Torino nel 1627 visto che sono citate sulla Lettera della Camera Ducale di Torino che contempla le tasse sui prodotti ivi commercializzati (Archivio di Stato 14: 2°).

Biova

La biova è il classico pane piemontese di piccolo formato, ed è forse il più comune che si può trovare in Piemonte. Sono pagnotte vendute in due formati, uno di 100-150 g, e l’altro di 500 g circa.

Territorio interessato alla produzione: Le biove sono prodotte in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa biova ha origini assai remote e la sua produzione è attestata da studi storici locali.È conosciuta da sempre, ma anche l’etimo è incerto. È nella memoria collettiva e nei ricordi di tutti i piemontesi, ma le origini di questo pane, veloce da produrre e gustoso, non sono documentate.È fortemente documentata la presenza sul territorio da moltissimo tempo, con documenti commerciali di ogni genere.Nessun paese in particolare rivendica la primogenitura delle biove.

Le paisanotte di Druent

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, lievito naturale, lievito di birra, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: farina, acqua e lievito stemperato in acqua tiepida vengono impastati fino ad ottenere un elaborato né troppo duro né troppo lento, quindi bastardo come si usa dire. Si lascia fermentare l’impasto per qualche ora, poi – dopo breve rimpasto – si formano dei pani a foggia di libro aperto del peso variabile dai 150 ai 300 gr. Si lascia lievitare ancora per qualche tempo, poi si cuoce nel forno caldo.

Area di produzione: periferia di Torino e cuneese.

Note: l’origine di questo pane è nella montagna torinese. Poi con l’esodo verso le grandi fabbriche del capoluogo i lavoratori hanno portato con loro anche le paisanotte, diventate paisane.

Pane «barbaria»

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano, farina di segale, acqua, lievito naturale e sale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: la farina, il lievito, l’acqua e il sale sono impastati per circa mezz’ora e lasciati lievitare tutta la notte. Il mattino successivo si riprende l’impasto, si aggiunge altra farina e si impasta ancora, lasciando lievitare per un’ora e mezza. Alla pasta viene data una forma rotonda e dopo breve riposo si cuoce nel forno a legna per circa 40/50 minuti.

Area di produzione: Valle Maira.

Note: il termine “barbaria” sta ad indicare “imbastardito” poiché si usano due tipi di farina diversi. Oggi è sostituito dal pane integrale (alla farina si aggiunge crusca). Col termine “barbaria” un tempo si indicava anche una bevanda calda base di caffè, panna e cioccolato. (Informazioni di Donatella Acconci).

Pane di Busca

Composizione:
a. Materia prima: farina doppio zero, lievito acido, acqua, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: alla farina viene addizionata una certa quantità di pasta proveniente dalla lievitazione naturale del giorno prima, l’acqua e il sale. Si impasta nell’impastatrice. Quando la pasta è omogenea si fanno dei pezzi da 10 kg. l’uno che vengono messi sulle tavole a lievitare per 3 ore, terminate le quali si tagliano tanti pezzi da mezzo kg, l’uno, si modellano a forma di pagnotta allungata o triangolare. Si infornano lasciandole cuocere per tre quarti d’ora.

Area di produzione: zona di Busca, in provincia di Cuneo.

Note: viene anche chiamato pane di coita, cotta. I montanari scendono a Busca per acquistare questo pane che si conserva anche una settimana.

Panet

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, sale,lievito naturale (la levée. In inverno si aggiunge lievito di birra.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: la farina, il lievito, l’acqua e il sale sono impastati per mezz’ora circa nell’impastatrice elettrica a forcella. Si lascia lievitare in media un’ora e mezza a seconda della temperatura ambientale. Poi viene data una forma rotonda, del diametro di 15/16 cm. e, dopo breve riposo, viene cotto nel forno a legna, dove assume un colore dorato a crosta croccante.

Area di produzione: San Damiano Macra e Valle Maira (Cn).

Note: il panet, è il pane classico della montagna. Un tempo si faceva una volta all’anno, nei forni di borgata per le festività dei santi. Veniva conservato nei solai. A Natale era già così duro che doveva essere tagliato con un’apposita taglierina. In tempi più recenti il contadino portava al panettiere dodici chili di farina macinata nei mulini locali (ora in valle non ve ne sono più) e ritirava 10 chili di pane, pagando il prezzo della lavorazione. Questa era chiamata la “cotta”. Ancora oggi nelle panetterie di fondo valle le pagnotte più grandi vengono chiamate «mucche di cotta». Nelle borgate della Valle Maira si può ancora vedere qualche forno comunitario, un tempo assai più numerosi, con capienza di 80 pani dal peso di 2 kg. ciascuno. Nella bassa Valle Maira le infornate si facevano, invece che ai santi, a S. Martino e perfino a Natale. C’è anche un panet di segale, che un tempo era molto più diffuso, perché questo cereale veniva prodotto in Valle Maira, nella zona di Paglieres, frazione di S. Damiano Macra, fino agli anni Cinquanta.

Rubatà

I rubatà sono uno dei due tipi di grissino che sono nati secoli fa in Piemonte. Il termine “rubatà” inpiemontese significa “caduto”, “ruzzolato” ed è probabilmente riferito al gesto che il fornaio compielasciando cadere le strisce di pasta sul tavolo dove saranno arrotolate. Altra spiegazione può essere il vero e proprio arrotolamento che il fornaio esegue per allungare i grissini.

Territorio interessato alla produzione: I rubatà sono prodotti e in tutto il Piemonte, con un epicentro storico a Chieri, Andezeno e Poirino (TO).Esiste una vasta e altrettanto storica zona di produzione anche nella provincia di Cuneo, dal monregalese alle Langhe.

Cenni storici e curiositàIl termine grissino deriva da “grissia” o “gherssa” il pane, un tempo, a forma allungata e stretta, usato in tutto il Piemonte, simile alle baguette francesi. Esasperando la forma allungata del pane e assottigliandola sempre più, è nato il grissino; di certo fece la sua comparsa alla metà del 1600.Esiste un documento del 1793, nell’archivio storico del Comune di Mondovì, riguardante le tasse sul pane, in cui si menziona “…pane lungo bianco detto lavato, ed il detto rubattato, ogni lib. Soldi 2,4…”.La storia del rubatà si mescola nel passato a quella del grissino stirato, e le tracce si confondono, anche se alcuni, spinti da pur sane passioni campanilistiche, tendono a creare distinzioni storiche anche dove non vi è nessuna certezza documentale.

Stirate

Composizione :
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua,lievito di birra, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: farina, lievito, sale e acqua vengano impastati a mano. Terminata la lievitazione si formano delle barrette lunghe 20 cm. e larghe 3/4 che pesano dai 50 ai 300 gr., stilando la pasta con le mani. Dopo breve pausa vengono cotte, in teglia, nel forno a legna.

Area di produzione: Cherasco, in provincia di Cuneo.

Note: si consuma con antipasto di affettati e formaggi, ma anche con il caffellatte del mattino, soprattutto la versione da 3 etti.

Tirassa

Composizione :
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua e sale, lievito di birra.
b. Coadiuvanti tecnologici :
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: si impasta bene farina, acqua, sale e lievito e si fa lievitare per circa 3 ore, dando la forma di uno sfilatino leggermente più ovale. La pasta viene piegata (tirata, per 4 volte, in due tempi, intervallati da mezz’ora circa, da cui il nome). Si cuoce nel forno a 220 °C per circa un’oretta. Ha pochissima mollica.

Area di produzione: Bassa Valle Maira.

Note: un tempo era fatto in casa. Si preparava soprattutto per i bambini, al centro veniva fatta cuocere una mela e diventava una vera prelibatezza, e in una panetteria di Villar S. Costanzo, a richiesta, viene ancora preparata.

Toponin

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, sale,lievito naturale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: la farina, il lievito naturale, il sale e l’acqua vengono impastati nell’impastatrice. L’elaborato viene lasciato lievitare per circa 3 ore. Poi gli si dà forma piegando due volte l’impasto e bagnando a metà della piegatura con un po’ d’acqua. Si fa lievitare ancora avvolto in panni di tela. Si cuoce per circa un’ora nel forno a legna. La pagnotta è tondeggiante, dal diametro di un decimetro circa, con la crosta molto friabile e dorata. Se ben cotta ha poco mollica.

Area di produzione: tutto il cuneese.

Note: la stessa lavorazione del toponin è usata per le “banane”, piccole pagnotte di forma allungata dalla crosta dorata e lucida e per le “foglie” (pagnottelle dalla forma di foglie con la crosta dorata e lucida). Questi due tipi prima di essere infornati vengono fatti passare sotto il vapore per ottenere l’effetto di lucido. Lavorazione identica è anche quella delle “parigine”, simili alle baguettes francesi, però più corte e un po’ più tozze. Parigine, banane e foglie hanno più mollica. (Informazioni di Donatella Acconci).

Campagnola buschese

La Campagnola Buschese è una varietà di pane molto comune, consiste in una pagnotta di formaallungata che può avere pezzatura tra i 150 g fino al mezzo chilo.Essendo pane comune si produce con farina, acqua, sale e lievito.

Territorio interessato alla produzione: La Campagnola Buschese è attualmente prodotta da quattro panettieri di Busca, ma questa tipologia di pane, con altri nomi, è parecchio diffusa in altri comuni del cuneese.

Cenni storici e curiositàLa Campagnola Buschese ha origini molto vecchie. Localmente gli anziani la chiamano ancora con questo nome, che però si sta perdendo. Uno dei produttori intervistati dichiara di produrre da 50 anni lo stesso pane, sempre allo stesso modo. Ora la produzione di pane si è differenziata, ma i panettieri di Busca producono ancora il 30% del loro pane con questa forma ed in questo modo.Non esistono riferimenti bibliografici diretti della nascita di questo pane, anche se studi storici locali ne certificano la presenza sul territorio da lungo tempo.

Grissino stirato

I grissini stirati sono forse il prodotto di gastronomia torinese più famoso al mondo. Si tratta di pasta di pane lavorata in modo da assumere una forma molto allungata, anche un metro e mezzo, tanto quanto la larghezza delle braccia del panettiere. Infatti l’impasto, molto morbido, viene diviso in pezzetti lunghi una decina di centimetri, che sono allungati, “stirati”, prendendo le due estremità e tirando le finché le braccia ci arrivano.

Territorio interessato alla produzione: I grissini stirati sono prodotti in tutto il Piemonte, con un epicentro storico a Torino, nelle Valli di Lanzo, nel Canavese, e nel Pinerolese.

Cenni storici e curiositàÈ stato un prodotto di lusso per tavole di signori, prodotti solo con farina bianca e resi ricchi con l’aggiunta di grassi.Fra i grandi appassionati del grissino torinese troviamo lo stesso Napoleone, il quale creò, all’inizio del XIX secolo un servizio di trasporto apposito tra Torino e Parigi, dedicato al trasporto di quelli che egli chiamava les petits bâtons de Turin.Il numero di produttori di grissini stirati, soprattutto nelle valli di Lanzo era enorme, e la tradizione si è mantenuta tramandando la sapienza dai fornai ai garzoni per generazioni.

Miche di Cuneo

Le miche di Cuneo sono pagnotte comunissime tra i panettieri di Cuneo e provincia.Sono vendute nella pezzatura, un tempo molto comune di 500-700 g, questa pezzatura era destinata alle famiglie numerose, o per coloro che preferiscono consumare il pane anche in giorni successivi a quello di produzione.È prodotto usando lievito madre, quindi la sua preparazione è molto lenta, con tempi di lievitazioneripetuti molto lunghi.Gli ingredienti sono: farina di grano tenero, acqua, lievito madre e sale.

Territorio interessato alla produzione: Le miche di Cuneo sono prodotte in tutta la provincia di Cuneo.

Cenni storici e curiositàQuesto tipo di pane è molto vecchio, e la sua diffusione maggiore e definitiva risale al primo dopoguerra, quando, dopo anni di pane fatto con tutto quello che capitava, ci si poté permettere quel “pane bianco” che mancava da anni dai deschi familiari.La “micca” è più definita nella tradizione lombarda, dove la michetta denota una pagnotta piccola, e il termine “micca” è documentato e molto antico: nel Dizionario Milanese- Italiano di Cletto Arrighi del 1896 compaiono diverse definizioni di “micca”, tutte a definire il pane.È quindi probabile che il nome “mica”, voce indubbiamente dialettale, abbia trovato spazio nel comune sentire e lessico per la facilità d’uso e di comprensione, per la sua univocità e sveltezza, ma sia stato importato dalla vicina Lombardia.Non esistono infatti riferimenti bibliografici diretti della nascita delle “Miche di Cuneo”.La tradizione orale e la enorme diffusione e conoscenza ne certificano però la presenza sul territorio da lungo tempo.Basti pensare al fatto che “micca” è diventato per i piemontesi, e soprattutto per i cuneesi, sinonimo di pagnotta di pane.

Tupunin

Il Tupunin è un tipo di pane particolare per pezzatura e produzione, comune tra i panettieri di Cuneo.Infatti è venduto nella pezzatura, ora comune ma un tempo molto meno, di 70-100 g ed è prodotto usando lievito madre. Gli ingredienti sono: farina di grano tenero, acqua, lievito madre in pasta e sale.

Territorio interessato alla produzione: I Tupunin sono prodotti in tutta la provincia di Cuneo.

Cenni storici e curiositàNon esistono riferimenti bibliografici diretti della nascita dei tupunin, che forse nacquero come capriccio di qualche nobile. La tradizione orale e la enorme diffusione e conoscenza ne certificano la presenza sul territorio da lungo tempo.Già il dizionario piemontese dell’ottocento di Ponza S. Martino citava il Tupunin.Il Tupunin è stato scelto come nome e come simbolo del bollettino di informazione dell’Associazione Panificatori della Provincia di Cuneo.

Pan barbarià

Pan Barbarià significa “pane imbarbarito”, e deve il suo nome alla farina usata per produrlo.Questa infatti era ricavata dai raccolti di montagna, in cui si seminavano insieme sia la segale che ilgrano. La coltivazione mista aveva il suo perché nelle caratteristiche dei due cereali: resistente al freddo la segale, ma di stelo lungo e poco robusta per il vento in quota; con la spiga scarsa ma di stelo corto il grano, che così sorreggeva l’altra.La miscela di semina, poi, dipendeva dalla quota e dalle caratteristiche dei terreni, quindi la farina mista risultante, che sui mercati torinesi si chiamava “Barbariato” non ebbe mai composizione precisa.Ecco quindi la spiegazione del nome: farina mista ovvero “imbarbarita” , con cui produrre il pan barbarià e le sue versioni con patate, barbabietole e cipolle.

Territorio interessato alla produzione: Il pan barbarià si produce nelle vallate cuneesi, in Val Pellice, in Alta Val Chisone e in Alta Val Susa.

Cenni storici e curiositàLe origini di tale tipo di pane nelle vallate cuneesi sono piuttosto remote e si possono fare risalire almeno alla fine dell’800. La documentazione scritta non esiste, e se ne tramanda memoria, comunque consistente e diffusa, per lo più orale.

Plin

I plin, o “agnolottini al plin”, più impropriamente raviolini al plin, sono dei piccoli agnolotti, eseguiti alla moda piemontese, e quindi con il ripieno di carne, ma, a differenza degli agnolotti, sono molto più piccoli (almeno la metà se non un terzo) e la sfoglia è molto più sottile.Di solito poi la sfoglia è molto ricca in uovo, seguendo la tradizione della Langa di usare molti tuorli per la pasta all’uovo.

Territorio interessato alla produzione: Sono tuttora un primo piatto caratteristico della cucina piemontese, in particolare della Langa e dell’astigiano, normalmente consumato in occasione di ricorrenze.

Cenni storici e curiositàLa presenza dei plin nell’area compresa tra le province di Torino, Cuneo e Asti è indubbia, ma soprattutto basata sulla tradizione agreste e non facilmente reperibile sui testi i cucina antichi.Le testimonianze locali hanno memoria perenne dei plin, facendoli risalire almeno all’inizio del secolo scorso.Un’unica antica citazione testuale risale al 1846 ad opera di F. Chapusot, cuoco torinese.

Tajarin

Si tratta di un particolare formato di pasta all’uovo. In pratica sono sottili tagliatelle, con la caratteristica di essere tagliate a mano,e quindi presentarsi con una certa irregolarità.

Territorio interessato alla produzione: I tajarin si producono in tutto il territorio piemontese e, in particolare, nelle Langhe e nel Monferrato.

Cenni storici e curiositàI tajarin vantano origini antiche e il loro radicamento sul territorio addirittura sposa note canzoni piemontesi di cui si è persa l’origine: ricordiamo la “Monferrina”, dove “…ris e còj e tajarin /guarda un pòch coma balo bin…” .Nel suo “Grandi piatti del Mondo” Robert Carrier pone i tajarin e il bunet come soli rappresentanti della cucina piemontese nel mondo.L’origine è talmente remota da non poter essere certamente datata, ma essendo già codificati nel 1801, se ne può presumere una storia che affonda le sue radici nella cucina popolare di sempre.

Agnolotti

Gli agnolotti sono costituiti da due fogli di pasta all’uovo, di forma quadrata o vagamente rettangolare, con all’interno un ripieno a base di carne.Sono tuttora un primo piatto caratteristico della cucina piemontese, tradizionalmente consumato inoccasione di ricorrenze.

Territorio interessato alla produzione: Gli agnolotti sono preparati, secondo varianti multiple e non classificabili univocamente, su tutto il territorio della regione.

Cenni storici e curiositàNon mancano le leggende, tra cui una che fa derivare il nome da un certo “Angelotto”, cuoco del Marchese di Monferrato, che preparò un piatto con gli avanzi rimasti dopo l’assedio del Principe d’Acaja.Secondo le più recenti considerazioni, anche se non del tutto condivise a livello popolare, gli “agnolotti” si distinguono dai ravioli per il tipo di ripieno.Gli agnolotti infatti prevedono sempre la presenza di carne, mentre i ravioli sono preparati con formaggio e verdure. A supporto di ciò si può constatare come già nel 700 il Vocabolario degli Accademici della Crusca distingua il raviolo dall’agnolotto, definendo: “ricco d’erba e cacio il primo, più ricco di carne e uovo il secondo”.L’inizio della separazione concettuale tra ravioli ed agnolotti si può datare al 1570, quando Bartolomeo Scappi, nell’Opera, descrive un tipo di pasta ripiena ma con la definizione di “anolini”. la diffusione ne ha probabilmente alterato il nome, ma la presenza di carne nel ripieno marca da allora la diversità tra le due paste ripiene.

Grano saraceno

Il Grano Saraceno (Fagopyrim Esculentum) viene prodotto, ancora oggi, seguendo le seguenti metodiche di lavorazione: si procede al diserbo ed all’aratura del terreno; la semina avviene tra maggio e l’inizio di giugno.

Territorio interessato alla produzione: Il Grano Saraceno è coltivato nella Valle Casotto e nel Comune di Pamparato.

Cenni storici e curiositàAttualmente, la farina ottenuta serve per produrre specialità proposte da agriturismi e ristoranti tipici locali. Si presume che la comparsa di questo prodotto sia avvenuta all’epoca delle invasioni dei Saraceni.

Farina per polenta tradizionale di Langa

Le quattro varietà tradizionali di mais per produrre farina per polenta sono:

L’Ottofile: prende il nome dalla caratteristica specifica di avere una pannocchia con otto filelongitudinali di chicchi dalla forma arrotondata di colore arancio, molto ricchi di amido. Veniva seminata per lo più nella Langa alta ed ha un ciclo produttivo medio.
La Pignolet: deriva il suo nome dall’avere i chicchi dotati di una piccola protuberanza che faassomigliare la pannocchia vagamente ad una pigna. I semi sono di un bel colore arancio vivo con un contenuto della frazione amidacea e setolosa molto equilibrata. Si semina a partire dalla bassa Langa sino alla pianura Cuneese e Torinese con un ciclo produttivo medio precoce.
Il Marano: è un mais dal ciclo produttivo precoce, con una pannocchia molto piccola dai chicchi di un bel colore rosso–amaranto vivo, con una frazione setolosa preponderante rispetto alla frazione amidacea.Veniva seminato dalla bassa Langa sino al Monferrato e all’Alessandrino.
La Quarantina: chiamata così per il suo ciclo produttivo precocissimo, veniva seminata in tutta l’areale langarolo, soprattutto in secondo raccolto e quando le avverse condizioni climatiche impedivano la semina di mais Ottofile, Pignolet e Marano in modo da poter avere, comunque, la produzione necessaria per il sostentamento della famiglia giacché era impensabile sopportare una annata senza la produzione di mais da polenta.


Territorio interessato alla produzione: La coltivazione di queste varietà tradizionali di mais avviene nelle Langhe.

Cenni storici e curiositàNegli anni Sessanta e Settanta, la tradizione di consumare polenta era andata progressivamente perdendosi e, di pari passo, si era persa l’abitudine di seminare i mais tradizionali per la polenta. Si era anche perso il “gusto” della polenta tradizionale soppiantata da polentine preparate con le varie farine industriali (bramate, semolate, ecc.) dai tempi di cottura più brevi e di più facile reperimento ma dalle caratteristiche organolettiche piuttosto anonime.A cavallo tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta, si è iniziato un paziente lavoro di ricerca degli ultimi contadini che ancora seminavano le varietà di meliga nostrana per polenta e, solo grazie all’intraprendenza di imprenditori appassionati, si è potuto salvare l’Ottofile e la Pignolet che erano veramente sull’orlo dell’estinzione.

Farine alimentari della Valle Vermenagna

Le farine alimentari di mais, di frumento tenero, di grano saraceno e di castagne della Valle Vermenagna sono ottenute mediante molitura con mulino in pietra azionato ad acqua.

Territorio interessato alla produzione: La produzione di queste farine è in Valle Vermenagna (CN).

Cenni storici e curiositàLa documentazione storica riguardante i prodotti in oggetto si possono trovare negli archivi comunali di Robilante (CN). La prima licenza per produrre farine con le tecniche proposte è datata 1825.

Tinca Gobba Dorata del Pianalto di Poirino DOP

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE
AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: La Tinca comune (Tinca tinca) presenta una colorazione base giallo-verde, il dorso più scuro, tendente al verde, i fianchi più chiari, spesso con tonalità bronzee o dorate, il ventre è giallastro o grigio. La bocca è bordata di rossiccio. Macchie nere sono sparse irregolarmente sul dorso e sulle pinne. La Tinca Dorata invece, che è una variante della Tinca comune, presenta una colorazione della livrea prevalentemente giallo-rossiccia, dovuta alle “terre rosse” caratteristiche dell’altopiano poirinese. Un’altra caratteristica che la differenzia dalla Tinca comune è la presenza di una gibbosità all’altezza delle prime vertebre cervicali.
Metodiche di allevamento Per i contadini della zona la tinca, considerata un alimento di notevole valore proteico, ha sempre rappresentato una fonte non trascurabile di introito economico avendo infatti carni delicate e sode, non grasse e non ricche di miospine. Presentando dunque rinomate qualità organolettiche è da sempre fatta oggetto di commercio. L’abbandono delle classiche attività agricole e zootecniche e l’adozione delle monocolture e dell’allevamento intensivo dei bovini hanno alterato le tradizionali pratiche gestionali dei bacini; successivamente l’introduzione di fauna acquatica alloctona, predatrice e/o competitrice alimentare, ha contribuito alla drastica riduzione del numero dei bacini nei quali si trova la tinca, compromettendone il successo riproduttivo. Essa è anche quasi scomparsa dai torrenti locali nei quali abbondava e prosperava. Attualmente nell’area di distribuzione di quella che era sempre nota come “Tinca Gobba e Dorata di Poirino” permane comunque un buon numero di laghetti, circa 100, nei quali è ancora allevata, ma sono circa 250, e non più utilizzate, le cave idonee all’allevamento di questo pesce , il cui valore commerciale è tra i più elevati fra tutti i pesci autoctoni di acqua dolce.

ZONA DI PRODUZIONE: La Tinca Dorata è prodotta in quello che anticamente era chiamato il “Pianalto di Poirino”, che
comprende i comuni di: Poirino, Isolabella, Pralormo, Carmagnola, Villasteloone, Santena (in provincia di Torino); Dusino San Michele, Valfenera, Cellarengo (in provincia di Asti); Montà, Santo Stefano Roero, Monteu Roero, Somariva Perno, Pocapaglia, Sanfrè, Sommariva del Bosco, Ceresole d’Alba (in provincia di Cuneo).

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI:

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA:

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO
PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: I contadini per abbeverare il bestiame erano soliti raccogliere e conservare le acque piovane in fossi e peschiere in cui allevavano tinche e le commercializzavano a Torino ed in altri luoghi già prima del 1800, nella zona di Carmagnola, come attesta Milo Julini nel testo “Uso a scopo alimentare dell’ittiofauna del Piemonte”. Tradizione antica quella dell’allevamento della tinca che, nell’Altopiano di Poirino, ha portato alla produzione di un pesce dalle caratteristiche organolettiche particolarmente apprezzate; citate anche da Sandro Doglio nel “Dizionario di Gastronomia del Piemonte” (1997, Daumerie).

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Salame di trota

Materia prima: filetto di trota salmonata.

Tecnologia di lavorazione: dalla trota salmonata sono ricavati i filetti che sono posti in salamoia (acqua, l0% di sale ed erbe aromatiche) per circa sei giorni. Sono poi insaccati in un budello ed affumicati a fuoco caldo per circa sette ore.

Maturazione: salamoia di 6 giorni.

Area di produzione: Cuneo.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: si tratta di un prodotto nato dalla creatività di un salumiere cuneese, che é anche allevatore di trote.

Trota affumicata

Materia prima: trote.

Tecnologia di lavorazione: le trote vanno eviscerate e lavate in acqua e aceto o acqua e limone. Metterle in salamoia aromatizzata con pepe, alloro, coriandolo, seme di finocchio, ecc. e lasciarle per 3-5 giorni, a seconda della grandezza, riguardandole almeno una volta al giorno. Tolte dalla salamoia, vanno appese all’aria per qualche giorno. Successivamente vengono affumicate esponendole al fumo per 3-4 giorni, ad intervalli di 4-5 ore. Conservare all’asciutto in luogo fresco.

Maturazione: 10-15 giorni.

Area di produzione: Trentino Alto Adige, Piemonte, Lombardia, Veneto,
Marche, Umbria.

Calendario di produzione: primavera, inizio estate, fine estate, inizio autunno.

Note: é un prodotto che si conserva bene per qualche tempo in zone non molto umide. Diversamente é meglio tenerlo in frigorifero. Si consuma in insalata, o sulle tartine come antipasto. La specie di trota più indicata per questo tipo di preparazione é quella salmonata.

Tinca in carpione

Materia prima: tinca.

Tecnologia di lavorazione: il pesce, precedentemente salato e infarinato, viene fritto in abbondante olio bollente. A parte si lascia bollire una quantità di aceto e una di acqua a cui si aggiunge il sedano, le cipolle, l’aglio, la salvia, l’alloro, il rosmarino ed il sale. La salsa ottenuta viene versata sul pesce precedentemente sistemato nei vasi di vetro. Si lascia riposare per tre giorni e si conserva in frigorifero per alcuni mesi.

Maturazione: 3 o 4 giorni.

Area di produzione: tutto il Piemonte.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: la tinca é un pesce diffuso in tutta Europa. In Italia si trova ovunque anche se non in modo abbondante. Ha un corpo tozzo coperto di piccole squame e di un abbondante strato di muco. Di colore verdastro, la tinca può superare i 5 Kg. di peso e difficilmente si trovano individui sessualmente maturi al di sotto dei 25 cm. L’accrescimento non é molto rapido: la femmina matura verso i 4 anni, il maschio al terzo anno di età.

Prodotti ittici in carpione

Sono preparazioni ittiche ormai poco in voga ma molto importanti in passato.Era consolidata la tradizione di conservare in carpione i prodotti della pesca tipo tinche, anguillee trote.

Territorio interessato alla produzione: Un tempo le Lamprede erano diffuse un po’ dappertutto: famose quelle della pianura del Po tra Vigone e Carignano e anche quelle di Chivasso. Ma il “paese delle Lamprede” è oggi soprattutto Cercenasco, piccolo centro nella pianura torinese, tra Airasca e Vigone.

Cenni storici e curiositàTradizione orale e libri di cucina del 1800.

Patè di salmone tartufato

Materia prima: salmone affumicato, tartufi neri.

Tecnologia di lavorazione: il salmone viene ridotto in pasta unitamente al tartufo nero, conditi con sale, pepe e olio di semi di soia. Messo nei barattoli da 50 gr. viene sterilizzato in autoclave e poi confezionato.

Maturazione:

Area di produzione: Monforte d’Alba, Alba.

Calendario di produzione: autunno, primavera.

Note: questo prodotto trova una sua “naturale” valorizzazione nel piatto tipico piemontese dei “tajerin”,tagliolini all’uovo che ricordano i capelli d’angelo, e che in questa regione vengono tradizionalmente consumati con tartufi e funghi. Gli italianissimi tartufi rivendicano caratteri di tipicità anche per l’altra materia prima – il salmone – che, anche quando occasionalmente prodotta nella nostra penisola, rimane comunque estraneo alla sua tradizione.

Carota di San Rocco Castagnaretta

La carota di San Rocco Castagnaretta presenta una radice lineare, quasi cilindrica, con una brevecollettatura verdastra-violacea, una polpa tenera e croccante ed un gusto dolce.

Territorio interessato alla produzione: L’ambiente oggetto di coltivazione della carota di San Rocco Castagnaretta è collocato nella fascia pedemontana a Sud della città di Cuneo.

Cenni storici e curiositàDa testimonianze orali raccolte in zona emerge come la coltivazione della carota sia comparsa nella zona di San Rocco Castagnaretta nei primi decenni del ‘900; i giardinieri furono i primi a praticarla. I mezzadri, prendendo esempio dai giardinieri, misero a dimora i primi piccoli impianti di carota. Tutte le operazioni colturali venivano eseguite a mano e, per questo, le superfici aziendali investite erano modeste (1.500 – 2.000 m2 al massimo).Tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso le superfici coltivate a carota aumentarono significativamente.Un’industria cuneese aveva infatti iniziato ad acquistare carote sul mercato di Cuneo per l’estrazione di alcuni composti (tra cui il carotene, pigmento di cui la carota è particolarmente ricca). La domanda di carote favorì la diffusione della coltura all’interno delle aziende e le tecniche di gestione agronomica andarono via via affinandosi.Sino alla seconda metà degli anni ’60 la richiesta dell’industria di trasformazione ha sostenuto il mercato locale della carota. Grazie all’esperienza dei Club 3P promossi dalla Coldiretti locale ed all’interessamento della Camera di Commercio di Cuneo, si aprirono nuovi sbocchi commerciali garantendo una buona remuneratività al prodotto locale.

Patate dell’Alta Valle Belbo

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE
CONSOLIDATE NEL TEMPO: La patata appartiene alla famiglia delle Solanaceae e alla specie Solanum tuberosum L.
Le parti verdi della pianta contengono un alcaloide velenoso, la solanina, che compare anche nei tuberi a seguito di una lunga esposizione alla luce. Indice di maturità dei tuberi è il graduale ingiallimento della parte aerea e la buona aderenza della buccia alla polpa.
La raccolta può essere anticipata o per motivi di mercato (patata primaticcia) o per evitare attacchi tardivi di malattie da virus, nel caso di produzione di patate da seme.
Poiché la coltura della patata ha buone capacità di adattamento alle diverse condizioni pedoclimatiche, risulta presente in tutte le fasce altimetriche.
Le patate dell’Alta Valle Belbo sono caratterizzate dalle loro qualità organolettiche, apprezzate per il consumo fresco. La coltivazione avviene su terreni non eccessivamente fertili e senza possibilità di essere irrigati, quindi, a compensare una diminuzione delle rese, vengono esaltate le caratteristiche organolettiche-sensoriali. Si può, quindi, asserire che le patate dell’Alta Valle Belbo siano molto più saporite rispetto alle varietà che si possono reperire normalmente sul mercato.
Attualmente, sono scarsamente prodotte le vecchie varietà, che derivavano essenzialmente da riproduzioni aziendali, per cui le cultivar attualmente coltivate sono fornite dal mercato nazionale ed estero. Il particolare ambiente pedoclimatico non consente semine eccessivamente anticipate, quindi, l’inizio della raccolta coincide, generalmente, con la prima decade di agosto.
Un importante fattore da sottolineare è il limitato numero di trattamenti effettuati in quanto, particolarmente nelle zone più alte (fino a 900 m s.l.m.), con temperature relativamente basse, generalmente non si eseguono interventi per la peronospora.
La difesa fitosanitaria in genere è, comunque, controllata e limitata alle reali necessità sulla base degli andamenti stagionali.
Il prodotto viene principalmente venduto per il consumo fresco e, in piccole parti, ad industrie di trasformazione, per cui non subisce processi di conservazione ma solo un provvisorio stazionamento naturale in magazzino in attesa della collocazione.
Il 20 agosto 1998, è stato costituito, a Mombarcaro, il “Consorzio per la valorizzazione e tutela delle patate dell’Alta Valle Belbo” che ha per finalità la tutela, la valorizzazione e l’incremento della produzione nonché il commercio delle “Patate dell’Alta Valle Belbo”, a difesa e sostegno delle produzioni della valle che necessitano di salvaguardia.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di produzione comprende, in pratica, tutti i comuni dell’invaso e delle pendici del Belbo.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO
INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Non esistono lavorazioni o specifiche tecniche di conservazione ed imballaggio, in quanto un periodico controllo nei locali dove staziona il prodotto in attesa di vendita coincide con la cernita
manuale di eventuali tuberi difettosi o degradati.
Il confezionamento in appositi sacchetti di diversa capienza (5-10 e 25 kg) viene eseguita manualmente procedendo, durante questa operazione, ad un ulteriore controllo qualitativo.
All’interno delle confezioni destinate al consumo fresco viene apposta un’etichetta riportante il marchio del Consorzio nonché le generalità dell’azienda produttrice.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: Per ovvie ragioni di conservazione, le patate vengono conservate al riparo dalla luce ed in luoghi possibilmente freschi; da ciò consegue che ogni produttore destina il locale o più locali ritenuti idonei a tale operazione. Generalmente, si tratta di porzioni di porticati, capannoni e/o semi-scantinati, a norma con le attuali disposizioni di legge.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: La vallata del Belbo è sempre stata caratterizzata da questa coltivazione, in particolare il Comune di Mombarcaro gode di un particolare privilegio per la qualità ed il sapore delle sue patate.
Molti anni orsono, vi era una forte richiesta delle patate di Mombarcaro da parte della vicina Liguria; ancora oggi, i produttori che vanno a vendere sui mercati liguri riescono a spuntare un prezzo maggiore per la particolare attenzione degli acquirenti verso le patate prodotte in valle Belbo.
Va però ricordato che, in passato, venivano coltivate varietà “locali” che oggi, purtroppo, sono praticamente sparite; esiste ancora qualche indicazione della loro produzione tramite persone anziane del luogo; compito del Consorzio è quello di ricercare qualche sporadica presenza di vecchie varietà per una loro eventuale reintroduzione.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Peperoni di Carmagnola

Le varietà di peperone coltivate nel Carmagnolese appartengono a quattro ecotipi autoctonifenotipicamente e geneticamente distinti tra loro. Accanto a queste varietà di pregio trovano altresìdiffusione altre cultivar di diversa provenienza (a bacca quadrata e corno di bue), introdotte negli ultimi anni per fronteggiare meglio le nuove avversità del peperone.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione del Peperone di Carmagnola comprende il comune di Carmagnola (TO) e alcuni comuni limitrofi della provincia di Torino e Cuneo.

Cenni storici e curiositàIl peperone, pianta esotica di origine probabilmente sudamericana, venne introdotto in Europa nel secolo XVI e si diffuse rapidamente nelle regioni a clima temperato. All’inizio del secolo scorso, la specie trovò nel Carmagnolese un ambiente pedoclimatico particolare; vennero selezionate varietà autoctone e si ebbe una produzione di elevata qualità che assunse, col tempo, un carattere industriale. Commercializzato in tutta Italia ed esportato all’estero, il tipico Peperone di Carmagnola è da decenni il vanto dell’economia agricola locale.Nonostante la tendenza negativa negli ultimi anni, che ha fatto registrare un decremento delle superfici investite ed un conseguente calo della produzione, rimane ancora oggi il prodotto trainante nello sviluppo del settore orticolo dell’intera zona.La coltura, in pieno campo o sotto tunnel, produce i primi frutti nel mese di luglio, per concludere la stagione in ottobre. In questo periodo, si svolgono sia il mercato all’ingrosso del peperone, che ha una tradizione ormai cinquantenaria, sia affollati mercati al dettaglio degli orticoltori, che culminano in settembre con la Sagra del Peperone (giunta orma alla 62ˆ edizione). In occasione della Sagra, da 40 anni si svolge anche il “Concorso del Peperone” con premi speciali per le migliori bacche.

Pomodoro piatta di Bernezzo

Il Pomodoro Piatta di Bernezzo ha forma tondeggiante, fortemente compressa ai poli. Il colletto presenta scanalature profonde e la cicatrice stilare è mediamente grande.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione comprende il Comune di Bernezzo (Cuneo) e altri comuni limitrofi. Sporadicamente si possono trovare produzioni negli orti famigliari del Cuneese.

Cenni storici e curiositàLa varietà omonima deriva da una selezione della tipologia piatta di Milano e/o piatta di Cambiano particolarmente diffusa negli areali piemontesi e cuneesi agli inizi degli anni Sessanta.Le prime coltivazioni sono state condotte nella zona di Bernezzo (CN) per opera della Cooperativa Bernezzese.Da parte dello stesso sono state condotte, in quegli anni, attività di selezione massale all’interno della popolazione, attraverso l’individuazione dei soggetti migliori per caratteristiche qualitative dei frutti (forma, colore, costolatura, pezzatura) e vegetative delle piante (vigoria, copertura fogliare).Le condizioni ambientali della zona Bernezzese ne hanno esaltato alcuni caratteri tali da favorirne una diffusione nell’intero areale pedemontano del cuneese.Le produzioni venivano commercializzate dalle strutture cooperative esistenti in zona sui mercati di Milano e Torino; oggi non esistendo più tali cooperative, la produzione è piuttosto frammentata, anche se ancora in quantità considerevole.

Porro di Cervere

L’ecotipo Porro di Cervere è riconducibile alla varietà “Porro lungo d’inverno” ed è stata selezionata dagli orticoltori locali nel corso degli anni.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione e moltiplicazione del seme dell’ecotipo locale di Porro di Cervere è circoscritta al territorio del comune di Cervere, in provincia di Cuneo.

Cenni storici e curiositàIn Piemonte la coltivazione del porro occupa una superficie di circa 60-70 ettari, con una produzione di 2.000 tonnellate; di questi circa il 62% sono ottenuti nella provincia di Cuneo e in specifico nel territorio di Cervere.A Cervere viene organizzata ogni anno la Sagra del Porro, che prevede incontri di carattere tecnico- divulgativo oltre a manifestazioni di carattere gastronomico. Nel 2011 si è tenuta la XXXI Fiera del “porro di Cervere”. Il prodotto viene commercializzato attraverso i canali distributivi tradizionali (mercati rionali, vendita diretta, negozi di ortofrutta tradizionali) e la GDO presente sul territorio.

Cece

Il cece – Cicer arietinum L. – è una pianta erbacea annuale, appartenente alla famiglia delle leguminose, originaria del vicino Oriente e coltivata fin da tempi antichi per ottenere granella commestibile (i ceci).

Territorio interessato alla produzione: Il territorio di elezione per la coltivazione del cece nell’alessandrino è la frazione Merella, ubicata nella plaga della Frascheta compresa fra Serravalle, Novi e Pozzolo, ma inserita nella parte più ampia che si estende fino a Marengo (parte dell’Antica boscaglia dissodata e messa a coltura dai frati Cistercensi).Un’altra zona di elezione è costituita da Nucetto e comuni limitrofi situati in Val Tanaro (CN).

Cenni storici e curiositàLa tradizione racconta che negli anni ’50, per risollevare l’economia del piccolo paese, un macellaio e un commerciante di Nucetto decisero di organizzare una sagra allo scopo di attrarre più turisti nel periodo estivo. Pensarono dunque che la “ceciata” potesse costituire una novità rispetto alle manifestazioni che i comuni limitrofi organizzavano. Nonostante non fossero stati affissi manifesti, la distribuzione gratuita dei ceci attirò una gran folla di visitatori. Tutti in piedi a servirsi dalla pentola alla moda degli zingari tanto che la manifestazione fu ribattezzata la ceciata alla zingarella.Anno dopo anno arrivarono un numero sempre crescente di visitatori; oggi, in occasione della sagra si cucinano oltre un quintale e mezzo di ceci con innumerevoli cotechini che vengono serviti da giovani zingarelle, vestite a punto per l’occasione.

Fagiolo Cuneo IGP

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE
CONSOLIDATE NEL TEMPO: Il fagiolo è ritenuto essere originario dell’America del Sud, area dell’attuale Perù e della Colombia; fu introdotto, in Europa, dagli spagnoli nel XVI secolo, mentre, in Italia, si hanno notizie della sua
coltivazione fin dal 1569.
Un tempo, questo legame rappresentava, nella dieta di molte popolazioni, la fonte proteica più economica; ciò avviene tuttora in molte località del terzo mondo. In numerose regioni italiane, il fagiolo ha mantenuto un posto importante nelle consuetudini alimentari.
Da un punto di vista alimentare, i fagioli possiedono, infatti, un elevato valore energetico, un buon contenuto in sali minerali, una discreta quantità di vitamine e, soprattutto, molte proteine.
Quanto sia importante il fagiolo per la Provincia di Cuneo è dimostrato dal fatto che ad opera di Università e Centri di Ricerca, negli anni passati, si sono compiuti molti studi, soprattutto nel settore della genetica, allo scopo, essenzialmente, di costruire nuove varietà. Non va peraltro dimenticato il lavoro dei coltivatori locali, che, nel tempo, hanno selezionato (mediante criteri di selezione non codificati ma di notevole valore tecnico-agronomico) i differenti ecotipi di fagiolo più idonei a valorizzare pienamente le peculiarità degli ecosistemi collegati al bacino idrografico del primo tratto del fiume Po.
Il fagiolo viene coltivato in quella fascia di terreno fresco e fertile che divide l’area pedemontana dai primi fondi della pianura padana.
La colorazione del seme e dei baccelli dei “Fagioli di Cuneo” con variegature accentuate, che vanno dal rosso fulvo al bruno passando per il viola e la sapidità inconfondibile sono il frutto di una combinazione irripetibile di fattori ambientali e pedologici locali. L’azione combinata del termoperiodo (cioè dell’alternanza tra notti fresche e giornate calde, nella bella stagione) con il fotoperiodo (il quale rappresenta il ciclico allungamento ed accorciamento stagionale della durata delle ore di luce) presenta combinazioni non riscontrabili ad altre latitudini.
A loro volta, queste combinazioni sono mediate e rielaborate dalle caratteristiche di fertilità dei terreni di coltivazione della pianura cuneese, che si presentano tipicamente di impasto sciolto e di origine alluvionale.
Complessivamente il fagiolo fresco da granella del cuneese gode di una situazione di mercato favorevole in quanto giunge al consumo in un periodo (luglio- settembre) in cui è completamente assente l’offerta di prodotto proveniente da altre regioni.
Le coltivazioni adottate sono tutte rampicanti tra cui le varietà “Lamon”, che presenta semi tondeggianti, con colore di fondo panna con leggere striature rossastre, e “Borlotto” sono utilizzate per la produzione di fagioli secchi e la varietà “Stregonta”, che presenta baccelli striati di rosso su campo bianco (almeno il 60% della superficie è di colore rosso), molto resistenti alla manipolazione (ogni baccello contiene mediamente 6/7 semi reniformi, di colore giallastro, allo stato ceroso, striati di rosso vivo) viene perlopiù, destinata alla commercializzazione allo stato fresco.
Il fagiolo “Lamon” si presume sia stato introdotto in Provincia di Cuneo tra gli anni Quaranta e Cinquanta; già negli anni Sessanta, il “Lamon” veniva coltivato in forma estensiva ricoprendo un ruolo di primaria importanza nel contesto dell’agricoltura cuneese.
La granella secca del “Lamon” ha due principali destinazioni alimentari: l’industria conserviera (inscatolamento) e l’insaccamento per la vendita al minuto. Essendo granella secca, il Lamon viene conservato in ambiente fresco e secco, evitando così l’insorgere di fenomeni di degenerazione o di aggressione fungina.
Altra varietà per la produzione di granella secca, di media vigoria vegetativa, è il “Borlotto”, mentre la “Stregonta” è una varietà idonea per la produzione di granella allo stato fresco.
Nel cuneese, la produzione del fagiolo avviene con tecniche particolari, messe a punto e perfezionate nel tempo dai produttori del luogo, i quali hanno progettato le attrezzature necessarie per meccanizzare alcune onerose operazioni come la semina, in contemporanea all’inserimento nel terreno e alla legatura delle canne di sostegno.
Nella produzione del seme, è possibile meccanizzare integralmente le operazioni di semina e trebbiatura. Per il prodotto fresco invece non è possibile meccanizzare la fase della raccolta che resta manuale.
Per la tutela, la valorizzazione, lo sviluppo e l’incremento della produzione, nonché per la commercializzazione, è sorto negli ultimi anni il Consorzio di Tutela del Fagiolo di Cuneo.
Il Consorzio è promotore dell’uso della denominazione “Fagiolo di Cuneo”, deputata alla difesa della denominazione stessa in Italia ed all’Estero, e di sigilli e da contrassegni regolarmente depositati ai sensi di legge.

ZONA DI PRODUZIONE: Le aree mercatali caratteristiche dei “Fagioli di Cuneo” sono Cuneo, Centallo, Caraglio, Boves e
Castelletto Stura.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO
INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Per promuovere adeguatamente la qualità, che caratterizza il prodotto locale, molti sforzi sono indirizzati a curare il confezionamento rendendo visibile la merce. Per la commercializzazione del
prodotto secco, in alternativa al metodo tradizionale che utilizza sacchi di juta, sempre più spesso, vengono impiegati sacchetti di plastica trasparente.
La commercializzazione del fagiolo fresco avviene in cassette nuove di legno, di cartone o di plastica in grado di assicurare uno stato soddisfacente di igiene.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali dove vengono effettuate le operazioni di conservazione e confezionamento rispettano le attuali normative riguardanti l’igiene degli alimenti.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Negli anni Cinquanta, un gruppo di ortolani cuneesi ha derivato il fagiolo oggi considerato tipico piemontese, dalla varietà veneta rampicante “Fagiolo di Lamon” (diffusa nel bellunese e a Indicazione Geografica Protetta). Le caratteristiche organolettiche originali sono rimaste intatte, ma sono stati elevati, con il passare degli anni, il peso medio dei semi e la produttività delle piante. Oggi, questo prodotto è largamente coltivato in provincia di Cuneo e, per la sua valorizzazione, è stato istituito un apposito Consorzio di tutela con sede presso la Camera di Commercio di Cuneo.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Conserva di granoturco

Materia prima: pannocchie di granoturco allo stadio di maturazione cerosa, intere o sgranate.

Tecnologia di lavorazione: si fa cuocere il mais per non più di 5 minuti. Si lascia raffreddare conservando nei vasi di vetro in soluzione salina, a temperatura non superiore ai 14-15°C.

Maturazione

Area di produzione: tutta la Padania.

Calendario di produzione: agosto-settembre.

Note: ii prodotto si consuma saltato in padella fino all’apertura del chicco. E’ molto gradito alle nuove generazioni, tanto che la produzione industriale è in costante espansione.

Conserva di rose

Materia prima: petali di rosa canina.

Tecnologia di lavorazione: le rose vengono sfogliate e ad ogni petalo si recide la “unghia”, ossia quella parte del petalo attaccata alla corolla, perché di sapore amarognolo. I petali così tagliati si mettono in una terrina aggiungedovi una pari quantità di zucchero e del limone spremuto. Strofinarli bene con le mani per favorire la rottura delle fibre e la fuor uscita degli umori. Si lascia macerare il tutto per qualche tempo, si incorpora dello sciroppo di zucchero preparato a parte lasciando bollire fino al raggiungimento della giusta consistenza. Si mette nei barattoli e si chiudono ermeticamente conservandoli al buio.

Maturazione:

Area di produzione: tradizionale in Piemonte, Veneto e Toscana.

Calendario di produzione: maggio e giugno.

Note: La conserva di rose, tradizionale in Piemonte, viene fatta anche nel convento dell’isola di S.Lazzaro, ad opera dei fratelli armeni, ma solo per uso interno. Le conserve di rosa che si trovano in commercio sono quasi tutte importate dai paesi dell’Est europeo, soprattutto dalla Bulgaria.

Carline sott’olio

Materia prima: carlina (acaulis).

Tecnologia di preparazione: i ricettacoli dei capolini delle carline vengono mondati
e fatti bollire in acqua e aceto per alcuni minuti, si fanno asciugare per alcune ore, si
aromatizzano con aglio, pepe, sale, foglie di alloro o chiodi di garofano e invasettati
si ricoprono di olio chiudendo ermeticamente.

Maturazione: circa due mesi.

Area di produzione: nelle zone montane del paese.

Calendario di produzione: fine estate-autunno.

Note: la carlina che, secondo leggende popolari, fu indicata da un angelo a Carlo
Magno (da cui il nome) come rimedio contro la peste, è una pianta erbacea tipica
dei pascoli montani e delle radure dei boschi di castagno e dei terreni di brughiera.

Peperoni sott’aceto

Materia prima: peperone, della varieta “piacentino” verde da orto.

Tecnologia di lavorazione: i peperoni, previa lavatura e pulitura, sono bolliti in
aceto per 2 o 3 minuti, insieme al sale e alle spezie, che ogni famiglia sceglie sulla
base del proprio gusto. Una volta bolliti e raffreddati vengono sistemati in
damigiane a bocca larga coperti di aceto e un filo d’olio. In superficie viene
sistemato un pezzo di marmo (non poroso), che tiene pressati i peperoni evitando
il contatto con l’aria.

Maturazione: 10-15 giorni.

Area di produzione: tutta la Padania, ma con altre varietà in tutta Italia.

Calendario di produzione: agosto-settembre.

Note: il consumo viene fatto durante il periodo invernale e accompagna i lessi misti
e i piatti grassi come cotechino, zampone, lingua di vitello, ecc. Nell’alto Sannio ottengono il caratteristico nome di “pipauri”.

Tartufo bianco

Il tartufo bianco ha il peridio liscio e la forma globosa, spesso molto appiattita ed irregolare. La gleba, percorsa da venature bianche molto ramificate, ha un colore che varia dal latte al rosa intenso, con sfumature brune. Le spore sono di tipo reticolate-alveolate, ad alveoli grandi. È il più grande tra i tartufi: raggiunge le dimensione di una grossa mela e, ogni anno, si raccolgono pochi esemplari che superano, anche abbondantemente il chilogrammo.

Territorio interessato alla produzione: Il Tuber Magnatum Pico del Piemonte è tipico dei territori delle Langhe, del Monferrato e del Roero, benché vi siano stati ritrovamenti anche nell’Alessandrino e sulle colline torinesi. La città di Alba vanta il più vecchio mercato che, per la qualità del prodotto trattato, ne determina il prezzo“ufficiale”.

Cenni storici e curiositàLe iniziative piemontesi dedicate al tartufo bianco sono numerose e disseminate in diverse località del Piemonte meridionale.

Funghi della Valle Bronda – Pagno

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE
CONSOLIDATE NEL TEMPO: Sul mercato di Pagno (Cuneo) possono essere reperiti i seguenti funghi:
I. Porcino Chiaro Autunnale (Boletus Edulis): da “Edulis”in latino “commestibile”. È un fungo molto conosciuto e si trova comunemente nei boschi di faggio, abete e castagno. Il periodo di comparsa va tra la fine dell’estate e l’autunno. La carne è soda, di colore bianco o leggermente brunastra. Ha un ottimo profumo. Il cappello è di un colore che va dall’ocraceo a brunastro tendente al mattone scuro, mutevole a seconda del terreno e delle condizioni metereologiche.
A. Porcino Moro (Boletus Pinicola, sottospecie Edulis): cresce sotto i cedui in estate, e nei faggeti in autunno. Il cappello è carnoso di color bruno rossiccio ramato, talvolta con riflessi castani oppure color ocra; inizialmente appena viscoso e poi asciutto, con margine ondulato almeno negli esemplari adulti. È una specie tra le migliori, che appare prima di ogni altra, già in primavera.
– Porcino Estivo (Boletus Reticulatus): da “reticulum”, in latino “rete”, per le areolature sul cappello. Non è un fungo molto conosciuto nonostante sia ottimo. Il suo habitat è rappresentato da boschi di latifoglie. La carne ha le seguenti caratteristiche: bianca, citrina sotto i tubuli, molto cedevole nel cappello. Può essere raccolto in estate-autunno nei castagneti.
– Porcino Nero (Boletus Aereus): da “aes-aeris”, in latino “bronzo” per il suo colore. Fungo eccellente considerato uno dei migliori. Cresce sotto le latifoglie, specie querce, faggi, castagni per un periodo che va da maggio ad ottobre. La carne è dura, bianca, non colorata sotto la cuticola del cappello. Odore e sapore sono gradevoli. Il cappello ha una superficie vellutata e non liscia.
– Crava Scura (Leccinum carpini): cresce sotto le querce per un periodo che va da maggio fino all’autunno. Il cappello è emisferico, di un colore che va dall’ocraceo al marrone. La carne è biancastra e lo stipite è alto 8-9 cm, regolare ma rigonfio a metà, di colore ocra con squame viranti al nero.
– Crava Rossa (Leccinum aurantiacum): cresce principalmente sotto i pioppi e compare in tarda estate e autunno. Il cappello è di color aranciato sino al color albicocca liscio, asciutto ma viscoso, con tempo umido. Lo stipite è cilindrico, attenuato alla sommità, ricoperto da squame dapprima bianche e poi aranciate o brune, alto circa 8-14 cm.
La raccolta dei funghi deve essere fatta in modo tale da non compromettere l’equilibrio ambientale; a tale scopo è vietato, durante la raccolta, usare strumenti che possono danneggiare il micelio o contenitori di plastica che impediscono la dispersione delle spore sul terreno.
A tale proposito, la raccolta viene disciplinata da un apposito regolamento della Comunità Montana Valli Po, Bronda e Infernotto che indica le modalità e il periodo di raccolta, tutti i giorni per i residenti e a giorni alterni per i non residenti, attraverso il rilascio di un apposito tesserino di raccolta con validità annuale.
I raccoglitori portano i funghi al “Mercato dei Funghi del Comune di Pagno”, che ha radici molto antiche e ha sempre coinvolto i raccoglitori di funghi di tutta la Valle Bronda, costituendo una piccola fonte di reddito per l’economia montana.
I controlli sono continui e costanti per tutti i giorni e per tutto il periodo, da parte di vigili urbani, Corpo forestale dello Stato e Azienda Sanitaria Locale.
Inoltre, la vendita dei funghi è disciplinata da un apposito regolamento che prevede il rilascio di un’autorizzazione – tesserino di vendita che si ottiene superando un esame presso l’A.S.L. locale, dopo la frequenza a corsi specifici in materia.

ZONA DI PRODUZIONE: I funghi in oggetto vengono raccolti nei boschi della valle Bronda, nei comuni di Brondello (Cuneo), Pagno (Cuneo) e Castellar (Cuneo).

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO
INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Non si segnalano particolari attrezzature e materiali impiegati per la conservazione e l’imballaggio dei “Funghi della Valle Bronda”.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI PRODUZIONE: In genere, la raccolta è effettuata sia per autoconsumo, sia per la vendita a terzi senza trattamenti conservativi.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Da documenti presenti presso il Comune di Pagno, il “Mercato dei Funghi di Pagno” ha origini molto antiche che risalgono al XIV secolo, periodo in cui i nobili e familiari della Casa Marchionale del Marchesato di Saluzzo erano stati nominati Priori di Pagno, e quindi molte attività legate ai nobili del luogo di svolgevano presso l’antico borgo di Pagno.
Attualmente il “Mercato dei Funghi” si svolge nel periodo estivo-autunnale, tutti i pomeriggi dalle ore 16.00 in poi, sotto l’ala della Piazza Mercato Comunale.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Funghi di Sanfront

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE
CONSOLIDATE NEL TEMPO: Sul mercato di Sanfront sono reperibili, in relazione alle diverse epoche (tardo-primaverili, estive ed autunnali), i seguenti principali funghi:
– Ovulo Buono – Reale (Amanita Cesarea): il nome deriva da “caesareum” che in latino significa “dei Cesari”, imperiale. Si tratta di un fungo con ottima commestibilità, reperibile in estateautunno, nei castagneti. La carne è bianca, gialla sotto la cuticola del cappello, è tenera ed ottima da consumarsi cruda in insalata. Se alterato, odora di uova marce.
– Porcino Chiaro (Boletus Edulis): deriva da “edulis”, e cioè “commestibile”. Si tratta di un fungo molto conosciuto, reperibile in boschi di faggio, castagno e betulle. Normalmente si raccoglie da metà maggio, fino all’autunno. Il cappello è chiaro, ma può presentare anche un colore brunastronero.
– Porcino Moro (Boletus Vinicola, sottospecie Edulis): è reperibile nei castagneti in estate, e in autunno nei faggeti. La carne è bianca e soda. E’ caratteristico per la pigmentazione rossa della carne sotto la cuticola del cappello.
– Porcino Estivo (Boletus Reticulatus): da “reticulum”, in latino “rete”, per le areolature sul cappello. Non è un fungo molto conosciuto nonostante l’ottima commestibilità. E’ reperibile in boschi di latifoglie. Può essere raccolto in estate-autunno, in castagneti, betulle e noccioleti.
– Porcino Bronzino (Boletus Aereus): da “aes, aeris”, in latino “bronzo”, per il colore. Si tratta di un fungo eccellente, addirittura migliore del Boletus Edulis. E’ reperibile, tra maggio ed ottobre, tra le betulle e nei castagneti. Si tratta di una specie a sé stante, scambiata spesso con il Boletus Edulis e con il Boletus Vinicola. Il cappello presenta una superficie vellutata e non liscia.
– Chiodino (Armarillaria Mellea): il suo nome deriva da “melleus”, che in latino significa “color miele”. Cresce sul terreno, vicino alle radici di latifoglie. Il colore è variabile, dipendente dalle radici della pianta ospite. La raccolta avviene in autunno. La carne è bianca o pallida, soda, con un odore fungino appena percettibile, e con sapore amarognolo. Allo stato adulto, è consumabile soltanto il cappello. Cotto, assume una colorazione nerastra.
– Porcinello nero (Leccinum Scabrum): è reperibile tra le betulle, in estate-autunno. E’ molto simile, se non migliore, quanto a commestibilità, al Boletus edulis.
– Porcinello rosso (Leccinum aurantiacum): cresce tra le betulle, in estate-autunno, con carne molto croccante e deliziosa. Caratteristico è il cappello rosso-marroncino.
– Gallinaccio (Cantharellus cibarius): caratteristica è la frastagliatura del bordo del cappello; il colore è giallognolo, ha una carne piuttosto croccante; è reperibile tra giugno e settembre, nei castagneti e nel bosco ceduo.
– Griffone (Grifola Frondosa): è un fungo molto caratteristico, in quanto il cappello è costituito da numerosissimi cappelli imbricati, molto serrati nei giovani esemplari, a forma di spatola, ondulati, vellutati con ciuffetti di fibrille radiali, bruni, più scuri con accenno a una zonatura verso il margine. L’orlo è coperto da pori ed il peso può essere considerevole (fino a 10 kg). E’ reperibile sul terreno, tra le radici dei castagni, tra metà agosto e fine settembre.
– Lingua di brughiera (Albatrellus pes-caprae): il cappello è molto caratteristico, in quanto ha la forma di una foglia di insalata, di colore marrone nella parte superiore, giallo nella parte inferiore.
Al tatto è rugoso. Cresce nei mesi di agosto e settembre, tra le stoppie dei faggeti.
La raccolta dei funghi deve essere fatta evitando strumenti che possono danneggiare il micelio fungino, senza ricorrere a borse di plastica che impediscono la dispersione delle spore sul terreno.
I “bulerè” partono di buon mattino per essere nei “posti giusti” appena albeggia.
La raccolta è subordinata al rispetto delle norme regionali e statali e del regolamento vigente sul territorio della Comunità montana Valli Po, Bronda e Infernotto.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di raccolta del “Funghi di Sanfront” (Cuneo) è rappresentata dai 2/3 del territorio comunale, essenzialmente nella zona montana e collinare.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO
INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Non si segnalano particolari attrezzature e materiali impiegati per la conservazione e l’imballaggio del “Funghi di Sanfront”.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI PRODUZIONE: In genere, la raccolta è effettuata sia per autoconsumo, sia per la vendita a terzi senza trattamenti conservativi.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: I “Funghi di Sanfront”, da testimonianze locali, risultano essere tradizionali della zona ed essere commercializzati da più di venticinque anni.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Pasta di tartufo bianco

Materia prima: tartufo bianco.

Tecnologia di preparazione: i tartufi raccolti c selezionati, vengono lavati e cotti in
autoclave. Dopo il raffreddamento si lavorano finemente e si condiscono con sale,
pepe, olio di semi o d’oliva. Invasettati vengono subito dopo pastorizzati e poi
confezionati.

Maturazione:

Area di produzione: Monforte d’Alba (Cn) in locali{a Rocca Manzoni, Piobesi
d’Alba (Cn), Alba (Cn), Acqualagna (Ps), Sant’Angelo in Vado (Ps), Scheggino
(Pg), L’Aquila.

Calendario di produzione: da ottobre a dicembre.

Note: i latini lo chiamavano terrae tuber. Per la nostra catalogazione scientifica è
il tuber magnatum pico. Ad esso sacrifichiamo cifre astronomiche per quantità
insignificanti e non per avere in cambio nobili proteine o introvabili vitamine, ma
solo per assaporare in un sublime istante l’aroma che sprigiona.

Salsa di funghi e tartufi

Materia prima: funghi (chiodini), tartufo nero.

Tecnologia di preparazione: i funghi si fanno bollire insieme al tartufo e all’olio di
soia, vengono macinati finemente e inscatolati. Si pastorizzano e si confezionano.

Maturazione

Area di produzione: Piobesi d’Alba (Cn), Monforte d’Alba (Cn), Alba (Cn),
Acqualagna (Ps), Sant’Angelo in Vado (Ps), Scheggino (Pg), L’Aquila.

Calendario di produzione: tutto l’anno da aprile ad agosto in quanto si adopera il
tartufo estivo (scorzone).

Note: per la salsa di funghi e tartufi si utilizza tartufo nero, mentre per alcune salse
a base di fegato si impiegano il nero e il bianco in eguale quantità, di solito rimasugli
di altre lavorazioni.

Tartufo in salamoia

Materia prima: tartufo sia bianco che nero.

Tecnologia di preparazione: i tartufi vengono selezionati a mano, ripuliti
dalla terra con uno spuzzolino uno per uno, lavati, messi in barattoli. Si
aggiunge la salamoia e si sterilizza in autoclave. Si conservano in lungo
fresco e buio.

Maturazione:

Area di produzione: Piemonte, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo.

Calendario di produzione: autunno, inizio inverno.

Note: oltre al tartufo hianco (Tuber magnatum pico) e a quello nero (Tuber
melanosporum) anche il tartufo estivo scorzone (Tuber aestivum) è oggetto
di trasformazione. Di colore blu-nerastro con cuticola verrucosa, si
distingue dal più pregiato tartufo nero di Norcia per la carne più chiara
tendente al bianco nocciola marmorizzato. Il melanosporurm è invece nero.
Un altro (Tuber mesentericum) è molto diffuso nella zona di Ariano Irpino
oltrechè nel Lazio, in Toscana e nel sud delle Marche e dell’Umbria, dove
viene consumato insieme a formaggi freschi di capra in insalata.

Actinidia di Cuneo

L’actinidia Cuneo è costituita dalle cultivar di actinidia (Actinidia deliciosa e Actinidia chinensis)coltivate dal secolo scorso in provincia di Cuneo. Il frutto dell’actinidia è comunemente noto come kiwi.La varietà più diffusa sul territorio è Hayward, con frutto tomentoso e polpa verde brillante. Sono presenti in misura minore altre varietà, tra cui alcune con polpa gialla (la principale è la Soreli) o di altri colori.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione dell’actinidia Cuneo comprende l’intero territorio della provincia di Cuneo, ma si concentra nei comuni della fascia pedemontana, ai piedi delle Alpi Marittime e Cozie, ad un’altitudine compresa tra 300 e 600 m s.l.m.

Cenni storici e curiositàL’actinidia era stata introdotta da qualche anno in Francia, ai piedi dei Pirenei e in Corsica. Si tratta in entrambi i casi di ambienti a clima mediterraneo con estati calde, che si riteneva fosse quello più adatto per una specie con ciclo vegetativo lungo. Le varietà di actinidia Cuneo sono infatti sensibili al gelo sia in primavera, a partire dal germogliamento (che avviene nella seconda metà di maggio nel cuneese), sia in autunno, per via della maturazione tardiva. Negli ambienti mediterranei la raccolta avviene a novembre inoltrato, quando in Piemonte sono già frequenti le gelate precoci. Di qui le perplessità e i timori nel diffondere la nuova specie in un ambiente continentale montano. In effetti si scoprì che il clima temperato, determinato dalla protezione della cerchia di montagne del Piemonte sud- occidentale ben si adatta alla specie, che anzi qui trova un ambiente non dissimile da quello di origine, nella catena montuosa del Wuling, nelle province centrali della Cina. Gli spunti e i suggerimenti forniti dai colleghi d’oltralpe contribuirono comunque a porre le basi per la vera e propria espansione dell’actinidicoltura in Piemonte, oggi molto più estesa rispetto alle regioni francesi.

Albicocca tonda di Costigliole

Nel territorio di origine, ai piedi delle Alpi, dove le condizioni pedoclimatiche delineano il limite di latitudine nord per la coltivazione dell’albicocco, la Tonda produce costantemente, grazie alla tolleranza alle minime termiche invernali ed alla fioritura medio-tardiva e molto scalare, che la rende meno esposta alle gelate primaverili.

Territorio interessato alla produzione: La zona di coltivazione è caratterizzata da una fascia collinare e dalla contigua pianura pedocollinare, che si estende in provincia di Cuneo da Busca a Saluzzo. Sono interessati i Comuni di Costigliole Saluzzo, da cui la varietà prende il nome, Piasco, Verzuolo, Manta, Saluzzo e Busca, Castellar e Pagno.

Cenni storici e curiositàLa prima documentazione che attesta la storicità della coltivazione di albicocco nel Saluzzese è contenuta nell’opera di Giovanni Eandi che, nel 1835, compilando la sua “Statistica della provincia di Saluzzo”, quantifica la produttività delle specie arboree da frutto allora coltivate.

Fragola cuneese

Oltre ad avere un sapore squisito come pochi altri frutti, la fragola è notoriamente ricca di proprietàsalutari. Note da sempre sono, infatti, le sue proprietà digestive, depuranti e rinfrescanti, favorite dalla presenza di elementi quali il fosforo ed il potassio.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione comprende tutti i comuni della provincia di Cuneo.

Cenni storici e curiositàTradizioni orali raccontano che la coltivazione della fragola iniziò a Peveragno, nell’immediato dopoguerra (fine anni ’40 – inizio anni ’50 del secolo scorso), quando un agricoltore emigrato in Francia per ragioni di lavoro, tornò alla sua terra natia portando con sé alcune piantine di fragole e iniziò a coltivarle nel campo di fronte alla propria casa. La coltivazione si diffuse in molte aziende del territorio della Bisalta tanto che nel 1957 il Comune di Peveragno, per favorire i contatti tra i produttori di fragole, ormai numerosi, e gli operatori commerciali istituì il “Mercato della fragola” (che proseguì la sua attività sino ai primi anni 2000).Per quanto riguarda il Roero documenti storici affermano che nel Comune di Sommariva Bosco un certo Giuseppe Cane (Pinotu ‘d Mancin) nel 1928 portò i primi cestini di fragole al mercato di Bra probabilmente della cultivar Madame Moutot. Il sig. Cane ricorda che “le prime piantine le avevo piantate prima del 1930 e le avevo avute da Viale Giovanni (Tartiflun) da cui ero mezzadro. Le prime piante le ho messe a dimora sui bric dei Binin, ma facevo molta fatica a venderle perché, in tempo di crisi, nessuno li comprava”. Anche in questo caso l’avvento della fragolicoltura nell’ambiente roerino è forse da attribuire al trasferimento di alcune piantine di fragole dalla vicina Francia oppure, come altri affermano, la coltivazione della fragola ebbe avvio grazie al passaggio di alcune piante dal Castello di Mirafiori (di proprietà dei Reali di casa Savoia, dove la fragola veniva coltivata) agli orti locali.Nel dopoguerra la coltivazione si diffuse in molte aziende; all’inizio degli anni ’50 alcuni agricoltori – Giuseppe Cane, Giovanni Ardito, Bellino della Ciura, Giovanni Bellino e Vigiu dei Placioni, Gabriele Nervo (Bastè), Stefano Balestra (Balestrin) e Andrea Gramaglia (Andrea ‘d general) – avviarono il primo mercato della fragola nel Roero. Lo testimonia Giovanni Ardito: “Il mercato nacque proprio al bivio dei Bonini, all’incrocio della provinciale. Lì c’era un grosso pioppo alla cui ombra portammo i primi carretti”. Già nel 1954 il mercato si svolgerà però lungo il viale di Sommariva Perno. Ricorda Stefano balestra: “Per richiamare i compratori, avevamo fatto confezionare dei cestini da regalare alla gente di passaggio; li avevano fatti le suore dell’Asilo decorandoli con nastri tricolore. In quesgli anni abbiamo anche premiato, con diplomi dipinti a mano del maestro Dotta, i produttori”. Grazie a queste inziative il mercato fu un successo e il 30 maggio 1954 nacque la prima Sagra della fragola a Sommariva con la prima miss Fragulèra .

Mela golden di Cuneo

L’indicazione “Mela Golden di Cuneo” designa il frutto delle cultivar appartenenti al gruppo varietale Golden Delicious.ZONA DI PRODUZIONE:il territorio della provincia di Cuneo.Cenni storici e curiosità: La coltivazione della Mela Golden in provincia di Cuneo ha una tradizione consolidata da molti anni.Infatti già nell’annuario della Regia Stazione di Torino vol XI 1929-1930, G. Haussman nella sua relazione inerente l’ortofrutticoltura in Piemonte, cita come coltura importante per il cuneese quella delle pomacee. Tra le varietà più importanti egli cita diverse cultivar di mela gialla tra cui: Verdese, Varechine, Mela Losa (di cui sottolinea l’ottimo sapore), Mela Bel fiore gialla, Mela Gamba Fine ed altre ancora.FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Mela renetta grigia di Torriana

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATE NEL TEMPO: La Renetta Grigia di Torriana prende il nome dalla caratteristica della sua buccia, totalmente rugginosa, e dalla omonima località di Barge, dove viene coltivata.
L’albero della renetta presenta una vigoria medio-scarsa, un portamento aperto e fruttifica prevalentemente su lamburde e rami misti. L’epoca di fioritura si può definire precoce e corrisponde alla seconda settimana di aprile, mentre la raccolta avviene nella seconda decade di ottobre. La renetta grigia presenta una pezzatura media, una forma tronco conica breve e simmetrica, un profilo trasversale circolare, un peduncolo corto e medio basso, una buccia ruvida, rugginosa fino al 100% con lenticelle grandi e rugginose. La polpa del frutto ha una tessitura grossolana, un sapore dolceacidulo ed un colore bianco-crema.
La Renetta Grigia di Torriana necessita di pochi trattamenti fito-sanitari ed è una mela adatta per la cottura in forno.

ZONA DI PRODUZIONE: La Renetta Grigia di Torriana è coltivata in frazione S. Martino di Barge – località Torriana – e nel comune di Barge. La coltivazione di questa mela si è anche estesa ai comuni di Bagnolo e di Cavour.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Il prodotto in oggetto ha una buona conservazione (si conserva ottimamente in frigorifero per 180-200 giorni ed è adatto alla cottura in forno) e può essere soggetto a stagionatura, anche fuori dalla cella frigorifera.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: La prima conservazione avviene in vecchi porticati aziendali adibiti a magazzino.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: La renetta grigia di Torriana è coltivata da ben oltre 25 anni nel territorio del comune di Barge, come riportato oralmente da diverse generazioni (era soprannominata pum ruslen, che, in dialetto piemontese, significa “mela arrugginita”). La coltivazione di questa mela nella frazione di Torriana si è diffusa, poi, altrove dal 1905, soprattutto nella zona di Bagnolo e Cavour. Questo prodotto è riportato anche negli elenchi degli espositori all’“OTTOBRATA” del 1937.
Regina delle mele da cuocere in forno, in passato, nel Pinerolese, era messa in composta: alla fine dell’inverno le “grigie” venivano messe a fermentare per due mesi in barili colmi d’acqua, ricoperte da un paissas di paglia di segale e da una losa di pietra di Luserna.
Alla fine dell’Ottocento, prodotta in migliaia di quintali ed esportata in Germania, Inghilterra e, addirittura, in Egitto, oggi, la sua produzione è drasticamente ridotta.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Mele autoctone del Piemonte

In Piemonte sono coltivate molte varietà autoctone: Mela Buras, Mela Carla, Mela Gamba Fina Lunga, Renetta Grigia di Torriana, Mele autoctone del Biellese, Mele del Monferrato, Valle Grana, Mele della Val Sangone, Mele della Valle di Susa, Mele della Val Sesia, Mele della Val Sessera, Mele delle Valli di Lanzo, Mele di Cavour,

Territorio interessato alla produzione:La produzione di mele interessa l’intero territorio regionale.

Cenni storici e curiositàFino alla prima metà del Novecento la melicoltura piemontese si diffonde soprattutto lungo le vallate alpine, nelle zone pedemontane e collinari. In seguito si espande anche in pianura affiancandosi alle tradizionali colture erbacee. In tale periodo e fino agli anni ’40 dello scorso secolo il Piemonte ha rivestito un ruolo di tutto rilievo nel contesto della melicoltura italiana contribuendo per oltre il 20% al totale nazionale. Nei primi anni ’50 del XX secolo il sistema colturale è perlopiù promiscuo e pochi sono gli impianti specializzati. Le piante sono lasciate libere di svilupparsi a pieno vento. Come portainnesto si utilizzava in genere il franco per far sì che la pianta vivesse e fruttificasse il più a lungo possibile. Le varietà a maturazione invernale erano conservate nelle cantine fresche e ventilate. Oppure le mele erano talvolta immerse in grandi recipienti di vetro colmi d’acqua aromatizzata con chiodi di garofano, dove i frutti infrollivano conservandosi fino a giugno.

Mele della Valle Bronda

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATE NEL TEMPO: Sui terreni della Valle Bronda, particolarmente indicati per la melicoltura, si producono, con un’attenta valorizzazione delle risorse naturali presenti in un ambiente integro, ottime mele esteticamente inconfondibili e di elevata qualità gustativa.
Coltura di antica tradizione che, negli ambienti pedemontani delle Valli del Viso, trova condizioni ottimali quali altitudine, luminosità, escursione termica che esaltano le caratteristiche organolettiche dei frutti, rendendo succosa e croccante la polpa e favoriscono la colorazione.
Brevemente si indicano i principali tipi di mela che vengono coltivati in loco: Golden e Red Delicious frutto dolce e succoso, con polpa croccante di color bianco, esente da rugginosità ed untuosità, che nel tipo “Red” presenta un colore rosso brillante e nella categoria “Golden” presenta una colorazione giallo dorato con sfaccettature rossastre. Il periodo di raccolta va dal mese di settembre al mese di ottobre.
Gala: frutto di maturazione estiva, molto profumata dall’ottimo sapore. La raccolta si effettua nei mesi di agosto e settembre.
Renetta del Canada: dal sapore un po’ acidula, è particolarmente indicata per coloro che hanno problemi diabetici ed è ottima per fare lo “strudel”. Ha forma un po’ appiattita e una pezzatura medio-grossa.
Occorre inoltre citare altre varietà che sono in via di espansione come la Fuji, di tardiva maturazione, dal sapore ottimo e di buona conservazione, altre varietà sono la Jona Gold l’ El Star e la Jubilè.
Una citazione merita il “Consorzio Mela della Valle Bronda” che da anni promuove l’immagine della produzione locale ottenuta con l’applicazione delle regole tecniche molto severe dove l’impiego delle sostanze chimiche è stato drasticamente ridotto e dove la qualità gustativa alla raccolta viene certificata con metodi scientifici. Si tratta di un’esperienza tecnica fra le più avanzate nell’arco alpino che ha consentito di recuperare, con criteri di rigorosa professionalità, valori vocazionali unici abbinati a risorse naturali tipiche di un ambiente integro e gradevole sotto l’aspetto paesaggistico.
Per non alterare gli originali equilibri ambientali, vengono impiegati fitofarmaci di origine naturale e biologici, limitando l’uso dei formulati di sintesi al periodo compreso tra la ripresa vegetativa e la pre fioritura. La produttività dei terreni viene assicurata integrando la naturale fertilità con apporti fatti esclusivamente con concimi organici di produzione aziendale. La gestione delle piante e la loro forma di allevamento viene finalizzata all’equilibrio vegetativo, curando attentamente la disposizione dei rami al fine di consentire la buona illuminazione di ogni frutto.
A tal fine, il prodotto deve essere sottoposto ad analisi per controllare l’assenza di residui chimici e definire il livello di qualità gustativa alla raccolta.
L’eventuale conservazione delle“Mele della Valle Bronda” avviene secondo i metodi tradizionali, attraverso la tecnica della refrigerazione, in locali dove vengono assicurati livelli di temperatura, di umidità e di composizione atmosferica tali da non alterare le peculiari caratteristiche qualitative.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di produzione delle “Mele della Valle Bronda” comprende il territorio di tutta la Valle Bronda (CN), con i comuni di Castellar (CN), Pagno (CN) e Brondello (CN).

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: La commercializzazione delle “Mele della Valle Bronda” ai fini dell’immissione sul mercato deve essere effettuata utilizzando le seguenti confezioni, in cartone, legno o materiale plastico:
I. plateau in cartone 30×40 cm – 30×50 cm – 40×60 cm,
II. cassetta in cartone 30×50 cm – 40×60 cm,
III. cassetta in materiale recuperabile 30×50 – 40×60 cm.
Le sopraccitate confezioni devono essere corredate dall’indicazione dell’azienda produttrice e relativi certificati di analisi che indicano la mancanza assolta di qualunque sostanza chimica presente nel frutto.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali dove viene effettuato il confezionamento sono a norma con le disposizioni di legge.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: In Piemonte, in particolare nelle valli e colline cuneesi, la mela ha sempre trovato un terreno ed un clima particolarmente favorevoli, così che non è stato difficile per le popolazioni di quelle zone sviluppare e potenziare una melicoltura di alta qualità.
Testimonianza dell’esistenza di una vera e propria vocazione ambientale della zona del Saluzzese per la coltivazione delle mele è stato il proliferare, negli anni di numerose cultivar, spontaneamente originatesi nella zona, oggi però poco coltivate. Le piante madri di molte varietà, infatti sono state localizzate in diversi paesi del cuneese e saluzzese e, con il tempo perfezionate presso il Campo Sperimentale di Spinetta (CN).

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Mele della Valle Grana

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATE NEL TEMPO: Le cultivar locali ancora oggi coltivate nella Valle Grana sono le seguenti:
· Renetta Grigia Champagne: vigoria medio scarsa, portamento aperto, fruttifica su lamburde di 2-4 anni; frutto grosso di colore verde, buccia liscia, rugginosità 25-50%, polpa bianco verde, fine, croccante di sapore dolce acidulo;
· Grigia di Torriana: vigoria medio scarsa, fruttifica su lamburde e su rami misti; frutto verde, medio con buccia ruvida, rugginosità fino al 100%; polpa bianco crema, fondente di sapore dolce acidulo;
· Buras: vigoria elevata, habitus standard, portamento aperto, fruttifica su lamburde e su rami di un anno; resistente a ticchiolatura; raccolta medio precoce (2° decade di settembre), frutti di pezzatura media, giallo verde, buccia lievemente ruvida, rugginosità fino al 100%, polpa bianco verde, grossolana, croccante di sapore dolce acidulo;
· Bella di Bosco: vigoria media, portamento assurgente, produce prevalentemente su lamburde, raccolta tardiva (2° decade di ottobre); frutti di pezzatura grossa, giallo verde, rugginosità assente, lenticelle grandi aerolate, polpa bianca con tessitura fine e croccante;
· Carla: vigoria media, portamento aperto, fruttifica su lamburde e su rami misti; raccolta medio precoce (2°-3°decade di settembre); elevata produttività; frutto medio piccolo, giallo verde di fondo con sovracolore rosso aranciato, buccia liscia, polpa bianca fondente, dolce;
· Contessa: vigoria media, portamento aperto, raccolta medio precoce (2-3° decade di settembre); frutto grosso liscio, rugginosa a livello cavità peduncolare, giallo verde con sovraccolore rosso sfumato, polpa bianca, croccante e dolce;
· Gamba Fina: vigoria elevata, fruttifica su lamburde e rami misti; raccolta medio precoce, frutto medio piccolo liscio, rugginoso a livello peduncolare, colore di fondo giallo verde sovraccolore rosso vinoso, polpa bianca, fondente e dolce.
Le mele sono allevate in forma libera o obbligata e talune si adattano alla coltivazione con il metodo di agricoltura biologica poiché dimostrano una certa resistenza a determinate avversità ed una adattabilità maggiore alle condizione pedoclimatiche della Valle Grana.
Alcune di esse presentano una buona domanda di mercato, anche se si stanno affermando, negli ultimi anni, varietà come la Florina, Golden Rush, Golden Lasa, Golden Orange non prettamente locali, ma interessanti poiché resistenti alla ticchiolatura.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di produzione comprende tutti i comuni della Valle Grana.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Le mele in oggetto sono vendute a cooperative locali o a grossisti in cassette di legno.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali dove viene effettuato il confezionamento sono a norma con le disposizioni di legge.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Le varietà di mele in oggetto sono cultivar che da sempre si sono adattate bene alle condizioni pedoclimatiche della Valle Grana, come documentato da studi storici locali.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Mele di Cavour – varietà locali

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATE NEL TEMPO: I preziosi terreni alluvionali della zona di Cavour si sono rivelati ideali per lo sviluppo di una fiorente melicoltura, che è, ormai, all’avanguardia nella regione e che trova la sua massima espressione nell’ormai classico appuntamento autunnale della manifestazione “Tuttomele”.
L’indicazione “Mele di Cavour” designa i frutti appartenenti, oltreché ai gruppi varietali Golden delicious, Starking e Renetta (in particolare la Renetta grigia di Torriana), a tutte le varietà locali ancora in gran parte presenti ed apprezzate e descritte qui di seguito.
· Bella di Barge: frutti di grossa pezzatura, buccia liscia con colore di fondo giallo verde e sovracolore rosso aranciato, polpa croccante di colore bianco e di sapore dolce aromatico; la raccolta avviene nella seconda decade di ottobre;
· Buras: frutti di media pezzatura, buccia lievemente ruvida e rugginosa di colore giallo-verde, polpa croccante di colore bianco-verde e di sapore dolce acidulo; la raccolta avviene nella seconda decade di settembre;
· Dominici: frutti di grossa pezzatura, buccia leggermente ruvida, rugginosità a forma lenticellari e a livello della cavità calicina con colore di fondo giallo verde e sovracolore rosso sfumato, polpa croccante bianca o bianco-crema e di sapore acidulo aromatico; la raccolta avviene nella seconda decade di ottobre;
· Furnas: frutti di grossa pezzatura, buccia liscia, rugginosità a livello della cavità peduncolare con colore di fondo giallo verde e sovracolore rosso sfumato, polpa fondente bianca e di sapore dolce-acidulo; la raccolta avviene nella seconda decade di settembre;
· Gamba fina lunga: frutti di medio-piccola pezzatura, buccia liscia, rugginosità a livello della cavità peduncolare con colore di fondo giallo verde e sovracolore rosso vinoso, polpa fondente bianca e di sapore dolce; la raccolta avviene nella seconda decade di settembre;
· Gamba fina piatta: frutti di medio-piccola pezzatura, buccia liscia, rugginosità a livello della cavità peduncolare con colore di fondo giallo verde e sovracolore rosso scuro, polpa fondente di colore bianco crema e di sapore dolce; la raccolta avviene nella prima e seconda decade di ottobre;
· Gian d’Andrè: frutti di piccola pezzatura, buccia liscia, rugginosità a livello della cavità peduncolare con colore di fondo verde e sovracolore rosso vinoso, polpa succosa bianco-gialla e di sapore dolce; la raccolta avviene nella terza decade di ottobre;
· Grenoble: frutti di piccola pezzatura, buccia liscia, rugginosità a livello della cavità peduncolare e di colore verde, polpa croccante bianco-verde e di sapore acidulo; la raccolta avviene nella terza decade di ottobre;
· Losa: frutti di piccola pezzatura, buccia ruvida, rugginosità fino al 25% con colore di fondo verde e sovracolore rosso sfumato, polpa succosa bianco-verde e di sapore dolce-acidulo; la raccolta avviene nella prima decade di ottobre;
· Magnana: frutti di media pezzatura, buccia ruvida, rugginosità a livello della cavità peduncolare con colore di fondo verde e sovracolore rosso o rosso vinoso, polpa fondente di colore biancoverde e di sapore dolce-acidulo; la raccolta avviene nella terza decade di ottobre e nella prima decade di novembre;
· Runsè: frutti di media pezzatura, buccia liscia, senza rugginosità con colore di fondo gialloverde e sovracolore rosso brillante o rosso vinoso, polpa succosa di colore bianco crema, sfumato di rosa e di sapore acidulo-aromatico; la raccolta avviene nella prima decade di novembre;
· Rus Tumasin: frutti di medio-piccola pezzatura, buccia liscia, rugginosità a livello della cavità peduncolare con colore di fondo giallo-verde e sovracolore rosso brillante, polpa fondente bianco-verde e di sapore dolce-acidulo; la raccolta avviene nella terza decade di ottobre;
· Bianc brusc: frutti di piccola pezzatura, buccia cerosa, rugginosità sino al 25% con colore di fondo giallo-verde e sovracolore rosso sfumato, polpa croccante bianco-verde e di sapore acidulo; la raccolta avviene nella prima decade di ottobre;
· Chanpagne: frutti di media pezzatura, buccia cerosa, rugginosità a livello della cavità peduncolare con colore di fondo giallo-verde e sovracolore rosso sfumato, polpa fondente bianca e di sapore acidulo; la raccolta avviene nella prima decade di settembre;
· Piatlin: frutti di medio-piccola pezzatura, buccia cerosa, rugginosità sino al 25% con colore di fondo verde e sovracolore rosso vinoso, polpa croccante e succosa di colore bianco-verde e di sapore acidulo; la raccolta avviene nella prima decade di ottobre;
· Sapis: frutti di medio-grossa pezzatura, buccia liscia, rugginosità sino al 25% ed a livello della cavità peduncolare con colore di fondo giallo-verde e sovracolore rosso sfumato, polpa croccante bianco crema e di sapore dolce; la raccolta avviene nella prima e nella seconda decade di settembre;
· Sconosciuta Benech: frutti di piccola pezzatura, buccia liscia, rugginosità sino al 25% ed a livello della cavità peduncolare con colore di fondo giallo-verde e sovracolore rosso sfumato, polpa croccante di colore bianco crema e di sapore acidulo; la raccolta avviene nella seconda decade di agosto.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di produzione delle “Mele di Cavour” comprende il comune di Cavour e le zone limitrofe in provincia di Torino e Cuneo.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: La commercializzazione delle “Mele di Cavour”, ai fini dell’immissione sul mercato deve essere effettuata utilizzando le seguenti confezioni, in cartone, in legno o in materiale plastico:
· plateau in cartone 30×40 cm – 30×50 cm – 40×60 cm;
· cassetta in legno 30×50 – 40×60 cm;
· cassetta in materiale plastico recuperabile 30×50 cm – 40×60 cm.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: La eventuale conservazione delle “Mele di Cavour” avviene secondo i metodi tradizionali, attraverso la tecnica della refrigerazione, in locali dove vengono assicurati valori di temperatura, di umidità e di composizione atmosferica tali da non alterare la peculiari caratteristiche qualitative del prodotto.
I locali dove viene effettuato il confezionamento sono a norma con le disposizioni di legge.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Tutte le varietà che caratterizzano le “Mele di Cavour” sono state classificate in un periodo che va dalla metà dell’800 al 1930, a testimonianza dell’antichità della melicoltura nell’areale considerato.
Di quest’area, il comune di Cavour è stato ed è il centro gravitazionale, come testimoniato, oltreché dall’estensione delle superfici investite a meleto, dal successo dell’ormai più che ventennale manifestazione di Tuttomele.
Sin dal 1953, il Comune di Cavour ha aderito ad un centro denominato C.I.F.O.P. (Centro Incremento Frutticoltura Ovest Piemonte) con lo scopo di valorizzare le produzioni frutticole locali.
Agli atti esiste documentazione fotografica e descrittiva delle caratteristiche, delle varietà locali di mele in oggetto.

La bibliografia che dimostra l’antichità e la vocazionalità territoriale della Mela di Cavour è assai corposa; merita citare in particolare:
· Nino Breviglieri, Elenco per provincia delle varietà di melo diffuse fino al 1929, in produzione o non in produzione nel 1948 e preferite nei nuovi impianti, Stabilimenti Grafici Vallecchi, Firenze 1950;
· AA.VV. Melicoltura in Piemonte, Origine ed evoluzione, in Germoplasma ortofrutticolo del Piemonte, a cura dell’Assessorato all’Agricoltura della Regione Piemonte.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Mele rosse delle valli cuneesi

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATE NEL TEMPO: L’indicazione “Mele Rosse delle Valli Cuneesi” designa esclusivamente il frutto delle cultivar appartenenti ai due gruppi varietali Red Delicious e Gala.
La varietà “Red Delicious”, al momento dell’immissione in consumo, presenta forma allungata, colorazione rosso brillante, vinoso, epicarpo esente da rugginosità ed untuosità e polpa color bianco o bianco crema di consistenza fondente.
La varietà “Gala” al momento dell’immissione al consumo presenta forma rotondo-allungata, colorazione rosso brillante, epicarpo liscio, rugginosità limitata alla cavità peduncolare e polpa color bianco-crema, croccante e succosa, fine e soda.
Le colture di mele sono site nella fascia di altipiano che si estende da Cuneo fino ai piedi delle Alpi Occidentali (Marittime e Cozie), con altitudine compresa fra 250 e 800 m s.l.m.
Le pratiche colturali, tradizionalmente in uso nel territorio, sono atte a non modificare le caratteristiche peculiari del frutto. La scelta dei sesti di impianto è fatta con l’obiettivo di consentire la massima permeabilità della chioma alla radiazione luminosa, che costituisce fattore determinante per la tipica colorazione dei frutti.
Nel corso del tempo, in particolare, si è, poi, riusciti ad esaltare quella felice combinazione di sapore e colore, che era già una caratteristica delle vecchie varietà autoctone e che è una delle principali ragioni di successo delle mele delle Valli Cuneesi. Il colore particolarmente intenso delle mele delle Valli Cuneesi è dato dalla particolare irradiazione dei raggi solari cui questo frutto è esposto: in pratica ciò che in molte colture è possibile ottenere intervenendo artificialmente sui processi di maturazione, nell’altipiano cuneese, avviene in maniera completamente naturale. Vari fattori concomitanti agiscono, infatti, nell’areale del cuneese per determinare l’intensità della colorazione rossa del frutto: l’altitudine, compresa fra 250 ed 800 m s.l.m., che è tra le più elevate della frutticoltura europea; la buona latitudine nord; la particolare conformazione orografica che determina, da un lato, forti escursioni termiche e, dell’altro, la formazione di brezze di monte a senso alternato mattino/sera.
A questi si aggiungono l’intensità e la qualità della radiazione luminosa (che aumentano in funzione dell’altimetria), le escursioni termiche a ciclo diurno e la variazione ciclica bagnatura/asciugatura dell’epidermide dei frutti.
Sono tutte caratteristiche che interagiscono positivamente con il genotipo delle cultivar di melo atte a sviluppare la sovracolorazione rossa della buccia e che si ritrovano in condizioni ottimali nell’areale cuneese.
Le stesse sostanze responsabili della colorazione delle mele, la cui concentrazione aumenta in funzione dell’altimetria del luogo di coltivazione, oltre al contributo all’aspetto estetico esplicano anche favorevoli azioni salutistiche e farmacologiche al consumo.
Si può, quindi, ben dire che il colore rosso delle mele cuneesi, oltre a renderle particolarmente belle, le renda anche più salutari per il consumatore. La colorazione rossa costituisce, d’altra parte, una potente attrattiva commerciale, legata com’è nell’immaginario collettivo al “frutto del peccato”, ma è anche considerata unanimemente dai pomologi un apprezzato parametro e indice di qualità del frutto.
La produzione unitaria massima delle “Mele Rosse delle Valli Cuneesi” è indicativamente di 60t per ettaro.
L’inizio del periodo di raccolta coincide con il momento in cui la mela raggiunge la colorazione ottimale. Per la varietà “Gala” il periodo di raccolta va dal mese di agosto al mese di settembre mentre, per la varietà “Red Delicious”, è compreso tra il mese di settembre e quello di ottobre.
Per le “Mele Rosse delle Valli Cuneesi” è stata presentata istanza di riconoscimento dell’attestazione comunitaria IGP da parte dell’Organizzazione Produttori Ortofrutticoli ASPROFRUT.
La comunicazione di tale richiesta è stata fatta sul bollettino Ufficiale della Regione Piemonte, n° 20 del 17 maggio 2000, con la pubblicazione del relativo disciplinare di produzione proposto.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di produzione delle “Mele Rosse delle Valli Cuneesi” comprende il territorio della Provincia di Cuneo ed alcuni comuni della Provincia di Torino

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: La commercializzazione delle “Mele Rosse delle Valli Cuneesi”, ai fini dell’immissione sul mercato, deve essere effettuata utilizzando le seguenti confezioni, in cartone, legno o materiale plastico:
· plateau in cartone 30×40 cm – 30×50 cm – 40×60 cm;
· cassetta in legno 30×50 – 40×60 cm;
· cassetta in materiale plastico recuperabile 30×50 cm – 40×60 cm.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: La eventuale conservazione delle “Mele Rosse delle Valli Cuneesi” avviene secondo i metodi tradizionali, attraverso la tecnica della refrigerazione, in locali dove vengono assicurati valori di temperatura, di umidità e di composizione atmosferica tali da non alterare le peculiari caratteristiche qualitative.
I locali dove viene effettuato il confezionamento sono a norma con le disposizioni di legge.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: In Piemonte, in particolare nelle valli e colline cuneesi, la mela ha sempre trovato un terreno ed un clima particolarmente favorevoli, così che non è stato difficile per le popolazioni di quelle zone sviluppare e potenziare una melicultura di alta qualità.
Testimonianza della esistenza di una vera e propria vocazione ambientale dell’areale cuneese per la coltivazione delle mele rosse è stato, d’altro canto, il proliferare, negli anni, di numerose cultivar, oggi poco coltivate, ma fin dal passato spontaneamente originatesi nella provincia di Cuneo. Le piante madri di molte varietà a buccia rossa, infatti, sono state localizzate in diversi paesi del cuneese. Così, ad esempio, la varietà “Carla” la cui pianta madre venne reperita nel comune di Barge; la “Contessa” la cui pianta madre era situata nella Valle Maira e che ebbe grande diffusione all’inizio dell’ultima guerra; la “Gamba fina lunga” la cui origine è sconosciuta ma che sembra comunque risalire alla fine dell’800 da una varietà in coltura nella paese di Caraglio; la “Rus d’la cavalota” la cui pianta madre venne reperita nella Borgata Cavalota, nel comune di Barge.
Accanto a queste cultivar autoctone, vennero, poi, introdotte e sperimentate, a partire dagli anni ’30, nuove varietà provenienti dagli Stati Uniti ed, in particolare, quella delle Red Delicious che rappresentano, ad oggi, l’ossatura principale della produzione delle mele rosse nel Cuneese.
L’area del Cuneese, in particolare, si è, perciò, trovata ad essere la regione europea dove più elevata è la percentuale di coltivazione delle Delicious rosse.
Durante il decennio 1980 – 1990, l’attenzione dei frutticoltori cuneesi si è rivolta ad un nuovo gruppo varietale di mele provenienti dalla Nuova Zelanda, le Gala, che attraverso incroci e sperimentazioni hanno in breve mutato l’aspetto divenendo frutti attraenti “dipinti” di rosso striato su tuttal’epidermide.
Si può quindi dire con assoluta certezza che le mele rosse hanno, nei secoli, accompagnato l’evoluzione della storia e delle tradizioni cuneesi. Dai secoli passati ad oggi, la coltivazione delle mele è andata in rapido crescendo ed in continua espansione, anche se ovviamente nel corso degli anni le tipologie di coltura sono notevolmente cambiate

Bibliografia:
· AA.VV. Melicoltura in Piemonte
· Prof Girolamo Monon, Le varietà di piante da frutto raccomandabili per l’alta Italia, Trento, Prem-Stab. D’Arti Grafiche A. Scotoni, 1926
· G. Haussmann, L’ortofrutticoltura in Piemonte, Loggia, 1929-1931.
· Nino Breviglieri, Elenco per provincia delle varietà di melo diffuse fino al 1929, in produzione o non in produzione nel 1948 e preferite nei nuovi impianti, Firenze, Stabilimenti Grafici Vallecchi, 1950
· Raffaele Carlone, Le gloriose tradizioni e le possibilità future della frutticoltura nell’Ovest del Piemonte, Saluzzo 1955
· Giancarlo Bounous, Conservazione e salvaguardia di cultivar di melo anticamente coltivarte nell’arco alpino piemontese, Saint Vincent – Torino 1980
· AA.VV., Melicoltura in Piemonte, origine ed evoluzione, in Germoplasma ortofrutticolo del Piemonte, a cura dell’Assessorato all’Agricoltura della Regione Piemonte
· AA.VV., Germoplasma ortofrutticolo, salvaguardia e valorizzazione delle risorse genetiche, Alghero. 21 – 25 settembre 1992, atti del congresso

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Pera madernassa

La Pera Madernassa è una varietà di pere da cottura autoctona del cuneese. Il frutto è di mediagrandezza, con fossa calicina poco profonda e peduncolo lungo e sottile. La buccia è sottile, liscia con fondo verde scuro che vira al giallo a maturità; talvolta è sfumata di rosso aranciato nella parte esposta al sole; presenta numerose lenticelle evidenti di colore grigio scuro. La polpa è lievemente giallognola, molto soda, con profumo tipico.

Territorio interessato alla produzione: La Pera Madernassa è una delle poche varietà di pero di cui è dimostrabile l’autoctonia nel cuneese.

Cenni storici e curiositàLa pianta originaria nacque infatti da un seme di libera impollinazione in un appezzamento della Cascina Gavello della Borgata Madernassa, che sorge su di una collina esposta a levante tra i paesi di Guarene e Castagnito. La cultivar ha dunque assunto il nome del toponimo: Madernassa. La data di nascita si può stabilire con buona approssimazione, se si pensa che la pianta madre fu abbattuta nel 1914, quando aveva circa 130 anni. Quando cominciò a portare i primi frutti, il proprietario poté apprezzarne la bontà e quando l’albero si dimostrò rustico e vigoroso, provvide a propagarla sovrainnestandola su alcuni peri.Ben presto i pregi colturali e qualitativi della varietà furono conosciuti dai vicini che la moltiplicarono nei loro poderi e così a poco a poco si estese in tutto il territorio albese. La Madernassa è coltivata nell’Albese e più in generale nel Cuneese fin dal XIX secolo. Fu descritta per la prima volta da Cavazza nel 1908 , il quale ne illustrò la rusticità, la produttività e la lunga vita. Nel 1927 la varietà fu portata all’attenzione dei frutticoltori per merito del Boni, che in occasione del Convegno nazionale di frutticoltura di Lugo di Romagna ne consigliava l’adozione anche in altre province dell’Italia settentrionale.

Pere tradizionali cuneesi adatte alla cottura

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATE NEL TEMPO: Le pere Martin Secco, Martinone, Martin Dobi (Martin Doppio) e Supertino sono ottime varietà, considerate, a livello nazionale ed europeo, le migliori alla cottura. Di seguito, vengono riportate le principali caratteristiche di ogni singola varietà.
· MARTIN SECCO: La cultivar è nota anche con i seguenti sinonimi: Martin sec d’hiver, Cannellino, Cavicchione, Garofala, Garofolino, De Saint Martin, Roggia, Rousselet d’hiver.
L’albero è vigoroso, mediamente produttivo, sensibile alla ticchiolatura, impollinato da Madernassa e Passacrassana.
I frutti sono medio-piccoli, piriformi, misurano 75 mm di altezza e 55 mm di larghezza. Il peduncolo è lungo, sottile, slargato all’apice, diritto, inserito verticalmente od obliquamente, sul frutto.
La cavità peduncolare è poco pronunciata o assente. Il calice è aperto, grande, situato in una cavità poco profonda. La buccia è fine, sottile, rugginosa, di colore giallastro-chiaro, sfumata di rosso alla insolazione, ricoperta da numerose lenticelle grigie, rilevate.
La polpa è giallastra, semifine, granulosa, zuccherina, poco succosa, aromatica e profumata. I semi sono lunghi mediamente 8 mm e larghi 4.5 mm.
I frutti maturano dalla fine di dicembre al mese di marzo e si conservano abbastanza bene anche in un ambiente naturale di tipo fruttaio.
L’epoca di raccolta è intorno alla seconda metà di ottobre.
La Pera Martin è considerata la migliore in assoluto fra tutte le pere che presentano la predisposizione alla cottura.
· MARTINONE: La cultivar è nota anche con i sinonimi di Marconetto, Bagnola, Cannellina Tonda.
L’albero è di buon vigore e di buona produttività. Manifesta una buona resistenza alla ticchiolatura.
A differenza di altre varietà di pero, la pianta è autofertile, ma migliora ed aumenta la produzione se viene impollinata con la Passacrassana e il Martin doppio.
Il frutto è medio-piccolo, piriforme e panciuto; misura 64 mm in altezza e 70 mm in larghezza. Il peduncolo è di media lunghezza, inserito in una cavità piuttosto larga. Il calice è medio grande, con sepali coriacei, larghi e lunghi, disposti un una cavità calicina medio-grande, poco profonda.
La buccia è di colore giallo cannellino, semi opaca, rugginosa su tutta la superficie. La polpa bianco–giallognola, mediamente consistente, granulosa, di sapore dolce è particolarmente aromatica. Il torsolo è piccolo.
Il frutto matura da dicembre a marzo. Conosciuto e particolarmente apprezzato sul mercato di Milano, il Martinone è considerata una ottima pera, particolarmente predisposta per la cottura.
Considerato il sapore dolce e particolarmente aromatico della polpa viene consumato anche allo stato fresco.
· MARTIN DOBI (MARTIN DOPPIO): La pianta evidenzia un vigore identico al Martin Sec con i rami meno sottili e le foglie più ampie. L’affinità di innesto con il cotogno è scarsa e la pianta risulta leggermente sensibile alla ticchiolatura. La pianta e partenocarpica ma non aumenta la produzione se impollinata con Madernassa.
Il frutto è di media pezzatura, piriforme, misura mediamente 80–85 mm in altezza e 65-70 mm in larghezza. Il calice è abbastanza largo inserito in una cavità poco profonda. La buccia è parzialmente rugginosa di colore rosso, particolarmente accentuato dall’insolazione. Il peduncolo è mediamente sottile, lungo, inserito verticalmente sul frutto e con una cavità peduncolare poco profonda. La polpa è consistente, di colore bianco–giallognolo, granulosa, di sapore dolce, aromatico ed un retrogusto odoroso leggermente di moscato.
L’epoca di raccolta è come quella del Martin Sec.
L’epoca di maturazione si colloca da dicembre a marzo.
· SUPERTINO: L’albero è di medio vigore ad elevata produttività. La varietà è autosterile e deve essere impollinata con Madernassa o Passacrassana. La pianta manifesta una discreta resistenza alla ticchiolatura.
Il frutto è di media pezzatura, di forma oblunga: misura mediamente 90 mm di altezza e 65 mm di larghezza. Il calice è largo inserito in una cavità mediamente profonda. La buccia è di colore giallo–verdastro, rugginosa. Il peduncolo corto inserito obliquamente sul frutto. La polpa è biancastra, abbastanza fine, leggermente granulosa, mediamente consistente , di buon sapore, leggermente aromatica.
L’epoca di raccolta è come quella del Martinone.
L’epoca di maturazione va da dicembre a marzo.
Il Comune di Barge (CN) ha segnalato altre due varietà di pere da cuocere: Marconet e Martin Sala. La produzione di tali pere è, peraltro, estremamente limitata.
Il settore frutticolo, a livello nazionale ed europeo, soffre di una pesante crisi di mercato dovuta ad una super produzione, mentre una produzione di pere predisposte alla cottura, di ottima qualità, possono avere un buon futuro commerciale a livello nazionale e anche estero.
Le quattro varietà in oggetto, sia per le caratteristiche organolettiche del frutto, sia per la rusticità della pianta andrebbero tutelate e rilanciate.

ZONA DI PRODUZIONE: MARTIN SEC. Il Martin sec è ancora diffuso in tutto il Piemonte nelle zone pedemontane e nelle vallate dell’area alpina. La maggior diffusione della varietà risulta essere in provincia di Cuneo dove il Martin Sec è presente e coltivato nell’Alta Langa, nelle 16 vallate alpine fino ad una altitudine di 1.000 metri e nelle zone pedemontane del Monregalese, Cuneese e Saluzzese.
MARTINONE. Il Martinone, oggi, rappresentato da un numero limitato di esemplari, era largamente diffuso nei
territori ella provincia di Cuneo, lungo l’arco alpino e nelle vallate fino a 800 metri di altitudine.
Le zone di maggior diffusione sono state il Saluzzese, il Monregalese e il Bovesano.
MARTIN DOBI (MARTIN DOPPIO). La zona di produzione è situata nel Monregalese, nel Cuneese, Saluzzese, lungo la fascia
pedemontana.
SUPERTINO. Fino agli anni ’65–’70 questa varietà risultava largamente diffusa e coltivata nel Saluzzese, in particolare nella fascia pedemontana.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA:
MARTIN SECCO. Le metodiche di conservazione e lavorazione rappresentano una tradizione pluricentenaria, della provincia di Cuneo e possono essere reperite presso gli operatori commerciali che operano nell’ambito del Piemonte.
MARTINONE. E’ predisposta alla lunga conservazione, anche in un ambiente naturale. Evidenzia una buona resistenza alle manipolazioni ed ai trasporti.
MARTIN DOBI (MARTIN DOPPIO). Presenta una buona predisposizione alla lunga conservazione anche in ambiente naturale.
SUPERTINO. Il frutto è predisposto per una lunga conservazione, anche in ambiente naturale, e si può prolungare fino a maggio in frigorifero.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: La conservazione dei prodotti in oggetto si attua in locali idonei, rispondenti alle vigenti normative in materia di igiene.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: MARTIN SEC. L’origine è molto incerta e antica. Secondo Leroy, parrebbe provenire dallo Champagne, secondo Gallesio, invece, dalle Alpi Piemontesi, precisamente dalle Alpi Cozie ed Alpi marittime e, sicuramente, nel territorio delle provincia di Cuneo. In Francia, la varietà risultava coltivata nel XVI secolo essendo stata già menzionata da C. Estienne, nel 1530.
MARTINONE. E’ una varietà di pero ottenuta nel 1920 dal signor Marconetto di Bagnolo Piemonte in provincia di Cuneo, da un semenzale di pero liberamente impollinato.
MARTIN DOBI (MARTIN DOPPIO). L’origine è incerta poiché non si hanno indicazioni precise. Quello che è certo è che questa varietà è stata diffusa e coltivata, inizialmente, nelle zone collinari del saluzzese. Probabilmente, come il Martinone, la sua origine si può indicare nelle zone di Barge e Bagnolo e la varietà deriva da un semenzale di Martin sec liberamente impollinato.
SUPERTINO. La varietà è originaria dal Saluzzese, probabilmente nella zona compresa tra Revello, Barge e Bagnolo, e porta il cognome del realizzatore. La varietà è derivata, probabilmente, da un semenzale liberamente impollinato ottenuto da un seme di Martinone o Martin doppio.
La presenza e la coltivazione delle 4 cultivar di pera da cuocere nel Cuneese risalgono a tempi remoti ed è stata documentata da studi storici locali.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Pesche del Piemonte

La coltivazione della pesca è il frutto di una storia iniziata a fine ‘800 sulle colline del Roero, a Volpedo risalgono agli anni ’20 del secolo scorso. È il periodo della trasformazione del pesco da specie selvatica a vera e propria coltura specializzata in tutto il Piemonte e proseguita negli anni ’30 del XX secolo all’altipiano saluzzese e a Borgo d’Ale (VC) arrivata a interessare negli ultimi decenni del secolo scorso ampi territori vocati alla coltura del pesco, in collina così come sull’arco pedemontano della provincia granda.

Territorio interessato alla produzione: La peschicoltura cuneese è diffusa in buona parte del territorio cuneese, seppur concentrata nelle aree a maggior vocazione ambientale (l’altopiano saluzzese, in particolare), nella zona di Borgo d’Ale (VC) e nell’alessandrino.

Cenni storici e curiositàLe testimonianze dei primi impianti di pesco a Volpedo e dintorni risalgono al 1914, quando la fillossera dilaniò i vigneti della zona. Gerolamo Lucotti e Pietro Carena furono due tra i pionieri della peschicoltura nella zona di Volpedo, che tra il 1919 e il 1920 ebbero il coraggio di sostituire il gelso con il pesco. L’uso della denominazione Pesche di Volpedo risale agli inizi del ‘900. Intorno al 1920 a Volpeglino, un piccolo comune del territorio la peschicoltura si sviluppò grazie all’attività del Cav. Guidobono, che propose un’alternativa alla viticoltura dilaniata dalla fillossera. Per i primi impianti di pesco furono utilizzate le varietà Waddel (o Guidobono), Hale, Elberta, Amsden. Tra il 1925 e il 1930 la peschicoltura si sviluppò anche nei paesi limitrofi a Volpeglino, fino oltre le pendici delle vicine colline.Si deve successivamente a Carlo Baravalle, avvocato prestigioso del foro Torinese, cultore apprezzato dell’arte fotografica, il vero sviluppo commerciale del frutto. Questi pose al centro del proprio impegno amministrativo (1935-43) la questione frutticola.

Pesche di canale – varietà locali

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATE NEL TEMPO: I peschi locali del Roero costituiscono un gruppo varietale assai eterogeneo, ma caratterizzato da alcuni tratti in comune come la rusticità, ossia l’adattamento ai terreni asciutti, poveri, spesso ricchi di calcare di queste colline e la buona resistenza ai più comuni parassiti.
Le “Pesche di Canale” sono frutti caratterizzati da una modesta pezzatura con buccia spessa, molto tormentosa e scarsamente colorata; la polpa è generalmente bianca, ma con frequenti venature di rosso che, in taluni casi, diviene il colore dominante, spiccagnola, soda, con intenso aroma amarognolo.
La maturazione è di solito medio-tardiva, talvolta tardiva.
Nell’ambito di questo germoplasma si selezionarono, nel corso del tempo, tipi di caratteristiche superiori che vennero propagati e diffusi e, i principali sono: S. Anna, S. Michele, Beica Bin, Prete, Giallo del Poretto, Badoglio, Begnin, Botto, Lenin, Repubblica, Tabalet.

ZONA DI PRODUZIONE: Tradizionalmente le “Pesche di Canale” sono coltivate sia a Canale (Cuneo) sia nelle zone limitrofe del Roero.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Il prodotto è venduto fresco a buono stato di maturazione, dopo essere stato calibrato e confezionato manualmente in cassette di legno ad unico strato.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI PRODUZIONE: I locali dove viene effettuato il confezionamento di questo prodotto sono a norma con le disposizioni normative riguardanti l’igiene alimentare.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: La coltivazione del pesco, nell’area di Canale, prende avvio con le prime sperimentazioni condotte nella seconda metà del XIX secolo. Nel 1885, ad opera di un avvocato, furono sperimentate in coltura specializzata alcune varietà americane e si diede vita, così, al primo esempio piemontese di frutticoltura specializzata di tipo industriale.
La peschicoltura assunse dimensioni imponenti, arrivando ad occupare, alla fine degli anni ’20, una superficie di 1.165 ha, raggiungendo una produzione superiore ai 100.000 quintali annui.
Vittima di alterne vicende storiche, la peschicoltura roerina è sopravvissuta, seppur ridimensionando la sua importanza economica sul territorio, ma mantenendo intatta la sua importanza di tradizione e di coltura contadina.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Piccoli frutti

I Piccoli frutti sono lamponi, mirtilli, ribes, more, uva spina e fragoline di bosco.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione comprende le aree montane, pedemontane e collinari di numerosi comuni piemontesi.

Cenni storici e curiositàLa raccolta dei frutti spontanei del sottobosco ha tradizioni antichissime. Gli abitanti delle vallate piemontesi, in particolari cuneesi e torinesi, conoscono da sempre le innumerevoli qualità di questi piccoli frutti. Basti pensare che, già nel periodo feudale, lo sfruttamento delle risorse minori del bosco veniva concesso come diritto di uso. Mentre il signore, infatti, teneva per sé i prodotti più pregiati che le proprie terre potevano offrire, come legname e cacciagione, egli tollerava che le risorse minori potessero essere sfruttate dalla comunità.L’utilizzo dei frutti del sottobosco ha rappresentato, così, per secoli, una fonte di alimento e medicamento, tradizione mantenutasi ancora viva al giorno d’oggi, soprattutto in quelle regioni in cui la crescita spontanea di questi frutti è naturalmente favorita dalle condizioni climatiche e geomorfologiche.

Ramassin o dalmassin

Il Ramassin o Dalmassin è una varietà di susino autoctona, tipica del Piemonte sud-occidentale. Presenta un frutto ovale di dimensioni miniaturizzate che alla maturazione cade spontaneamente al suolo.Ramassin e Dalmassin sono varianti linguistiche piemontesi (quest’ultima propria del Monregalese) che corrispondono all’italiano Damaschine, susine di Damasco. La varietà è infatti attribuita alla specie Prunus domestica L. subsp. insititia, il “susino della Siria”, di cui Damasco è capitale.

Territorio interessato alla produzione: Il Ramassin (Dalmassin) è presente sottoforma di piante sparse in tutto il territorio cuneese.

Cenni storici e curiositàI Ramassin sono un endemismo (specie o varietà presente in un territorio isolato) del Piemonte sud- occidentale con tracce di presenza anche nella Riviera di Ponente (Gallesio, in Pomona italiana, Pisa 1817-1839) e in Provenza. Tale distribuzione, che corrisponde alle aree delle incursioni saracene del IX e X secolo, induce a ritenere che i Ramassin possano essere stati introdotti dal Medio Oriente nell’alto medioevo, una delle tante tracce della cultura e della civiltà araba nel Piemonte meridionale, al pari di vocaboli, toponimi, cognomi…

Susina Santa Clara del saluzzese

È una varietà rustica e dotata di buona adattabilità a terreni e condizioni difficili; è diffusa in tutto il Saluzzese, dove si spinge anche a altitudini piuttosto elevate.

Territorio interessato alla produzione: L’intero territorio saluzzese è interessato dalla coltivazione di susina Santa Clara del Saluzzese. In particolare la coltura si concentra nelle zone di collina e fondovalle attorno a Saluzzo.

Cenni storici e curiositàNel Saluzzese si ha memoria della diffusione della Santa Clara a partire dagli anni della Seconda Guerra Mondiale. Testimonianze orali attestano con sicurezza di piccoli impianti di Santa Clara effettuati per lo più sui terreni meglio esposti (autin, in dialetto piemontese), in consociazione con la vite. Il periodo di massima diffusione si ebbe intorno agli anni ’60, quando raggiunse la ragguardevole superficie di oltre 50 ettari, motivata dal notevole interesse commerciale per le susine trasformate.

Castagna Cuneo IGP

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE
CONSOLIDATE NEL TEMPO: Il frutto delle “Castagne delle Valli Cuneesi” deriva dalle seguenti varietà locali: Ciapastra, Tempuriva, Bracalla, Contessa, Pugnante, Sarvai d’Oca, Sarvai di Gurg, Sarvaschina, Siria, Rubiera, Marrubia, Gentile, Verdessa, Castagna della Madonna, Frattona, Gabbiana, Rossastra, Crou, Garrone Rosso, Garrone Nero, Marrone di Chiusa Pesio.
Le “Castagne delle Valli Cuneesi”, allo stato fresco, presentano una pezzatura minima pari a 100 acheni per chilogrammo, una colorazione esterna del pericarpo che va dal marrone chiaro al bruno scuro, un ilo più o meno ampio, mai debordante sulle facce laterali di colore nocciola e raggiatura stellare, un epicarpo da bianco a giallo paglierino, una consistenza croccante ed un sapore dolce e delicato.
Le fustaie di castagno da frutto sono situate nell’area che si estende a tutte le vallate della provincia di Cuneo ed ai terreni di fondovalle con altitudine compresa tra i 200 e i 1000 metri di altitudine.
Coltivati a castagno sono i terreni generalmente profondi, drenati, ricchi di sostanza organica e privi di calcare attivo, che conferiscono al frutto le particolari caratteristiche organolettiche.
Le cure apportate ai castagneti, le forme di allevamento, i sistemi di potatura periodica e pluriennale, tradizionalmente in uso nel territorio, sono atti a non modificare le caratteristiche peculiari dei frutti.
La densità di piante in produzione per ettaro normalmente non supera le 150 piante mentre la produzione raggiunge, al massimo, i 30 quintali per ettaro.
La raccolta viene effettuata manualmente o con mezzi meccanici (macchine raccoglitrici) tali, comunque, da salvaguardare l’integrità del prodotto.
Non vengono somministrati fertilizzanti e fitofarmaci di sintesi, ad eccezione di quelli consentiti dall’agricoltura biologica e dei mastici medicati usati per proteggere le ferite dopo interventi cesori (potatura).
La conservazione del prodotto viene fatta mediante un trattamento in acqua calda (50°C per 45 minuti) secondo la corretta tecnica tradizionale utilizzata. E’ stato bandito l’impiego del bromuro di metile per sterilizzare le castagne in quanto responsabile in larga misura del “buco dell’ozono”.
In alcuni casi, si ricorre alla tecnica della “curatura” che consiste nell’immergere le castagne, subito dopo la raccolta, in vasche contenenti acqua a temperatura ambiente per 7-9 giorni (per tale ragione è anche chiamata “novena”). Vengono allontanate le castagne galleggianti, mentre quelle rimaste sul fondo sono, al termine del trattamento, disposte in sottili strati su pavimenti porosi operando continui paleggiamenti per una rapida asciugatura.
Frequentemente, l’acqua rimasta nelle vasche viene riutilizzata in quanto sembra che manifesti un più efficace effetto conservativo.
L’effetto preconservativo della curatura non è ancora del tutto ben chiaro, ma è da supporre che si manifesti una leggera fermentazione lattica a scapito degli zuccheri presenti, con abbassamento del pH e, quindi, formazione di un ambiente inadatto alle crescite fungine. A seguito di studi recenti, questa azione conservativa è stata anche attribuita ad un effetto favorevole esercitato da composti fenolici quali curarine, scopoletine ed esculentine attraverso una azione inibitrice dei patogeni.
Questa pratica, come è stata finora fatta, comporta notevoli problemi operativi e la necessità di avere grandi spazi per le vasche e soprattutto per l’asciugatura, oltre ad un notevole impiego di manodopera per le operazioni di carico, scarico e paleggiamento.
E’, infine, da sottolineare che l’asciugatura richiede condizioni particolari di temperatura che non è sempre possibile avere nel periodo autunnale e che il metodo di selezione per immersione non è sicuro in quanto non tutte le castagne malate galleggiano e viceversa.
Un sistema innovativo di conservazione consiste nel porre le castagne, raccolte dopo un periodo molto breve, che intercorre dal momento in cui cadono dal riccio a quello in cui vengono portate nei centri di raccolta, in grossi recipienti, facilmente stoccabili nelle celle di conservazione. Una volta riempita, la cella di conservazione, che dovrà essere a tenuta, verrà chiusa; si procederà, quindi, alla modifica delle condizioni ambientali, individuate in una atmosfera costituita dal 78% di azoto, dal 20% di anidride carbonica e dal 2% di ossigeno.
Durante il periodo di conservazione, la temperatura verrà portata a 0°C, mentre l’umidità relativa verrà mantenuta intorno a 90-95%.
In queste condizioni, il prodotto può essere stoccato per un periodo fino a 6 mesi senza avere alcun problema di conservazione, inoltre, il prodotto presenta basso calo di peso ed assenza di muffe e di marciumi.
Attraverso questa tecnica conservativa, oltre ad avere un elevato controllo patologico, si riducono considerevolmente i costi gestionali, altrimenti altissimi per un impianto di curatura, il tutto a vantaggio del produttore e del consumatore.
E’, inoltre, ammessa la conservazione tramite sbucciatura e successiva surgelazione, secondo le modalità previste per i prodotti surgelati.
La commercializzazione delle “Castagne delle Valli Cuneesi” può avvenire oltre che sotto forma di prodotto fresco, anche come prodotto trasformato, con denominazione “Castagne delle Valli Cuneesi-secche ” o “Castagne delle Valli Cuneesi-farine”.
Il metodo tradizionale di preparazione delle castagne secche consta di due fasi: l’essiccazione e la sbucciatura (pelatura o sgusciatura).
L’essiccazione è pratica antica e compare con la diffusione della coltura del castagno e con il problema della conservazione delle castagne per un lungo periodo. L’essiccazione avviene a fuoco lento in apposite strutture in muratura, i cosiddetti “essiccatoi”, che ricalcano il modello degli antici “secou”, in legno e dislocati nei boschi.
L’essiccatoio e composto da due piani. In quello inferiore, che funziona da caldaia, viene acceso un fuoco, alimentato tre volte al giorno con legna di castagno o prodotti forestali di scarto (ricci, bucce di castagna, fascine, segatura). Al piano superiore si trova un unico graticcio, in legno o in metallo. I graticci in legno, costituiti da listelli di 3-4 cm di spessore e distanziati tra loro di circa 1 cm erano i più usati perché meno costosi e, in caso di incendio, lasciando cadere le castagne, bloccavano immediatamente il propagarsi del fuoco. Quelli di metallo hanno una durata superiore con maglie di 1 cm2.
Le castagne sono disposte sul graticcio in uno strato dapprima di 20 cm che può aumentare gradualmente fino ai 30-50 cm. Durante l’essiccazione i frutti vengono periodicamente rivoltati, sorvegliando che la temperatura si mantenga costante.
Il peso del prodotto che si ottiene dopo 30-40 giorni di essiccazione è circa 1/3 di quello originario.
Terminata la fase dell’essiccazione, le castagne secche vengono sottoposte alla sbucciatura cioè all’eliminazione dell’epicarpo. In passato, questa operazione veniva effettuata utilizzando diverse tecniche: le castagne secche, ad esempio, venivano “battute” all’interno di un sacco contro un ceppo o per terra oppure si “pestavano” con apposite calzature dalla suola munita di punte di legno o con cilindri di legno dotati di punte e di un manico. Negli ultimi anni, si procede alla sbucciatura meccanica.
Le castagne secche sgusciate si presentano intere, sane, di colore paglierino chiaro, con non più del 10% di difetti (tracce di bacatura, deformazione, rotture, frutti con tracce di pericarpo, ecc.) e non oltre il 3% di prodotto bacato.
La tecnica di produzione della farina di castagne è quella in uso nella tradizione locale che prevede, dopo una prima fase di cernita dei frutti, la molitura delle castagne in mulini da talco, che consentono di ottenere una farina di castagne finissima. L’umidità contenuta nei frutti sfarinati non deve essere superiore al 15% per permettere un’adeguata conservazione del prodotto.
Per le “Castagne delle Valli Cuneesi” è stata presentata istanza di riconoscimento dell’attestazione comunitaria DOP da parte dell’Organizzazione Produttori Ortofrutticoli ASPROFRUT.
La comunicazione di tale richiesta è stata fatta sul bollettino Ufficiale della Regione Piemonte, n° 20 del 17 maggio 2000, con la pubblicazione del relativo disciplinare di produzione proposto.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di produzione delle “Castagne delle Valli Cuneesi” comprende tutti i comuni montani della
provincia di Cuneo.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO
INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: La commercializzazione delle “Castagne delle Valli Cuneesi”, allo stato fresco, può avvenire utilizzando diverse confezioni, in rapporto al tipo di acquirente in sacchi di plastica traforati o in sacchi di juta. Dette confezioni devono essere chiuse e sigillate in modo tale che il contenuto non possa essere estratto senza la rottura del sigillo.
La commercializzazione delle castagne secche e della farina di castagne avviene in sacchetti di carta o di materie plastiche, idonee per uso alimentare, aventi capacità variabile.
Le attrezzature e le tecnologie utilizzate per la conservazione permettono di effettuare tutte le lavorazioni nel pieno rispetto delle attuali normative riguardanti l’igiene degli alimenti.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali dove vengono effettuate le operazioni di conservazione o di trasformazione rispettano le attuali normative riguardanti l’igiene degli alimenti.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: I primi riferimenti alla coltura del castagno nella provincia di Cuneo risalgono verso la fine del XII secolo e l’inizio del XIII. A partire dal XIV secolo i documenti si fanno sempre più precisi e numerosi sono i riferimenti negli statuti comunali di castagneti tutelati.
Negli anni 1320-1321, i castellani del regno sabaudo annotavano se il prodotto dei castagneti era buono, specificando la qualità dei frutti.
Intorno al 1750, alcuni documenti forniscono dati e notizie circa la consistenza delle superfici di castagno e della produzione di castagne. Secondo la Statistica Generale del 1752 (Archivio di Stato di Torino), il castagno, in Piemonte, copriva il 4% della superficie totale, mentre in provincia di Mondovì copriva 36.800 ettari e circa 11.500 in quella di Cuneo, per un totale pari al 54% della superficie castanicola piemontese.
La storia delle popolazioni piemontesi è, quindi, strettamente legata alla produzione e al consumo di castagne. In particolare, nei territori delle valli cuneesi si è diffuso il consumo di castagne secche, ottenute con tecniche tramandate di padre in figlio nel corso dei secoli e tuttora praticate.
Il commercio della castagna secca contribuiva in modo considerevole alla formazione del reddito della popolazione locale ed, inoltre, rappresentava una componente essenziale della dieta delle famiglie contadine.
Ad iniziare dagli anni ’50, per la “Garessina”, così come per la castanicoltura in generale, è iniziato un periodo di crisi dovuto, com’è noto, sia all’esodo della popolazione agricola dalle aree montane e collinari verso le aree industrializzate, sia alle avversità crittogamiche (in primis il cancro del castagno).
Per quanto riguarda la vendita delle castagne, il mercato di Cuneo, già molto attivo fin dal 1500, rimase a lungo il principale centro commerciale. Le castagne venivano commercializzate fresche (castagne verdi) dall’inizio di ottobre fino alla metà di novembre o secche (castagne bianche) nel corso dell’inverno, fino a metà marzo. Il mercato di Cuneo diventò, nel tempo, un mercato di importanza europea e l’appuntamento tradizionale della Fiera di San Martino (11 novembre) era per molti castanicoltori l’occasione per monetizzare le loro produzioni che venivano quotate al prezzo
delle uve.
Da rilevare, inoltre, l’importanza del Mercato di Venasca, la cui origine risale al 1528 (decreto di Margherita di Foix). Esso si teneva tutti i lunedì dell’anno e, nel periodo da ottobre a dicembre, anche il giovedì, limitatamente alle castagne. Il mercato suppletivo del giovedì, fu istituito nel 1915. Nel 1938, furono contrattati oltre 8.000 quintali di castagne, 2.200 di patate; 200 di noci e 100 di latticini.
Oggi si continua a fare il mercato delle castagne da metà Ottobre a Novembre, il lunedì pomeriggio e il giovedì pomeriggio dalle 18,00 alle 20,00.
La coltura del castagno si è sviluppata fino ai primi decenni del XX secolo: agli inizi del ‘900 si producevano in Piemonte 550.000 quintali di castagne di cui 350.000 in provincia di Cuneo. Dal dopoguerra fino agli anni ’70, si è assistito ad una sensibile riduzione della produzione di castagne dovuta principalmente all’esodo della popolazione delle vallate alpine e collinari verso le grandi città o all’estero. La produzione annua negli anni ’70 si era attestata, in Piemonte, intorno ai 100.000 quintali, di cui 65.000 in Provincia di Cuneo.
Dalla fine degli anni ’70, il processo involutivo si concluse e si ebbero i primi segnali di ripresa che si consolidarono negli anni ’80 e ’90 con una produzione annua a livello regionale di circa 80.000 quintali, di cui circa 55.000 in provincia di Cuneo.
Il rinnovato interesse nei confronti del castagno nasce dalla maggiore consapevolezza nell’utilizzazione delle risorse della montagna, dalla ricerca di modelli di sviluppo sostenibile e integrato delle zone alpine, dal successo nel contenimento degli effetti nocivi di fitopatie quali il “Cancro corticale” e il “Mal di inchiostro” che hanno, in passato, aggredito l’albero nonché, soprattutto, dalle nuove e interessanti destinazioni commerciali del frutto fresco e trasformato.
Attualmente, la stima della produzione media annua, nella provincia di Cuneo, è di 50.000-60.000 quintali ottenuti per circa 40.000 quintali da castagneto da frutto tradizionale assoggettato a periodiche pratiche agronomiche, per circa 15.000 quintali da castagneto da frutto degradato in cui si esegue sostanzialmente esclusivamente la raccolta e per circa 3-5000 quintali da castagneto da frutto intensivo di nuovo impianto.
Per quanto riguarda i flussi commerciali, il 40-45% del prodotto è destinato al mercato tradizionale, il 25-30% all’esportazione ed il rimanente all’industria.
La tradizionalità del prodotto in oggetto può essere avvalorata dalla seguente documentazione storica:
· Elio Dotto, Mario Bignami, Il castagno di Melle, Cuneo Provincia Granda;
· Gian Romolo Bignami, Le castagne della provincia di Cuneo, Cuneo Provincia Granda;
· A.B., Castagne e castagneriss, La valle Pesio, ottobre 1952;
· Giuseppe Bono, La vegetazione della Valle Pesio, Firenze 1962;
· Seba, Salviamo il marrone!, La valle Pesio, settembre 1953;
· Raffaele Bassi, La castagna in cucina;
· Elma Schena, Adriano Ravera, La cucina di “Madonna Lesina”, ricette tradizionale delle valli cuneesi, L’Arciere
· Giambattista Botteri, Memorie storiche e statuti antichi di Chiusa Pesio, ed. L’Arciere
· AA.VV., La civiltà del castagno;
· La settimana del castagno, La Bisalta, 5/11/1922;
· Il prezzo favoloso dei marroni, La Bisalta, 8/11/1926;
· La mostra dei marroni, La Bisalta, 19/11/1932;
· La fiera del marrone, La Bisalta, 10/11/1934;
· La fiera del marrone, La Bisalta, 21/11/1936;
· Chiusa e la fiera del marrone, La Bisalta, 6/10/1937;
· Verbale del Consiglio Comunale di Peveragno, 13/01/1806;
· Adunanza “pro castagneti” del 30 marzo 1913, delibera dell’assemblea dei Sindaci e delle rappresentanze dei comuni castagniferi della provincia di Cuneo;
· “La nuova imposta fondiaria sui castegneti in provincia di Cuneo”, Memoriale per il Ministro delle Finanze, 1913;
· Ordine del giorno votato dall’assemblea dei Sindaci e delle Rappresentanze dei Comuni castagniferi in Garessio, 30/3/1913;
· Grande Fiera del Marrone, Chiusa Pesio, 7/11/1932, locandina pubblicitaria dell’epoca;
· Fiera del Marrone, Cuneo, 8/11/1936, locandina pubblicitaria dell’epoca;
· I marroni il miglior alimento, 6/11/1936, volantino pubblicitario dell’epoca;
· 36° Sagra del marrone 1998, locandina pubblicitaria;
· Il tempo delle castagne, a cura delle Agenzia Turistica Cuneese.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Mostarda piemontese

Materia prima: uva.

Tecnologia di lavorazione: si mette a bollire in un recipiente l’uva ammostata. Quando bolle vanno tolti gli acini d’uva e la schiuma. Man mano che il volume diminuisce il calore deve essere sempre più moderato per evitare che si attacchi. Va poi filtrata con un panno bianco e rimessa sul fuoco fintantoché non si é ridotta di due terzi. Si mette nei vasi e si conserva al buio.

Maturazione:

Area di produzione: Piemonte. In Calabria con l’identica tecnica e le stesse modalità di esecuzione si produce il mosto cotto.

Calendario di produzione: autunno.

Note: la mostarda piemontese non ha la senape ed é l’unica mostarda che ha due versioni: quella con il solo impiego dell’uva Barbera (il vero Mustum) e l’altra che addiziona al mosto cotto pere, mele cotogne, cannella, chiodi di garofano, zucche, fichi e – in alcune odierne versioni commerciali – anche gherigli di noce, nocciole e mandorle tostate.

Composta di marroni

Materia prima: marroni.

Tecnologia di lavorazione: dopo aver tolto la prima buccia ai marroni, si sbollentano in acqua tanto quanto basta per togliere agevolmente la pellicola. Si rimettono sul fuoco con acqua a cui si aggiunge un pizzico di sale, qualche foglia di alloro e dei semi di finocchio. Si fa cuocere quanto basta per ottenere una purea morbida, dopo aver aggiunto lo zucchero e la vaniglia.

Maturazione:

Area di produzione: tutto il Piemonte, Appennino.

Calendario di produzione: autunno.

Note: in tutto il Piemonte la castagna viene consumata il giorno dei morti. Un tempo, quando tradizione e magia si intrecciavano poeticamente, si lasciava un grande piatto in cucina perché le anime dei defunti potessero servirsene. Cibo consumato anche dalle donne romane durante i riti di Cibele e Cerere(in sostituzione dei cereali proibiti durante il rito),il castagno deve la sua diffusione nell’Italia del nord e nell’Europa centrale proprio ai romani mentre il miglioramento della coltura nel Medioevo lo dobbiamo ai frati benedettini e camaldolesi che ne fecero una pianta fondamentale per l’economia delle zone alto collinari e montane. La sua importanza viene meno solo intorno agli anni ’50, anni del grande esodo: coincidente – circostanza davvero singolare – con la diffusione del cancro corticale.

Torta di castagne

In questa torta possiamo trovare molti ingredienti diversi, tra cui uova, burro, amaretti, cacao o altri frutti come mele o pere. Si aromatizza con arancia, limone, rhum, marsala o noce moscata.L’ingrediente principale è però sempre la farina di castagne, ottenuta tritando le castagne fresche bollite o usata come farina vera e propria ottenuta dalle castagne secche.

Territorio interessato alla produzione: La torta di Castagne si produce in tutto il Piemonte, ma è particolarmente diffusa in Monferrato. È molto nota quella del comune di Pontestura (AL).

Cenni storici e curiositàLa sua presenza nei ricettari data da almeno l’inizio del secolo, ma la tradizione orale testimonia della torta di Castagne da un periodo molto più vecchio, e potremmo dire che sia nata con le castagne stesse.Ricordiamo che con le castagne, anticamente, in assenza di grano si preparava pane di necessità.Nel comune di Pontestura (AL), i primi riferimenti alla produzione di questo dolce risalgono al 1800 quando, per la festività della Pasqua, oltre ai fornai anche le famiglie preparavano queste torte, che erano cotte nei forni, allora, a legna. Ora rimane un solo fornaio, e le famiglie dispongono del proprio forno, mantenendo però viva la tradizione della preparazione della torta.Non esiste una ricetta originale, poiché la produzione casalinga, con i suoi mille trucchi e segreti, rende impossibile una codifica univoca.

Torta di nocciole

La torta di Nocciole si presenta con l’inconfondibile profumo delle nocciole tostate, ma le ricette sono molto varie, e alcune prevedono l’uso di cacao o di farina bianca, che a detta dei puristi non dovrebbero comparire.

Territorio interessato alla produzione: La torta di Nocciole è prodotta nelle Langhe, soprattutto in Alta Langa, dove la coltivazione del nocciolo è molto diffusa. È considerata il dolce tradizionale di Cortemilia (CN)

Cenni storici e curiositàQuesta torta, certamente nata nelle Langhe, era un tempo prodotta per utilizzare l’eccedenza di nocciole alla fine della stagione. Si preparava principalmente in autunno ed inverno, senza peraltro avere una stagionalità ben definita.La sua presenza nei ricettari data da almeno l’inizio del secolo, ma pare che la tradizione orale sia più generosa sulla presenza della torta di Nocciole nel sud del Piemonte.Sulla ricetta originale si discute da sempre, soprattutto sulla presenza di farina nell’impasto.Praticamente ogni vallata, ogni paese e ogni famiglia hanno una variante che la rende la “migliore”.

Baci di dama di Tortona

I baci di dama di Tortona sono dei dolci di composizione originale, consistenti in due semisfere di pasta di biscotto alla mandorla, tenute insieme da una goccia di cioccolato fondente.Il nome ricorda, secondo alcuni, il fatto che il profilo dei baci di dama rassomigli ad una bocca di donna appena socchiusa.

Territorio interessato alla produzione: La produzione dei baci di Dama di Tortona avviene a Tortona, in provincia di Alessandria, ma con la medesima ricetta si produce in pratica in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàI baci di Dama di Tortona sono una specialità tortonese che alcune pasticcerie della zona producono da oltre un secolo, la ricetta si trova già nei manuali di cucina di fine ‘800, anche se non è riferita direttamente ai “baci” prodotti a Tortona.Sicuramente questi dolci hanno valicato i confini di questa bella città, e sono prodotti in tutto il Piemonte; la “Guida Gastronomica d’Italia” del Touring Club Italiano, nel 1931, cita i baci di dama come prodotti tipici di Novi Ligure, ma nell’edizione dell’”Italia Turistica” dello stesso Touring, all’inizio degli anni ’70, si indicano i “Baci di Dama” come di origine tortonese.I “Baci di Dama”, secondo il principale studioso ed esperto di questo dolce, il Dr. Carlo Sterpone, furono inventati però nel 1890 a Tortona, a seguito dell’intuizione dei fratelli pasticcieri Angelo e Secondo Zanotti, registrati come pasticceri operanti a Tortona dal 1885. Questi depositarono nel 1890 il marchio di fabbrica “Baci di Dama Zanotti”. Un’altra pasticceria nacque dalle collaborazioni di Angelo Zanotti con Stefano Vercesi, e quest’ultimo, dopo una vera e propria “disfida” per rivendicare la primogenitura dei dolci, decise di depositare il marchio “Baci Dorati Vercesi”.Il marchio “Baci di Dama Zanotti” depositato nel 1890 rimase in vigore fino agli anni ’30. Dopo di allora la produzione e l’uso della denominazione divennero liberi.

Biscotti della salute

I Biscotti della salute sono delle specie di fette biscottate ricavate da un filone di pane, in genere cotto su una placca e non su uno stampo. Questo conferisce a questi biscotti una forma tipica di fetta di pane, ovale a forma di una mezza luna.Il gusto è poco dolce, sono particolarmente ricercati per la leggerezza e la grande friabilità, può essere presente anche un leggero sentore di anice.

Territorio interessato alla produzione: I Biscotti della salute sono prodotti in tutto il Piemonte, l’epicentro produttivo più importante è Ovada, crocevia delle culture culinarie piemontese e ligure (AL).

Cenni storici e curiositàI biscotti del Lagaccio, progenitori del biscotto della salute, nacquero nel 1593 nel quartiere del Lagaccio, a Genova, dove esistette, fino agli anni ’60 un bacino artificiale. All’epoca un forno iniziò a produrre questi biscotti, che erano l’ideale per la conservazione in barca.Questo tipo di versatile pane dolce si diffuse rapidamente, e dalla Liguria si diffuse in Piemonte, tramite quel crocevia di culture che era ed è l’Oltregiogo, area dell’alessandrino al confine con la Liguria.I Biscotti della salute, anche conosciuti come “crocion” in Piemonte, sono talmente radicati sul territorio piemontese, che ne troviamo due citazioni molto antiche: da V. di S. Albino, nel Gran Dizionario piemontese-italiano del 1859, dove nella ricetta compaiono le uova e non i grassi; e nell’ancora più antico Vocabolario Piemontese-Italiano di Michele Ponza da Cavour, edito a Torino nel 1830.La fortuna e la diffusione dei Biscotti della salute in Piemonte, è certamente dovuta all’imprenditore Walter Marchisio, che fondò a Torino nel 1922 la Wamar.

Biscotto Giolitti

I Biscotti Giolitti prendono il nome proprio dal famoso statista italiano, a sua richiesta furono infattiprodotti dal pasticcere dronerese Giuseppe Galletti, vero e proprio “inventore di dolci” del 1800.Si presentano come normali biscotti di forma rotonda, piatti, dalla pasta uniforme e friabile.La caratteristica principale di questi particolari biscotti, è la presenza, oltre a farina, zucchero, mandorle e burro, di una distintiva aggiunta di pepe. Completano l’impasto Marsala e rhum.È possibile notare, sulla superficie dei biscotti o nella massa, i puntini neri del pepe macinato.

Territorio interessato alla produzione: I Biscotti Giolitti sono prodotti a Dronero (CN).

Cenni storici e curiositàLo statista Giovanni Giolitti, per parte di madre originario della Valle Maira, trascorse a Dronero molti mesi della sua infanzia per motivi di salute.La frequentazione continuò anche quando Giolitti crebbe, divenne un politico di primo piano e si trasferì definitivamente a Cavour, a pochi chilometri di distanza, da dove viaggiava per impegni politici a Roma.Dronero fu sempre, infatti, il collegio elettorale dove fu eletto. Verso il 1882, il Pasticciere Giuseppe Galletti, intitolò a Giolitti i suoi biscotti, non sappiamo se prodotti per l’occasione o estratti dal ricco repertorio di paste e dolci del suo locale di Dronero; locale in cui si trovava una saletta da the e dove si tenevano anche mostre di artisti locali.Ricordiamo che allora Dronero contava più di 8000 abitanti. Giolitti cominciò a portare con sé, nei suoi viaggi romani, questi biscotti, che crebbero così per rinomanza e diffusione.Il pasticcere Galletti tramandò la ricetta, ma negli ultimi anni la produzione dei biscotti si interruppe.Questa ricetta è stata ripresa recentemente dai nuovi proprietari della pasticceria, col beneplacito della figlia di Galletti, ad oggi ottantaseienne.Nei documenti comunali non esistono tracce scritte della nascita del prodotto, dei quali probabilmente si parla in documenti epistolari privati.

La duchesse

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E TECNICHE DI PRODUZIONE, CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI: “La Duchesse” è un pasticcino formato da due morbide cialde farcite da una crema a base di cioccolata con liquori misti.
Per preparare tale prodotto di pasticceria, occorrono i seguenti ingredienti: Per la preparazione delle cialde si comincia con la tostatura delle nocciole (Tonda Gentile delle Langhe), che viene effettuata al momento dell’utilizzo per fare in modo che conservino tutta la loro fragranza ed il loro profumo.
Quindi si tritano, così da ottenere una farina che viene unita al cacao, alle uova ed al burro.
Tutto il lavoro di miscelatura viene fatto a mano come una volta, al fine di ottenere un prodotto ben amalgamato. Si passa, poi, alla cottura ed al raffreddamento. Prima di poter essere utilizzate, le cialde devono riposare per almeno 48 ore.
La preparazione del ripieno avviene tritando le mandorle affinché si ottenga una farina, la quale viene unita a copertura di cioccolato fondente, zucchero e liquori misti. Si amalgama tutto insieme fino ad ottenere una crema di consistenza media; questa verrà spalmata sulle cialde preparate in precedenza con un coltello che permetterà di lavorare ulteriormente la crema.
Una volta terminata la produzione, si passa all’incarto che viene effettuato con doppia carta, così che il pasticcino mantenga il suo profumo e gusto originale.
Trattandosi di un prodotto senza conservanti, “La Duchesse” ha una durata limitata di circa 20 giorni.

ZONA DI PRODUZIONE: I pasticcini “La Duchesse” sono prodotti da una pasticceria di Canale (Cuneo), situata nella via
centrale del Paese.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE E L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO INDICATO NELLA
PRESENTE SCHEDA: Le attrezzature usate sono per la preparazione della “La Duchesse” sono: un forno per la tostatura
delle nocciole e la cottura delle cialde, un setaccio a maglia grande per la pulitura delle nocciole, una raffinatrice (macchina a cilindri usata per tritare le nocciole e le mandorle), una pentola di rame stagnato per preparare gli impasti, un cucchiaio di legno per mescolare, un coltello liscio per spalmare la crema sulle cialde.
Per l’incarto sono utilizzate una pergamena paraffinata per l’interno ed una velina per l’esterno; questa riporta l’effige della dama che appare anche sulla scatola utilizzata per il confezionamento derivante da un dipinto di Giuseppe Lodovico Bracco, artista canalese che seppe interpretare la vita quotidiana della Canale del pesco di inizio secolo.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI PRODUZIONE: I locali dove vengono prodotti e confezionati i suddetti pasticcini rispettano le attuali normative riguardanti l’igiene degli alimenti.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE TECNICHE DI PRODUZIONE SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI: La ricetta de “La Duchesse” è tramandata oralmente da circa un secolo ed è, ancora oggi, tenuta
segreta. Quando la ricetta è affidata ad un nuovo pasticcere, per assicurare l’esatta continuità della tradizione, questi deve collaborare a stretto contatto con i vecchi tenutari finché non ha appreso non solo i dosaggi degli ingredienti ma anche le modalità di produzione.
Nonostante l’alto gradimento raggiunto dal pasticcino, la produzione rimane rigorosamente artigianale e limitata in quanto condizionata da lunghi tempi di lavorazione e di confezionamento.

Bibliografia:
– Luciano Bertello, La Duchesse, ricerca storica a cura del presidente dell’Enoteca del Roero di Canale.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Mustaccioli

I Mustaccioli sono dei biscotti molto secchi e molto duri, che hanno la caratteristica di sciogliersilentamente in bocca lasciando un forte sapore speziato.Hanno una tipica forma di rombo ed un colore viola dovuto al vino che ne costituisce uno degliingredienti principali.Sono dolci molto spartani con un gusto particolare e atipico, soprattutto per la presenza delle spezie, di solito cannella e garofano.

Territorio interessato alla produzione: Questi dolci sono tipici di quasi tutte le regioni d’Italia, con diverse varianti aromatiche. In Piemonte hanno la maggior diffusione e consumo nei dintorni di Saluzzo, soprattutto a Revello.

Cenni storici e curiositàI Mustaccioli, nelle loro mille varianti, sono presenti su tutto il territorio italiano, e vantano origini remote. Il nome infatti è molto antico e deriva dal latino “mustaceum”, che indicava una focaccia dolce tra i cui ingredienti figurava il mosto d’uva e che veniva cotta su foglie di lauro.La prima descrizione dei “mustacei” ce la dà Catone nel “De Agricoltura”, dove si descrive addirittura la preparazione: “intridi un moggio di farina con il mosto, aggiungici anice, cumino, due libbre di grasso, una libbra di cacio e della corteccia di alloro, quando avrai impastato e dato la giusta forma, cuoci sopra foglie di lauro”.Un’altra più compiuta citazione della antica presenza di questo dolce l’abbiamo in Campania, da parte del Bartolomeo Scappi, cuoco personale di Pio V, nel il suo “Pranzo Alli XVIII Di Ottobre”, del 1570.

Paste di Meliga

Le paste di meliga sono dei biscotti preparati con una miscela di farina di mais e di farina bianca, uova, zucchero e burro, dalla superficie rugosa e di solito vagamente striata, a forma rotonda, o di mezza luna, di “S”, di bastoncino o a seconda degli usi locali. Hanno colore dorato e sono molto friabili e croccanti.

Territorio interessato alla produzione: Le paste di meliga si producono in quasi tutto il Piemonte, ma la tradizione associa alle paste di meliga il monregalese, soprattutto Pamparato e Vicoforte Mondovì, le vallate cuneesi in generale e la zona di Barge in particolare. Sono molto diffuse, con piccole variazioni compositive e di forma, anche nelle Valli di Lanzo, in Canavese e nel Biellese.

Cenni storici e curiositàLe paste di meliga hanno una ricetta antica che si perde nel tempo. Le prime tracce delle paste di meligasi trovano nel “Confetturiere piemontese” del 1790 in cui compaiono con il nome di michette di meliga.La tradizione di Barge, in provincia di Cuneo, vuole l’origine almeno al 1850, ed è una famiglia da allora produttrice, di generazione in generazione, che porta la testimonianza diretta della storia di queste paste.Proprio questa famiglia ricevette nel 1934, in occasione della tradizionale festa locale detta “ottobrata bargese”, il “Diploma di Medaglia d’Oro”, per la produzione delle batiaje.

Quaquare di Genola

Le quaquare di Genola sono dei biscotti di farina bianca, dalla superficie rugosa, costituiti da unbastoncino di pasta ripiegato a forma di goccia, o secondo alcuni a forma di cuore.La forma dovrebbe ricordare il dorso di un maggiolino, o “quaquara” in dialetto, coleottero molto diffuso nel mese di maggio nelle campagne cuneesi.

Territorio interessato alla produzione: Le quaquare di Genola sono prodotte nel comune di Genola (CN) e nei paesi limitrofi.

Cenni storici e curiositàLa storia delle quaquare e della ricetta si tramanda da generazioni con il passaparola, ed è sicuramente legata al culto di S.Marziano, patrono del paese.

Bonet

Il bonet è un dolce tecnicamente simile ad un budino. La base della ricetta prevede sempre la presenza di uova e latte che rapprendono durante la cottura.Si prepara in stampi rettangolari da circa 1-1,5 kg, le dimensioni finali del dolce sono circa 12x8x25 cm.È comunemente preparato anche in stampi monoporzione o multiporzione con forme di fantasia;tradizionalmente infatti, lo stampo tronco-piramidale ricordava il tipico cappello piemontese da cui deriva il nome del dolce stesso.

Territorio interessato alla produzione: Il bonet è prodotto sull’intero territorio piemontese.

Cenni storici e curiositàL’etimo del nome è evidente: si rifà al termine bonet, che in piemontese significa berretto.Il nome bonet significa anche attrezzo da cucina di forma congruente al nome.

Panna cotta

La panna cotta, dolce al cucchiaio avente una consistenza simile a un budino, appartiene a tutta latradizione piemontese, ma la sua diffusione maggiore e capillare appartiene alla Langa. Classicamente è di colore bianco, di consistenza cremosa e soffice. Normalmente è servita leggermente irrorata con zucchero caramellato. Non è infrequente trovarla accompagnata da salse leggermente acide a base di frutta, soprattutto frutti di bosco.

Territorio interessato alla produzione: La panna cotta è prodotta sull’intero territorio piemontese, ma è originaria della Langa.

Cenni storici e curiositàSembra che la panna cotta sia stata “portata”, come ricetta, da una signora ungherese in Langa, dove, vista la facile reperibilità della panna, ha trovato fertile terreno di diffusione in tutto il Piemonte.Si fa notare, per inciso, che in piemontese non esiste un termine specifico per la “panna”, che è sempre stata chiamata “fiore del latte”, con una crasi dei termini fiore e affioramento, molto comuni nel passaggio dal lessico tecnico a quello popolare.Questo starebbe a testimoniare la recente introduzione del dolce nella tradizione piemontese, ed una origine non territoriale.

Baci di Cherasco

CARATTERISTICHE: I Baci di Cherasco sono confetti di cioccolato fondente con nocciole (varietà Tonda Gentile delle Langhe) tostate e frammentate, e burro di cacao. Le metodiche di lavorazione sono rigorosamente artigianali. Il prodotto viene conservato senza particolari accorgimenti, anche se la conservazione è più difficoltosa nella stagione calda.

ZONA DI PRODUZIONE: I Baci di Cherasco vengono prodotti in laboratori artigianali di pasticceria a Cherasco.

NOTE: La produzione dei Baci di Cherasco risale a parecchie decine di anni fa ed è stata documentata dastudi storici locali.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Caramelle classiche dure

Le caramelle classiche dure si distinguono dalle comuni pastiglie di zucchero perché il processo di produzione è un processo “acaldo”, in cui lo zucchero è portato ad alta temperatura e formato in stampi di varie fogge e disegni.Oltre allo zucchero, tra gli ingredienti, troviamo il glucosio, miscelato con lo zucchero per evitarne la cristallizzazione, e essenze varie, succhi, addirittura marmellate e aromi, quando non paste di frutta.

Territorio interessato alla produzione: Le caramelle classiche dure sono prodotte in Piemonte.

Cenni storici e curiositàDa sempre, si dice “Caramelle di Torino” per indicare un prodotto derivante dall’esperienza nella quale si sono confrontate più generazioni.Una prima sorta di caramella (in verità, forse, dei bastoncini di zucchero di canna) fu importata dalla Siria da Goffredo di Buglione, all’epoca della prima Crociata (1097–1099), ma la sua vera origine è riconducibile alla diffusione dello zucchero comune, ottenuto dalla lavorazione industriale della barbabietola e, conseguentemente, alla scoperta ed alla produzione di confetti, di tondini di zucchero aromatizzati e delle pasticche di orzo per “mollificare la tosse”. Le prime “caramelle” furono confezionate da un confettiere piemontese con “sucher d’ördi” (zucchero d’orzo).I prodotti della confetteria erano, un tempo, consumati solo dai componenti di case reali e da nobili famiglie aristocratiche. La commercializzazione di questi prodotti incominciò solo nella seconda metà dell’800, le piccole botteghe confettiere si ingrandirono fino a diventare vere e proprie industrie e la città di Torino incominciò ad essere conosciuta per la produzione di pastiglie e di caramelle di qualità.Tra l’800 ed il ‘900 si pensò di “vestire” le caramelle, sia per proteggerle che per abbellirle.Le caramelle classiche dure conquistarono tutti i mercati e poterono fregiarsi, essendo consumate dalla casa reale, di stemmi, medaglie e nodi di Savoia, simboli grafici di un successo tradizionale.

Cioccolatini torinesi

I Cioccolatini Torinesi sono presenti e lavorati su tutto il territorio piemontese e, sulla base dellatradizione pasticcera torinese, la grande fantasia dei maestri cioccolatai fa sì che vengano continuamente riproposti in gusti e formati sempre nuovi.Si può però tentare di classificare i prodotti tradizionali per macrocategorie, quali:- Cremini- Cioccolatini ripieni- Cioccolatini al liquoreQuesta classificazione si riferisce soprattutto alla forma dei cioccolatini ed al tipo di ripieno.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione, originaria di Torino, è allargata a tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàAnche se la lavorazione del cioccolato data dal 1700, allora non si produceva il cioccolato come lo si conosce adesso. In quel tempo i “cicôlatè” miscelavano cacao, zucchero e aromi ottenendo forme grossolane di pani o salami di cioccolato, chiamati “pan” e “rolò”. Questi col tempo diventano sempre più raffinati, fino a evolvere nei celebri “diablotin ‘d cicôlata”, ovvero dei pezzetti di cioccolato, sovente aromatizzato, da consumarsi in un sol boccone. Di quei primi “cioccolatini”, battezzati appunto “diablotin”, abbiamo una definizione precisa di V. di Sant’Albino: ” pezzetti di cioccolata in figura di rotella piana, girella, troncisco di cioccolato che si mangia crudo”.Si sostiene che l’origine del termine “diablotin” sia da attribuire addirittura a Cagliostro (1743-1795), uso a preparare pasticche con virtù particolari per i suoi pazienti.La ricetta dei “diablotin” compare ufficialmente sul “Confetturiere Piemontese” nel 1790.Dall’inizio dell’800, poi, il ruolo di Torino nell’evoluzione della tecnica di lavorazione del cioccolato assume un’importanza che si ripercuoterà in tutta Europa, Svizzera compresa.Si passa infatti da un cioccolato ottenuto faticosamente con lunghe lavorazioni manuali a un cioccolato raffinato morbido e piacevole, ottenuto dalla prolungata lavorazione meccanica, e con un processo controllato. La prima macchina per la lavorazione del cioccolato è stata inventata in Olanda nel 1828, anno che segna l’inizio della era moderna del cioccolato. A Torino queste macchine compaiono grazie all’intraprendenza dei pionieri del cioccolato, e la forza motrice per la lavorazione era data dall’acqua dei canali di Torino, primo fra tutti quello della Pellerina.Si abbandona quindi il “diablotin” per passare al “givu”, in dialetto “cicca, pezzetto” che diventano i capostipiti di tutti i cioccolatini a venire.

Cioccolatino cremino

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E TECNICHE DI PRODUZIONE, CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI: IL “Cremino” è un cioccolatino costituito da due strati di cioccolato gianduia inframmezzati da una pasta di cioccolato contenente nocciole, caffè o limone. Oltre le selezionatissime materie prime del cioccolato, si utilizzano pasta di nocciole del Piemonte (Tonda Gentile delle Langhe), pasta di caffè ed estratto di limone di Sicilia.
Il prodotto è incartato in alluminio ed avvolto con una fascetta di carta.

ZONA DI PRODUZIONE: Il “Cioccolatino Cremino” è prodotto in Piemonte.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE E L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO INDICATO NELLA
PRESENTE SCHEDA: Le linee di produzione sono di moderna concezione per soddisfare tutte le esigenze di igienicità, nel
rispetto delle tecnologie tradizionali consolidate.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali di produzione e di stoccaggio sono concepiti nel pieno rispetto delle attuali norme igienicosanitarie e climatizzati alle opportune condizioni di temperatura e di umidità relativa.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE TECNICHE DI PRODUZIONE SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI: Nel 1858, Ferdinando Baratti, che già nel 1853 lavorava come cameriere in uno dei più importanti
caffè di Ivrea ed era così svelto da essere soprannominato familiarmente dagli avventori “friciulin”, conobbe a Torino Edoardo Milano e, insieme, decisero di aprire una confetterie-liquoreria in Via Dora Grossa.
I due amici, grazie al patrimonio ricevuto da Edoardo Milano in dote dalla moglie, dopo aver acquistato macchinari più moderni ed aver studiato nuove ricette, iniziarono la produzione di prodotti che sarebbero stati legati alla storia del Piemonte, tra i quali si annoverano i “Cioccolatini Cremini”.
Sull’onda dei successi ottenuti, nel 1875 fu inaugurato a Torino, in Piazza Castello, il salone pubblico di gusto tardo liberty tutt’ora esistente.
I primi documenti ufficiali attestanti la produzione dei cremini risalgono, tuttavia, al 1934.

Bibliografia:
– Mario Marsero, Dolci Delizie Subalpine, Lindau, 1995.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Giandujotto

Il giandujotto è un cioccolatino a forma di spicchio allungato o, secondo altra interpretazione, di barchetta rovesciata; sicuramente la forma è inconfondibile, e deriva da un antico metodo di lavorazione manuale.Il giandujotto è composto di cioccolato e di una parte rilevante di pasta di nocciole, il che lo rendeprofumatissimo.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione è allargata ormai a tutto il Piemonte, ma Torino e provincia comprendono almeno il 90% della produzione totale di giandujotti.

Cenni storici e curiositàIl vero inventore del cioccolato “gianduja” fu Michele Prochet, cioccolatiere a Torino, che già nel 1852 lo produceva. Solo nel 1865 sono stati prodotti e messi in commercio i primi giandujotti.La consacrazione del nome è avvenuta ufficialmente nel 1869 ad opera direttamente di Gianduja, re del carnevale torinese. La maschera, che durante il carnevale era investita di una specie di grottesca e benevola autorità di governo sulla città, dopo aver platealmente assaggiato i già famosi cioccolatini, rilasciò una “pergamena economica” a Monsù Caffarel Prochet Gay in cui si attesta “lippis et tonsoribus a sia notori che chiel a l’a ben merità a la nosta fera fantastica del 1869”.Il legame con la maschera torinese non si ferma qui: secondo un celebre burattinaio del tempo, la forma del giandujotto evocherebbe l’ala del tricorno di Gianduja, ma soprattutto colpì all’epoca il fatto che questo “moderno” cioccolatino fosse incartato, primo tra tutti i futuri epigoni, con regale carta dorata.

Torrone di nocciole

Si presenta come una massa compatta, biancastra, con in grande evidenza le nocciole, incastonate nella dolce matrice zuccherina. È venduto a blocchi a volte anche molto grandi, oppure in barre rettangolari racchiuse da una sottile ostia.Abbastanza recentemente, rispetto alla storia secolare del torrone di nocciole, si produce in una versione cosiddetta “morbida”, che si distingue da quella “friabile” più classica.

Territorio interessato alla produzione: Il torrone di nocciole si produce ad Asti e nelle zone limitrofe, dove prende il nome di Torrone d’Asti. Si produce poi nell’area albese delle Langhe e del Roero (CN), ma anche in numerosi opifici disseminati in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàNella Historia Naturalis, Plinio il Vecchio cita un dolce fatto dai Taurini, la popolazione che abitava anticamente il Piemonte, e chiamato “aquicelus”: “in melle decoctos nucleos (pineos) Taurini aquicelos vocant”. Possiamo considerarlo l’antenato del torrone, fatto con i pinoli ed il miele.Nell’astigiano il torrone venne introdotto nella prima metà del ‘400 dai cuochi della famiglia Visconti, nobili milanesi, signori di Asti, che intrattenevano rapporti commerciali con i banchieri delle case astigiane.

Ciciu d’capdan

Il Ciciu ’d Capdan, letteralmente il “pupazzo di capodanno” è un dolce povero tradizionale, fatto ingenere con pasta di pane dolce e foggiato con forma di pupazzo.Come dice il nome si tratta di un prodotto da ricorrenza, diffuso in tutto il periodo natalizio, da novembre fino all’epifania.

Territorio interessato alla produzione: Il Ciciu ’d Capdan si produce a Busca, nel Saluzzese, e anche in alcuni paesi della zona. Con altri nomi si produce in Valle Stura e nel cuneese in genere.

Cenni storici e curiositàNon sono lontani i tempi in cui a Pasqua si regalavano dolci come ciambelle e “cichou” (pagliaccetti, pupazzi in occitano). Figure stilizzate di bimbi o animali, fatte con l’impasto del pane addolcito con zucchero o miele.È però nelle feste di Natale che il dono del dolce diventa quasi un obbligo, tanto che i bambini si sentivano autorizzati a girare per le borgate per richiedere una strenna.In tutto il Piemonte permane la tradizione, ormai un po’ residuale, di impastare dolci con fattezze umane o di animali.La differenza tra le varie tradizioni è sostanzialmente che per il Ciciu ’d Capdan di Busca il prodotto è regalato dai padrini ai figliocci, e, nonostante il nome, il dono è fatto il giorno dell’epifania; inoltre l’impasto non è semplicemente a base di pasta di pane, ma è più ricco e preparato per l’occasione.La consuetudine qui è ancora parecchio sentita, ed è comune che durante le feste si ordini al panettiere il “ciciu”.Si produce così un po’ ovunque nelle vallate cuneesi con varianti di foggia e di nome: si chiama “Pritin” nella Valle Stura, e se assume forma di tortora o di gallo si può chiamare “Colomb” o “galet”.

Cöpete o coppette di S. Antonio

Le cöpete sono dei semplici e gustosi dolci composti da due ostie tra le quali è deposto un compostodenso e colloso fatto di miele parzialmente caramellato grossolanamente impastato con frutta seccasbriciolata, in genere noci, ma sovente anche nocciole.

Territorio interessato alla produzione: Le cöpete sono prodotte a Dogliani (CN) e nel Monregalese (CN), mentre le coppette di S. Antonio sono caratteristiche di Tortona (AL) e dintorni.

Cenni storici e curiositàQuesta specialità ha origini antichissime, e la cosa si comprende per via della semplice preparazione e per gli ingredienti di facile reperibilità anche in tempi remoti.Praticamente in tutta Italia, distribuita casualmente, la cöpeta compare come dolce di ricorrenza.

Fugassa d’la befana

La fugassa ‘d la Befana è un prodotto tipico di molte zone del Piemonte, e in particolare della provincia di Cuneo. È un dolce povero tradizionale fatto in genere con pasta di pane dolce che si può presentare in diverse forme, ma la più comune è quella rotonda a spicchi più o meno marcati, come i petali di una margherita.

Territorio interessato alla produzione: La fugassa ‘d la Befana viene prodotta nella provincia di Cuneo e in altre zone del Piemonte.

Cenni storici e curiositàIl termine Epifania è associato tradizionalmente al manifestarsi (epifania significa infatti apparizione dal di sopra) della divinità di Gesù al mondo intero, simboleggiato dai Re Magi; ma una festa simile, ovviamente legata alla tradizione pagana, era celebrata già nella Roma antica.Infatti, ai Saturnali, festeggiamenti legati al culto del dio Saturno e che cadevano all’inizio del nostro gennaio, seguivano i Compitali, feste dedicate agli dei custodi delle strade, e che i romani festeggiavano adornando le cappelle votive dei Lari che si trovavano, appunto, agli incroci delle strade.Ogni famiglia faceva capo ad una di queste cappelle e contribuiva alla celebrazione della festa con un dono quale una focaccia, un po’ di cibo o un piccolo oggetto d’uso quotidiano. Possiamo fare risalire ad allora la tradizione di associare il dono di una focaccia a questo periodo dell’anno.

Marron glacé di Cuneo

I Marrons Glacés di Cuneo sono castagne che, dopo una delicata pelatura e, grazie ad un lento processo chiamato canditura, sono rese dolcissime. Le castagne così candite, sono poi ricoperte di una glassa zuccherina, che diventa traslucida dopo un rapido passaggio in forno.Le varietà di castagne utilizzate sono in genere “marrone”, “marrubia”, “garrone rosso e nero”, tipici della provincia di Cuneo.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione comprende tutti i comuni della provincia di Cuneo.

Cenni storici e curiositàDei marrons glacés si hanno notizie più o meno certe a partire dal XVI secolo. È pur vero che la primogenitura è tuttora contesa tra la Francia e l’Italia: da parte italiana sembra che l’invenzione debba essere attribuita a un cuoco di corte del Duca di Savoia Carlo Emanuele I, da parte francese si cita come inventore François Pierre La Varenne, celebre cuoco che avrebbe praticato l’arte del marron glacé, scrivendone nel “Le Parfait Confiturier” del 1667.In effetti la prima citazione del marron glacés come prodotto piemontese avviene solo nel 1790 sul “Confetturiere Piemontese”.La fama dei marroni di Cuneo, tra gli altri riferimenti, è citata testualmente sul “Pasticcere e confetturiere moderno” del 1907, di G. Ciocca.Nel periodo in cui le produzioni diventano più grandi, e quando la richiesta di questi prodotti, molto ricchi soprattutto per la lunga lavorazione artigianale, si fa enorme, vediamo citata sulla guida Touring del 1931 la città di Chiusa Pesio, vicino a Cuneo, come: “forte esportatore di marroni per la fabbricazione dei marrons glacés”.

Pane dolce di meliga e mele

Il pane dolce di meliga e mele si presenta come una pagnottina tondeggiante, dorata e profumata ed un sapore leggermente amaro.È una specie di pane dolce, ma la presenza della farina di mais, dell’uva passa e delle mele lo rende molto particolare nel panorama dei dolci piemontesi; se si aggiunge la presenza di un pizzico di semi di finocchio che insaporisce il tutto, otteniamo un gusto antico, rurale e complesso.

Territorio interessato alla produzione: Il pane dolce di meliga e mele è tradizionalmente prodotto nel comune di Villar Focchiardo (Torino).

Cenni storici e curiositàLa ricetta è tramandata oralmente di generazione in generazione. Gli anziani del paese di Villar Focchiardo, infatti, ricordano di averla ricevuta dai loro avi e di averla trasmessa ai loro discendenti.L’abbandono delle coltivazione di mais a ciclo breve ed il cambiamento dei gusti alimentari delle popolazioni della Val di Susa avvenuti, come altrove, soprattutto negli ultimi anni, hanno relegato il pane dolce di meliga e mele a un consumo unicamente casalingo.

Panettone basso glassato alle nocciole

La forma del panettone basso glassato piemontese è quella di una cupola, circolare, contenuta in uncilindro di carta da forno bruna detta “pirottino”. Si serve a fette dopo aver tolto il pirottino, e si consuma tal quale accompagnato da un bicchiere di moscato dolce o da vino passito, o con zabaione, o panna montata, oppure, “passate le feste”, inzuppato nel latte della colazione. Prodotto versatile, quindi, ma rigorosamente abbinato alle feste natalizie. Infatti si può considerare il prodotto di ricorrenza più comune.La preparazione del panettone è disciplinata da norme specifiche, le quali consentono l’aggiunta della glassatura caratteristica del panettone piemontese.

Territorio interessato alla produzione: Si produce in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàNel 1876, nell’appendice al “Vocabolario Italiano Della Lingua Parlata” di Giuseppe Rigutini si definisce il panettone con la postilla”lo fanno bene a Milano”. La prima codifica di un impasto in tre fasi compare soltanto nel “Re Dei Cuochi” di Giovanni Nelli, 1868.Queste, ed altre possibili citazioni, ad attestare la antica origine del panettone, e soprattutto della sua origine lombarda.Il Piemonte è un interprete importante della produzione di questo dolce, e l’attitudine alla conservazione delle tradizioni contribuisce a mantenere, ancora oggi, la ricetta e la metodica produttiva nei canali della tradizionalità e dell’uso del lievito madre come ingrediente principale del prodotto.Ma l’origine del panettone basso glassato piemontese data al 1922, rivendicata della azienda Pinerolese Pietro Ferrua, che su involontario suggerimento di un amico artista, subito recepito dalla moglie Regina, lo chiama “galup”, che in piemontese significa “goloso”. Questo diventerà poi il nome della azienda di famiglia.

Pastiglie di zucchero

Le pastiglie di zucchero sono dolci di zucchero aromatizzato e colorato, dure ma friabili allamasticazione, e che si preferisce succhiare lentamente, lasciandole sciogliere in bocca, in modo cherilascino la componente aromatica lentamente.I gusti e le fogge in cui si trovano questi antichi dolci sono moltissimi, anche se meno vari di quelli delle caramelle.Si differenziano dalle caramelle perché il processo produttivo avviene a freddo, e il calore è usato solo per “asciugare” il prodotto finito nella fase finale.

Territorio interessato alla produzione: Le pastiglie di zucchero sono prodotte in Piemonte, soprattutto nel torinese e nell’alessandrino.

Cenni storici e curiositàGià nel “confetturiere piemontese”, stampato nel 1790, è presente una ricetta ancora attuale per produrre pastiglie, che in questo caso sono alla cannella.Le pastiglie di zucchero, così come le caramelle e i confetti, per tutto l’800 sono una prerogativa dei benestanti, della buona società e persino dei membri del Parlamento: le pastiglie gommose “Senateur”, al sapore di liquerizia, furono inventate da un pasticcere di Alba per i senatori del Regno, che ne facevano largo uso per sciogliere l’eloquio. Questo pasticcere si trasferì poi a Torino alla fine nel 1880, dove sorse la più famosa delle fabbriche di pastiglie; le fabbriche più antiche, e le intuizioni più geniali, punteggiano però tutto il Piemonte.

Bagna Càuda

La Bagna Càuda (Salsa Calda) è un condimento tradizionale piemontese. Per la preparazioneoccorrono (ingredienti per 4 persone): 40 g di burro, 250 g di olio extravergine di oliva, 200 g diaglio, 200 g di acciughe sotto sale.

Territorio interessato alla produzione: La Bagna Càuda è un condimento tradizionale del Piemonte.

Cenni storici e curiositàSi narra che, i vignaioli, nel tardo Medioevo, desiderassero un piatto insolito per festeggiare la spillatura del vino nuovo, che segnava la messa al sicuro del raccolto più travagliato, più faticato e più insidiato: il vino.Pare che si volesse anche, con una certa polemica sociale, adottare e valorizzare un piatto festivo rustico e popolare, saporito e forte, da contrapporre ai consueti, magri e snervati arrostini glassati di zucchero e profumati di essenza di rose e di viole dei signori.Fu scelto, così, di appaiare materie prime largamente diffuse e localmente disponibili: i buoni ortaggi piemontesi ed il prezioso aglio (prescritto dagli Statuti Medioevali e dai Bandi Campestri come coltura obbligatoria per ogni coltivatore proprietario), l’acciuga salata in barili, che cominciava ad arrivare capillarmente ad ogni borgo e ad ogni collina grazie agli Acciugai ambulanti occitani della Val Maira e l’olio di oliva, scarsamente prodotto in Piemonte (che pure a quel tempo prima delle grandi variazioni climatiche aveva ulivi) e, per la maggior parte, importato dalla vicina Liguria in cambio di grano, burro e formaggio.Così, la Bagna Càuda divenne un piatto della stagione fredda anche perché la temperatura rigida se non, addirittura, il gelo, era ed è un requisito necessario alla tenerezza perfetta delle verdure da intingere, specie dei cardi.

Erbe officinali della Valle Grana

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE
CONSOLIDATE NEL TEMPO: Le principali specie di erbe officinali coltivate nella Valle Grana sono: la lavanda, il lavandino, la menta piperita, il timo e la maggiorana.
La produzione, che si ottiene dalle superfici investite ad erbe officinali, viene destinata quasi interamente a laboratori artigianali dislocati nella Valle Grana. Vengono utilizzate, essenzialmente, come essenze secche oppure per l’estrazione dei principi attivi; questi ultimi trovano impiego nella fitocosmesi e nella medicina omeopatica e non.
La tecnica colturale è molto variabile a seconda della specie.
Le piante officinali sono sempre state coltivate sui pendii e terreni maggiormente esposti e dove non sempre è possibile l’irrigazione.
Generalmente, per la maggior parte delle specie sopra elencate, si procede con una aratura di profondità eseguita, in genere, in autunno per poter trapiantare o seminare in primavera. Si fa sempre ricorso alla sostanza organica che viene interrata al momento della lavorazione principale. La concimazione chimica è limitata ai casi in cui la coltura presenti particolari carenze nutrizionali.
Riguardo al problema delle infestanti, diverse specie officinali presentano, nei confronti delle malerbe, una notevole capacità competitiva altre, invece, devono essere difese. La difesa in Valle Grana è effettuata quasi esclusivamente attraverso lavorazioni meccaniche (sarchiature, zappature, ecc.). La conduzione in modo non chimico di quest’ultima pratica agricola permette di ottenere un prodotto finale completamente esente da residui tossici.
I produttori della Valle Grana sono molto attenti al momento della raccolta, fase importantissima nel settore delle erbe officinali in quanto la scelta del momento è un fattore condizionante la percentuale di principi attivi e la loro composizione.
Le erbe officinali della Valle Grana, subito dopo la raccolta, subiscono una rapida essiccazione che permette un blocco degli enzimi, quindi, la fissazione dei diversi principi e, successivamente, vengono conferite agli utilizzatori. Questo è un aspetto importantissimo in quanto l’essiccazione e la conservazione del prodotto appena raccolto è determinante, così come il momento della raccolta, al fine di non incorrere in alterazioni chimiche dei principi attivi. I due principali fattori che intervengono in questa fase sono la temperatura e la durata.
Sicuramente le varie operazioni colturali (trapianto, eliminazione malerbe e raccolta) richiedono ancora moltissima manodopera in quanto i terreni, a causa la loro pendenza e conformazione, sono difficilmente meccanizzabili.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di produzione delle erbe officinali in oggetto comprende tutti i comuni della Valle Grana
(CN).

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO
INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Il tipo di prodotto non richiede l’utilizzo di attrezzature e materiali specifici. Le piante officinali, dopo la raccolta, vengono dagli stessi montanari poste ad essiccare su apposite strutture nelle loro abitazioni di alta montagna.
Le erbe officinali vengono trasportati in sacchi di juta ai laboratori artigianali dislocati nella Valle Grana.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: Poiché le erbe officinali della Valle Grana appena raccolte vengono conferite agli utilizzatori, non si segnalano particolari locali per la conservazione.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Sono ormai alcuni anni che a tutti i livelli, dagli erboristi ai tecnici ed agli enti pubblici, si sente parlare della necessità di coltivare piante officinali.
Sicuramente, sono innumerevoli i motivi che hanno portato a riprendere in considerazione un’attività che, fino ad alcuni decenni fa, riusciva a coprire il fabbisogno nazionale.
Certamente, le condizioni economiche e di mercato di allora erano diverse da quelle attuali.
L’impiego ed il costo della manodopera non erano fattori limitanti ed esisteva una rete di esperti erboristi provinciali su tutto il territorio nazionale che svolgevano funzioni tecniche anche in merito alla coltivazione ed alla raccolta.
Il mercato odierno, a fronte di un sempre crescente consumo di derivati di piante officinali, si rivolge prevalentemente al prodotto estero, che viene acquistato a prezzi concorrenziali, con la garanzia di costanti e ingenti forniture. Per contro, i prodotti dell’importazione non sempre sono di ottima qualità.
Alla luce di questi timori non solo da parte del consumatore ma anche di alcune ditte trasformatrici ed utilizzatrici, sta crescendo la sensibilità e l’esigenza di disporre di prodotti di alta qualità, esenti da residui tossici, senza impurità e con la massima presenza di principi attivi.
Al riguardo, attualmente, nella Valle Grana la coltivazione di erbe officinali riveste ancora una certa importanza, anche se la produzione è sensibilmente diminuita rispetto al passato per le considerazioni precedentemente esposte.
L’antica tradizione di coltivazione, supportata anche da una assistenza tecnica specializzata garantita da agronomi e periti esperti in tecnica colturale e patologie vegetali, permette di immettere sul mercato prodotti di elevato livello qualitativo.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Olio essenziale di menta piperita Piemonte o Pancalieri Piemonte

L’olio essenziale greggio di menta piperita è ottenuto dalla distillazione in corrente di vaporeRegione Piemonte – Settore “Tutela della qualità dei prodotti agroalimentari”dell’erba verde in pianta intera proveniente dalla coltivazione della Menta Piperita nera (Black Mint), corrispondente alla specie botanica Menta Piperita varietà Officinalis sole, forma Rubenscens, Camus, nota come Menta di Mitcham (località del Surrey, Inghilterra), in omaggio alla zona inglese dove se ne iniziarono le prime coltivazioni.

Territorio interessato alla produzione: Le zone vocate sono l’area ristretta lungo il Po e i suoi affluenti (Pellice, Varaita, Macra), compresa tra Carignano e Villafranca Piemonte con centro in Pancalieri (To), comprendente comuni della Provincia di Torino e di Cuneo.

Cenni storici e curiositàLa Menta Piperita nera venne introdotta in Italia nel 1903 da Honorè Carles, associatosi nel 1901 a Giovanni Varino fondatore della omonima distilleria di Pancalieri nel 1870. Dal 1908 questa specie botanica si diffuse velocemente sia per le rese in campo, remunerative per gli agricoltori, sia per le rese in essenza, remunerative per i distillatori.Notizie sulla coltivazione delle mente in Piemonte risalgano al XVIII secolo, come riportato dalla “Iconographia Taurinensis”, conservata nella biblioteca dell’Orto Botanico di Torino, ora Dipartimento di Biologia Vegetale della Facoltà di Agraria dell’Università degli Studi di Torino.Negli anni ’20, numerose distillerie di menta sorsero nel Pancalierese.Dal dopoguerra ad oggi, la coltivazione di menta rimane vincolata alla zona del Pancalierese, ampliandosi o contraendosi secondo il trend di mercato dell’olio essenziale, con il particolare della graduale acquisizione, da parte dell’azienda agricola, del mezzo strumentale (alambicco) necessario per effettuare in proprio l’operazione di distillazione. Ciò naturalmente consente di affermare che, anche se delle distillerie avanti citate, al giorno d’oggi ne rimangono poche, il prodotto, vale a dire l’olio essenziale greggio di menta piperita, continua ad essere presente sul mercato per le sue inconfondibili eccellenti caratteristiche.

Burro di montagna

Il burro di montagna è un prodotto lattiero-caseario ottenuto dalla crema (o panna) del latte di vacca, separata per scrematura o affioramento del latte o per scrematura del siero di caseificazione. La particolarità del burro di montagna, è quella di essere ottenuto con crema di latte di vacche alimentate con pascolo alpino, ricco di molte essenze erbacee e floricole.

Territorio interessato alla produzione: L’intero arco alpino del Piemonte, relativamente alle aziende agricole con vendita diretta al consumatore.

Cenni storici e curiositàIl burro di montagna, da sempre, è stato considerato migliore rispetto al burro prodotto nelle cascine di pianura, tant’è che basta scorrere le lettere camerali piuttosto che l’elenco delle gabelle pagate sui prodotti commercializzati sui mercati piemontesi per averne la conferma. Vedasi per esempio la lettera della Camera Ducale pubblicata in Torino nel 1627 dove la tassa sul “Butirro delle Alpi di Lanzo e altre” era superiore rispetto a quella su altri tipi di burro perché il prezzo di mercato del burro era maggiore.

Genepy

Il liquore Genepy è ottenuto dalla macerazione in alcool di artemisie alpine, essenzialmenteArtemisia Mutellina (genepy maschio), Artemisia Glacialis (genepy femmina) e specie affini; essopresenta una gradazione alcolica da 30 a 42 % vol.

Territorio interessato alla produzione: Il Genepy è un liquore prodotto in quasi tutte le zone montane del Piemonte e della Valle d’Aosta dove cresce l’Artemisia.

Cenni storici e curiositàIn Piemonte la coltivazione del Genepy è iniziata, negli anni ’60, nelle valli delle Province di Cuneo e di Torino. Nei liquorifici, i metodi di lavorazione sono sempre quelli che già erano in uso quando si lavorava soltanto con il Genepy spontaneo.Vi sono documenti sulla produzione del Genepy in Valle di Susa, sin dal 1755.Giovanni Stefano Pin è stato, infatti, il primo a metà del ‘700 a introdurre in Val Chisone la distillazione e l’alambicco. Egli esercitava la professione di notaio, ma nei momenti liberi si dedicava alla raccolta e alla distillazione di erbe. Suo figlio Stefano Giuseppe approfittando delle prove e degli studi del padre, si dedicò alla distillazione.La prima distilleria fu fondata nel 1823 a Fenestrelle, località delle Alpi Cozie a 1150 m sul livello del mare, dal nipote Stefano Pin che si specializzò nella fabbricazione di liquori alpestri ottenuti mediante infusione e distillazione di fiori, erbe aromatiche e radici alpine raccolti sui monti dell’Alta Val Chisone, e predispose un formulario originale, anch’esso datato 1823, che è utilizzato ancora oggi come metodo di lavorazione per conservare nel liquore Genepy le proprietà toniche, digestive ed eupeptiche dell’erba aromatica alpina.

Liquori di erbe alpine

I liquori di erbe alpine, segnalati, tipici della provincia di Cuneo sono: Amaro Dragonet, AmaroChiot, Saint Veran, Genzianella, Elisir di Genziana ed Erbe Alpine, Achillea Moscata,Centerbe.

Territorio interessato alla produzione: I liquori di erbe alpine in oggetto vengono prodotti in provincia di Cuneo.

Cenni storici e curiositàL’utilizzo delle specie spontanee raccolte dai montanari per produrre liquori risale, come evidenziato da ricerche storiche, all’inizio del 1900.

Vermut o Vermouth

Il vermut deve il suo nome all’assenzio (Artemisia Absinthium), che viene usato nella suapreparazione e dà a esso un’aroma ed uno speciale sapore amaro.

Territorio interessato alla produzione: Il vermut è prodotto in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa fama del vermut è indissolubilmente legata al Piemonte e a Torino, in particolare, dove, alla fine del 1700, era una vera e propria arte la preparazione di questo vino aromatico. E’ uno dei più interessanti e tipici vini aromatizzati italiani. La vecchia grafia del nome stesso era vermut (o Wermouth, o Wermuth). L’origine di questo nome non è sicura; generalmente si fa risalire al tedesco Wermuth “assenzio” (Artemisia absinthium). Si vuole che un vino di questo genere fosse già preparato nell’antichità dai Romani, sotto il nome di Absinthiatum (o Absinthianum) vinum. Il primo autore italiano che parla di questo vino è C. Villifranchi, nella sua Oenologia toscana (1773).Il primo produttore e negoziante di vermut fu Antonio Benedetto Carpano che, nel 1786, aveva il suo negozio nel cuore di Torino. Un altro famoso negozio era quello di Rovero che annoverava il re Carlo Alberto tra la sua clientela. Nel 1838, i primi a saggiare le vie dell’esportazione furono i fratelli Giuseppe e Luigi Cora. Il loro esperimento di vendita in America ebbe notevole successo, tanto che la Casa Cora si dovette ingrandire. Da questo momento, altri stabilimenti per la produzione di vermut sorsero nelle province viticole piemontesi. Molte importanti Case parteciparono del successo internazionale di questa bevanda: Bartolomeo Dettoni, Carlo Gancia, Alessandro Martini, Francesco Cinzano, Giuseppe Ballor.La presenza e la produzione di vermut nel torinese è stata documentata da studi storici locali.

Grappa con alambicco a bagnomaria piemontese

La grappa è l’unico distillato al mondo che si ottiene da una materia prima solida e palabile. Leimplicazioni che derivano da questo aspetto sono importantissime: essendo la vinaccia ciò cherimane dal processo di vinificazione (ci si riferisce alle vinificazioni in cui la vinaccia rimane acontatto con il vino); essa raduna e concentra tute le sostanze aromatiche presenti nel vino.

Territorio interessato alla produzione: La zona è il Piemonte.

Cenni storici e curiositàIl Piemonte dedica, da sempre, una grande attenzione alla distillazione della vinaccia: in tutte le epoche, nei castelli e nelle tenute agricole nobiliari ; emblematico il caso del Conte di Cavour che da Grinzane si faceva spedire i campioni della grappa prodotta per accertarne personalmente la qualità. All’epoca si chiamava “branda” e, ancora, oggi in dialetto, si fa fatica a pronunciare il neologismo giunto dall’Italia orientale.Gli alambicchi a bagnomaria sono coevi di quelli a fuoco diretto e simbolo dell’antica distillazione gentilizia; differiscono da quelli a fuoco diretto in quanto hanno una doppia caldaia dotata di un’intercapedine nella quale l’acqua, messa in ebollizione da un fuoco di legna o da una fiamma alimentata a gas o, in alternativa, del vapore prodotto da una centrale indipendente che fornisce un manto di calore che fa dolcemente evaporare gli umori della vinaccia. Questi confluiscono, poi, normalmente, in una colonna a piatti di piccole e medie dimensioni e, concentrati, vengono, quindi, liquefatti e trasformati in acquavite. Sono naturalmente alambicchi discontinui la cui cotta dura tra le due e le sei ore e, difficilmente, esistono caldaie che superano i dodici ettolitri di capacità. Da un’indagine effettuata, si è potuto evidenziare che almeno 40 alambicchi a bagnomaria hanno operato ancora in una delle ultime vendemmie, di questi 38 sono bagnomaria di stile trentino mentre due sono bagnomaria di stile piemontese.La differenza tra le due sottocategorie è data dalla diversa geometria della caldaia e nel modo in cui la vinaccia viene posta in essa: in quelli di stile trentino viene messa alla rinfusa insieme ad una certa quantità di acqua (sempre che non risulti grondante di vino ), mentre negli altri è disposta su cestelli forati, di rame, in caldaie troncoconiche di capacità generalmente non superiore ai 300 chili di materia prima.

Roero DOCG

Zona di produzione: il territorio collinare di 20 comuni intorno ad Alba, in provincia di Cuneo. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti e di natura preminentemente siliceo-argillosa.

Vitigni: Nebbiolo con aggiunte di Arneis (dal 2 al 5%). Possono concorrere uve di vitigni raccomandati per la provincia di Cuneo fino ad un massimo del 3%.

Resa massima per ha: 80 q.li.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 20 per mille.

Invecchiamento: 8 mesi.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino piu’ o meno intenso, con riflessi granata nell’invecchiamento; profumo delicato, fragrante, fruttato, con l’invecchiamento etereo; sapore secco, di buon corpo, vellutato, armonico, di buona persistenza.

Qualificazioni: con una gradazione alcolica minima del 12%, puo’ portare la qualifica “Superiore”.

Abbinamenti :ottimo con la famosa fonduta, si accompagna bene con paste e risotti e con carni bianche o rosse cucinate con salse leggere.

Tipologie: Roero arneis

Langhe DOC

Zona di produzione: novantaquattro comuni in provincia di Cuneo, mentre per il Langhe Arneis l’area di produzione è di trentuno comuni della stessa provincia

Vitigni:

Gradazione alcolica minima: Favorita 10,5 gradi. Rosso e Freisa: 11 gradi.

Caratteristiche organolettiche: Langhe Doc Favorita: colore giallo paglierino con riflessi verdognoli, odore abbastanza intenso e altrettanto persistente, fruttato alla mela verde, floreale, sapore secco, poco caldo, poco morbido, fresco, abbastanza sapido, debole di corpo, abbastanza equilibrato con sensazione finale amarognola. Langhe Doc Rosso: colore rubino tendente al granato, odore caratteristico, vinoso, intenso, sapore asciutto e di buon corpo. Langhe Doc Freisa: colore rosso rubino o rosso cerasuolo, odore caratteristico e delicato, sapore amabile o secco, fresco, morbido oppure vivace.

Tipologie: Rosso, Bianco, Nebbiolo, Dolcetto, Freisa, Favorita, Chardonnay e Arneis

Abbinamenti: Favorita: antipasti di crostacei, primi piatti di pasta con sugo bianco di crostacei e verdure, risotti in bianco conditi con uova e pezzetti di prosciutto cotto, zucchine alla besciamella, pesci bolliti in salsa di maionese. Langhe Doc Bianco: uova al burro e cocktail di gamberi. Rossi: bolliti, salumi cotti e carni di vitello.

Riferimenti normativi: La Doc Langhe è stata riconosciuta con DM del 22.11.1994, pubblicato sulla GU 283 del 03.12.1994

Pinerolese DOC

Zona di produzione: i comuni di Angrogna, Bibiana, Bobbio Pellice, Bricherasio, Buriasco, Campiglione-Fenile, Cantalupa, Cavour, Cumiana, Frossasco, Garzigliana, Inverso Pinasca, Luserna San Giovanni, Lusernetta, Macello, Osasco, Pinasca, Pinerolo, Perosa Argentina, Pomaretto, Porte, Perrero, Pramollo, Prarostino, Roletto, Rorà, San Germano, Chisone, San Pietro Val Lemina, San Secondo di Pinerolo, Torre Pellice, Villar Pellice e Villar Perosa, tutti in provincia di Torino. In provincia di Cuneo comprende i comuni di Bagnolo Piemonte e Barge. Il vino Pinerolese Ramie viene prodotto nei comuni di Pomaretto e Perosa Argentina, in provincia di Torino

Vitigni: Pinerolese versioni Barbera, Bonarda, Freisa, Dolcetto e Doux d’Henry: per un minimo dell’85% dai corrispondenti vitigni. Il Pinerolese Ramie si ottiene da uve Avana per il 30%, Avarengo (15%), Neretto (20%). Le versioni Rosso e Rosato sono prodotti con uve dei vitigni Barbera, Bonarda, Nebbiolo, Neretto, da soli o congiuntamente per un minimo del 50%

Gradazione alcolica minima: 10 gradi

Caratteristiche organolettiche: Pinerolese Doc Rosso: colore rosso rubino più o meno intenso, odore intenso, caratteristico, vinoso, sapore asciutto e armonico. Pinerolese Doc Ramie colore rosso più o meno intenso, odore caratteristico, fresco, delicato, sapore asciutto e armonico. Pinerolese Doc Rosato: colore rosato o rubino chiaro, odore delicato, gradevole, vinoso; sapore asciutto e armonico.

Tipologie: Rosso, Rosato, Barbera, Bonarda, Freisa, Dolcetto, Doux d’Henry e Ramie

Abbinamenti: Rossi: salami, risotti al vino, funghi, carni di coniglio, di vitello e agnello, formaggi tipici piemontesi (Bettelmatt, Raschera, Bra, Toma piemontese). Rosato: salame cotto con le verze, minestre, risotti con i funghi, lumache.

Riferimenti normativi: La Doc Pinerolese è stata riconosciuta con Decreto del 12.09.1996, pubblicato sulla GU 227 del 27.09.1996

Piemonte DOC

Zona di produzione: 356 comuni in provincia di Asti, Cuneo e Alessandria. Aree più ristrette sono previste per le tipologie Piemonte Moscato, Piemonte Moscato passito e Piemonte Brachetto

Vitigni: I vini Piemonte versioni Barbera, Bonarda, Grignolino, Brachetto, Cortese e Chardonnay si ottengono da uve dei corrispondenti vitigni per almeno l’85%. Il Piemonte Moscato e il Piemonte Moscato passito si ottengono esclusivamente da uve Moscato bianco; il Piemonte Spumante si ottiene da uve di vitigni Chardonnay e/o Pinot bianco e/o Pinot grigio e/o Pinot nero. Le versioni Pinot bianco, Pinot grigio e Pinot nero si ottengono prevalentemente (almeno l’85%) dalle uve dei rispettivi vitigni

Gradazione alcolica minima: Piemonte Doc Spumante 10,5 gradi. Piemonte Doc Moscato 15,5 gradi. Piemonte Doc Brachetto 11 gradi

Caratteristiche organolettiche: Piemonte Doc Spumante: colore giallo paglierino, odore caratteristico e fruttato, sapore sapido e caratteristico. Piemonte Doc Moscato passito: colore giallo oro, tendente all’ambrato più o meno intenso, profumo intenso, complesso con sentore muschiato caratteristico dell’uva Moscato; il sapore è dolce, armonico, vellutato, aromatico. Piemonte Doc Brachetto: colore rosso rubino più o meno intenso, talvolta tendente al rosato. L’odore è caratteristico, con delicato aroma muschiato, il sapore delicato, più o meno dolce, talvolta frizzante.

Tipologie: Spumante, Pinot bianco, Pinot grigio, Pinot nero, Barbera, Bonarda, Grignolino, Cortese, Chardonnay, Brachetto, Moscato e Moscato passito

Abbinamenti: Brachetto, Spumante e Moscato passito si abbinano a dolci a pasta lievitata, abbastanza consistenti come pan di spagna con frutta rossa, macedonia di fragole e panna, pesche ripiene e dolci di pasta fritti.

Riferimenti normativi: La Doc Piemonte è stata riconosciuta con DM del 22.11.1994, pubblicato sulla GU 282 del 02.12.1994

Moscato d’Asti DOCG

Zona di produzione: numerosi comuni in provincia di Asti, di Cuneo e di Alessandria. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti ubicati su dossi collinari soleggiati, preferibilmente calcarei, o calcareo-argillosi, con esclusione dei vigneti ubicati su terreni di fondovalle o su terreni pianeggianti, leggeri o umidi.

Vitigni: Moscato bianco.

Resa massima per ha: 110 qli.

Resa massima di uva in vino: 75%.

Gradazione alcolica minima complessiva: 10,5%, di cui ancora da svolgere non meno di 1/3 degli zuccheri riduttori totali.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 20 per mille.

Acidita’ volatile massima: 0,7 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore paglierino o giallo dorato piu’ o meno intenso; profumo caratteristico e fragrante, tipico dell’uva moscato; sapore dolce, aromatico e caratteristico del moscato.

Qualificazioni: nessuna.

Abbinamenti :dolci, frutta e gelato

Tipologie: Asti spumante o asti

Asti DOCG

Zona di produzione: 52 Comuni nelle province di Asti, Cuneo e Alessandria.
in provincia di Asti l’intero territorio dei comuni di Bubbio, Calamandrana, Calosso, Canelli, Cassinasco, Castagnole Lanze, Castel Boglione, Castelletto Molina, Castelnuovo Belbo, Castel Rocchero, Cessole, Coazzolo, Castiglione di Asti, Fontanile, Incisa Scapaccino, Loazzolo, Maranzana, Mombarazzo, Monastero Bormida, Montabone, Nizza Monferrato, Quaranti, San Marzano, Moasca, Sessame, Vesine, Rocchetta Palafea e San Giorgio Scarampi;
in provincia di Cuneo l’intero territorio dei comuni di Camo, Castiglione Tinella, Cossano Belbo, Mango, Neive, Neviglie, Rocchetta Belbo, Serralunga d’Alba, Santo Stefano Belbo, Santa Vittoria d’Alba, Treiso, Trezzo Tinella, Castino, Perletto e le frazioni di Como e San Rocco Seno d’Elvio del comune di Alba;
in provincia di Alessandria l’intero territorio dei comuni di Acqui Terme, Alice Bel Colle, Bistagno, Cassine, Grognardo, Ricaldone, Strevi, Terzo, Visone.

Vitigni: esclusivamente Moscato bianco.

Resa massima per ha: non superiore a quintali 100, pari ad un massimo di 75 ettolitri di vino per ettaro.

Caratteristiche:
spuma: fine, persistente;
limpidezza: brillante;
colore: da paglierino a dorato assai tenue;
odore: caratteristico, spiccato, delicato;
sapore: aromatico, caratteristico, delicatamente dolce, equilibrato;
titolo alcolometrico volumico totale minimo: 12% di cui svolto compreso nei limiti dal 7% al 9,5%;
acidità’ totale minima: 5 per mille; estratto secco netto minimo: 17 per mille

Tipologie: Asti Spumante (la denominazione “Asti” comprende anche il Moscato d’Asti, riservata al vino bianco non spumante).

Note: si ottiene con il metodo della fermentazione naturale in bottiglia o in autoclave, introdotta dal gioielliere milanese Gian Battista Croce.

Abbinamenti: Aperitivo, dolci a pasta lievitata, macedonia

Età ottimale: 6-8 mesi

Colline Saluzzesi DOC

Zona di produzione: alcuni comuni della provincia di Cuneo

Vitigni: Colline Saluzzesi senza alcuna specificazione deriva da uve Pelaverga, Nebbiolo, Barbera, da soli o congiuntamente, per almeno il 60%. Possono concorrere alla produzione altri vitigni a bacca rossa non aromatici della provincia di Cuneo fino a un massimo del 40%. Le specificazioni Pelaverga o Quagliano sono riservate ai vini ottenuti esclusivamente dai corrispondenti vitigni

Gradazione alcolica minima: 10 gradi (11 per il QUagliano Spumante)

Tipologie: Rosso, Pelaverga (anche Amabile) e Quagliano (anche Spumante).

Caratteristiche organolettiche: Rosso: colore rosso rubino, odore fruttato, vinoso, intenso e caratteristico; sapore fresco, secco, fruttato intenso. Pelaverga: colore rosso tenue e profumo fine, delicato, fragrante, delicatamente fruttato con sentore di ciliegia e lampone, speziato, caratteristico, gusto secco, armonico e morbido. Pelaverga Amabile: colore rosso tenue, odore fine, delicato, fragrante, delicatamente fruttato con sentore di ciliegia e lampone, speziato, caratteristico; sapore fresco, delicato con aroma di lampone, talvolta vivace. Quagliano: colore rosso tenue e odore delicatamente vinoso con sentore di viola e con aroma gradevole e caratteristico, gusto amabile, di medio corpo, fruttato, talvolta vivace. Quagliano Amabile: colorito rosso tenue e odore delicatamente vinoso con sentore di viola e con aroma gradevole e caratteristico, gusto gradevolmente dolce, di medio corpo, fruttato, talvolta vivace. Quagliano Spumante: colore rosso tendente al violaceo, profumo delicatamente vinoso con sentore di viola, gradevolmente caratteristico, sapore dolce, di medio corpo, assai fruttato con spuma fine e persistente

Abbinamenti: Colline Saluzzesi Rosso, Pelaverga: risotti e carni bianche. Pelaverga Amabile e Quagliano Amabile (anche Spumante): crostate di frutta e dolci secchi in genere.

Riferimenti normativi: Riconoscimento della Doc “Colline Saluzzesi” con DM 14.09.96 pubblicato sulla GU 27.09.96

Barbaresco DOCG

Zona di produzione: l’intero territorio dei comuni di Barbaresco, Treiso, Neive e la parte della frazione di San Rocco Senodelvio del comune di Alba, in provincia di Cuneo. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano preminentemente argilloso-calcarei.

Vitigni: Nebbiolo delle sotto Variete’ Michet, Lampia e Rose’.

Resa massima per ha: 80 qli.

Resa massima di uva in vino: 65%.

Gradazione alcolica minima: 12,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 23 grammi per litro.

Invecchiamento obbligatorio: 2 anni, di cui almeno 1 in botti di rovere o di castagno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso granato con riflessi arancione; profumo caratteristico, etereo, gradevole ed intenso; sapore asciutto, pieno, robusto, austero ma vellutato.

Qualificazioni: qualora sia sottoposto ad un periodo di invecchiamento non inferiore a 4 anni, puo’ portare la qualifica “Riserva”.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti :con piatti di carne importanti e saporiti, cacciagione e selvaggina da pelo; in zona con il capretto arrosto, riccamente condito. Quando molto profumato si accompagna bene con formaggi stagionati, rognoncini trifolati, fegatini.

Barbera d’Alba DOC

Zona di produzione: la zona collinare di Alba in provincia di Cuneo. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano preminentemente argilloso-calcarei e calcareo-silicei. Sono esclusi dalla Doc i terreni esposti a nord ed i fondovalle semipianeggianti o pianeggianti.

Vitigni: Barbera.

Resa massima per ha: 100 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 12%.

Acidita’ totale minima: 6 per mille.

Estratto secco netto minimo: 23 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino intenso da giovane con tendenza al granato dopo l’invecchiamento; profumo vinoso, intenso e caratteristico; sapore asciutto, di corpo, di acidita’ abbastanza spiccata, leggermente tannico. Dopo adeguato invecchiamento gusto pieno ed armonico.

Qualificazioni: con una gradazione del 12,5% ed un anno di invecchiamento in botti di rovere o di castagno, puo’ portare la qualifica “Superiore”. In questo caso deve figurare, obbligatoriamente, l’indicazione documentabile dell’annata di produzione delle uve.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti :antipasti caldi piemontesi, primi piatti particolarmente saporiti, piatti di carne sia bianche che rosse, pollame e pollame nobile.

Barolo DOCG

Zona di produzione: l’intero territorio comunale di Barolo, Castiglione Falletto, Serralunga d’Alba ed in parte quello dei comuni di Monforte d’Alba, Novello, La Morra, Verduno, Grinzane Cavour, Diano d’Alba, Cherasco e Roddi ricadenti nella provincia di Cuneo. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano preminentemente argilloso-calcarei.

Vitigni: Nebbiolo delle sottovarieta’ Michet, Lampia e Rose’.

Resa massima per ha: 80 qli.

Resa massima di uva in vino: 65%.

Gradazione alcolica minima: 13%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 23 grammi per litro.

Invecchiamento obbligatorio: 3 anni, di cui almeno 2 in botti di rovere o di castagno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso granato con riflessi arancione; profumo caratteristico, intenso, gradevole, etereo; sapore asciutto, pieno, robusto, austero ma vellutato.

Qualificazioni: qualora sia sottoposto ad un invecchiamento di almeno 5 anni, puo’ portare la qualifica “Riserva”.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti : piatti di selvaggina o carni speciali, particolarmente adatto al brasato, alla lepre in civet, ai piatti tartufati; se giovane e’ consigliabile con gli antipasti piemontesi, freddi o caldi. é inoltre un vino da meditazione.

Dolcetto d’Alba DOC

Zona di produzione: le colline dell’Albese comprendenti 25 comuni in provincia di Cuneo ed il comune di Coazzolo in provincia di Asti. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano di natura argilloso-calcarea o calcareo-silicea. Sono esclusi dalla Doc i vigneti ubicati nel fondovalle.

Vitigni: Dolcetto.

Resa massima per ha: 90 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 22 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino tendente a volte al violaceo nella schiuma; profumo vinoso, gradevole, caratteristico; sapore asciutto, gradevolmente amarognolo, di moderata acidita’, di buon corpo, armonico.

Qualificazioni: con una gradazione alcolica del 12,5% ed un invecchiamento di un anno, puo’ portare la qualifica “Superiore”.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti :pollame e pollame nobile, arrosti di carni bianche, insalata di carne cruda

Dolcetto delle Langhe Monregalesi DOC

Zona di produzione: le colline a cavallo del fiume Tanaro in provincia di Cuneo e precisamente l’intero territorio dei comuni di Briaglia, Castellino, Tanaro, Igliano, Marsaglia, Niella Tanaro e parzialmente i comuni di Carru’, Mondovi’, Murazzano, Piozzo, San Michele Mondovi’ e Vicoforte. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano preminentemente argilloso-calcarei o calcareo-silicei esclusi quelli del fondovalle.

Vitigni: Dolcetto.

Resa massima per ha: 70 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11%.

Acidita’ totale minima: 5,5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 20 per mille.

Invecchiamento: nessuno.
Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino vivo; profumo vinoso, gradevole, caratteristico; sapore asciutto, gradevole, amarognolo, di moderata acidita’, di discreto corpo.

Qualificazioni: con una gradazione alcolica del 12% ed un invecchiamento di un anno, puo’ portare la qualifica “Superiore”.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti :minestre, asciutte ed in brodo, primi piatti con salse saporite; arrosti di carni bianche

Dolcetto di Diano d’Alba o Diano d’Alba DOCG

Zona di produzione: la zona collinare del comune di Diano d’Alba, in provincia di Cuneo. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti esclusi quelli di fondovalle o pianeggianti.

Vitigni: Dolcetto.

Resa massima per ha: 80 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 22 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino; profumo vinoso, gradevole e caratteristico; sapore asciutto, gradevolmente ammandorlato, di moderata acidita’, di buon corpo, armonico.

Qualificazioni: con una gradazione alcolica del 12,5% ed un invecchiamento di un anno, puo’ portare la qualifica “Superiore”.

Tipologie: nessuna.

Dogliani DOCG

Zona di produzione: il ristretto territorio collinare della provincia di Cuneo che fa capo a Dogliani, precisamente l’intero territorio comunale di Bastia, Belvedere, Langhe, Clavesana, Ciglie’, Dogliani, Farigliano, Monchiero, Rocca di Ciglie’ e parte dei comuni di Roddino e Somano. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano di natura prevalentemente argilloso-calcarea o calcareo-silicea. Sono esclusi dalla Doc i vigneti di fondovalle.

Vitigni: Dolcetto.

Resa massima per ha: 80 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 22 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino tendente al violaceo; profumo vinoso, gradevole, caratteristico; sapore asciutto, di moderata acidita’, amarognolo, delicato, gradevole, di discreto corpo, armonico.

Qualificazioni: con una gradazione alcolica del 12,5% ed un invecchiamento di un anno, puo’ portare la qualifica “Superiore”.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti :carni bianche o rosse stufate o in umido, spezzatino, pollame e pollame nobile.

Nebbiolo d’Alba DOC

Zona di produzione: i territori comunali di Alba, Canale, Castellinaldo, Corneliano, Diano d’Alba, Vezza, Grinzane Cavour ed altri comuni della provincia di Cuneo. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari di giacitura ed orientamento adatti ed i cui terreni siano di natura preminentemente siliceo-argillosa.

Vitigni: Nebbiolo.

Resa massima per ha: 90 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 12%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 20 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino piu’ o meno carico con riflessi granata dopo l’invecchiamento; profumo caratteristico, tenue e delicato che ricorda la viola, che si accentua e perfeziona con l’invecchiamento; sapore dal secco al gradevolmente dolce, di buon corpo, giustamente tannico da giovane, vellutato, armonico.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: viene prodotto anche il tipo “Spumante”.

Abbinamenti :tome (formaggi stagionati e piccanti) e arrosti di carni bianche in gioventu’; salmi’ ed arrosti di carni rosse o selvaggina da piuma se invecchiato.

Cisterna d’Asti DOC

Zona di produzione: i seguenti comuni delle provincie di Asti e Cuneo: Antignano, Cantarana, Cisterna d’Asti, Ferrere, San Damiano d’Asti, San Martino Alfieri, Canale, Castellinaldo, Govone, Montà, Monteu Roero, Santo Stefano Roero e Vezza d’Alba

Vitigni: uve Croatina in percentuale variabile dall’80% al 100%; possono concorrere alla produzione, congiuntamente o disgiuntamente, uve di altri vitigni a bacca nera, non aromatici raccomandati per la provincia di Cuneo e Asti, per una percentuale non superiore al 20%

Gradazione alcolica minima: 12 gradi

Tipologie: Rosso.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino intenso e brillante, particolarmente carico per l’alta concentrazione di polifenoli antocianici; profumo fruttato con note di confettura di prugna e frutti rossi, sapore corposo ma morbido, di buona persistenza al palato, con un finale leggermente tannico.

Abbinamenti: primi piatti tipici piemontesi come gli agnolotti al sugo d’arrosto e ragù, risotti, ma anche a pietanze di carne e salumi grassi.

Riferimenti normativi: La Doc è stata riconosciuta con D.M. del 17/07/2002 pubblicato sulla G.U. n.196 del 22/8/2002

Verduno Pelaverga DOC

Zona di produzione: il comune di Verduno e in parte quelli di Roddi e La Morra, in provincia di Cuneo

Vitigni: almeno l’85% dal vitigno Pelaverga piccolo

Gradazione alcolica minima: 11 gradi

Tipologie: Rosso

Caratteristiche organolettiche: colore rosso piuttosto chiaro; odore fresco e vivace, sapore asciutto e caratteristico

Abbinamenti: carni bianche, pollo e coniglio alla cacciatora.

Riferimenti normativi: La Doc Verduno Pelaverga è stata riconosciuta con DPR del 20.10.1995, pubblicato sulla GU 270 del 18.11.1995

Mieli del Piemonte

Tra i tipi di miele prodotti in Piemonte possono essere ricordati, per le loro elevate caratteristichequalitative, varietà monoflorali come:

miele di acacia
miele di tiglio
miele di castagno
miele di tarassaco
miele di rododendro


Territorio interessato alla produzione: La produzione è diffusa in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizionalità della produzione di mieli della Regione Piemonte è dimostrata da vecchi libri di apicoltura che attestano che la metodica di lavorazione è rimasta invariata nel tempo.

Rapa di Caprauna

La Rapa di Caprauna appartiene alla famiglia delle Crucifere. Gli ambienti freschi che caratterizzano le aree montane dell’alta Val Tanaro ben si adattano alla produzione di questo ortaggio tipicamente autunnale.

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Caprauna e Alto in Alta Val Tanaro (CN).

Cenni storici e curiositàLe produzioni di rape nell’areale di Alto e Caprauna erano particolarmente importanti; le radici conservate per il periodo invernale erano utilizzate quale alimento per il consumo diretto all’interno delle famiglie mentre gli scarti venivano destinati all’alimentazione del bestiame.Nel 1537 lo scrittore Giustiniani cita testualmente “Caprauna celebrata per la bontà delle rape che ivi nascono”.Dal 2003 si svolge, nella seconda domenica di ottobre, la Festa della rapa di Caprauna. È sorto il Consorzio per la Valorizzazione e la Tutela dei prodotti tipici Alta Val Tanaro”, promosso dalla locale Comunità Montana per promuovere un paniere composito di prodotti tipici del territorio.

Piante officinali del Piemonte

Gli ambienti di fondovalle e montani delle valli piemontesi ospitano numerose specie spontanee epresentano una lunga tradizione nella raccolta e commercializzazione di piante officinali. Tali attività proseguirono con una certa intensità sino alla fine degli anni ’80.

Territorio interessato alla produzione: Le erbe officinali sono prodotte diffusamente in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLe vallate piemontesi ospitano numerose e abbondanti essenze spontanee, divenute poi nel tempo oggetto di coltivazione. Le piante officinali rappresentavano una interessante integrazione di reddito per molti agricoltori che, a cavallo tra la fine della primavera e l’estate, operavano in zona sia con l’allevamento bovino che con la pastorizia.Per quanto riguarda lo zafferano – denominato localmente Sofran – le prime esperienze di coltivazione risalgono al medioevo, nel territorio del marchesato di Saluzzo dove ricadevano i territori della Valle Grana e delle Valle Maira (Fedele Savio, Ferdinando Gabotto – Studi e documenti sul duomo di Saluzzo e altre chiese). La testimonianza più precisa è la premiazione – nell’ambito della “Prima esposizione agraria, industriale, artistica delle provincia di Cuneo” – del caragliese Delpuy Antonio per la coltivazione dello zafferano a Caraglio, nel 1870.Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 dello scorso secolo, grazie anche all’attività del Centro Sperimentale per le piante Officinali promosso dalla CCIAA di Cuneo, furono messi a dimora i primi impianti produttivi di genepy, melissa, lavanda in alcuni areali alpini del Piemonte. Le attività del Centro presero in esame alcuni parametri agronomici delle colture e fornirono preziose linee guida ai produttori.In questi ultimi anni si è evidenziato un significativo incremento di interesse verso queste colture, in particolare per le situazioni montane gestite secondo i principi del Biologico. L’incremento della domanda ha creato crescente specializzazione tra gli operatori, oltre alla diffusione di pratiche innovative di trasformazione e lavorazione.

Pere Martin Sec

Le Pere Martin Sec sono le pere da cuocere per eccellenza, note ed apprezzate ben oltre i confiniregionali.

Territorio interessato alla produzione: Le Pere Martin sono presenti in tutto il territorio pedemontano della provincia di Cuneo: dal Saluzzese alla Valle Pesio, dalla Valle Gesso alla Valle Vermenagna fino all’Alta Langa.

Cenni storici e curiositàL’aspetto “povero” e “rugginoso” delle Pere Martin evoca a ragione l’immagine di frutto rustico e antico.Da secoli note e diffuse allo stato spontaneo nelle aree pedemontane del Cuneese, le pere martin fanno la loro comparsa in letteratura già nel XVI secolo (Estienne, 1530). Secondo alcuni autori il Martin Sec sarebbe originario della regione francese di Champagne, secondo altri delle Alpi Piemontesi (Cozie e Marittime). In ogni caso, l’area della prima diffusione sono entrambi i versanti alpini: Piemonte e Savoia.Nel corso del tempo, l’uomo ha di volta in volta individuato e propagato le più interessanti tra le innumerevoli varianti originatesi per via naturale dal Martin Sec. Il volgere del XIX secolo fu l’epoca di maggior fermento in tal senso; molte cultivar della tradizione – non solo di pero – si originarono in quegli anni grazie all’opera di chi, come Francesco Supertino, osservando la natura e i suoi frutti, seppe coglierne e preservarne le espressioni migliori. E così che ancora oggi possiamo conoscere, apprezzare e gustare le Pere Martin. In molti casi la memoria storica si affida ancora oggi alla trasmissione orale.

Patate di Entraque

La coltivazione della Patata di Entracque, anche se su superfici ridotte rispetto agli anni ’60, interessa tuttora un discreto numero di aziende agricole entracquesi.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione comprende il territorio del Comune di Entracque e Valdieri (CN).

Cenni storici e curiositàEntracque è storicamente caratterizzata dalla coltura della patata.Negli anni ’60 dello scorso secolo i tuberi-seme di Piatlina e Quarantina selezionati a Entracque erano molto diffusi anche nelle pianure del Cuneese.Nella prima settimana di settembre per promuovere il prodotto locale si svolge, ad Entracque la “Fiera della Patata” giunta, nel 2011 alla XIII edizione.

Patata Piatlina della Valle Grana

La Piatlina della Valle Grana è un ecotipo locale di patata tradizionale della media bassa Valle Grana, ha forma tendenzialmente appiattita (da questa caratteristica forma trae origine il nome dialettale) e buccia color paglierino.Sulla superficie del tubero si evidenziano piccoli affossamenti a livello delle gemme – gli “occhi” – con fondo di colore rosa tenue. La polpa è bianca, profumata, di consistenza tenace.

Territorio interessato alla produzione: Comune di Bernezzo, Caraglio, Castelmagno, Montemale, Monterosso Grana ,Pradleves e Valgrana.

Cenni storici e curiositàLa patata “Piattlina” viene citata nella pubblicazione del dott. Bagnis Giuseppe ( “La patata in provincia di Cuneo” edizione A.T.A.C. 1965); nel testo l’autore descrive la patata denominata “piattellina” molto conosciuta sulle nostre alpi ed apprezzatissima per le sue caratteristiche qualitative.Secondo informazioni raccolte da operatori del luogo, la patata Piatlina era un tempo ampiamente coltivata nelle vallate alpine del cuneese. Poi, in seguito allo spopolamento delle terre alte e all’introduzione di nuove varietà più produttive, sparì quasi completamente.

Funghi delle vallate piemontesi

Le vallate piemontesi ospitano numerose specie di funghi e vantano un’antica tradizione nelle “cerca” di funghi, testimoniata dai famosi Mercati di Giaveno, di Pagno e di Sanfront, punto di ritrovo per i raccoglitori della valle (e di quelle limitrofe) che qui vendono i migliori funghi.

Territorio interessato alla produzione: I funghi vengono raccolti nei boschi della Val Sangone (TO), a Sanfront e in Valle Bronda (CN).

Cenni storici e curiositàLa notorietà del mercato dei funghi di Giaveno risale all’800 quando grazie anche alla posizione strategica della città, i boulajour si recavano in paese per vendere i prelibati esemplari nella storica via della Breccia. All’inizio il mercato si teneva al Paschero (Paschè), nei pressi dell’attuale palazzo municipale, ma il 29 maggio 1892 – per deliberazione del Consiglio Comunale presieduto dal Sindaco Fasella – fu spostato nella “strada della Breccia, la salita che da via Roma conduce al Balletto”. Al mercato di Giaveno giungevano singoli boulajour o anche persone che del fungo avevano fatto un’organizzata attività commerciale.Sono due le iniziative che celebrano ogni anno i Funghi di Giaveno: “Fungo in Festa” e “Fungo d’Oro”.La prima è organizzata dalla Città di Giaveno e dalla Nuova Pro Loco con le associazioni dei boulajour locali, gli “Amici dei funghi” boulajour della Val Sangone, nata nel 1993, e i “Boulajour” della Val Sangone, nati anch’essi nel 1993, si svolge nei primi dieci giorni di ottobre ed è l’occasione per acquistare e gustare i funghi nei ristoranti e trattorie della zona o presso il “Palafungo”. Il programma offerto a turisti e visitatori è volto anche a promuovere la città e le sue risorse naturalistiche.

Mele del Piemonte

Esistono diverse varietà di mele, fra le quali Golden Delicious, Gala, Jonagold, Red Delicious, Granny Smith, Fuji, Renetta del Canada

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione comprende tutto il Piemonte in particolare il territorio della provincia di Cuneo e i comuni di San Marzano Oliveto, Mosca, Calamandrana e Nizza Monferrato.

Cenni storici e curiositàLa coltivazione della Mela Golden ha una tradizione consolidata da molti anni. Si tratta di una varietà dalle origini ormai lontane (USA, 1890). La diffusione su larga scala della varietà Golden Delicious avvenne a partire dagli anni ‘50. Nel corso di un decennio la sua diffusione andò progressivamente a rivoluzionare il panorama varietale dell’epoca, affiancandosi e talvolta sostituendosi alle varietà tradizionali.Nel secolo scorso le più antiche e tradizionali varietà lasciarono gradualmente spazio alla Golden Delicious e alle nuove varietà di mele a buccia rossa; il sistema di conservazione naturale all’interno di cantine sotterranee e l’uso di adagiare i frutti su lettiere di paglia, si è trasformato nella moderna gestione dei frutti in post-raccolta, con centri di condizionamento e conservazione equipaggiati con le più moderne tecnologie. Parallelamente, parte del mercato locale in Saluzzo si è spostato verso Torino, dove tuttora molti produttori vendono le mele direttamente ai mercati rionali. Nel corso degli ultimi decenni si è inoltre diffusa e consolidata la vendita diretta in azienda, a testimonianza del successo della filiera cortissima.L’8 luglio 1987 è stato costituito il Consorzio Produttori Mela di Val Bronda con l’obiettivo di valorizzare e promuovere la produzione locale.

Fagiolo bianco di Bagnasco

Questo ecotipo locale di fagiolo presenta piante di medio elevata vigoria vegetativa con abbondantefogliame verde intenso.L’allegagione dei baccelli è regolare lungo l’intero asse della pianta, anche in presenza di condizioniambientali non ottimali.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione del Fagiolo bianco di Bagnasco coincide con i territori del fondovalle della Val Tanaro (Bagnasco, Garessio, Priola ed aree limitrofe).

Cenni storici e curiositàLa coltivazione del Fagiolo bianco di Bagnasco ha antiche tradizioni nell’areale della Val Tanaro. Già sul finire degli anni ’50 venivano commercializzati nuclei di seme afferenti a questo ecotipo di fagiolo rampicante, forse ottenuto da una selezione condotta su seme di provenienza ligure (Pigna o Cogno).Sul finire degli anni ’90 la coltivazione si ridimensionò notevolmente. Le azioni di selezione poste in atto in questi anni su questo materiale genetico non hanno per il momento fornito soddisfacenti risultati e, la ripresa degli investimenti, tarda a verificarsi.

Aglio di Caraglio

L’Aglio di Caraglio (in dialetto locale, Aj ‘d Caraj) raggruppa la produzione di Allium sativum (famiglia delle Liliacee) effettuata nella zona della pianura caragliese secondo tradizione.

Territorio interessato alla produzione: Il territorio di produzione è il comune di Caraglio.

Cenni storici e curiositàL’Aglio di Caraglio era coltivato già nell’antichità negli orti o nelle vigne della zona per uso per lo più famigliare.Dall’idea di una festa di piazza, nel 2003, dedicata a questo frutto della terra forte, aromatico, sincero e genuino ed ispirata dal vecchio lazzo, in dialetto, che giocando sulle rime suonava come una bonaria canzonatura – a Caraj l’an piantà j aj, j an nen bagnaj, j aj sun seccaj – (a Caraglio han piantato l’aglio, non l’hanno bagnato, l’aglio è seccato), di strada se ne è fatta tanta.La principale manifestazione riguardo l’Aglio di Caraglio, la festa/fiera tematica Aj a Caraj, “quando la festa sa di aglio” che, dal 2003, si svolge nel mese di novembre, a propiziare l’epoca della messa a coltura della nuova coltivazione, dal 2009 trova il suo contraltare nella Festa dell’aglio nuovo, ad inizio estate, per festeggiare il raccolto.

Zabaione

Lo zabaione, che in Piemonte è chiamato anche zabaglione, è una crema soffice, spumosa e leggera,preparata con vino, zucchero e rossi d’uovo.

Territorio interessato alla produzione: Lo zabaione si produce praticamente in tutte le cucine piemontesi. Alcune gastronomie lo propongono, così come moltissimi ristoranti.

Cenni storici e curiositàL’origine dello zabaione è antichissima, e in quanto tale si presta a versioni quasi leggendarie.Una di queste lo fa risalire al 1500, quando il capitano di ventura emiliano Giovanni Baglioni si accampò alle porte della città di Reggio Emilia; avendo pochi viveri con cui sfamare i suoi soldati, si arrangiò con uova, zucchero e vino trovati nelle fattorie della zona. Non sapendo come combinare questi ingredienti, non gli restò altro da fare che miscelarli, cuocerli e dare questo antesignano dello zabaione ai soldati, che ne furono entusiasti. Il popolo chiamava Giovanni Baglione ‘Zvàn Bajòun’ e la crema ne prese il nome diventando prima ‘zambajoun’, e poi zabaione.

Savoiardi

I savoiardi sono biscotti di forma allungata, morbidi e semplici, si presenta come un bastoncino dorato, quasi sempre cotto in uno stampo svasato che ne delimita il fondo. Hanno una struttura spugnosa e minutamente alveolata, sono leggerissimi; inconfondibili per le estremità arrotondate.La caratteristica saliente è la presenza, sulla superficie, di una specie di sottilissima pellicola data dalla presenza di una spolveratura di zucchero a velo prima della cottura.

Territorio interessato alla produzione: I savoiardi sono prodotti in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa loro origine, chiaramente espressa dal nome, si fa risalire in genere al XV secolo, in corrispondenza ad una visita del re di Francia ai duchi di Savoia. Sembra, però, che un dolce di medesima composizione, sotto forma di grande “gateaux” di pasta spugnosa, sia stato fatto preparare dal conte Amedeo VI nel 1348 per ingraziarsi Carlo di Lussemburgo, e questo abbia addirittura favorito il successivo sviluppo della dinastia.Sebbene questo incontro sia avvenuto a Chambery, nella Savoia francese, è innegabile l’origine di questo morbidissimo biscotto. La ricetta si diffuse in tutti i territori di influenza piemontese, e così si ritrovano con la medesima ricetta anche in Sardegna.Per dare una idea di quanto questi biscotti siano antichi, citiamo il pasticcere Giuseppe Ciocca, che nel suo Pasticcere e Confettiere Moderno, del 1907, afferma: “… così esistono ancora i biscotti detti savoiardi”.

Ravioles della Val Varaita

Le ravioles della Val Varaita sono una sorta di gnocchi di patate impastati con formaggio locale, uova e farina, e dalla caratteristica forma di piccoli fusi.Sono tradizionalmente conditi con burro abbrustolito e a volte con un cucchiaio di panna; non manca mai abbondante pepe.

Territorio interessato alla produzione: Le ravioles della Val Varaita sono un piatto tipico della Valle Varaita, in provincia di Cuneo, e con nomi diversi si trovano in tutte le vallate cuneesi.

Cenni storici e curiositàLe ravioles della Val Varaita e gli gnocchi a base di formaggio delle vallate cuneesi hanno origini lontane nel tempo e costituiscono la principale attrattiva culinaria della Valle Varaita.Le testimonianze orali raccolte dai vari enti di tutela e le organizzazioni culturali che operano sul territorio occitano sono raccolte su opuscoli e ricettari locali da molti anni.Le origini di questo piatto si perdono letteralmente nel tempo.Dal 2012 è stata organizzata una “Sagra delle Ravioles”, che si tiene in giugno nel comune di Verzuolo, vicino a Saluzzo (CN).

Pnon di Levaldigi

Gli Pnon, detti anche “paste dei Corpi Santi” sono dei biscotti di farina bianca, dalla superficie rugosa, costituiti da un bastoncino di pasta lungo e stretto, dorato, profumato e molto fine al gusto; sono stati inventati a Levaldigi, una frazione di Savigliano (CN).A volte, per via dell’aspetto, sono confuso con le più diffuse “paste di meliga”, ma la ricetta non prevede l’uso di farina di mais.

Territorio interessato alla produzione: Gli Pnon sono prodotti a Levaldigi, nel comune di Savigliano (CN).

Cenni storici e curiositàL’origine secentesca, per quanto condita di aspetti popolari, è sufficientemente documentata.La ricetta attuale sembra appartenga a Giovanna Fissolo, nata nel 1823, figlia di fornai, che preparava questi biscotti per la festa dei Corpi Santi o per celebrare il passaggio nel paese di importanti personaggi che da Torino andavano a Nizza o Cuneo transitando per il paese.La memoria popolare è saldamente ancorata al prodotto, e la produzione casalinga ancora molto viva.

Pesche ripiene

Le pesche ripiene, in piemontese “persi pien” sono un dolce non facilmente classificabile; si presentano come delle mezze pesche rovesciate con il taglio verso l’alto, al centro delle quali, in corrispondenza dell’incavo lasciato dal nocciolo, è stato posato il ripieno, scuro per la presenza di cacao. L’incavo centrale è di solito volutamente ampliato, asportando un po’ della polpa e utilizzandola per il ripieno stesso. Il tutto è servito dopo cottura in forno, e si consumano di preferenza tiepide.Le pesche ripiene sono un dolce povero, prodotto con ingredienti semplici e facilmente reperibili instagione opportuna.

Territorio interessato alla produzione: Le pesche ripiene si producono sull’intero territorio piemontese.

Cenni storici e curiositàLa ricetta delle pesche ripiene nella cucina italiana è vecchia quanto le pesche stesse. Questo piatto nasce quasi sicuramente dall’esigenza di consumare con un po’ di zucchero le abbondanti, ma aspre, pesche di vigna, e da sempre in Piemonte si usa il seme del nocciolo di pesca come amaricante per cucinare o per produrre liquori.Col tempo e con il cambiare delle disponibilità economiche il piatto si arricchisce di amaretti, cacao, burro e uova. Le codifiche del prodotto riguardano già l’Artusi, nel suo “la scienza in cucina” del 1891, senza la presenza degli amaretti.La presenza in Piemonte però data da anteriormente, almeno da quando il Vialardi, cuoco piemontese, nel 1854 ne dà una versione senza il cacao, ma con la cannella. Sono però già presenti gli amaretti.Da allora i ricettari hanno sempre riportato questa semplice ricetta, con variazioni e arricchimenti che non hanno mai snaturato l’idea originaria alla base del dolce.

Frittelle di Carnevale

Le “frittelle di Carnevale” sono piccoli dolci a forma di palline spugnose e leggere, fritte in olio ecosparse di zucchero o zucchero a velo, da mangiarsi da sole o accompagnate da una cioccolata calda.Sono diffuse in tutto il Piemonte con diversi nomi a seconda della zona di provenienza

Territorio interessato alla produzione: Le frittelle di Carnevale si producono in tutto il Piemonte nelle gastronomie o nelle panetterie, soprattutto in occasione del Carnevale sono preparate come fine pasto nei ristoranti.

Cenni storici e curiositàQuesto tipo di dolce è diffuso in tutta Italia, vuoi per quanto è gustoso, quanto per la sua facilità di realizzazione.Le origini della frittelle di Carnevale risalgono come minimo alla nascita della pasticceria in Europa; la prima ricetta simile, infatti, si trova su “Il cuoco piemontese” del 1766, ma la prima ricetta dei “beignet detti pets-de-nonne alla vainiglia” compare sul “Trattato di cucina” del Vialardi, nel 1854.Da allora non si contano le presenze di questi dolcetti nei ricettari regionali.

Bugie o chiacchiere

Le bugie di Carnevale, o meglio conosciute in altre regioni italiane come chiacchiere di Carnevale sono dolci sottili dal bordo quasi sempre frastagliato, a forma volutamente irregolare, rettangolare o di nastro, a volte addirittura annodato o arrotolato a rosone.Le bugie sono leggere e croccanti, sono fritte in olio e cosparse di zucchero a velo prima di essere servite.

Territorio interessato alla produzione: Le bugie si producono nelle pasticcerie o nelle panetterie di tutto il Piemonte in occasione del Carnevale.È frequente che alcuni ristoranti le propongano come omaggio di fine pasto.

Cenni storici e curiositàQuesto tipo di dolce è diffuso in tutta Italia, dove si chiama con nomi diversi, ma che quasi sempre richiamano la forma a nastro o a straccetto della pasta prima della cottura.Le origini delle bugie, o qualunque sia il nome regionale che prendano, risale già ai tempi degli antichi romani e alle loro “frictilia”, dolci di farina fritti nel grasso di maiale e conditi con il miele, vendute per la strada da donne anziane, con il capo cinto di edera, in occasione delle “Liberalia”. Le “Liberalia” erano celebrate il 17 Marzo ed erano dedicate agli dei della fecondità. Il periodo era dunque lo stesso dell’attuale Carnevale.