Cipolla rossa di Zerli

zona di produzione: Val Graveglia, comune di Ne

curiosità: La cipolla veniva considerata una coltura “sfruttatrice” tanto che in alcuni contratti di affitto la comprendevano tra le colture vietate. Tale affermazione aveva origine dalla marcata esigenza in concimazioni azotate: per questo motivo è utile farla precedere da una leguminosa (fagiolo, fava da seme, pisello, fava, ecc.).
Di probabile origine asiatica, era già nota ai Caldei. Presente anche sulla tavola dei Faraoni, è rimpianta nella Bibbia dagli Ebrei scacciati dall’Egitto. La cipolla era spesso alla base dei piatti dell’antica Gre-cia e lo stesso Locullo la nomina in saporite pietanze della Roma imperiale.

caratteristiche: Le varietà di cipolla sono numerosissime e presentano nel bulbo grande varietà di forme e di colori e per tale motivo la loro classificazione in base alla comune area di coltivazione risulta il più valido criterio scientifico e nello stesso tempo pratico.
Varietà primaverile-estiva, la rossa genovese (Allium coepa) è una cipolla sferica, leggermente schiacciata ai poli.
Il bulbo di grandezza media (diam. trasversale mm 70; altezza mm 45-50) risulta molto dolce e serbevole. È un’ottima razza rosea che attraverso la selezione, praticata in campo dagli stessi agricoltori, ha conseguito notevole miglioramento di forma e di volume.
Molto apprezzata per le sue caratteristiche di dolcezza, viene consumata preferibilmente cruda.

preparazione: La raccolta avviene usualmente a due stadi vegetativi: cipollotto e cipolla matura; ciò comporta, nella pratica colturale tradizionale, un alto investimento di piantine per m2 al momento del trapianto e un diradamento graduale durante la raccolta. Alcuni agricoltori conservano il seme selezionato in loco da molte generazioni.
Le cure colturali consistono in ripetute sarchiature con la principale funzione di eliminare le erbacce. Al momento dell’ingrossamento del bulbo si opera la “rincalzatura” (aggiunta di terreno alla pianta).
Altro accorgimento è quello di irrigare dopo maggio-giugno, per aumentare la conservazione del bulbo ma ciò rende il gusto della cipolla più acre rispetto a quello caratteristico.

ricetta: Si presta ad essere consumata cruda. Unendola ad altri ortaggi, si possono creare gustose e fresche insalate miste.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Preboggion

zona di produzione: Entroterra del Genovesato, in particolare nella zona orientale

curiosità: E’ senz’altro una favola ma ci piace ricordarla: all’epoca della I crociata il conte Goffredo di Buglione, aveva un cuoco che chiedeva per il suo comandante, erbette fresche, in quelle zone !!, ottime per la digestione, erbe per Buglione- pro-buggiun.
Etimologicamente e più seriamente si spiega il perché del nome parlando di una trasposizione di lettere da per a pre. La parola boggiòn indica un insieme di cose diverse e disordinate, a volte anche un brodo.
Le erbe più comunemente raccolte sono le seguenti: talaegua (Reichardia picroides), scixerbua (Sonchus oleraceus), bell’ommo (Urospermum dalechampli), dente de càn (Taraxacum officinalis); borraxe (Borrago officinalis); ortiga (Dioica), pimpinella (Sanguisorba minor); denti de cuniggio (Hyoseris radiata); papàvau ( Papaver roeas); gê (bietole).
Dall’insieme di queste erbe nasce la miscellanea che nella zona dell’entroterra genovese viene denominato preboggiòn. L’erba maggiormente apprezzata è la talaegua: più è presente e meglio risulta il preboggiòn.

caratteristiche: Il “preboggion” è un insieme di erbe spontanee la cui raccolta da sempre viene eseguita un po’ in tutta la Liguria, e non solo, acquisendo però da zona a zona denominazioni diverse. Nel Ponente si definiscono erbette, in altre regioni, soprattutto del Centro Italia sono note con il nome di crescione. Le erbe che compongono questa miscellanea variano da valle a valle e in funzione della stagione.
Benché il loro mercato sia locale, alcuni piatti che con queste si preparano sono noti a livello nazionale, primi fra tutti i pansoti. Non dimentichiamo di dire però che oggi è più difficile reperire in modo tradizionale queste erbe perché sono sempre più rare le persone in grado di riconoscerle.

preparazione: Questa miscellanea di erbe viene semplicemente bollita e condita con olio e limone per accompagnare deliziose focaccette a base di mais; oppure viene utilizzata per il ripieno dei più famosi pansòti (vedi scheda).
2 Kg di preboggion , 1/2 di patate, 3 spicchi d’aglio, sale olio, grana.
Lavare il preboggiòn ed eliminarne i gambi. Porre le patata a bollire, tagliate a pezzi e sbucciate; aggiungere poi le erbette. Dopo circa 10 minuti scolare, strizzare e passare il tutto in padella con l’olio, gli spicchi d’aglio, ed un pizzico di sale; volendo, aggiungere 2 filetti d’acciuga e una manciata di formaggio di grana. Servire insieme a formaggette o frittelle salate.

ricetta: Riso con il prebboggion
Ingredienti: 4 mazzi di prebboggion, 1 kg di riso, pesto senza pinoli, olio, sale, pepe.
Preparazione: lavare e tritare le erbette e metterli a bollire per 30 minuti in abbondante acqua salata. Aggiungere il riso e cuocere per altri 10 minuti.
A questo punto versarvi metà del pesto. Far passare 10-15 minuti ancora e servire la minestra con aggiunta del restante pesto, dell’olio crudo e del parmigiano grattugiato.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Casareccio di Gorreto

Materia prima: latte vaccino intero.

Tecnologia di lavorazione: il latte appena munto è fatto cagliare (con caglio liquido naturale) per circa due ore. Dopo la rottura della cagliata, è fatto depositare sul fondo della caldaia (preferibilmente in rame) per far depositare il siero. In seguito il formaggio è posto nelle fascere e lasciato ulteriormente scolare. Appena asciutto viene portato in apposite cantine dove si procede alla salatura a secco sulle due facce per 12 ore alternativamente.

Stagionatura: un mese circa.

Caratteristiche del prodotto finito: diametro: cm 30; peso: Kg. 5; forma: cilindrica; crosta: sottile, liscia, giallina; pasta: morbida.

Area di produzione: comune di Gorreto (GE).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note:

Formaggio S.Stefano D’Aveto o San Ste’

zona di produzione: Alta Val d’Aveto (Rezzoaglio e Santo Stefano d’Aveto)

curiosità: Nella valle dell’Aveto la produzione di formaggio aveva sempre costituito la maggiore risorsa economica delle famiglie. A Chiavari veniva denominato formaggio di S. Stefano d’Aveto. Siccome la quantità di latte giornaliera per famiglia non consentiva la produzione di una forma di formaggio decorosa, era consuetudine effettuare il cosiddetto cambio tra le famiglie di una determinata frazione. Il latte di una frazione veniva lavorato a turno da una sola famiglia: il latte cambiato era restituito alle varie famiglie creditrici nel giorno in cui cadeva il loro turno di lavorazione.

caratteristiche: Forma cilindrica regolare; peso variabile tra 3 e 18 Kg, in relazione alla dimensione della forma. Crosta sottile, elastica, liscia di colore giallo paglierino con tendenze al bruno in base al grado di stagionatura. Pasta di colore giallo paglierino, con caratteristica occhiatura minuta e diffusa. Sapore con aroma di latte al minimo di stagionatura, fragrante ed intenso con lieve tendenza amara, raggiungendo la maturità.

preparazione: Formaggio grasso a pasta semicotta prodotto con latte vaccino intero proveniente da bovine generalmente di razza Bruna, Cabannina e Meticcia la cui stagionatura dura almeno due mesi. Il latte viene parzialmente scremato (affioramento di meno di 12 ore) prima di subire la coagulazione utilizzando caglio di vitello. La temperatura di coagulazione è di circa 32-35°C (si effettua in tradizionali contenitori in rame, detti parèu, ramà). La coagulazione si protrae per circa due ore. La lavorazione tradizionale comporta le seguenti fasi di lavorazione: rottura della cagliata con il bastone di legno (canelu) che successivamente viene raccolta con la schiumarola (cassa sbùsa) in un telo posto in una fuscella (friscèla). La massa viene quindi lavorata manualmente per essere frantumata, schiacciata e pressata in modo che possa fuoriuscire tutto il siero. La massa viene salata e messa sotto torchio per 2-3 giorni. Quindi, si effettua, per alcuni giorni la salatura a secco. A questo punto inizia il periodo di stagionatura in appositi locali (tradizionalmente si ponevano su lastre di ardesia), alla temperatura di cantina (15°C) e ad un’umidità relativa non inferiore al 60%.

ricetta: Fatto arrostire in sà ciàppa (su di una lastra di ardesia) e servito su fette di pane casereccio, il formaggio di S. Stefano acquista il massimo della sua bontà.
L’abbinamento enologico può essere fatto con un vino rosato, Ciliegiolo, o un Rosso “Golfo del Tigullio”, che ben si combina con la punta piccante e il retrogusto amarognolo del formaggio.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Sarasso (Sarazzu)

zona di produzione: Alta Val d’Aveto

curiosità: Può sembrare assurdo ma questo formaggio stagionato, il cui nome deriva dal provenzale serác e dal latino serum siero, diffuso nell’entroterra della Riviera di Levante e non solo, è il frutto della lavorazione di un prodotto che giuridicamente non è considerato un formaggio: la ricotta.
Nel Savonese un altro prodotto caseario, simile al sarasso ma di più rara presenza è il Recheuto, ottenuto con il latte intero che veniva lasciato inacidire.
Quando il latte era rappreso, si insaccava in un tubo di tela per farlo asciugare.
Una volta asciutto, veniva pressato in un piatto, mescolando sale e pepe.
Si consumava a fette o grattugiato come la formaggetta.

caratteristiche: Ricotta salata e stagionata; forma cilindrica,
altezza 15-20 cm; diametro 10-15 cm; colore bianco – giallognolo; sapore intenso.

preparazione: La ricotta derivante dal siero del formaggio di Santo Stefano d’Aveto (vedi ricotta di Santo Stefano) viene salata e fatta stagionare.
Il risultato è il Sarasso.

ricetta: Il sarasso viene utilizzato come veloce condimento di una pasta in bianco o in aggiunta al sugo di carne (tocco).
Nella zona viene anche usato nella preparazione del pesto. Il sarasso può inoltre essere aggiunto nella Baciocca, tradizionale torta di patate, insieme alla ricotta.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Caprino (della Valbrevenna)

zona di produzione: Val d’Aveto, Alta Valle Scrivia e zone montane delle Alpi Marittime

curiosità: Nel patrimonio caprino italiano è difficile poter individuare delle vere e proprie razze, trattandosi per lo più di individui originatisi da incroci. Ci si trova quindi di fronte, solitamente, a popolazioni meticce. Nel settentrione prevalgono le capre del tipo alpino, acorni o con corna ripiegate all’indietro, rustiche, prolifiche e buone lattifere.
Il latte di capra, anche se poco usato, è sempre stato molto apprezzato perché facilmente digeribile, grazie alla finezza dei suoi globuli di grasso in esso contenuto. Per la caseificazione è inoltre eccellente dando un burro particolarmente gustoso (ma generalmente viene di rado prodotto) e formaggi tradizionali di particolare pregio.
La capra, “la vacca del povero”, sta avendo ora una giusta rivalutazione, tanto che dall’allevamento tradizionale estensivo si va passando a quello intensivo, con il conseguente apprezzamento per la sua produzione di latte e di carne (capretto).
Gli allevamenti delle nostre valli sono di tipo semi intensivo: pur ricorrendo sostanzialmente al pascolo, prevede l’integrazione alimentare con foraggiere coltivate e fornendo agli animali, idonei ricoveri, seppur economici.

caratteristiche: Tomini di latte caprino; forma cilindrica; diametro cm 5-6; colore bianco; peso: circa 180 grammi

preparazione: Tomini prodotti con latte caprino puro.
Le formine vengono trattate con cenere di castagno o di faggio per due ore e fatte maturare per circa 10 giorni (Valbrevenna).
Viene anche prodotta una formaggetta, preparata mediante coagulazione enzima-tica con solo latte crudo caprino, o talvolta con un’aggiunta di latte vaccino, del diametro di cm 10-14.
Si consuma fresca o semistagionata (trenta giorni).

ricetta: I Tomini, oltre che tal quali, si possono degustare anche conditi con aromi mediterranei come il timo, l’origano , la maggiorana e il peperoncino.
Caprino dal gusto deciso, può accompagnare squisite frittelle di patate (Cuculli de patatta), piatto antico della cucina genovese. I cuculli sono una preparazione invernale in quanto non necessita di patate novelle.
Le patate (800 g), cotte e pelate. si pestano poco alla volta nel mortaio con l’aggiunta di una modesta quantità di burro. Quindi, in un contenitore, si aggiungono tre rossi d’uovo e la maggiorana tritata. Dopo aver amalgamato, si formano delle piccole palline che verranno passate nel bianco d’uovo e nel pane grattugiato e fritte nell’olio.
Il vino che accompagna il tutto potrà essere un Vermentino o una Bianchetta genovese della zona del Genovesato.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Caprino di malga delle Alpi Marittime

zona di produzione: Val d’Aveto, Alta Valle Scrivia e zone montane delle Alpi Marittime

curiosità: Nel patrimonio caprino italiano è difficile poter individuare delle vere e proprie razze, trattandosi per lo più di individui originatisi da incroci. Ci si trova quindi di fronte, solitamente, a popolazioni meticce. Nel settentrione prevalgono le capre del tipo alpino, acorni o con corna ripiegate all’indietro, rustiche, prolifiche e buone lattifere.
Il latte di capra, anche se poco usato, è sempre stato molto apprezzato perché facilmente digeribile, grazie alla finezza dei suoi globuli di grasso in esso contenuto. Per la caseificazione è inoltre eccellente dando un burro particolarmente gustoso (ma generalmente viene di rado prodotto) e formaggi tradizionali di particolare pregio.
La capra, “la vacca del povero”, sta avendo ora una giusta rivalutazione, tanto che dall’allevamento tradizionale estensivo si va passando a quello intensivo, con il conseguente apprezzamento per la sua produzione di latte e di carne (capretto).
Gli allevamenti delle nostre valli sono di tipo semi intensivo: pur ricorrendo sostanzialmente al pascolo, prevede l’integrazione alimentare con foraggiere coltivate e fornendo agli animali, idonei ricoveri, seppur economici.

caratteristiche: Tomini di latte caprino; forma cilindrica; diametro cm 5-6; colore bianco; peso: circa 180 grammi

preparazione: Tomini prodotti con latte caprino puro.
Le formine vengono trattate con cenere di castagno o di faggio per due ore e fatte maturare per circa 10 giorni (Valbrevenna).
Viene anche prodotta una formaggetta, preparata mediante coagulazione enzima-tica con solo latte crudo caprino, o talvolta con un’aggiunta di latte vaccino, del diametro di cm 10-14.
Si consuma fresca o semistagionata (trenta giorni).

ricetta: I Tomini, oltre che tal quali, si possono degustare anche conditi con aromi mediterranei come il timo, l’origano , la maggiorana e il peperoncino.
Caprino dal gusto deciso, può accompagnare squisite frittelle di patate (Cuculli de patatta), piatto antico della cucina genovese. I cuculli sono una preparazione invernale in quanto non necessita di patate novelle.
Le patate (800 g), cotte e pelate. si pestano poco alla volta nel mortaio con l’aggiunta di una modesta quantità di burro. Quindi, in un contenitore, si aggiungono tre rossi d’uovo e la maggiorana tritata. Dopo aver amalgamato, si formano delle piccole palline che verranno passate nel bianco d’uovo e nel pane grattugiato e fritte nell’olio.
Il vino che accompagna il tutto potrà essere un Vermentino o una Bianchetta genovese della zona del Genovesato.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Latte fresco della Valle Stura

zona di produzione: Provincia di Genova e alcuni comuni in provincia di Alessandria

curiosità: La produzione di latte bovino è l’attività zootecnica tradizionale dell’entroterra della provincia di Genova. Per la Valle Stura le prime notizie di allevamenti bovini di una certa consistenza risalgono al XVII secolo, quando al Castello di Masone faceva capo una mandria di 170 animali.
L’attitudine del bestiame era solitamente triplice. Oltre alla forza lavoro, a quei tempi insostituibile, l’animale forniva carne e latte, quest’ultimo destinato alla produzione di un formaggio fresco, simile alla robiola, utilizzando all’occorrenza anche latte di capra e pecora.
Oggi il caseificio è una struttura moderna, risalente ai primi anni ’90, ed è gestita dal Consorzio Cooperativo Valle Stura, che raccoglie le cooperative zootecniche della Provincia di Genova.

caratteristiche: Il “Latte delle valli Genovesi” viene prodotto in provincia di Genova.
Un’agricoltura tradizionale, molto vicina a quella biologica, avara di concimazioni con prodotti di sintesi e nella quale sono del tutto assenti antiparassitari e diserbanti, è quella che caratterizza le aziende dell’entroterra genovese e alessandrino che conferiscono il latte alle “Valli Genovesi”.
Risale agli inizi del ‘900 la fondazione a Masone, in Valle Stura, di una piccola centrale per la distribuzione del latte e dei suoi derivati. Il latte viene prodotto da bovini in maggioranza di razza Bruna ed in misura minore di razza Frisona e Cabannina.
I foraggi portano nel latte l’estrema ricchezza della loro composizione floristica conferendo al prodotto il fresco aroma di prato montano.
Dai parametri analitici risulta inoltre una buona percentuale sia in grassi che in proteine (3,7% di grasso e 3,3% di proteine).

preparazione: Attualmente, ogni giorno, circa 150 quintali di latte vengono conferiti al caseificio di Masone.
Nello stabilimento quotidianamente vengono pastorizzati e confezionati circa 40 quintali di latte. La parte restante è destinata alla caseificazione per la produzione di un’ampia gamma di formaggi, come lo squisito “stracchino”, il “primo sale”, il “misto capra”, la formaggetta “Turchino”, e il “canestrato”, oltre allo yogurt, alla ricotta e al burro.
Il “Latte delle Valli Genovesi ” viene commercializzato direttamente attraverso il punto vendita del Consorzio Cooperativo Valle Stura a Masone (GE) e della Cooperativa San Colombano a San Colombano Certenoli (GE). Un numero sempre maggiore di latterie nella città di Genova e nei Comuni del basso Piemonte, in ragione di una crescente richiesta, ha deciso di commercializzare i prodotti del Consorzio.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Ricotta, Recottu, Ricotta della Val Stura, della Val d’Aveto, della Valle Scrivia, della Val Gravegl

zona di produzione: Tutto l’entroterra ligure

curiosità: Il termine deriva dal latino recoctus e indica la ricottura del siero del latte. Proprio il fatto di non essere un prodotto della coagulazione ad elevate temperature della caseina del latte ma delle proteine del siero, sottoprodotto di lavorazione, non viene riconosciuta nella Legislazione Italiana come formaggio.

caratteristiche: Ricotta di latte vaccino; colore bianco-giallastro; molto gustosa in quanto presenta un’alta percentuale in grassi.

preparazione: Ricotta prodotta dal siero di latte vaccino, derivante dalla produzione dei vari formaggi o formaggette dell’entroterra. Il siero viene cotto nei tradizionali paioli in rame, posti su caldaie (quelle tradizionali sono in muratura).
La ricotta si ottiene per affioramento; la massa viene quindi posta in fuscelle o in teli per far fuoriuscire il siero.

ricetta: La ricotta viene utilizzata nei ripieni per la preparazione di ravioli e torte, sia dolci sia salate, a base di verdure ed ortaggi.
Tra queste si cita la Baciocca, torta di patate caratteristica del levante ligure, che viene presentata in ogni valle con piccole varianti.
L’ingrediente base è comunque la patata, (possibilmente varietà quarantina) tagliata finemente e posta in strati su di una sfoglia di pasta. Oltre alle patate, nel ripieno va aggiunto un soffritto di lardo, cipolla e aglio, la ricotta (o latte e panna) e il formaggio grattugiato (o il sarasso).
La peculiarità della torta sta nel tipo di cottura che in alcuni agriturismi della zona si effettua ancora: la torta si pone nel testo e si fa cuocere al di sotto della campana.
Con questo tipo di cottura, il piatto riacquista il sapore della tradizione.
Al piatto si può accostare un buon vermentino “Golfo del Tigullio”.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Salamino di animelle e sangue di maiale

Tecnologia di preparazione: il sangue di maiale mescolato in parti uguali con latte fresco viene condito con pinoli, sale, pepe e animelle tagliate a pezzetti e rosolate con la cipolla. Si insacca il tutto nel budello di maiale e le salamelle, legate con lo spago, assumono la forma di salamini di 400-500 grammi di peso. Si consumano appena fatte, cotte in pentola.

Composizione:
a) Materia prima: sangue di maiale e animelle.
b) Coadiuvanti tecnologici: pinoli, latte, cipolle, sale e pepe.
c) Additivi:

Maturazione:

Periodo di stagionatura:

Area di produzione: in tutta la Liguria.

Zeraria

zona di produzione: Entroterra savonese (Valle Bormida) e genovese (Valle Stura)

curiosità: Tipica dell’entroterra del Ponente ligure dove si preparava durante il periodo natalizio. Piatto elaborato e sostanzioso si ottiene unendo varie carni bollite ed un brodo aromatizzato al limone, all’alloro e allo zafferano. Un insieme arabeggiante come il nome, traduzione di gelo, freddo, elemento fondamentale per il successo del piatto.
Gli stampi a forma di bauletto erano anticamente in legno.

caratteristiche: Con Zerarìa, localmente detta “Zrarìa” si intende una gelatina lavorata, di carne di manzo e di maiale. Il tipo di mercato è locale e al dettaglio; vendita e consumo si ha anche presso aziende agrituristiche della zona. Simile, con qualche variante si produce, oltre che in val Bormida, nel savonese, anche in valle Stura, nell’entroterra di Voltri.

preparazione: Le zampette di suino e la testa (comprese anche cotenne o guanciale, lingua, muscoli e a volte anche manzo) vengono fatte bollire con aromi (sale, pepe, alloro, limone, ecc) che variano da zona a zona, fino ad ottenere un brodo. Terminata la cottura, si tagliano le varie parti con il coltello e si dispongono in un piatto profondo ricoprendole con il brodo caldo che raffreddandosi formerà una densa gelatina. Si adorna con foglie di alloro o di limone fresche. Tradizionalmente l’impasto veniva messo in appositi stampi in legno, a forma di bauletto. Si lascia così per alcuni giorni, si consuma tagliata a fette.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Mostardella

Tecnologia di preparazione: si tratta di un salume povero, fatto per utilizzare tutti i ritagli di carne suina e bovina scartati durante la lavorazione dei salami. Alle carni suine e bovine si unisce circa il 30% di grasso suino molle, si macina il tutto con lamelle medie, si concia con sale, pepe, aromi naturali. Si insacca nel budello naturale e si consuma fresco tagliato a fette e scottato in padella. Una volta la mostardella veniva consumata a generose dosi quando si assaggiava il vino bianco nuovo.

Composizione:
a) Materia prima: carni bovine e suine, grasso suino.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, aromi naturali.
c) Additivi:

Maturazione:

Periodo di stagionatura:

Area di produzione: provincia di Genova, nei comuni di Sant’Olcese e di Serra Ricò.

Coppa

zona di produzione: Entroterra di Lavagna e di Chiavari (Val d’Aveto e Val Graveglia)

curiosità: Prende il nome per la sua forma a calotta sferica: nell’Italia settentrionale indica un salame fatto con la carne di maiale.
La coppa della val d’Aveto e della val Graveglia si distingue per il profumo dolce e delicato che si affina durante la fase di maturazione.

caratteristiche: Prodotto di salumeria, composto di carne suina; forma cilidrica, leggermente più sottile alle estremità, lungo circa cm 30 con un diametro di cm 10 circa.
Al taglio la fetta si presenta di colore rosso e nelle parti marezzate, bianco rosato.

Preparazione: La coppa si ottiene dalla lavorazione dei muscoli della regione cervicale superiore del maiale.
Il processo di lavorazione inizia con la salagione a secco utilizzando miscele di sale, aromi naturali e spezie quali pepe, cannella, noce moscata e chiodi di garofano. Il composto viene messo nel budello (solitamente peritoneo parietale di suino oppure colon o diritto di bovino) e legato. Segue quindi la fase di asciugatura al cui termine si verifica la comparsa della classica “fioritura”. In seguito si passa alla stagionatura che si protrae per un periodo variabile da tre a sei mesi dalla data dell’avvenuta salatura.

fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Pancetta

zona di produzione: Entroterra di Lavagna, Chiavari e Genova. (Val d’Aveto e Val Graveglia, Valle Scrivia e Val Polcevera). Presente anche in altre valli dell’entroterra ligure.

curiosità: Il prodotto specie nell’entroterra genovese deriva dalla lavorazione di carni di animali allevati in zona o, superato il passo del Tomarlo e del Bocco, nei confinanti territori delle province di Piacenza e di Parma.
Le modalità di lavorazione sono artigianali e seguono le ricette della tradizione locale.
La vendita e il consumo sono a livello comprensoriale.
A Vobbia, in Alta Valle Scrivia, veniva prodotto un altro tipo particolare di insaccato, molto simile alla pancetta, denominato localmente “carne sa-a” (carne salata), fatta con il guanciale del maiale, taglio più sottile e magro rispetto a quello della pancetta: il pezzo si poneva su di un letto di sale insieme ad aromi quali pepe, alloro ed in alcuni casi anche rosmarino e lo si ricopriva nuovamente di sale. Il taglio non doveva essere troppo spesso proprio per riuscire a farlo stagionare meglio. Dopo due o tre mesi la “carne sa-a” era pronta per essere mangiata.

caratteristiche: Il prodotto è un insaccato di maiale, lungo circa 40 cm con un diametro di cm 15 circa.

preparazione: La carne di maiale, e più precisamente la pancia con prevalenza di grasso, viene salata e condita con limone e spezie (pepe, cannella, noce moscata, chiodi di garofano).
La pancetta viene quindi ricoperta dalla cotica oppure da una particolare pelle che si trova nell’intestino del maiale, detta in dialetto “asiunza”.
Una volta legata, viene fatta stagionare per almeno 3 mesi.

fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Salame con i lardelli o Salamme cui lardelli

zona di produzione: Entroterra di Lavagna e di Chiavari (Val d’Aveto e Val Graveglia)

curiosità: Il salame lavorato veniva portato a stagionare nelle zone alte delle vallate Graveglia e Aveto. Il mercato è di tipo locale, la distribuzione è al dettaglio (vendita diretta dal produttore al consumatore).

caratteristiche: Salame di carne suina; forma cilindrica allungata, affusolata alle estremità, di diametro dai cm 5 ai cm 7-8; lunghezza da cm 20 a cm 45. Colore della pasta dal rosso carne fino al violaceo, in funzione della stagionatura.
La percentuale in grasso è 8% circa e la grana dell’impasto è grossa.

preparazione: Con il coltello si taglia la carne a strisce, si macina con il tritacarne, utilizzando il crivello n. 14. Nel frattempo si taglia la parte grassa (i lardetti o lardelli) a dadetti, sempre utilizzando il coltello.
Si impasta il tutto con spezie varie (pepe nero, noce moscata, cannella, chiodi di garofano). Quindi la pasta viene insaccata in budelli (bèli) di maiale. Viene quindi legato a mano con spago grosso e fatto stagionare appeso a travi di legno. La stagionatura si svolge in luoghi asciutti e freschi.
Si lasciano stagionare appesi ad una distanza di circa 4 cm l’uno dall’altro, per un periodo di circa 40 giorni. La stagionatura si svolge in cantine dove viene fatto stagionare anche il formaggio (spesso su scaffali di legno) e conservato il vino e l’olio.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Sanguinaccio

zona di produzione: Tutto il territorio dell’entroterra ligure

curiosità: Veniva il Natale e i negozianti solevano fare piccoli omaggi ai loro clienti più affezionati. Il salumiere donava i beròdi, i locali sanguinacci, che un tempo erano decisamente più gustosi perché all’interno racchiudevano anche pinoli ed uvetta. Inoltre nel periodo natalizio venivano ulteriormente arricchiti dalle noci che ne ingentilivano l’aroma.
I sanguinacci si gustano, dopo averli fatti bollire, rosolati in padella con le cipolle.

caratteristiche: Salamino di animelle e sangue di maiale (insaccato, fresco, cotto). Il beròdo, tradizionalmente consumato durante il periodo natalizio, periodo in cui si uccideva il maiale, è un insaccato costituito dal sangue unito o no alle frattaglie suine cotte. Si presenta di colore marrone e normalmente viene confezionato di pezzatura di 200 g circa. Si consuma rosolato in padella con cipolla.

preparazione: Il sangue di maiale, mescolato in parti uguali con latte fresco viene condito con pinoli, sale, pepe e/o animelle (tessuto connettivo). Si insacca il tutto nel budello di maiale e l’insaccato finale, legato con lo spago, assume la forma di salamini di g 200 circa di peso. In alcune zone sono anche tondeggianti. Si utilizzano quindi sottoprodotti della macellazione del maiale (sangue) e aromi (foglie di alloro, pinoli, chiodi di garofano) che vengono aggiunti all’impasto. Dopo che è stato sottoposto a cottura, il berodo viene fatto raffreddare a temperatura ambiente, prima di metterlo in frigorifero.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Testa in cassetta (soppressata)

zona di produzione: Entroterra Genovese e Savonese

curiosità: Possedere un maiale era un lusso che assicurava cibo sostanzioso: dalla sua uccisione si ottenevano sanguinacci, salsicce e salami, ma si utilizzava anche la testa per la testa in cassetta e il brodo molto grasso per la zerarìa. Il grasso dei polmoni invece era ottimo come lucido per scarpe.
Altro prodotto derivante dalla lavorazione delle carni del maiale e simile alla testa in cassetta è la Galantina definita il “prosciutto dei genovesi”, grazie alla sua composizione pregiata di carni di vitello e di maiale. Caratteristica peculiare di questo prodotto è la sua delicatezza nel gusto e la presenza di aromi naturali particolari quali ad esempio i pistacchi.

caratteristiche: In Liguria la testa in cassetta, nota anche come “soppressata” in alcune località, indica un salame confezionato con la lingua, il grasso, le cotiche e la cartilagine della testa del maiale. Insieme al salame ed alla mostardella è uno dei prodotti di salumeria regionale più antichi.
L’impasto composto dalle parti di testa del maiale, è cotto in calderoni e riposto in stampi.
Al taglio, la fetta si presenta costituita da diversi colori che vanno dal bianco rosato al rosso, tappezzato come il vestito d’arlecchino. Il profumo e il gusto riprendono entrambi l’aroma delle spezie utilizzate, soprattutto dell’alloro e del rosmarino.

preparazione: La testa in cassetta è un salume costituito da varie parti di frattaglie fra le quali anche guanciale, lingua, e cotenne. La testa di suino viene fatta bollire con aromi (sale, pepe, alloro, limone) che variano da zona a zona. Quando la testa è cotta, si disossa, si taglia con il coltello e si mette l’impasto in appositi stampi in legno a forma di bauletto: da qui il nome di testa in cassetta.
Si lascia così per alcuni giorni; si consuma tagliata a fette.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Salsiccia di Brugnato

zona di produzione: Tutto il territorio dell’entroterra ligure

curiosità: Le salsicce, già note ai tempi dei romani, dove conserviamo le indicazioni da Apicio per la loro preparazione, sono citate anche da Marziale che le nomina come omaggio e più tardi non mancano le ricette in merito che non si scostano da quelle attuali.

caratteristiche: Insaccato o salume di carne suina a forma cilindrica del diametro di 2-3 cm, impasto a grana media, con una percentuale in grasso del 15-16%, l’impasto salato ma generalmente non troppo speziato. Salume tendenzialmente magro rispetto al prodotto di altre regioni. Si consuma alla piastra o saltato in padella bucherellando il budello per farne uscire parte del grasso. Il prodotto è consumato generalmente solo cotto.

preparazione: La tecnica di lavorazione per le salsicce è simile a quella seguita per il salame.
La percentuale di grasso è però maggiore (15-16%). Le carni suine grasse (30%) e magre (20%) vengono, a volte, impastate con uguale quantità di carni bovine magre e insaccate nel budello naturale.
Le parti magre vengono macinate più finemente rispetto a quelle grasse. La percentuale di grasso, che è intorno al 15-16%, caratterizza il prodotto ligure tanto da renderlo meno pesante e assai digeribile.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Vacca Cabannina

zona di produzione: Val d’Aveto (Genova).Anche la Regione Liguria si può vantare di possedere una razza bovina autoctona, risultato di una selezione biologica naturale durata centinaia di anni. La possiamo trovare quasi esclusivamente nel comune di Rezzoaglio nella piana di Cabanne, in Val d’Aveto (Ge), dove le particolari condizioni climatiche e la necessità di utilizzare con il pascolo aree impervie e arbustate non permettono (e non rendono economicamente conveniente) la sostituzione con altre razze. Insieme alla Ottonese-Varzese è stata allevata per la sua capacità di utilizzare le risorse naturali spontanee del territorio con scarsissime integrazioni esterne. Questo tipo genetico è il risultato dell’evoluzione biologica e conseguentemente il suo prodotto (latte, formaggio) è il più rappresentativo dell’area di produzione. Dal 1982, con il primo censimento ufficiale e la definizione dello standard di razza, sono partite le prime iniziative a carattere regionale finalizzate alla salvaguardia e al recupero di tale patrimonio genetico. Attualmente la Cabannina, con i suoi 300 capi divisi in 70 allevamenti, è inserita nel Piano di Sviluppo Rurale della Regione Liguria tra le razze bovine da salvaguardare. La produzione media è di 26 quintali per lattazione (anno). Quasi tutti i capi presenti sono iscritti al Registro Anagrafico delle Popolazioni Bovine Autoctone e sono controllati per le produzioni. La popolazione è tra quelle considerate “a forte erosione genetica” secondo le categorie di rischio della FAO (1992), ma al di fuori dell’areale di Cabanne, dove è praticamente l’unico bovino allevato, si può considerare estinta. A salvaguardia della biodiversità sono state stoccate dall’Associazione Provinciale Allevatori di Genova circa un migliaio di dosi di materiale seminale.

caratteristiche: mantello: il colore fondamentale è il castano scuro, a volte bruno chiaro con sfumature intermedie. Una riga mulina molto chiara (color crema) caratterizza la linea dorsale, con sfumature rossiccie. Le parti inferiori dell’addome e le parti interne e distali degli arti presentano una tonalità di colore più chiaro. I peli sono corti e fini; la cute è pigmentata
pelle: fine e morbida, con numerose pliche sulla giogaia
taglia e statura: sono bovini di piccola statura, i maschi misurano al garrese 125 cm e le femmine 118 cm. Il peso medio è di circa 400 kg. Di particolare rilievo è il grande volume addominale che conferisce all’animale una grande capacità di ingerire foraggi.
testa: piccola leggera e scarna con profilo rettilineo. Occhi scuri di media grandezza, vivaci e intelligenti. Orecchie grandi portate orizzontalmente. Narici relativamente ampie; musello nero ornato ampiamente di bianco; mascelle forti; corna di media lunghezza, sottili, bianche alla base e nere in punta, dirette in fuori, in alto e poi leggermente indietro.
anteriore: armonico nell’insieme; collo orizzontale sottile con scarsa giogaia; garrese serrato e affilato; spalle armonicamente fuse con il collo; petto di media ampiezza e, a volte stretto; torace alto e profondo; arti dotati di ossa fini; piedi forti, ben serrati con unghielli durissimi.
groppa: ben sviluppata, lunga e larga, leggermente spiovente; coda attaccata alta, lunga, terminante con abbondante ciuffo.
arti posteriori: cosce ben discese con buona muscolatura e profilo rettilineo; garretti piatti con leggera angolatura, tendini evidenti; piedi forti e ben serrati.
mammella: di buone dimensioni, ben estesa all’indietro e spesso sporgente fra le cosce; in avanti è meno sviluppata così da risultare nell’insieme piuttosto globosa; la pelle è fine con peli corti; capezzoli di giuste dimensioni e ben piazzati; vene mammarie evidenti e sinuose.
Trattandosi di una razza di cui si vuole conservare le caratteristiche storiche, principali obiettivi del lavoro di selezione sono quelli di mantenere la rusticità, intesa come capacità di utilizzare le risorse foraggiere spontanee dell’area di allevamento, nonché quello di migliorare la conformazione della mammella al fine di sfruttare la spiccata attitudine alla produzione del latte. Infatti la capacità di utilizzare alimenti grossolani, poco appetibili per gli animali da latte di altre razze, la peculiarità di ottimo e tenace pascolatore capace di arrampicare o di penetrare in zone fittamente cespugliate e impervie, rendono questo bovino estremamente adatto al nostro territorio. L’interesse del miglioramento genetico è rivolto principalmente al recupero dei caratteri morfologici tipici della razza eliminando i difetti legati al meticciamento con altre razze. Particolare attenzione è posta ad evitare i fenomeni di consanguineità mediante la gestione degli “accoppiamenti programmati”, tecnica con la quale si ricerca per ogni vacca il partner meno simile geneticamente.

allevamento: Il sistema di allevamento fa massimo affidamento sul pascolo in tutto il periodo corrispondente alla fase vegetativa del foraggio. In funzione di questa tecnica esiste una sorta di programmazione dei parti che solitamente avvengono nei mesi di marzo e aprile; infatti la massima produzione di latte si ha circa due mesi dopo il parto, e proprio nei mesi di maggio e giugno il foraggio apporta la massima energia. All’inizio della stagione di pascolo i bovini vengono condotti nelle aree più impervie, mentre le zone più a valle vengono affienate. Più avanti vengono pascolati i ricacci, così che viene effettuato un unico taglio annuo, con notevole risparmio di manodopera. L’alimentazione è basata su foraggi a volontà (pascolo o 12 kg di fieno al giorno) ed un’integrazione di farina di cereali e crusca, mai superiore ai 5-6 kg capo/giorno. Non si fa uso di mangimi bilanciati, ma nelle fasi di maggiore fabbisogno si ricorre a rimedi popolari quali strutto, semi di lino, fave cotte, integratori vitaminici e minerali.
Il contenuto in proteina del latte (3,2%) è leggermente inferiore a quello della razza bruna allevata nel medesimo territorio, ma considerato che la gestione dell’alimentazione della Cabannina si traduce spesso in razioni fortemente sbilanciate, in quanto sono molto ricche di foraggi a basso contenuto energetico e povere di concentrati, è possibile che tale parametro abbia ampi spazi di miglioramento. Al contrario, la caseina, responsabile della elevata resa del formaggio, è sempre superiore in valore assoluto. I valori di grasso e lattosio, di valore rispettivamente 3,5% e 5,3% sono pressochè identici a quelli della Bruna. Da osservare che il grasso del latte deriva al 50% dall’alimentazione, pertanto nel latte di Cabannina si ritrovano in massima concentrazione gli olii aromatici dei foraggi propri della zona di allevamento.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Salame genovese di Sant’Olcese, di Orero

zona di produzione: Orero di Serra Riccò e Sant’Olcese (Val Polcevera)

curiosità: Alle spalle di Genova, al confine tra la Val Polcevera e la Valle Scrivia, viene prodotto il salame genovese, inconfondibile per il profumo di affumicato datogli dalle stufe a legna poste nei locali dove i salumi subiscono il processo di stagionatura.
Questo salame nacque ad Orero, allora frazione di Sant’Olcese, quasi due secoli or sono e da allora la ricetta e i metodi di lavorazione sono rimasti pressoché immutati. Continua ad accompagnare degnamente le fave nelle scampagnate primaverili dei Genovesi.
Poco noto fuori dai confini regionali, questo salame era un tempo il preferito dai cambusieri delle navi per il suo tipo di lavorazione e per la scelta degli ingredienti che lo rendevano resistente all’azione del salmastro.
La tradizione salumiera dell’alta Val Polcevera è rappresentata da un artigianato derivante da forme produttive familiari.
Secondo fonti orali, venivano probabilmente stipulati dei veri e propri contratti di soccida: i salumieri acquistavano i vitelli e li consegnavano ad allevatori e contadini della zona di S. Olcese e dei comuni e delle valli limitrofe, perchè eseguissero la fase di ingrasso. Quando i bovini erano pronti per la macellazione, venivano nuovamente riacquistati in occasione delle fiere zootecniche.
Il numero di salumieri di Sant’Olcese e di Orero si è ormai ridotto a tre: due a Sant’Olcese e uno a Orero.

caratteristiche: La notorietà dei piccoli centri di Sant’Olcese e di Orero, situati in alta Val Polcevera, rispettivamente capoluogo e frazione del Comune di Serra Riccò, è data dall’ospitare macelli che producono insaccati, tra i quali il più conosciuto ed apprezzato è il salame crudo a base di carne mista, denominato popolarmente Salame di Sant’Olcese. Il Salame di S.Olcese e di Orero è un insaccato di carne suina e bovina cruda (anticamente anche di mulo) a forma cilindrica o a guanciale, impasto a grana media con occhi di grasso piuttosto grossi, profumo particolare e caratteristico.

preparazione: Le carni suine grasse (30%) e magre (20%) vengono impastate con uguale quantità di carni bovine magre, conciate, insaccate nel budello naturale con aglio, aceto, e aromi. A questo punto il salame subisce un processo di affumicatura: gli insaccati vengono esposti al fumo di legna forte (rovere o castagno) per alcuni giorni, in locali appositi, resi neri dal fumo, prima di passare nelle stanze di stagionatura.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Lumache

zona di produzione: Entroterra ligure

curiosità: Ci racconta lo scrittore latino Sallustio nel I secolo a.C. che, tra i soldati di Caio Mario durante la guerra in Numidia, c’erano anche dei Liguri e uno di questi, spinto dalla sua golosità, seguì delle lumache per raccoglierle e riuscì così a trovare un varco segreto per entrare nell’accampamento nemico.
Sembra quindi che da sempre le lumache siano apprezzate e consumate in Liguria. Considerate dagli estimatori una vera e propria prelibatezza soprattutto se sono chiocciole, in dialetto ciui, dal guscio marrone chiaro raccolte di notte nelle vigne.
Un tempo si raccoglievano dopo i temporali o, meglio, di notte facendosi luce con una lampada alimentata dagli scarti delle olive, residui della molitura. Oggi si consumano più facilmente quelle di allevamento e probabilmente i bambini non cantano più questa filastrocca:
Lumassa Lumassina
Tia feua i to cornin
Se dunca te porto da-o maxellà
E te fasso ammassâ
Le sagre estive che vedono le lumache come protagoniste sono diffuse un po’ ovunque nell’entroterra regionale, da quella di S. Vittoria, nell’entroterra di Sestri Levante (Genova), a quella che si svolge a Piano Castello, nell’Imperiese.

caratteristiche: Le lumache sono le protagoniste di questo piatto, proposto in varie località dell’intero entroterra. La tradizione vuole che vengano cotte in umido con i tipici sapori liguri di olio, vino ed erbe aromatiche.

preparazione: Ingredienti: 4 dozzine di lumache (una dozzina per persona), 4 cipolle, 6 carote, 3 spicchi di aglio, 2 peperoni, 6 rametti di rosmarino, 20 foglie di alloro, 10 foglie di salvia, 3-4 rametti di timo, 1 litro di Vermentino, 3 bicchieri di olio extra vergine di oliva, 1 litro di brodo, peperoncino q.b. (facoltativo), sale.
Preparazione: sistemare le lumache in una pentola di dimensioni adeguate a contenerle, con molta delicatezza, per non rompere i gusci. Riempire di acqua, aggiungere 1 cipolla intera, 1 carota, alcuni rametti di alloro e rosmarino e portare ad ebollizione a fuoco lento. Quando le lumache iniziano a schiumare, eliminare la schiuma che si forma con una schiumarola. Lasciare bollire per circa 1 ora.
Trascorso il tempo, togliere la pentola dal fuoco e separare tutte le lumache dal brodo di cottura, delicatamente.
Preparare a parte un tritato misto di cipolle, carote, aglio, alloro, timo, rosmarino, peperoni, salvia.
Porre le lumache in un tegame, con il tritato, l’olio e mezzo litro di vino. Soffriggere a fuoco lento, rimescolare ogni tanto ed aggiungere il brodo, alternandolo con il vino. Volendo, spolverizzare di peperoncino. Far consumare tutto il brodo e tutto il vino. Tempo di preparazione e cottura circa 5 ore. Per estrarre le lumache dal guscio usare le apposite forchettine o degli stecchi di legno.
Prima di cuocerle è necessario far spurgare le lumache.
Ponete i gasteropodi in una cesta di vimini o cassetta aerata, insieme alla crusca e a qualche foglia di insalata. Coprite e lasciate imprigionate per un paio di giorni le lumache, per farle spurgare. Poi lavatele abbondantemente in acqua con aggiunta di aceto e sale. Portatele ad ebollizione in acqua salata e sciacquatele ancora una volta.
In commercio si trovano anche quelle già spurgate.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Tomaxelle

zona di produzione: Genova e dintorni

curiosità: Pochi sono i piatti di carne della tradizione ligure, per ovvi motivi di mancanza di materia prima, e le tomaxelle sono tra questi. Il nome deriva dal latino tomaculum, tradotto in “salsicciotto”, e questa è la forma che hanno gli involtini nostrani.
Tra storia e leggenda si racconta che le tomaxelle furono pacifiche protagoniste durante l’assedio di Genova del 1800 che vedeva le truppe francesi strette tra gli inglesi e gli austriaci e fu ad un gruppo di questi ultimi, caduti prigionieri, che furono servite fumanti.
Nato come tipico piatto “del giorno dopo”, il ripieno era infatti figlio degli avanzi di arrosti o simili. Naturalmente con il tempo si è perduta la vocazione di recupero e gli ingredienti si sono arricchiti di elementi di pregio come i funghi secchi. Anche il sugo in cui si cuociono le tomaxelle ha subito varianti ed arricchimenti nei secoli: primo fra tutti il pomodoro perché ricordiamo che, nonostante Colombo, il pomodoro giunse molto tardi sulle nostre tavole dove il sugo era di norma in bianco.

caratteristiche: Piatto a base di carne di vitello, cotto in umido nel caratteristico “tocco” alla genovese. La tomaxella è un involtino di carne ripieno e arrotolato di antica tradizione.

preparazione: Ingredienti per 4 persone: 400-500 g di fettine di vitello, 150 g di poppa di vitello, 100 g di magro di vitello, olio, burro, la mollica di un panino, una tazza di brodo, 20 g pinoli, 30 g di funghi secchi, maggiorana, prezzemolo, aglio, parmigiano, 3 uova, sugo di carne.
Preparazione: scottare in acqua bollente la poppa e il magro di vitello. Nel mortaio, oppure nel frullatore, pestare tutti gli ingredienti, mantenere interi solo alcuni pinoli. Unire al preparato le uova sbattute ed il parmigiano, rendendo denso l’impasto che deve essere steso sulle fette di carne, precedentemente battute. Avvolgere le fette di vitello e chiuderle con gli stecchi o il filo bianco in modo da non far fuoriuscire il ripieno. Rosolare nel burro gli involtini, spruzzandoli con il vino bianco fino ad evaporazione.
A questo punto le tomaxelle vanno cotte nel sugo di carne alla genovese con l’aggiunta dei funghi secchi ammorbiditi nell’acqua tiepida e, facoltativamente, di un cucchiaio di conserva di pomodoro. Cuocere a fuoco lento, allungando il sugo con il brodo. In caso risultasse troppo liquido, inspessire il sugo con un cucchiaio di farina. Dopo un quarto d’ora circa le tomaxelle saranno pronte.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Carne sotto il testo

zona di produzione: Val Graveglia e Valle Sturla

curiosità: Ciò che rende unica la cucina locale non sono solo i prodotti del territorio ma a volte anche gli utensili ed il vasellame particolare che in pochi ancora utilizzano ma, soprattutto, in pochissimi sanno creare.
Fortunatamente ci sono degli artigiani nell’entroterra di Chiavari e di Sestri Levante in grado di fabbricare a mano delle curiose “campane ribassate” veri e propri forni portatili che per il loro utilizzo necessitano solo di un gancio e naturalmente della legna per il fuoco.
Sotto o testo, tipo di cottura che risale all’epoca preromana anche se per alcuni costituisce ancora il vero e proprio forno, si possono preparare varie specialità della tradizione culinaria contadina.
Qui proponiamo la carne, tipico alimento delle feste in tempi in cui il consumo di carne era scarso.

caratteristiche: Carne arrosto con patate la cui particolarità è data dal metodo di cottura.
preparazione: Disporre le costine di carne, a scelta tra carne di maiale, di agnello, di capretto o pezzi di manzo, insaporirla con aglio e rosmarino, disporla su una base di terracotta o ghisa insieme a delle patate e coprire con la campana già calda.
La giusta temperatura del testo si riconosce quando l’attrezzo cambia colore e diventa bianco.
Coprire la campana con la brace ed attendere la cottura della carne che, una volta pronta, avrà un sapore ottimo ed ineguagliabile.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Cima alla genovese

zona di produzione: Tutto il territorio regionale

curiosità: A çimma pinn-a, o re di piatti frèidi, (re dei piatti freddi) come la definì Aldo Aquarone in una “golosa “poesia, è l’immancabile piatto del desco festivo. Le male lingue sostengono che sia frutto della nota parsimonia locale: risparmiare sulla quantità di carne ed abbondare con altri ingredienti meno pregiati. La scarsità di carne, usata per fare la tasca, è giustifica più dalla mancanza reale di allevamento bovino in Liguria che dalla tirchieria: basta infatti assaggiare questa prelibatezza per capire che siamo di fronte a voci maligne. In realtà la cima all’origine era un piatto di recupero ma con il tempo ed il benessere si è trasformato in una ricca pietanza, gioia non solo per il palato ma anche per gli occhi: il variegato colore degli ingredienti rende particolarmente bella la fetta di cima, denominata localmente occhio.
Sembrerà strano ma elemento indispensabile di questo sostanzioso piatto è la maggiorana, a persa, onnipresente nei nostrani piatti tanto da caratterizzarli dando loro quel profumo e quella fragranza che sanno solo di Liguria. Esiste una versione della cima d’oltralpe, petto di vitello ripieno, dove manca però la maggiorana e ciò fa la differenza.
Elaborata è la sua preparazione che richiede tempo ed abilità: equilibrio nel dosare gli ingredienti del ripieno, dimestichezza nel cucire la tasca con il filo, cura nelle cottura avendo l’accortezza di avvolgerla in un telo di lino onde evitare fratture ed infine, l’ultimo antico rito, il riposo sotto un peso, che frequentemente era rappresentato dal ferro da stiro di ghisa, posto sopra al tagliere per far uscire eventuali infiltrazioni di brodo e per dare la caratteristica forma.

caratteristiche: Con un taglio di carne preso dalla pancia del vitello si crea una tasca che, riempita di frattaglie, piselli, uova, formaggio, dà vita alla cima.

preparazione: Ingredienti: tasca di pancia di vitello, animella, cervella, testicoli, poppa (i testicoli e la poppa possono essere sostituiti con carne di maiale), uova, aglio, funghi secchi, polpa di vitello, schienale, burro, pinoli, formaggio, maggiorana, piselli, spezie, brodo, sale. Lavare, riempire d’acqua la sacca per vedere se ci sono falle e asciugare bene.
Ripieno: far rosolare con il burro tutta la carne e quasi al termine aggiungere le animelle e la cervella. Quindi tagliare il tutto a pezzetti. Versare in una bacinella i piselli (una variante utilizza le coste di bietola), i pinoli, uno spicchio di aglio schiacciato, la maggiorana, i funghi ammollati, sale e spezie, abbondante formaggio grattugiato e uova sbattute o anche intere.
Amalgamare il tutto e riempire la sacca fino a tre quarti.
Cucire con spago sottile e ago. Pungere su ambo i lati e far cuocere in acqua con carota, cipolla, sedano per circa tre ore.
A cottura ultimata, farla raffreddare sotto peso. Servirla fredda tagliata a fette. In caso ne avanzasse si può friggere, anche se il gusto è sicuramente diverso. Nel Ponente ligure esiste una versione magra della cima, il cui ripieno non comprende la carne.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Lattughe ripiene

zona di produzione: Tutto il territorio regionale

curiosità: “Oh leitûga, çibbo inscipido,
dimme ûn pö comme ti peu
divventâ gustosa e sapida
e ciù bonn-a de i ravieu […]
Benchè Zena a te rivendiche
ti ë d’origine divinn-a […]
e o Segnö coi i so discepoli
o te deve avei mangiôu,
benchè i testi e e sacre cronache
no ne n’aggian mai parlou […].”

“O lattuga, cibo insipido, dimmi un po’ come pui diventare gustosa e saporita e più buona dei ravioli…Benché Genova ti rivendichi, tu sei di origine divina… e il Signore con i suoi discepoli ti deve aver mangiato, benché le sacre scritture non ne abbiano mai parlato…”. Così Nicolò Bacigalupo decantava quest’ottimo piatto della tradizione ligure del pranzo pasquale, periodo in cui le lattughe raggiungono la loro stagione migliore. Esistono due versioni dello stesso piatto: una di magro e una più grassa.
La prima, nota come fratti per le probabili origini conventuali risalenti forse già all’epoca medioevale, è molto diffusa nelle zone montane del ponente ligure e rappresenta un alimento sano e sostanzioso, anche senza la presenza di carne.
La seconda, al contrario, tradisce le sue origini alto borghesi per l’elevato spreco di foglie di lattughe e per la qualità degli ingredienti utilizzati per il ripieno. Apprezzate per la loro raffinatezza, le lattughe ripiene di carne erano presenti, come attestano documenti del XVIII secolo, sulle tavole delle nobili famiglie locali.

caratteristiche: In questo piatto della tradizione le foglie di lattuga fanno da involucro vegetale ad un elaborato ripieno che può contenere carne o essere “di magro”. Gli “involtini” di lattuga, cotti in umido, si accompagnano generalemente ai piselli.

preparazione: Ingredienti (tipo senza carne): lattughe cappucce, pomodori pelati, dado da brodo. Per il ripieno: pan grattato, prezzemolo e aglio tritati, maggiorana, latte, uovo, formaggio, pinoli, olio, sale, pepe. Per il ripieno, mescolare bene gli ingredienti, pestando precedentemente i pinoli, legando il composto con l’uovo e con il latte. Scottare le lattughe in acqua bollente. Dopo aver sgocciolato e allargato con cura le foglie, si pone il ripieno. La sommità si lega con uno spago. Si sistemano in un tegame con olio, brodo e pelati passati. Cottura a fuoco moderato per circa mezz’ora.
Ingredienti: (tipo con la carne) lattughe cappucce, filetto di vitello e animelle, farina, burro, cipolla, mollica di pane, latte, maggiorana, olio, brodo.
Preparazione: far rosolare con burro, cipolla e prezzemolo la carne tagliata a pezzetti. quindi aggiungere un cucchiaio di farina e il brodo facendo cuocere a fuoco lento. Quando è la cottura è ultimata, tritare e aggiungere la mollica di pane inzuppata nel brodo o nel latte e alcune foglie di maggiorana fresca. A questo si uniscono le uova sbattute con il formaggio e si amalgama il tutto. Si pone il ripieno tra le foglie precedentemente scottate, si chiudono alla cima e si pongono a cuocere con brodo.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Sbira

zona di produzione: Genova e dintorni

curiosità: Dimenticato come le tripperie stesse, il brodo di trippa, “a sbìra”, non è un piatto solo ligure, ma è talmente antico che vale la pena di ricordarlo. Ricordarlo a chi lo ha sorseggiato, a chi ne ha sentito solo parlare, raccontarlo a chi non ne sa nulla.
Nella sostanza non è altro che il brodo ottenuto dalla bollitura della trippa, in realtà è un pezzo di storia culinaria e sociale che mai come in questo piatto combaciano. Il nome stesso, sbìra, deriva dal nome dei suoi abituali consumatori, gli sbirri, cioè le guardie, e più precisamente i soldati di ronda alla torre Grimaldina di Palazzo Ducale, o le guardie daziare. Anche i camalli del porto erano tra i suoi estimatori. A tarda sera o al mattino presto si recavano nelle osterie per riscaldarsi con una tazza di codesto brodo, reso più spesso dall’aggiunta di qualche sparuta patata, pezzi di pane e in tempi di abbondanza, delle trippe stesse: ricordiamo che a Genova la trippa si chiama sempre con il plurale, le trippe.
L’etimologia della parola sbìra si può far risalire anche al genovese sbiro che significa miserabile e quindi, “a sbira” il cibo dei poveri.
Esistono versioni non filologiche più ricche di questo piatto che sa di Genova antica, quella vera dei carruggi, ma sono abbondantemente arricchite e questo ne svela le origini più recenti e non certo popolari.

caratteristiche: La sbira è il brodo ottenuto dalla bollitura della trippa, aromatizzato dai classici vegetali e dall’immancabile alloro.

preparazione: Ingredienti per 6 persone:
1 kg di trippa, alloro, sedano, 1 carota, pane raffermo, formaggio di grana grattugiato, sale e pepe.
Preparazione: lavare e sgrassare la trippa. Riempire una pentola alta con abbondante acqua; arricchitela con la carota, una foglia di alloro, 1 gamba di sedano e, se volete, un dado da brodo. Portare ad ebollizione, quindi versarvi la trippa e farla cuocere per almeno un’ora. Porre nelle scodelle le fette di pane raffermo su cui verserete il brodo e la trippa tagliata a listerelle. Insaporite il tutto con il formaggio di grana, un pizzico di sale e di pepe.
Per renderla più sostanziosa si possono aggiungere delle patate bollite tagliate a pezzi.

Altra versione: Ingredienti per 4 persone: 1 kg di trippa (il centopelle), 70 g di burro, lardo, olio, carota, cipolla, sedano, prezzemolo, 1 manciata di funghi secchi e di pinoli, sugo di carne (vedi scheda), formaggio di grana.
Far ammorbidire i funghi in acqua tiepida, tritarli insieme ai pinoli e rosolarli nel burro, l’olio ed il lardo. Versarvi poi la trippa, tagliata in strisce sottili, e farla colorire. Quindi aggiungere il sugo di carne. E, volendo, un bicchiere di vino bianco. Cuocere per un’ora circa. Nel frattempo preparare il brodo secondo la ricetta precedente. Porre nelle scodelle le fette di pane e versarvi il brodo e successivamente la trippa in umido con l’aggiunta di una spolverata di formaggio grattato.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Stecchi

zona di produzione: Genova

curiosità: Ancora una volta appare chiaro che nei suoi lunghi e fruttuosi viaggi per mare, la Repubblica di Genova venne a contatto con popoli diversi di cui si impadronì non solo di terre e ricchezze, ma anche degli usi e costumi locali. Dal mondo arabo importò oltre a sfiziosi ingredienti, numerose ricette e metodi di cottura. Lo stesso piatto che qui proponiamo, gli stecchi, ha chiare origini orientali dove ancora oggi vengono proposte versioni simili sia fritte che alla brace.

caratteristiche: Gli stecchi sono un piatto elaborato e ipercalorico, ideale per i giorni di festa. L’aspetto è quello di un fuso, reso dorato e croccante dall’olio bollente, al cui interno si nascondono carni e verdure. Il nome deriva dallo stecco in legno su cui si infilzano i vari ingredienti, sia per permettere un’ottima cottura, sia per poterli impugnare.
Un tempo gli stecchi in legno usati erano resi gialli dall’immersione nello zafferano ed erano conosciuti con il nome di “stecchi di Genova”. Questa tradizione si è ormai perduta.

preparazione: Ingredienti per 4 persone: 200 g di magro di vitello, 100 g di schienali, 150 g di vitella, 250 g di granelli, 150 g di animelle, 150 g di poppa di vitella, 4 creste di gallo, 3 carciofi, 30 g di funghi secchi (oppure 3 cappelle di funghi porcini freschi), 125 ml di vino bianco, la mollica di un panino, 50 g di formaggio grattugiato, 3 uova, pangrattato, 1 tazza di brodo, acqua tiepida, olio extravergine d’oliva, noce moscata, sale, stecchi di legni lunghi.

Preparazione: Lavare la cervella e scottarla leggermente in acqua bollente. Far rosolare in una padella ben unta la carne, iniziando dal vitello e poi via via tutte le altre carni a secondo del tempo di cottura. Spruzzare di vino e salare. Tagliare la carne e le frattaglie a dadetti. Aggiungere i carciofi tagliati a fettine e i funghi freschi. Quando tutto è pronto infilzare sugli stecchi alternando le carni alle verdure. Usare solo parte della carne, conservandone l’altra parte. Frullare, o meglio pestare nel mortaio, le carni avanzate ed unirle a 3 rossi d’uovo e 2 albumi, i funghi fatti rinvenire in acqua tiepida e strizzati, la mollica bagnata nel brodo, il parmigiano e la noce moscata, sale e pepe. Queste composto andrà messo sugli stecchi in modo da fasciare la carne e le verdure. L’aspetto sarà quello di un fuso.
Si raccomanda di lasciare gli estremi degli stecchi liberi per permettere l’impugnatura.
Montare a neve il tuorlo rimasto e immergevi gli stecchi, poi passarli nel pane grattato ed infine tuffarli nell’olio bollente.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Libretto

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, lievito madre, lievito di birra, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: farina e lievito madre vengono impastati con acqua e sale. Si lascia lievitare per diverse ore, poi si aggiunge nuova farina e lievito di birra. Si formano dei pani di forma rettangolare con taglio al centro del peso di circa 50/60 gr. Si infornano dopo aver concluso la fase di alzata.

Area di produzione: tutta la Liguria.

Note: dopo la cottura il pane assume un aspetto rigonfio come un libro aperto, da cui il nome. Un pane tradizionale di tutta la regione; del tutto simile nell’impasto è la cosiddetta “papera” monferrina (vedi scheda).

Pane di Chiavari

Composizione:
a. Materia prima: fior di farina di grano tenero, acqua, polpa di olive nere, lievito di birra, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: farina, acqua, lievito e pasta di oliva vengono impastate fino ad ottenere un elaborato omogeneo. Si lascia riposare e si formano dei pani che, dopo aver completato la seconda alzata si cuociono nel forno ben caldo.

Area di produzione: a Chiavari nella riviera di Levante in Liguria.

Note: è un pane ricco di sapore conferitogli dalla pasta di olive che viene tenuta in olio extravergine.

Pan martin

zona di produzione: Entroterra spezzino e genovese, in particolare, Val di Vara, Val Graveglia e Valle Sturla

curiosità: Le castagne furono talmente fondamentali per l’alimentazione e, spesso, sopravvivenza delle popolazioni dell’entroterra, da essere considerate il pane dei poveri. Oltre a questa esplicita metafora va detto che un po’ di farina di castagne veniva sempre unita a quella più preziosa e rara di grano per preparare il pane. Tale variante arricchiva di zuccheri il prodotto da forno e lo rendeva più sostanzioso e nutriente. Questo tipo di pane scuro, di tradizione domestica, prese il nome di Pan Martìn probabilmente dal giorno di S. Martino, 11 novembre, quando era pronta la farina di castagna. Le castagne, secche e battute, a dorso di mulo giungevano al mulino che generalmente sorgeva tra le gole di un torrente, per meglio sfruttare la forza dell’acqua necessaria al movimento della ruota.
Era consuetudine lasciare al mugnaio, come compenso per il lavoro di trasformazione, una parte della produzione di farina e il resto si portava a casa dove veniva conservata con cura nei sacchi e nel bancà, bancale (madia).

caratteristiche: Pane dal caratteristico colore scuro e dall’aroma delicatamente dolce che gli viene conferito dalla presenza della farina di castagne nella miscela di preparazione.

preparazione: Ingredienti: Farina di castagne, farina di grano, acqua, sale, lievito.
Preparazione: Unire gli ingredienti ed impastarli bene, lasciare ripose il prodotto ottenuto per 45 minuti.
Il pan Martìn viene cotto sotto il testo già caldo su un letto di foglie di castagno per un’ora e mezza.
Il luogo dove viene posto tradizionalmente il testo è l’essiccatoio, struttura di dimensioni variabili con muratura in pietrame a secco, internamente non intonacato; il solaio è costituito da una grata in legno su cui vengono disposte le castagne, in fase di essiccazione.
Il Pan Martìn è ottimo consumato caldo insieme al latte, ai formaggi e ai salumi dell’entroterra.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Focaccia

zona di produzione: Tutto il territorio regionale

curiosità: Esiste l’English breakfast, il Continental breakfast, la colazione all’italiana e, la nostrana, colazione genovese: caffè e focaccia. Presente fin dall’infanzia al risveglio, immancabile merenda di metà mattina, insostituibile compagna del classico bicchiere di bianco come aperitivo, insomma per i Genovesi la focaccia all’olio è un mito, un simbolo della propria terra da portare con sé nel cuore, e non solo, anche oltremare nelle colonie del sud America dove abbondano i panettieri che sanno da generazioni preparare un’ottima fugassa. Impensabile un ligure che non ami la focaccia nostrana bassa, ben unta, calda appena uscita dal forno.
Un amore incondizionato ed incontaminato dalle mode spesso fuorvianti, un amore che trova la sua ragione d’essere nella semplicità degli ingredienti: farina, acqua, lievito, olio, sale, elementi semplici che danno origine ad un piatto genuino e schietto come il carattere dei Liguri e della Liguria. Anche della focaccia esistono varie versioni nate dalla fantasia e spesso dall’esigenza di non sprecare nulla, come la focaccia con le olive, co-e porpe, come si chiama nel Levante, co-a murcia come si chiama nel Ponente, per non buttare le olive già spremute; con le cipolle, un ‘efficace deterrente per marinai fedifraghi, con la salvia ed infine con il formaggio.
La storia della focaccia è lunga e varia a secondo delle regioni ma è la sua presenza è comune in tutto il bacino Mediterraneo, nota comunque già presso i Fenici e i Cartaginesi che usavano arricchirla con vari ingredienti. Famose anche, per la letteratura epica, quelle dei Greci, spesso erano fatte con orzo, segale, miglio ed altre farine. Il nome deriva dal latino focus fuoco, quindi cotta sul fuoco. Le focacce erano il rituale che veniva offerto agli dei dai Latini. Solo successivamente la libagione passò a significare l’assunzione di liquidi. I cereali in quanto alimento fondamentale per la vita dell’uomo, hanno avuto una valenza rituale che si è conservata fino in epoca recente, nel nostro paese, soprattutto in meridione. Immancabile sulla mensa Medioevale ed in ogni periodo di carestia. Si ricorda che nel Rinascimento venisse consumata insieme al vino durante la celebrazione dei matrimoni al momento della benedizione. La tradizione piacque al punto che dai matrimoni si passò anche ai funerali, e si sa, il troppo è troppo: l’allora vescovo Matteo Gambaro proibì tale rito godereccio.

caratteristiche: Calda, fragrante e appetitosa, non ci sono abbastanza aggettivi per descrivere questa prelibatezza che può accompagnare la giornata dalla colazione mattutina allo spuntino notturno.

preparazione: Ingredienti: 500 g di farina di grano tenero, 1 dl d’olio d’oliva, 30 g di sale, 30 g di lievito di birra, acqua. Lavorazione: formare con parte della farina una fontana sulla spianatoia. Sciogliere il lievito di birra con acqua tiepida ed unirlo alla farina che deve essere lavorata come la pasta del pane. Lasciare riposare la pasta sotto un canovaccio, meglio se di lana, in un luogo tiepido per almeno 2 ore.
A questo punto prendere la pasta lievitata ed unirvi la restante farina, l’olio e, facoltativo, mezzo bicchiere di vino; lavorare per ottenere una pasta morbida e far nuovamente lievitare sempre sotto uno strofinaccio per altre 2 ore. Dopo la lievitazione, stendere la pasta in una teglia, la lama, con le mani e lasciare le impronte delle dita che raccoglieranno l’olio versatovi. Spolverizzare con il sale grosso che deve essere frantumato da una bottiglia usata come mattarello. Lasciare riposare ancora prima di cuocere in forno a 200-230° per circa 30 minuti. La focaccia può essere aromatizzata alla salvia che deve essere tritata ed aggiunta direttamente nell’impasto, con le olive tritate ed anch’esse unite alla farina, oppure arricchita con le cipolle che tagliate a fette si cospargono sulla pasta già stesa prima di infornare.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Focaccia al formaggio di Recco

zona di produzione: Recco località della provincia di Genova

curiosità: È errato e presuntuoso dire che la focaccia con il formaggio sia nata nella nostra riviera di Levante anche perché già i Romani ne preparavano una simile nota come scripilita, ed ancora antistorico sarebbe dire che sia nata proprio a Recco, perché nell’entroterra era tradizione preparala per il giorno dei morti per ricordare i tristi eventi che la videro nascere: gli abitanti delle coste furono spesso costretti a rifugiarsi sui monti per fuggire agli attacchi saraceni dove per sfamarsi avevano ben poche cose, soprattutto, latte, farina e formaggette di pecora. Dalla fantasia della disperazione nacque la fugassa co-o formaggio.
È vero però che, non molti decenni orsono, fu proprio quella piccola cittadina del Levante che riscoprì quel piatto e ne fece diventare un specialità che non conosce rivali e fa ampiamente sfigurare le numerose imitazioni. Piatto notissimo di Recco tanto da essere spesso chiamata semplicemente come “focaccia di Recco”, inconfondibile sia per la bontà della sfoglia sia per la qualità del formaggio che deve essere leggermente saporito.

caratteristiche: Farina di grano duro, acqua e sale quanto basta per una sfoglia che, stesa su una teglia ben unta, racchiuda della buona formaggetta ligure a pezzetti…
Non più di 15 minuti in forno ed ecco uscire una dorata prelibatezza con una calda e fragrante colata di formaggio fuso.

preparazione: Ingredienti: 300 gr di farina di grano duro, 500 gr di formaggetta ligure, acqua, olio, sale.
Preparare la sfoglia unendo 2 parti di farina ed una d’acqua, c’è chi mette anche un po’ d’olio. Lasciare riposare sotto uno strofinaccio in un luogo tiepido a riparato dalle correnti. Dividere la pasta in due e tirare due sfoglie molto sottili. Stenderne una sul fondo di una teglia ben unta e distribuivi sopra la formaggetta a pezzetti, in caso non fosse reperibile la formaggetta locale si può usare della crescenza, coprire con l’altra sfoglia, chiudere bene i bordi e praticare dei piccoli fori sullo strato superiore. Spalmate con olio e infornate per 10-15 minuti ad elevata temperatura. La focaccia sarà cotta quando avrà raggiunto un bel colore dorato ed il formaggio uscirà dai fori creando una calda ed ottima colata. Inutile dire che la cottura nel forno a legna dà risultati migliori.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Focaccine di mais

zona di produzione: Val Petronio (GE), Valle Stura (GE), Val di Vara (SP)

curiosità: Le focaccine di mais sono diffuse su quasi tutto il territorio regionale e cambiano nome e dimensioni a seconda del luogo di produzione: fugassetta in val Petronio e dintorni, revzora in valle Stura.
Anche il metodo di cottura subisce delle variazioni a seconda delle consuetudini locali: in val Petronio e levante ligure si cuociono utilizzando i testetti, tegami di argilla fatti arroventare direttamente sul fuoco, in altre zone (Valle Stura) nel forno a legna.
Muta anche il companatico. Se nel levante sono le erbette di campo (prebuggiòn e cavolo nero) nel ponente si prediligono i salumi come ad esempio la testa in cassetta. Quest’ultimo abbinamento viene riproposto nella sagra di primavera che si svolge a Campo Ligure (Valle Stura, Genova).
Dopo la cottura il prodotto risulterà friabile e decisamente saporito.
Nell’entroterra del levante (Chiavari, Lavagna, Sestri) la fugassetta si degusta insieme ai cavoli broccoli di Lavagna (cavoli neri) per assaporare l’olio novello, appena franto.

caratteristiche: Nelle fugassette de mega, la farina bianca viene sostituita da quella più povera e rustica del mais che conferisce all’impasto un aspetto più grezzo ma un delizioso colore dorato.

preparazione: Ingredienti: farina di mais, olio, acqua, sale.
Preparazione: unire la farina, l’olio, l’acqua e il sale, ottenendo un impasto denso.
La cottura si esegue in forno a legna, con gli appositi testetti o nel testo (Valle Stura).

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Pizza all’Andrea

zona di produzione: Tutto il territorio regionale

curiosità: Ai cittadini illustri di solito si dedica un monumento, spesso equestre, al celeberrimo Andrea D’Oria (1466-1560) gli Onegliesi consacrarono una pizza! Ecco spiegato il nome che è strettamente legato a quello dell’importante ammiraglio che sembra ne fosse particolarmente ghiotto. Questa pizza, differente da quella napoletana perché cotta nel tegame, è diffusissima in tutto il Ponente ligure anche oltre gli attuali confini nazionali. La ritroviamo infatti nel sud della Francia antica ultima propaggine della Repubblica di Genova, con il nome di pissalandière o pizzalandeira, leggermente più bassa e croccante. La ricetta originale si è nei secoli arricchita di nuovi ingredienti a cominciare dal pomodoro e dalle olive. Ricordiamo che esiste anche la sardenaira, cioè pizza con sardine, altra versione dello stesso piatto, dove le acciughe sono sostituite appunto dalle sardine. Non sempre le regola sono rispettate e le due varianti tendono spesso ad omogeneizzarsi ottenendo un unico piatto dai nomi diversi: pisciadela, piscirà, sardenaira, machetaera, machetusa, pasta cu a pumata.

caratteristiche: Focaccia ai pesci salati con parecchi nomi locali: Macchettusa (Apricale), Pissadala (Bordighera), Pissalandrea (Imperia), Pissaladiere (Nizza), Piscarada (Pigna), Sardenaire (Sanremo).

preparazione: Focaccia di farina, acqua, sale, olio e lievito, ricoperta di un battuto di cipolla, salsa di pomodoro e di acciughe (Macchettu). Gli ingredienti sono 1 kg di farina, g 75 di lievito di birra, mezzo bicchiere d’olio di oliva, mezzo bicchiere di vino bianco, cinque acciughe salate, due spicchi di aglio, origano, basilico, mezza cipolla, olive di riviera, salsa di pomodoro, olio e sale. Per l’impasto si procede come per la focaccia all’olio. Sulla superficie della focaccia si spalma poca salsa di pomodoro e si dispongono le acciughe tagliate a pezzi, le foglie di basilico intere, le olive e una spolverata di origano. Si cosparge di olio e si inforna.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Testaroli

zona di produzione: Val Graveglia, Val di Vara, La Spezia e territori limitrofi

curiosità: I Latini chiamavano testa il mattone, la tegola, il vaso di terracotta o comunque un coccio, i Liguri dell’entroterra chiamano testetti i tegamini di argilla utilizzati per cuocere i testaieu: focaccine di farina, acqua e sale.
Spendiamo qualche parola ancora sui testetti perché stanno diventando sempre più rari dato che non c’è quasi più nessuno in grado di forgiarli.
La lavorazione è lunga, bisogna innanzitutto procurarsi la terra argillosa proveniente possibilmente da cave di diaspro, poi con l’ausilio di una macina, che sostituisce l’antico batuelo mazzetta in legno, si impasta la terra con la giusta dose di acqua. L’impasto ottenuto si deve far asciugare per almeno una settimana, dopodiché l’artigiano crea delle masse rotonde che vengono posizionate in un apposito stampo di ferro che dona all’argilla la forma del testetto. C’era un tempo in cui lo stampo di ferro non esisteva e l’impasto d’argilla veniva posto sopra una tavoletta d’ardesia e grazie alla pressione delle dita e di un cerchio in metallo si creava il tegame dal bordo tondo. I tegamini ottenuti vengono messi ad asciugare al sole per una settimana circa e poi cotti in forno. A questo punto sono pronti per cucinare i testaieu. Piatto tipico del Levante Ligure muta nome e caratteristiche a seconda del paese di produzione e, nelle terre di confine, risente l’influsso della tecnica della Lunigiana. La bontà e straordinarietà del piatto è racchiusa non tanto negli ingredienti che sono estremamente semplici, ma nella tecnica di cottura che prevede l’utilizzo dei testetti impilati sul fuoco dove diventano roventi e in grado di cuocere la pastella.

caratteristiche: Semplici focaccine di farina, acqua e sale, cotte nel caratteristico coccio da cui prendono il nome.

preparazione: Ingredienti: 1/2kg di farina di grano tenero, 1/2 litro d’acqua, sale.
Preparazione: amalgamare la farina con l’acqua e il sale. Porre i testetti impilati sul fuoco sino ad un massimo di quindici per volta, per 10/12 minuti, il tempo necessario a farli diventare roventi; quindi toglierli dal fuoco usando delle pinze e versarvi un cucchiaio di pastella in ogni tegamino tranne l’ultimo che funge solo da coperchio; riimpilarli per altri 5/6 minuti senza rimetterli sul fuoco. Il calore dei testetti cuocerà i testaroli che una volta pronti si gustano conditi con olio e formaggio oppure con il pesto. Possono anche essere consumati in sostituzione del pane insieme a salumi o formaggio.
I panigazzi spezzini che prendono nome da panico, cereale simile al miglio ingrediente di pane povero. Pur essendo molto simili ai testaroli, una volta cotti nei testetti o anche in testi più grandi, vengono raffreddati, tagliati a rombi o a losanghe e fatti bollire. Tradizionalmente sono conditi con pesto, olio e formaggio oppure con sugo di funghi o di carne, come delle lasagne. È possibile cuocere i testaieu anche sulla piastra della stufa o della cucina a gas ma non si deve sperare di ottenere lo stesso risultato.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Farinata di ceci

La farinata di ceci è una focaccia salata, sottile, tipica di alcune zone del bacino del mediterraneo, ed originaria della cucina ligure. Infatti è proprio al confine con la Liguria, nella zona della ormai soppressa Provincia di Novi Ligure, che questo prodotto ha la sua diffusione maggiore in Piemonte.È un prodotto di facile preparazione, se si esclude la necessità di disporre di una grande teglia di rame e di un forno a legna.Gli ingredienti sono solo farina di ceci, acqua, olio e sale; con una eventuale aggiunta di cipolla; di solito la farinata è aromatizzata con rosmarino fresco.

Territorio interessato alla produzione: La farinata di ceci è un prodotto tradizionale della zona appenninica della provincia di Alessandria, al confine con la provincia di Genova.

Cenni storici e curiositàLe origini della farinata di ceci risalgono addirittura al periodo dei Greci e dei Romani, quando, i soldati preparavano, per nutrirsi velocemente, un impasto di farina di ceci ed acqua che facevano poi cuocere al sole o sullo scudo. La ricetta ha attraversato i secoli fino al medioevo, dove troviamo la farinata come sostituto del pane per accompagnare piatti di formaggio o verdura.È di questo tempo la leggenda più accreditata sulla nascita della farinata di ceci secondo la quale si racconta che sia nata nel 1284, dopo la battaglia di Meloria, quando Genova sconfisse Pisa.Durante il ritorno per mare, per via di una tempesta, si rovesciarono alcuni barili d’olio e di farina di ceci che inoltre si bagnarono di acqua salata. Visti i tempi, l’intruglio fu comunque somministrato ai marinai, che, nel tentativo di renderlo meno sgradevole, lo misero ad asciugare al sole, ottenendo la prima farinata.La ricetta fu chiaramente migliorata e si introdusse il non banale particolare di cuocere l’impasto nel forno.

Farinata ligure di ceci

zona di produzione: Tutto il territorio regionale

curiosità: La leggenda la vuole veder nascere in tempi lontani ed imprecisati, forse romani, durante un lungo assedio quando i soldati, presi dalla fame, fecero di necessità virtù ed usarono gli scudi come improvvisati tegami in cui cuocere i ceci frantumati alla bella e meglio ed uniti all’olio e all’acqua. La storia la vuole come uno dei piatti più conviviali che la nostra cucina conosca. Nata in tempi lontanissimi quando la farina di grano era un lusso per pochi, è presente con mille sfaccettature e varianti in molte regioni italiane tra cui la Toscana e la Sicilia. In antico si chiamava scripilita nome derivatole dal latino scribilita che in realtà era una focaccia con il formaggio e proprio alla scripilita si rivolge un decreto legge del 1447 che impediva tassativamente l’uso di olio scadente per la sua preparazione. Pochi sono gli ingredienti per fare la farinata: farina di ceci, acqua, e l’olio appunto ma il successo non è del tutto scontato perché fondamentale è l’uso di una grande teglia di rame, il testo, mossa da forti braccia, in quanto molto pesante, e soprattutto il forno a legna che la rende calda e croccante soprattutto ai bordi, parte della farinata più ambita, tanto che una bella ragazza si usava appellare come fainà di orli (farinata dei bordi), ma sono ricordi di altri tempi. Immancabile da i fainotti, coloro che preparano la farinata, dove è impossibile resistere al richiamo di “bella cada sciortia d’into forno oua” (bella calda, uscita ora dal forno) e farsene dare ‘na pappiâ (un cartoccio). Unisce tutti, nonostante le umili origini, per un pasto veloce o un sostanzioso antipasto al di fuori delle mode. Per i più tradizionalisti è rimasta nel menù del venerdì e della sera di Capodanno che sappiamo a Genova essere di magro.

caratteristiche: Semplici e pochi gli ingredienti per una buona farinata: farina di ceci, acqua e olio ma fondamentale è l’uso di una gran teglia di rame e del forno a legna che rende l’impasto caldo e croccante specialmente ai bordi, parte più contesa della farinata.

preparazione: Ingredienti: 300 g di farina di ceci, 1 litro d’acqua, 1 bicchiere d’olio, sale, pepe.
Lavorazione: stemperare in acqua tiepida la farina rimestando accuratamente con una frusta o un cucchiaio di legno. Salare leggermente. Continuare a mescolare onde evitare grumi. Il composto così ottenuto deve risultare abbastanza liquido. Lasciare riposare per 4-5 ore. Quindi raccogliere con un cucchiaio l’eventuale schiuma che si può formare in superficie e, se necessario, passare al colino per eliminare i grumi che si possono essere formati. Versare la pastella in una teglia di rame stagnato larga circa 50 cm, quelle professionali possono raggiungere i 150 cm, ed alta non più di tre cm, in cui si è versato il bicchiere d’olio; mescolare ancora per unire gli ingredienti ed infornare per 10 – 15 minuti. È importante che il livello del composto sia uniforme nella teglia onde evitare ispessimenti che comprometterebbero il risultato. Il calore del forno a legna sarà sufficiente a rendere velocemente croccante e dorata la farinata che, ricordiamo, si può cuocere anche nel forno a gas o meglio elettrico ad alta temperatura, ottenendo discreti risultati.
La farinata si mangia tiepida, insaporita con pepe nero macinato. Esistono diverse varianti, soprattutto nel ponente ligure, aggiungendo all’impasto base: rosmarino, borragine, carciofi, funghi, gorgonzola, cipollotti e bianchetti infarinati. Questi ingredienti vanno aggiunti dopo aver mescolato l’olio, subito prima di infornare.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Corsetti del levante ligure

zona di produzione: Tutto il territorio dell’entroterra di Chiavari e del Genovesato

curiosità: Nel Levante ligure con la parola corzetto (o crosetto o crozetto) si indica un tipo di pasta tipica buona, bella e curiosa.
I corzetti, sorta di lasagnette tonde arabescate, sono di antica tradizione: il nome sembra derivare da croxetta cioè piccola croce che quasi sempre vi era impressa. Per la loro bellezza venivano presentati nei menù dei pranzi ufficiali delle famiglie nobili che usavano apporre sulla pasta il loro stemma; oggi vengono proposti, di dimensioni minori, spesso durante i banchetti di nozze con le iniziali degli sposi o dei più noti pastai locali.
Corzetto però è anche lo stampo in legno necessario per creare le decorazioni che caratterizzano ed abbelliscono la pasta. Gli stampi, precedentemente torniti, vengono incisi ancora a mano da pochi ed abili intagliatori che con sgorbie e tasselli “disegnano” forme diverse e spesso bizzarre sul legno. Per tale lavorazione vengono utilizzati legni di pero, melo, faggio o acero, legni cioè che non contengono il tannino: quest’ultimo, rilasciato nell’alimento durante l’impressione, potrebbe risultare sgradevole al gusto.
Gli stampi per i corzetti sono composti da due parti distinte: una che ha la forma di un vero e proprio timbro e l’altra di un cilindro con una parte incisa ed una concava per tagliare la pasta. Le incisioni sono solitamente differenti sulle due parti.
Anche la fantasia aiuta in cucina.

caratteristiche: Pasta fresca di farina di grano duro a forma di dischetti che vengono stampati con attrezzi speciali (timbri di legno) i quali lasciano impressi disegni.

preparazione: Ingredienti: 6 hg di farina bianca, 3 rossi d’uovo, acqua, sale.
Lavorazione: versare sulla spianatoia la farina ed impastarla con le uova e l’acqua. Lavorare la pasta fino a renderla elastica. Una volta tirata la sfoglia si divide in piccoli cerchi e poi, grazie alle due forme di legno incise, si procede alla decorazione: il disegno resterà in rilievo e questo permetterà di trattenere il sugo che solitamente si ottiene da un battuto di carne bianca, cipolla, sedano ed alloro oppure si unisce il burro con i pinoli, la maggiorana o la salvia ed il formaggio.
Cuocere in acqua bollente per circa 30 minuti, scolare e condire a piacere.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Corsetti della Val Polcevera

zona di produzione: Val Polcevera

curiosità: “Teresinna fa i corzetti, falli boin e falli netti”.
(Teresina va a fare i corzetti falli buoni e falli belli) canta un’antica e nota filastrocca che non specifica se si tratti di quelli stampati del Levante o ad 8, tipici della Val Polcevera. Questa pasta è frutto dell’abilità di mani sapienti e di una leggera pressione delle dita, da cui il detto: tiae co e dië (tirati con le dita), che sulla sfoglia dona a questo unico tipo di pasta la forma di una farfallina.
Oggi, con meno fantasia ed abilità, si utilizza al posto delle dita una pressa con stampo speciale per sagomare l’impasto steso.

caratteristiche: Pasta fresca a forma di otto della lunghezza di cm 1. L’impasto utilizza farina di grano tenero.

preparazione: Ingredienti: 500 g di farina, 3 uova, sale, acqua tiepida.
Lavorazione: formare un impasto unendo tutti gli ingredienti, lavorarlo sino a quando sarà sufficientemente elastico e sodo. Far riposare per almeno mezz’ora. Quindi staccare tanti piccoli pezzetti delle dimensioni di un cece, arrotolarli tra i palmi delle mani o direttamente sulla madia, allungarli leggermente e schiacciarli al centro creando dei piccoli 8. Lasciarli asciugare, cuocerli in abbondante acqua salata e condirli con sugo di carne o funghi. Nonostante le piccole dimensioni si consumano esclusivamente asciutti.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Raviolo alle erbette

zona di produzione: Tutto il territorio regionale ma in prevalenza nel levante genovese

curiosità: Unica ed inconfondibile è questa versione dei ravioli di magro dal gusto leggermente amarognolo donatole dall’insieme di erbette selvatiche, il Prebuggion, che sembra chiamarsi così perché durante la crociata Goffredo di Buglione ammalato fu miracolosamente guarito da una improvvisata minestra a base di erbe selvatiche. Può essere ma in Ligure prebuggion sta ad indicare la bollitura e quindi la cottura delle erbe.
Il nome pansoti deriva invece da pansa, pancia per la loro forma panciuta. Di recente nascita, questo piatto non è citato nei testi antichi dove troviamo invece i ravioli di magro.

caratteristiche: Ravioli alle erbette, vegetariani, sono presenti su tutto il territorio regionale. Di bietole, ortiche, borraggini, asparagi selvatici, i più caratteristici sono i pansoti alla maniera di Recco (Genova).

preparazione: Ingredienti: borragine e bietole (meglio se si ha a disposizione il misto di erbette selvatiche che costituisce il cosiddetto “Prebuggion”) in tutto g 600; farina g 400; quagliata (prescinseua) g 150, due uova; formaggio parmigiano; vino bianco; sale
Prendere le verdure e fare bollire 5 minuti, quindi premerle affinché diano tutta l’acqua passarle in padella con olio e cipolla e gusti. Preparare un composto formato dal tritato delle erbette, dalla quagliata, dal formaggio grana, dalle uova e dal sale. Preparare e quindi tirare una sfoglia larga e sottile costituita da farina e vino bianco, dalla quale si ricavano dei quadrati di circa 15 cm di lato, entro i quali sarà posta una nocciola di composto.
Si avvolgerà poi la pasta a formare un fagottino, fermandolo nel punto di unione dei lembi con una lieve pressione delle dita.
Quando sono abbastanza asciutti, gettare i ravioli a poco per volta in acqua bollente, osservando però che non sia troppo salata. Si suole condirli con la classica salsa di noci.
La lavorazione del raviolo è eseguita artigianalmente, il mercato di sbocco è locale o regionale, ed è possibile degustarli in trattorie e agriturismi.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Raviolo ligure

zona di produzione: Tutto il territorio regionale

curiosità: Come tutti i miti, anche sua maestà il raviolo ha dato sfogo alla fantasia sulle sue origini si narra che a Gavi ora in provincia di Alessandria, un tempo entro i confini della Liguria, vivesse nel lontano XII secolo una famiglia proprietaria di una nota locanda che sembra abbia inventato un succulento piatto che prese nome dal loro cognome, Raviolo appunto. Tale famiglia divenne ricca e famosa e volle apporre sull’acquisito titolo nobiliare un raviolo come stemma. Un’altra storia, più tarda, vede l’origine dei ravioli nel sud d’Italia, dove il beato Guglielmo di Malavalle benedisse i ravioli di crusca che gli furono serviti e li tramutò nello stupendo manicaretto. Si racconta anche di una povera donna dal cuore grande che voleva santificare il Natale con un pasto degno di tale occasione. Ma la sue scarse ricchezze le permisero solo di riempire dei quadrati di pasta con verdure, avanzi di carne e molto raviggiolo, formaggio detto così perché pizzicava come i ravanelli. Ecco nascere i raviggioli, poi ravioli. Queste le leggende, la storia comunque non manca e conferma le antiche origini. Anzi, già nella cucina babilonese, egizia, greca e romana esistono piatti similari. Con esattezza sappiamo che esistevano nel Medioevo perché li cita il Boccaccio nella nota novella di Calandrino (Decamerone VII, 3), inoltre un documento datato 1182 parla di un contadino savonese intento a preparare un pasto con i ravioli. Impossibile dire quando e dove siano nati i ravioli, impossibile dare un nome ed un cognome a chi da Bacigalupo fu definito con goloso entusiasmo un “gastronomico portento”. Possibile e doveroso è però dire che ogni regione li caratterizza con un ripieno differente e che ovunque sono il piatto della festa. I ravieu liguri sono comunque riconoscibilissimi se non altro per la presenza delle boraggini, che insieme a tutto il resto, li rendono buoni. Negli anni Trenta del Novecento artisti locali, facenti parte del movimento Futurista, scrissero all’ideatore Tommaso Marinetti per supplicarlo di salvare i nostrani ravioli dalla mano progressista che voleva eliminare nella sua propaganda internazionale contro la pastasciutta, le cucine regionale perché “stantie”. Nel 1841 sono persino stati definiti la più squisita fra tutte le paste da minestra del mondo.

caratteristiche: Pasta di farina di grano dalla classica forma quadrata-rettangolare il cui ripieno è a base di carne ma immancabile è la borragine e la maggiorna. Esiste anche la versione magra con solo ripieno vegetale di spinaci, bietole e ricotta.

preparazione: Ingredienti: per la pasta: 500 g di farina, 3 uova, acqua, sale. Per il ripieno: mezzo kg di manzo di vitello, 300 g di polpa di vitello, cervello di vitello, 50 g di schienali e ad una animella, 1 mazzo di boraggini, 1 scarola, mollica di pane, maggiorana, sale, 4 uova.
Lavorazione: Prendere scarola e borragine e fare bollire 5 minuti, quindi premerle affinché diano tutta l’acqua. Prendere il manzo di vitello rosolato nel burro in una casseruola, e 300 gr di polpa di vitello, da bollire 10 minuti; mettere un cervello di vitello, in acqua bollente, e tolta la pelle unitamente a schienali e ad una animella, tritare il tutto, cioè, magro, polpa, erbe, ecc. minutissimamente, pestate a poco per volta nel mortaio fino ad ottenere una pasta. Metterla in un recipiente con sopra uova fresche bene sbattute, aggiungendovi una piccola mollica di pane inzuppata nel brodo o in sugo di vitello, parmigiano, un poco di spezie, poca maggiorana ben tritata e sale. Rimestare bene ed il ripieno è pronto, parte principale dei ravioli. Prendere quindi la farina di grano, stemperarla in acqua tiepida a cui si uniscono uova fresche, ridotta in pasta morbida, quindi tirare una sfoglia larga e sottile, e preso subito il ripieno già preparato, in piccole pallottoline uguali sulla meta’ della sfoglia disposte in tante linee orizzontali e separate l’una dall’altra da uno spazio di due o tre dita: coprire con un’altra sfoglia e separare i pallini con tagli o girelle. Quando sono abbastanza asciutti, gettare i ravioli a poco per volta in acqua bollente, osservando però che non sia troppo salata e conditeli con sugo di carne e parmigiano o burro e salvia o funghi.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Trofie

zona di produzione: Recco e Levante Genovese

curiosità: Con il termine trofie nel genovesato si intendono gli gnocchi cioé un impasto di farina e patate; con il termine trofiette si intende la versione antica degli gnocchi, di sola farina, dalla caratteristica forma a truciolo, nate nella Riviera di Levante da abilissime ed esperte mani. Sono vanto della cucina recchese ma è, ahimè, assai raro trovare ancora chi ha la capacità e la pazienza di eseguire un piatto così complesso che, per la sua particolare forma racchiude ed esalta il condimento. Il nome è possibile che derivi da “strufuggiâ” strofinare, termine cioè che descrive il movimento della mano sulla madia necessario per ottenere le trofiette.

caratteristiche: Pasta a zig-zag, a forma di serpentello, della lunghezza di cm 1,5-2, cilidrico con gli estremi più sottili rispetto al centro.

preparazione: Ingredienti: 500 g di farina di grano, acqua, sale. Lavorazione: versare sulla madia la farina ed impastarla con acqua tiepida ed un pizzico di sale. Ottenuta una pasta elastica e morbida lasciarla riposare per circa mezz’ora. Staccare una per volta, piccole porzioni di pasta e con il taglio della mano destra dare una forma allungata, circa 4 cm, procedendo dall’alto verso il basso. Il bastoncino ottenuto rotolerà sino alla base della mano, a questo punto sfregando trasversalmente il palmo della mano sulla madia imprimere un avvitamento in un gesto veloce e deciso a forma di “V” capovolta. In questo modo si otterranno dei trucioli di pasta da condire con il pesto.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Torta di riso

zona di produzione: Tutto il territorio ligure

curiosità: Il riso fu introdotto nel Mediterraneo da Alessandro Magno di ritorno dalla spedizione in Oriente. In Italia divenne di largo consumo grazie soprattutto agli Arabi che lo ritenevano sacro perché, secondo la tradizione, nacque da un goccia di sudore di Maometto caduta dal Paradiso.
Per i popoli orientali in genere è un cibo divino, simbolo di abbondanza, fertilità e vita. La tradizione indiana di spargerlo sugli sposi il giornio delle nozze si è diffusa anche nel mondo occidentale ed è auspicio di gioia e fecondità.
Completamente assente la coltura del riso in Liguria, era però un importante merce di scambio per i fiorenti traffici più che un ingrediente di comuni piatti. Bisognerà attendere anni recenti prima che diventi un primo piatto accompagnato spesso dal pesce o dai frutti di mare, presente anche nelle minestre ma sempre meno della pasta, diffusissimo nelle torte.

caratteristiche: Il riso, unito a uova e parmigiano, dà vita al ripieno di questa semplice ma sostanziosa pietanza. Su tutto il territorio regionale ne esistono diverse versioni: la torta di riso salata, il cui ripieno può essere o meno coperto da una sfoglia di pasta, e la torta di riso dolce.

preparazione: In Val di Vara la Torta di riso si prepara in questo modo.
Ingredienti: riso bollito fino a metà cottura, tolto dal fuoco. A questo punto si aggiungono burro, olio e formaggio parmigiano. Quando il riso è freddo si aggiungono le uova (ogni 300 g di riso 4 uova). Si prepara la pasta sfoglia (farina, acqua, olio e sale) e, spianata, si pone su una teglia oliata, sopra alla quale si pone il composto di riso e s’inforna alla temperatura di 180°C per circa 30 minuti.
Esiste anche una versione coperta ed una dolce.
Per la versione della torta di riso con copertura gli ingredienti sono 300 g di riso, 3 uova, 250 g di prescinseua, 50 g di grana,1 bicchiere di latte, 400 g di farina, acqua, olio, sale.
Si setaccia la farina con il sale, e si uniscono l’acqua e l’olio. Si lavora sino ad ottenere un impasto morbido e si lascia riposare coperto da uno strofinaccio umido per almeno un’ora. Si fa bollire il riso per un quarto d’ora circa in acqua salata, si scola e si lascia raffreddare. In una terrina si mescolano 2 uova, 200 g di prescinseua, il grana, l’olio, ed il pepe. Quando il riso sarà completamente freddo, si aggiunge al resto, mescolando bene. Con l’ultimo uovo, la restante quagliata e l’olio si crea una crema.
Stendere la sfoglia nella teglia e versarvi il contenuto della terrina, livellarlo ed irrorarlo di crema. Coprire con un altro strato di pasta spennellata d’acqua ed olio e cuocere in forno a 200° per circa mezz’ora.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Farina di castagne

zona di produzione: Tutto il territorio dell’entroterra ligure

curiosità: Nei menù delle trattorie e degli agriturismi dell’entroterra vengono riproposti sempre più frequentemente piatti locali a base di “farina nera”, quali picagge matte, friscio, castagnassu, panela, pan Martin… Alcune di queste preparazioni sono caratteristiche, oltre che per l’ingrediente principale che è rappresentato dalla farina di castagne anche dalla particolare tecnica di cottura che si esegue, in particolare nell’entroterra chiavarese, in testi sotto la cosiddetta campana. La parte inferiore delle seccatoio, infatti, fungeva anche da cucina: dal solaio pendeva un gancio al quale si applicava la campana, rustico forno sotto il quale tutt’ora si cuociono innumerevoli piatti.

caratteristiche: La farina derivante dalla macinatura di varietà locali di castagne, si presenta di colore crema-beige ed emana un inconfondibile profumo. Le vallate interessate a tale produzione sono dislocate praticamente su tutto l’entroterra. Il castagno infatti viene con ragione definito in dialetto erbo, l’albero per eccellenza, in quanto con il suo frutto ha sfamato intere generazioni.

preparazione: Nel periodo autunnale si esegue la raccolta delle castagne e successivamente si pratica la loro essiccazione, processo che avviene in tradizionali strutture, i seccatoi, generalmente posti in vicinanza dell’abitazione per facilitare le operazioni di alimentazione del fuoco che deve rimanere acceso per diversi giorni. Il seccatoio (secaeso seccaressu, grae) è un edificio a due piani divisi da un graticcio (gre) di asticelle di legno duro (ontano).
Al piano inferiore vi è il focolare (u fugua), appena rialzato dal suolo e posto in mezzo alla stanza. Il tempo di essiccazione varia a seconda della quantità di castagne, da 20 a 30-35 giorni, durante i quali bisogna rivoltarle, rimescolarle e girarle in modo che secchino bene: se occorre ravvivare il fuoco, si utilizzano le bucce delle castagne dell’anno precedente (pula) appositamente conservate nel seccatoio. Le castagne sono poste sulla grata in modo da formare uno strato di circa 20-30 cm; è importante che tale strato non sia né troppo alto in modo da permettere l’omogenea perdita di umidità dei frutti, né eccessivamente basso per non far passare troppo calore senza riuscire a trattenerlo. Raggiunto il grado ottimale di umidità, le castagne vengono “pestate”: si procede cioè all’eliminazione delle parti estranee (buccia e pellicina). Prima della molitura, si eliminano i frutti che presentano anomalie: questi ultimi e gli scarti precedenti costituiscono il “pestumme” che viene utilizzato per l’alimentazione del bestiame. Le castagne mondate sono quindi poste in una tramoggia di legno dalla quale, attraverso un distributore anch’esso in legno, scivolano tra le due macine in movimento (moe, more) costruite con pietra locale. Così sotto la macina del mulino, le castagne secche si trasformano in farina che lentamente scende nel bancà, spandendo un caratteristico profumo dolce e delicato

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Gamberi del Mar Ligure

zona di produzione: Golfi di Santa Margherita Ligure e di San Remo

curiosità: L’Aristaeus antennatus era noto, come semplice presenza, fin dall’800 nel mar Ligure, mentre l’Aristaeomorpha foliacea fu una scoperta degli anni ’30, dovuta alla discesa della pesca a strascico sui fondi della scarpata. Si ritiene che sia le maggiori esigenze alimentari, sia la minore fecondità, possano aver contribuito a determinare la diminuzione dei popolamenti di
foliacea, avvenuta in Liguria in questi ultimi cinquant’anni. Ricordiamo che il mar Ligure è un mare poco pescoso ma padre di pesci di ottima qualità. La scarsità di materia prima ha influenzato le abitudini culinarie degli abitanti locali che vedono prevalere il pesce azzurro e quello conservato.
I crostacei veraci riconoscibili per il bel rosso vivace del guscio, pur non abbondanti, sono di qualità eccelsa e di prezzo elevato.
Da sempre apprezzati e considerati un piatto d’élite sono citati da secoli nei menù delle nobili famiglie locali.
Oggi si trovano sui mercati di Genova e naturalmente delle Riviere.

caratteristiche: Con “gamberi rossi” si indica l’insieme di due specie che vivono sui fondi da pesca del largo: Aristaeus antennatus e Aristaeomorpha foliacea.
La pesca è a strascico, di tipo mesobatiale (500-700 m) e stagionale (fine primavera – fine autunno). La deposizione delle uova avviene da luglio a dicembre.
La peculiarità dei Gamberi rossi del mar Ligure è che presentano piccole dimensioni e un gusto particolarmente saporito.

ricetta: I gamberi del mar Ligure possono essere apprezzati anche semplicemente bolliti conditi con olio, naturalmente della Riviera, poco limone per non coprirne il gusto, sale, pepe e qualche foglia di prezzemolo.
Un piatto ottimo nato negli anni Sessanta sono le coppette di gamberi, coreografico antipasto.
Ingredienti: 3 o 4 gamberi per persona, 1 tazza di maionese, 1cucchiaio di ketchup e 1 di worcester, tabasco, 1 bicchierino di brandy, sale, limone, 1 cuore di lattuga, 1 manciata di capperi salati, 1 cetriolino sotto aceto a persona, sale e pepe.
Preparazione: bollire i gamberi e tagliarli a fettine, conservarne 1 intero per coppa, amalgamare le salse insieme ed aggiungervi i capperi ed i cetriolini tagliati a dadini. Mettere sul fondo di ogni coppa 1 foglia di lattuga, versarvi il cocktail ottenuto e guarnire ogni porzione con un gambero intero.
Conservare in frigo e servire le coppe su uno strato di ghiaccio.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Tonnidi del Golfo Paradiso

zona di produzione: Camogli

curiosità: La pesca nel Golfo Paradiso è sicuramente l’attività più antica praticata dagli abitanti di Camogli, come quella della sua tonnara le cui prime notizie risalgono al 1603.
Le prime notizie della tonnara di Camogli si hanno nel 1603. anno in cui un solenne Decreto del Magistrato dei Censori stabiliva che “delli tonni che si fossero presi alla tonnara di Camogli se ne dovesse dare agli abitanti di Camogli e di Recco per loro uso dieci di un rubo, venticinque di due, sei sino a cento rubi”. Il rubo è una misura antica che corrisponde a circa 8 Kg e che, tra i pescatori di Camogli, viene usata ancora ai giorni nostri.
Questo uso fu rinnovato con altri Decreti nel 1634, 1671, 1707 e 1709.
Si sa anche di una diatriba del 1712 tra Camogli e Recco. Il 20 Settembre di quell’anno il Capitano di Recco svela degli inconvenienti causati dall¿allora Amministratore della Tonnara Gio Bono Olivari a causa della sua imperizia. Pare che non avesse rispettato la ripartizione dei tonni come indicato nel decretato del 1603 che era ancora in vigore. Anticamente, inoltre, il tonno veniva lavorato a Camogli, probabilmente su basi artigianali. In un vecchio quartiere di Camogli “u Risseu” (che si può tradurre “Rissuolo”), che si trova sul lungomare dove la Via Garibaldi si restringe nel vicoletto che va verso il il Rio Gentile ed il levante, c’è un portone, il N° 72. Questa casa in passato era chiamata “a frixaia”, nome che può evocare un locale in cui si friggeva qualcosa, e questo può essere, ma era anche il posto in cui il tonno veniva cotto e poi messo sotto sale in barili che non erano solo venduti localmente, ma che prendevano anche la via verso il Piemonte e la Lombardia e, qualcuno dice, anche l’Inghilterra.

caratteristiche: La tonnara di Camogli è, più precisamente, una “tonnarella” poichè non pesca solo tonni, oggi diventati molto rari, ma tutte le specie di pesci che incappano nella rete: palamiti e boniti innanzitutto e poi sardine, sgombri, sarpe, bisi, occhiate e a partire da giugno, leccie, o ricciole, anche di grosse dimensioni.
Inferiore per dimensioni alle tonnare siciliane e sarde, ha solo due camere contro le sei o più delle altre e tre sole barche, contro più di dieci.

preparazione: La tonnarella di Camogli adotta il metodo “monta e leva”: il sacco viene sollevato tre volte al giorno, di prima mattina, in pomeriggio e verso sera.
Alla tonnara di Camogli si effettuano tre “levate” al giorno, all’alba, in tarda mattinata e nel tardo pomeriggio e da sempre il pesce viene issato sulla barca dai tonnarotti a forza di braccia dalla barca mobile, avvicinandosi lentamente alla barca fissa, sulla quale viene caricato il pescato e che poi torna a Camogli. La tonnarella di Camogli viene calata a circa 400 metri da Punta Chiappa, in direzione Camogli, da Aprile a Settembre. La rete di sbarramento, detta “pedale”, è legata a riva ad uno scoglio ed è lunga 340 metri, la porta d’entrata del recinto che è antistante alla “camera della morte” è larga 25 metri, a destra si trova un’altro recinto rettangolare lungo 80 metri e a sinistra, davanti al “sacco” c’è un’anticamera di 30 metri che conduce alla “camera della morte” che misura 100 metri. La rete viene ormeggiata su un fondale che va dai 10 ai 45 metri, per mezzo di 26 ancorotti e di grosse pietre del peso di 20 Kg. ciascuna. Per mantenere le reti perimetrali perfettamente verticali vengono impiegati dei galleggianti di plastica posti a distanze regolari. Le maglie della rete, abbastanza larghe in alto, si fanno sempre più strette scendendo verso il basso. Il materiale usato per la rete è filetto di cocco (ajengo superiore) , importato dall’India e che viene lavorato a mano durante l’inverno dai due capibarca e dal figlio di uno di loro; la rete finita pesa 1.200 Kg.
Per la parte terminale della “camera della morte” viene impiegato il nylon, tinto di nero in un fornello apposito sul molo del porto di Camogli.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Acciuga sotto sale del Mar Ligure IGP

zona di produzione: Tutto il territorio costiero ligure

curiosità: Note come “pan do mâ” (pane del mare) per essere il principale nutrimento dei pesci predatori e pesce azzurro per il bel colore argenteo, le acciughe sono uno dei prodotti più pescati nel nostro mare e, di conseguenza, uno dei più consumati ed esportati. Grazie al livello di salinità delle nostre acque le acciughe hanno un gusto in bilico tra sapidità e delicatezza che le rende apprezzate non solo presso i Liguri, che le gustano sia fresche che conservate, ma anche oltre i confini regionali. Già nel Medioevo erano merce di scambio con il Piemonte.
A partire dal XII secolo si perfezionò la tecnica della conservazione del pesce: affumicatura, sott’olio e salatura. Tecnica antichissima pertanto la conservazione sotto sale che in Liguria è pratica tuttora diffusa. La particolare morfologia e la posizione geografica regionale (temperatura media annua, tasso di umidità dell’aria e la salinità del mare) permettono di ottenere un livello di salagione ottimale e caratteristico.
Le acciughe appartengono alla specie Engraulis encrasicolus L.. La razza che vive nel Mar Ligure depone le uova precocemente, misura 3-4 centimetri di lunghezza a partire da giugno e raggiunge i 7-8 centimetri in settembre.
Le acciughe vengono pescate con il metodo tradizionale “della lampara” o con la rete “a ciànciolo”.

caratteristiche: Tipica varietà di pesce azzurro conservata tramite salatura, dalla carne compatta e con colorazione che va dal rosa intenso al marrone.
preparazione: La lavorazione delle acciughe è la seguente: dopo aver asportato manualmente la testa e i visceri, le acciughe si fanno asciugare per qualche ora. Le acciughe pulite sono quindi collocate a raggiera in barili, a strati sovrapposti. Può essere effettuato l’affinamento in barili di legno di castagno o vasi di terracotta. Ogni strato di acciughe va coperto con sale marino comune e sull’ultimo strato va collocato un apposito disco di legno e sopra di esso un peso di circa 40/50 Kg. La stagionatura ha una durata media di 40/50 giorni. La salagione ottimale avviene quando la carne risulta compatta, consistente e raggiunge la colorazione dal rosa intenso al marrone. A maturazione avvenuta le acciughe salate vanno trasferite in contenitori cilindrici di vetro, denominati “arbanelle”.

ricetta: Acciughe alla ligure, tipico antipasto genovese.
Ingredienti: acciughe salate, aglio, origano, olio extra vergine.
Preparazione: una volta pulite le acciughe dalla lisca e sciacquate abbondantemente vanno poste in un piatto dove saranno coperte d’olio e spolverizzate di origano e aglio. E’ bene far passare qualche ora prima di gustarle.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Acciughe marinate

Materia prima: acciughe.

Tecnologia di lavorazione: l’acciuga pulita, decapitata, eviscerata, tolta la coda, la lisca e la parte dorata viene messa nei contenitori di vetroresina con acqua corrente per ben tre passaggi. Fatta scolare, viene messa nel liquido di governo composto di una parte di aceto e una di sale e fatta marinare da 18 a 24 ore. Il pesce deve essere freschissimo e lavorato non oltre le 5 o 6 ore dalla pesca. Viene fatto sgocciolare e messo in fustoni o barattoli. Variamente aromatizzato con olive, capperi, pomodoro secco, origano.

Maturazione: 48 ore; scadenza del prodotto: dopo 8 mesi.

Area di produzione: costa tirrenica, alto e basso Adriatico, isole.

Calendario di produzione: da aprile ad ottobre.

Note: la perdita di peso del prodotto rispetto al fresco arriva fino al 55% di cui il 45% nella fase della pulitura ed il restante 10% nella marinatura. Questa viene anche detta scapece che, di origine spagnola (escabeche), qualcuno vuole corruzione di ex-Apicio, il leggendario gastronomo romano ed indica un tipo di conservazione fatta con l’ausilio dell’aceto e riservata soprattutto al pesce. Da regione a regione, variano le quantità e le varietà delle erbe aromatiche e degli altri ingredienti usati. La stima è relativa al prodotto artigianale espresso dalla ristorazione, sia costiera che interna.

Boghe in scabeccio

Materia prima: boghe o aguglie.

Tecnologia di preparazione: i pesci (si utilizzano quelli di media grandezza) vengono infarinati e fritti. Quando sono freddi si mettono a marinare in una soluzione di aceto misto ad un soffritto di carote, sedano, cipolle, più eventuali rosmarino, salvia o alloro, aggiungendo grani di pepe, chiodi di garofano ed altri aromi a seconda dei gusti. Chiuso il barattolo si conserva in luogo fresco, meglio se in frigorifero.

Maturazione: qualche giorno.

Area di produzione: costa ligure.

Calendario di produzione: primavera-autunno.

Note: è un’altra delle tante varianti dello scapece.

Pignuetti

Materia prima: avannotti di acciuga o sardina e altri pesci.

Tecnologia di preparazione: i piccoli pesci vengono infarinati e fritti in olio bollente, quindi immersi in una marinata di aceto e di olio soffritto con erbe aromatiche, tra cui salvia, rosmarino, alloro, cipolla e aglio. Si conservano in luogo fresco.

Maturazione: qualche giorno.

Area di produzione: costa ligure (Genova soprattutto).

Calendario di produzione: fine inverno, primavera.

Note: è la versione ligure del carpione, altrimenti detto saor in Veneto, scabeccio nella zona di Orbetello, scapece in italo-napoletano.

Musciame

Materia prima: filetti freschi di delfino o – dopo che questi sono proibitissimi dalle leggi – di tonno.

Tecnologia di preparazione: i pesci desquamati e liberati dalle pinne e dai visceri dopo lavatura vengono conciati per ottenere i filetti che rimangono sotto sale per qualche ora. Lavati, i pezzi vengono messi ad asciugare: un tempo all’aria e al sole, oggi, per proteggerli dall’inquinamento, negli appositi forni dove restano 4-6 ore ad una temperatura di circa 25-30°C. Successivamente pressato, il prodotto è pronto quando la pelle avrà assunto un aspetto lucido tendente al bruno. Si conserva bene sottovuoto.

Maturazione: qualche giorno.

Area di produzione: prov. di Trapani, Liguria.

Calendario di produzione: durante la pesca del tonno, e cioè in maggio-giugno.

Note: si tratta di classico esempio di collaborazione interetnica tra popolazioni rivierasche del Mediterraneo. Siciliani e liguri ricorrono infatti a tecnologie e terminologie comuni.

Sgombro sott’olio (I versione)

Materia prima: sgombro.

Tecnologia di lavorazione: gli sgombri decapitati ed eviscerati vengono lavati in soluzione di acqua e aceto leggermente salata. Si dividono a metà eliminando la spina dorsale. Si distendono su un panno pulito e su un piano inclinato cospargendoli di sale e altre spezie che variano da regione a regione (aglio, prezzemolo, ginepro, ecc.). Si lasciano in riposo per circa due ore al termine delle quali il pesce viene leggermente scottato in olio bollente, si lascia scolare e raffreddare; si ripongono nei vasi aromatizzando con grani di pepe, alloro, finocchio selvatico. Si copre d’olio e si sterilizza con il metodo Tyndal. Si conserva per lungo tempo se riposto in luogo fresco e buio, meglio se non umido.

Maturazione: 1 mese circa.

Area di produzione: costa marchigiana, Sicilia, Calabria, Sardegna, Toscana e Liguria.

Calendario di produzione: primavera, autunno, inverno.

Note: conserva ittica tipica dei pescatori che si è estesa anche ad altre famiglie, ma solo recentemente.

Sgombro sott’olio (II versione)

Materia prima: sgombro.

Tecnologia di lavorazione: gli sgombri eviscerati, essiccati e decapitati vengono lavati e lessati in acqua leggermente salata e acidula. Si lasciano asciugare per diverse ore. Poi si fa la toelettatura eliminando tutte le parti nere, le spine, le pinne, ecc. Si mettono i tranci interi nei barattoli, si aromatizza con i vari odori: aglio, prezzemolo, pepe, alloro, timo, ecc. Si copre d’olio e si sterilizza a lungo.

Maturazione: 1 mese circa.

Area di produzione: Sicilia, Sardegna, nei paesi costieri di Liguria, Toscana, Veneto, Marche, Abruzzo, Puglia e Campania.

Calendario di produzione: primavera-autunno, inverno.

Note: tra il pesce azzurro, lo sgombro è quello che è più ricco di quei grassi polinsaturi, gli omega 3, così utili alla salute del nostro apparato cardiocircolatorio.

Tonno sott’aceto

Materia prima: ventresca di tonno.

Tecnologia di lavorazione: la ventresca tagliata a fette dello spessore di circa 1 cm. viene salata e pepata. Si mette in una terrina aggiungendo alloro e zenzero e si lascia marinare per una giornata. Il giorno successivo si ricopre d’aceto aggiungendo foglie di alloro e facendo bollire adagio per 3-4 minuti. Si lascia raffreddare. Si mettono i tranci di ventresca nei vasi aggiungendovi scorzette di limone. Si ricopre con aceto fresco. Si chiude, si fa bollire per qualche minuto, si ripone in luogo fresco. Da consumare in tempi brevi.

Maturazione: 15-20 giorni.

Area di produzione: Sicilia e con leggere varianti Sardegna, Toscana e Liguria.

Calendario di produzione: primavera – estate.

Note: questa conserva casalinga è indicata per la preparazione di stuzzicanti antipasti. Non si trova in commercio, ma è espressa dalla dimensione familiare dei pescatori, depositari, in alcuni casi, di ricette per la conservazione del pesce davvero straordinarie.

Bagnùn d’acciughe

zona di produzione: Riva Trigoso

curiosità: Le acciughe, ancioe, sono molto diffuse nei nostri mari, ma sono anche molto apprezzate tanto da essere uno dei pesci più consumati. Il bagnon veniva preparato dai pescatori, in tempi relativamente recenti, come sostanziosa colazione, direttamente sulle barche, in attesa di far asciugare le reti dopo una notte di pesca non sempre fruttuosa, infatti della nostra regione si dice: mâa sensa pesci, monti sensa legna, ommi sensa fede, donne sensa vergêugna, non certo una bella reclame per noi Liguri.

caratteristiche: È una tipica ricetta di pesce della riviera di Levante, specialmente di Sestri e Riva Trigoso dove ogni anno si svolge la sagra omonima, nata dalla forte necessità di offrire ai marinai, durante il periodo di lunga navigazione, cibo fresco prodotto con ingredienti di facile reperimento.

preparazione: Ingredienti:1 kg di acciughe; uno spicchio di aglio; un mazzetto di prezzemolo, basilico, cipolla, 500 g di pomodori da sugo, 1 bicchiere di vino bianco secco, olio extra vergine di oliva, 4 gallette del marinaio, sale.
Pulire le acciughe strappando loro la testa che trascinerà anche la lisca e le interiora. Tritare tutte le verdure ad eccezione del basilico e soffriggere in olio. Tritare i pomodori e unirli al soffritto. Regolare il sale e cuocere per 10 minuti. Disporre le acciughe nel tegame e cuocere per altri 10 minuti. Mettere le gallette spezzate nelle fondine. Versare sopra le acciughe con il loro sugo e lasciare riposare qualche minuto prima di servire.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Cappon magro

zona di produzione: Tutta la costa

curiosità: Nato in tempi assai remoti, nella versione più semplice, come piatto povero, o sulle navi o nelle cucine dei ricchi dove la servitù riutilizzava gli avanzi dei banchetti. In entrambe le ipotesi alla base c’è la necessita’ di riutilizzare il pesce avanzato della zuppa (solitamente il cappone, pesce di poco valore e sicura antitesi del più pregiato cappone da cortile) a cui si aggiungono le verdure. Il suo sontuoso aspetto fa pensare ad una rinascita in epoca barocca in cui l’abbondanza regnava anche in cucina. Piatto del periodo quaresimale, inganna la morigeratezza dettata dalla Chiesa grazie alla presenza del pesce ma la ricchezza degli ingredienti, come vedremo, e la bellezza della forma non sono certo un sacrificio per il pio commensale che comunque si astiene dal consumare carne. Una curiosita’: Pellegrino Artusi, noto bungustaio del XIX secolo, nel suo trattato sulla cucina italiana cita non il piatto completo, d’altronde omette anche il pesto, ma la salsa che in esso è contenuta e la chiama: salsa alla genovese per pesce lesso.

caratteristiche: Trionfo della cucina ligure e coreografico piatto frutto dell’abilità del cuoco, unisce con sapiente maestria i prodotti della terra (verdure) con quelli del mare (pesci e crostacei) in un connubio dove regna l’armonia di gusto e colore, creando quello che potrebbe essere il simbolo di questa non generosa terra stretta tra monti e mare.

Ingredienti per 6 persone: 4 gallette da marinaio, 800 g di pesce cappone (oppure nasello, ombrina, branzino), 1 aragosta, 12 gamberi, 6 ostriche, 50 g di mosciamme di tonno, 200 g di frutti di mare a scelta, 1 limone, aceto, olio extra vergine d’oliva, sale, 1 cavolfiore piccolo, 1 barbabietola, 4 carciofi, 3 radici di scorzonera, 1 sedano bianco, 2 carote, 300 g di fagiolini, 2 o 3 patate, ravanelli, 1 cucchiaio di funghetti sott’olio, 2 uova.

Per la salsa: una manciata di capperi, 20 g di pinoli, 2 acciughe salate, 2 spicchi d’aglio, 2 tuorli d’uovo sodi, 1 mazzo di prezzemolo, 1 panino (solo la mollica), 1 cucchiaio di olive di Spagna verdi, 1 bicchiere d’olio extravergine d’oliva, sale q.b.

Preparazione: Pulire tutti gli ortaggi e farli bollire separatamente. Una volta cotti, sbucciare e tagliare a fette sottili le patate, le barbabietole, le carote, i fondi dei carciofi. Le restanti verdure andranno tagliate in pezzi. Condire il tutto con olio, aceto e sale e tenere separato. Nel frattempo pulire e bollire il cappone in acqua e aromi, privatelo della pelle e delle lische, tagliatelo in pezzi e conditelo con olio, limone ed un pizzico di sale. Fare lo stesso con l’aragosta, cercando di mantenere il più possibile la sua forma originaria. Lessare i gamberi e teneteli interi. Esiste una versione che prevede i gamberi fritti. Aprire le ostriche e gli altri frutti di mare. Cuocere le uova fino a che non saranno sode. Disporre in piatti differenti, per agevolare il lavoro, il mosciamme tagliato a fettine sottili, le acciughe private del sale e delle lische, le olive, i capperi e i funghi. In un mortaio porre il prezzemolo, l’aglio, i pinoli, i capperi, le acciughe e 2 rossi d’uovo, la mollica di pane bagnata d’aceto, la polpa delle olive, un pizzico di sale. Pestare (oppure frullare) sino ad ottenere una salsa cremosa, setacciare e diluire con 1 bicchiere d’olio e mezzo d’aceto.
Porre in piatto da portata le gallette del marinaio strofinate con l’aglio, bagnarle con un goccio d’acqua ed aceto ed un pizzico di sale, ungere d’olio. Cominciare a porre sulle gallette, a strati alterni, le verdure ed il pesce alternando il tutto con la salsa. Non esiste un ordine preciso in cui disporre gli ingredienti ma solo la capacità di sovrapporli creando una policromia di gusti e colori che formeranno una torre dalla base più larga e sulla cui sommità verrà posta l’aragosta nella sua bella forma, circondata dai gamberi magari posti su degli stecchi. Tutto intorno al cappon magro si disporranno, per allietare l’occhio, le uova tagliate a fette, i frutti di mare e le olive e i funghetti rimasti.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Capponata

zona di produzione: Tutta la costa

curiosità: Per le sue chiare origini, questa pietanza veniva anche chiamata capun de galera, insomma un cappon magro dei naviganti.
Esiste ad Armo nell’entroterra di Imperia, una versione della capponadda detta feidu o carbunera che consiste in una fetta di pane abbrustolito condita con salsa piccante, verdure miste, uova sode ed acciughe.
Un’ultima variante riguarda la capponata prodotta a La Spezia dove il timo sostituisce le foglie di basilico e le uova sode vengono tritate sopra al piatto prima di servirlo.

caratteristiche: Questo piatto potrebbe essere definito semplicemente con il nome di “insalata del marinaio”, nato sulle navi dove non c’era la possibilità di cuocere e dove era necessario consumare dei piatti sufficientemente umidi da dissetare ma non troppo acquosi per non far soffrire il mal di mare.

preparazione: Ingredienti per 4 persone: 4 gallette del marinaio, 4 pomodori da insalata, preferibilmente “cuore di bue”, 4 filetti di acciughe salate (oppure 50 g di mosciamme), olive nere, capperi, uova sode (facoltativo), sottaceti (facoltativi), olio extravergine d’oliva, aceto, sale.
Preparazione: ammollare le gallette in acqua ed aceto, strizzarle con delicatezza e porne una per ciascun piatto. Tagliare i pomodori e porli sul pane; condire quindi con sale , aceto, olio e sale. Guarnire coi filetti d’acciuga tagliati a pezzi, con le olive, con i capperi e, se li avete scelti, unire il mosciamme in fette sottili, i sottaceti e le uova sode tagliate in quarti.

Una precisazione sul mosciamme: originariamente era filetto di delfino essiccato ma oggi la pesca di questo mammifero è vietata viene pertanto sostituito con quello di tonno, assumendo però un sapore decisamente meno delicato. Potete quindi sostituirlo con la bottarga, uova di pesce essicate, pressate e stagionate: le uova dovrebbero essere di cefalo. Anche in questo caso esiste la versione che utilizza le uova del poliedrico e generoso tonno.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Ciuppìn

zona di produzione: Sestri Levante, Chiavari

curiosità: Ogni località di mare ha la sua zuppa di pesce. Questa che proponiamo, tipica del Levante, specialmente di Sestri che ne rivendica l’origine, più che una zuppa è un brodetto, un passato nato, ancora una volta, dall’utilizzo dei pesci meno pregiati, avanzi del pescatore e del pescivendolo. Gli ingredienti sono quindi di scarso valore ma non per questo meno saporiti. Con l’aggiunta poi di aromi e dell’immancabile olio, danno origine ad un piatto di tutto rispetto.
All’origine era più brodoso di quanto non si consumi oggi come sembra spiegare il nome derivato da sûppin cioè zuppetta dove intingere il pane raffermo per poterlo consumare con maggior piacere.

caratteristiche: Tipica zuppa di pesce del Levante accompagnata da fette di pane abbrustolito.

preparazione: Ingredienti: 1 kg di pesci di scoglio (cappone, scorfano, gallinella ecc.); prezzemolo; cipolla; aglio; olio di oliva; pomodori maturi; vino bianco; pane casereccio; sale.
Preparare un battuto di prezzemolo, aglio, cipolla e mettetelo a soffriggere in padella con olio di oliva.
Aggiungere i pomodori spelati, privati dei semi e tagliati finemente e versare il vino bianco. Evaporato quest’ultimo, unire al composto un litro di acqua. A bollore, adagiare i pesci puliti e lavati e cuocere per circa 20 minuti. Passate quindi i pesci, insieme al brodo di cottura, al setaccio, escludendo i più piccoli. Versare il ciuppìn in piatti fondi, accompagnandolo con fette di pane abbrustolito.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Frittelle di baccalà

zona di produzione: I comuni costieri del Genovesato e dello Spezzino

caratteristiche: Piccole frittelle rotonde di colore dorato preparate con pastella di farina bianca, uova e pezzetti di baccalà. Fritte in olio bollente e servite calde, sono fragranti e leggere. L’uso del baccalà, così come dello stoccafisso, è da sempre legato alla cucina marinara povera, e così fu anche per La Spezia. Già negli anni ’50, le frittelle di baccalà, servite calde e con un bicchiere di vino, venivano servite da diversi locali, diventando espressione di convivialità.

ricetta: Per queste gustose frittelle gli ingredienti sono: 600 g di baccalà bagnato, farina bianca, olio di oliva, lievito di birra, due uova, sale. Preparazione: per la pastella unire la farina bianca con l’acqua e aggiungere il lievito di birra, precedentemente sciolto in acqua tiepida, e salare. Sbattere le uova, aggiungendo la pastella e i pezzetti di baccalà, quindi friggere in olio ben caldo. Quando le frittelle sono dorate, scolarle e asciugarle per eliminare l’unto in eccesso.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2006

Cavolo broccolo lavagnino

zona di produzione: Comune di Lavagna

curiosità: Il cavolo é l’ortaggio che, sia per le numerose specie e varietà esistenti sia per l’ampiezza del suo areale di coltivazione, sin dall’antichità ha assunto nell’alimentazione umana un posto di fondamentale importanza. In questi ultimi anni, tramite studi e ricerche, sono state messe in evidenza le sue proprietà antitumorali.
La varietà “broccolo lavagnino” è stata selezionata in località Remà di Cavi di Lavagna, presso agricoltori che coltiavo i loro orti, affacciati sul mare e frequentemente consociati all’olivo, come giardini regali.

caratteristiche: Il Cavolo “lavagnino” (Brassica oleracea var. capitata) è di piccole dimensioni; forma un cappuccio, molto tenero alla cottura, di forma nettamente allungata (obovata).
Le foglie sono poco bollose di colore verde chiaro. Alcune foglioline all’interno del cappuccio presentano un caratteristico colore rosa.
Questa varietà è stata selezionata nel Chiavarese da antica data.
Esiste un “broccolo lavagnino” a maturazione precoce ed uno a maturazione leggermente più tardiva.
Conosciuto e molto ricercato oltre che sul mercato locale anche sui mercati di Genova, viene tradizionalmente usato cotto, anche come condimento per la pasta.

preparazione: Viene coltivato solitamente per la raccolta autunno-vernina.
Le caratteristiche organolettiche migliori, tenerezza e gusto, si ottengono se le piante vengono raccolte dopo i primi freddi.

ricetta: Il cavolo lavagnino è ottimo anche semplicemente bollito, accompagnato con patate e condito con l’olio novello.
Una ricetta ligure lo vede come condimento del riso insieme al brodo di pesce.
Ingredienti: riso, g 300; due cavoli (si fa anche con il cavolo gaggetta); burro, prezzemolo; sedano; una cipolla; brodo di pesce; formaggio parmigiano; sale q.b..
Preparare un soffritto al burro di prezzemolo, sedano e cipolla tritati finemente. Aggiungere il cavolo tagliato a pezzi e lasciare cuocere per circa venti minuti; aggiungere il brodo del pesce nella quantità desiderata e lasciar bollire per circa un’ora. Aggiungere quindi il riso e, a cottura ultimata, abbondante formaggio in grana (parmigiano).

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Cavolo Gaggetta

zona di produzione: Piana e colline litoranee del comune di Lavagna e di Chiavari

curiosità: Il cavolo gaggetta veniva coltivato nella zona di Chiavari, in località Scöggi, dove gli agricoltori del comprensorio andavano a recuperare la semente per la produzione della gaggetta “d.o.c.”.

caratteristiche: Coltivata a Lavagna e sulle colline limitrofe, la “gaggetta” (Brassica oleracea var. Sa-ba-udia) è un cavolo cappuccio di piccole dimensioni e di colore verde chiaro.
In genovese ‘gaggia’ significa cesta, gabbia: ‘gaggetta’ sta quindi a designare una piccola gabbia e si presume faccia riferimento appunto al piccolo cappuccio che forma.
Presenta foglie più o meno unite fra loro e poco bollose; il cappuccio possiede la forma di un cuore rovesciato.
È molto pregiato per la tenerezza delle foglie, anche quelle più esterne.
Noto nella zona da antica data, la semente si tramanda a livello familiare.
È conosciuto, oltre che sul mercato locale del Chiavarese, anche su quelli di Genova. Viene venduto normalmente a numero ed è usato nella cucina tradizionale per la preparazione dei cavoli ripieni.

preparazione: Tradizionalmente i cavoli assumono il carattere di coltura intercalare, associate o no da patate, fave, piselli, zucchine e bietole.
I cavoli hanno forti esigenze in azoto e in potassio. Eccellenti nella coltura dei cavoli sono i “sovesci” di leguminose da interrare, come il letame, con il lavoro di rinnovo.
La raccolta, in funzione anche della semina e all’andamento stagionale, è comunque medio precoce (autunnale).

ricetta: Tradizionalmente, con i cavoli gaggetta si preparano gustosi cavoli ripieni.
Gli ingredienti sono: cavolo gaggetta (uno per persona); per il ripieno: pane, uova, formaggio in grana (parmigiano reggiano, comunque formaggio di vacca), mortadella, aglio, olio, maggiorana, sale q.b..
Il pane imbevuto in acqua, si strizza e si passa in padella con olio, aglio, maggiorana e sale q.b.. A questo punto si aggiunge alla mortadella tritata (alcuni usano, in sostituzione della mortadella, la carne tritata) e al pane passato con gli odori, l’uovo sbattuto e il formaggio. Il ripieno è quindi posto tra le foglie del cuore della gaggetta, aprendolo come una rosa, e viene tenuto legato utilizzando il filo da cucina. Si fa bollire in acqua salata con l’aggiunta di un goccio di olio (in sostituzione si può usare un pezzo di pancetta o di lardo). Si fa bollire circa un’ora e mezza, si preleva dalla pentola ed il piatto é pronto.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Melanzana tonda genovese

zona di produzione: Entroterra genovese

curiosità: Giuntaci dalle Indie, la melanzana suscitò diffusi timori sia per la sua forma simile a quella della mandragola sia per il colore, raro tra gli alimenti, tanto che il suo stesso nome sembra derivare da “mala-insana” frutti malsani. Fu la sua bontà, una volta scoperta, a far diventare la melanzana uno dei più apprezzati piatti della cucina estiva ed è lo stesso Barudda, noto burattino oriundo, protagonista di mille avventure teatrali a volere come premio per il suo eroismo un tegame di melanzane ripiene.

caratteristiche: La melanzana “tonda genovese” (Solanum melongena), è una varietà tonda di piccole dimensioni. Di buona produttività, forma frutti tondeggianti, viola scuro, lucidi, che vengono raccolti per confezionare le tipiche ‘melanzanine ripiene’, tradizionale piatto ligure dell’estate. Sono vendute a numero.
Se lasciati sulla pianta, ingrossano e diventano di colore chiaro, ma in questo caso vengono adoperati solo per la produzione del seme. A fine stagione i frutti sono raccolti di dimensioni molto piccole e sono ricercatissimi per essere confezionati sott’olio e conservati per l’inverno.
Esiste anche un’altra varietà il cui piccolo frutto è di forma ovale, di color viola più chiaro ed opaco, coltivata soprattutto in Val Fonta-nabuona (Genova).
È commercializzata da antica data in tutto il genovesato ed anche in altre province limitrofe.

preparazione: Per la coltivazione vi si dedicano gli orti irrigui, soleggiati e a tessitura sciolta. Il ciclo di produzione può essere primaverile sotto copertura ed estivo, fino a prolungarsi nell’autunno, in zone particolarmente riparate e dal clima mite.

ricetta: “A san Gaetan de sc-ciappe de meizann-e se n’impe ûn tiàn” ovvero: il giorno di San Gaetano (7 agosto) di mezze melanzane se ne riempie un tegame.

Sformato di melanzane
15-20 melanzane piccole e tonde; 3 uova, funghi secchi; mezza cipolla; uno spicchio d’aglio; origano; 1 hg di quagliata (prenscinseua); parmigiano; mollica di pane; latte; pane grattugiato, olio, sale, noce moscata. Pulire le melanzane dalle spine e parte del gambo, lessarle in acqua salata, tagliarle per il lungo e svuotarle della polpa. Nel frattempo tritate la polpa delle melanzane. Riporre il tutto in una padella dove saranno stati già soffritti i funghi insieme alla cipolla. Far rosolare per bene e poi raffreddare. Unire le uova, la quagliata, il parmigiano, la mollica di pane ammorbidita nel latte, l’aglio e l’origano finissimi. Amalgamare, salare e insaporire il tutto con la noce moscata. A questo punto distribuire il composto ottenuto nelle mezze melanzane che dovranno essere disposte in una teglia unta e spolverizzate con il pane grattugiato. Porre in forno a 180 gradi e far cuocere per circa mezz’ora. Servire calde o fredde. Una variante: friggere le “meizann-e” dopo averle passate nel tuorlo e nel pan grattato.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Patata cannellina nera

zona di produzione: Tutto il territorio dell’entroterra genovese

curiosità: Coltivate da Aztechi ed Incas nell’America latina, le patate si diffusero in Europa alla fine del ‘500 attraverso la Spagna e Genova, prima nel Regno Britannico, poi in Germania ed in Francia. Nonostante giunsero abbastanza presto in Italia, la loro diffusione dovette attendere il ‘700 quando, grazie all’intraprendenza di agronomi coraggiosi, si cercò un valido sostituto al frumento in caso di carestia e per tale motivo la coltura passò dall’uso ornamentale a quello alimentare. [vedi schede delle altre varietà di patate locali]

caratteristiche: La Cannellina nera della Montagna Genovese, denominata Cannelina, Neigra, Violetta è una patata dalla forma cilindrica e allungata, buccia liscia, di colore giallo-bruna; pasta di colore bianco, germoglio con colorazione antocianica intensa della base blu-violetto; numero elevato di gemme che si presentano profonde; la frequenza dei fiori, con colore della parte interna rosso violetto, è media.
La qualità culinaria è di tipo A (adatta per insalata), con buona consistenza della polpa, di aspetto poco farinoso, non umida e granulazione abbastanza fine. Gusto tipico di patata pronunciato, con gusto secondario di castagna, di valutazione abbastanza forte e molto caratteristico.
Veniva tradizionalmente utilizzata in piatti quali lo stoccafisso in umido e l’insalata di patate.

preparazione: Varietà semi-tardiva, facilmente conservabile, di resa medio elevata.
ricetta: Piatto tradizionale preparato con la cannellina è lo Stoccafisso in umido.

Stoccafisso in umido [Stocafisce accomodòu].
600 g di stoccafisso bagnato, 20 g di funghi secchi, 2 acciughe salate, 1 spicchio d’aglio, 2 pomodori, mezza carota, prezzemolo, 1 gamba di sedano, 1 cipolla, pinoli, olive taggiasche, 4 patate, 1 bicchiere di vino bianco, olio, sale, pepe.
Pulire lo stoccafisso dalle lische e dalla pelle e tagliarlo a pezzi di media grandezza. Intanto far rosolare le acciughe tritate con i sapori e i funghi precedentemente ammollati, quindi unirvi lo stoccafisso, farlo colorire; poi versarvi i pomodori in pezzi, privati della pelle e dei semi, ed anche le patate tagliate. Infine aggiungere il vino, il sale, il pepe, i pinoli e le olive. Coprire e far cuocere per quaranta minuti circa a fuoco lento, aggiungendo di tanto in tanto acqua calda.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Patata Quarantina Prugnona

zona di produzione: tutto il territorio dell’entroterra ligure

curiosità: Appena giunse nel vecchio continente, la patata non fu immediatamente inclusa tra i prodotti orticoli. Passarono anni prima che venisse sfruttata a scopo alimentare. Questo rallentamento si spiega con le diffidenze causate dalla somiglianza dei suoi fiori con quelle di piante velenose e dall’errata o confusa conoscenza delle parti commestibili del tubero e del loro utilizzo.
Si deve ad Antoine Augustine Parmentier (1763-1813) la diffusione della patata in cucina perché, d’accordo con il re Luigi XVI, fece seminare patate alla periferia di Parigi facendole sorvegliare di giorno con lo scopo di istigare il furto di notte e, quindi, la diffusione della coltura. Fu durante l’assedio di Genova, del 1799, che i Francesi introdussero l’uso della patata tra i Genovesi. Non passarono molti anni che le patate entrarono da protagoniste in piatti di storica memoria locale e spesso ne sostituirono gli elementi base. Accadde ad esempio con i bacilli, (favette secche), che erano insieme allo stoccafisso il piatto per eccellenza del giorno dei morti. “Pe’ i morti bacilli e stocchefisce nu gh’è famiggia che nu i cundisce” (per i morti, stocafisso con i bacilli, non c’é famiglia che non li condisca) è un tipico proverbio genovese che dimostra questa tradizione.

caratteristiche: Patata Prugnona della Montagna Genovese detta anche Brignonn-a, Brugeua, Rossa, Quäntinn-a viola presenta la buccia dal caratteristico colore viola-scuro che ricorda quello della prugna. Tubero tondo, globoso, buccia di colore viola-lilla con rottura crema, pasta bianca e di consistenza molto fine; gem-me viola, mediamente profonde; fiore di colore esterno indaco. Il sapore è delicato, regge bene la cottura ed è ottima per gli stufati.

preparazione: Varietà precoce, serbevole, di resa medio-bassa.

ricetta: Stoccafisso al verde [Stocchefisce a-o verde]
Altro piatto che si suole preparare con le patate ed in particolare con la prugnona, oltre alle ottime insalate, data la sua caratteristica polpa soda, è il gustoso stoccafisso al verde.
Stocafisso bagnato, g 700, due trippe di stoccafisso (beli), due patate, prezzemolo, due spicchi di aglio, qualche gheriglio di noce, mezzo bicchiere d’olio, sale.
Cuocere in acqua lo stoccafisso e le trippe tagliate a listerelle e a metà cottura aggiunge le patate. Quando l’acqua si è completamente consumata, si versano il mezzo bicchiere di olio e le noci pestate al mortaio.
In ultimo spolverizzare con aglio e prezzemolo tritati.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Patata Quarantina Bianca, Genovese, Bianca di Montoggio, di Reppia, di Rovegno, di Torriglia

zona di produzione: Tutto il territorio dell’entroterra genovese fino al confinante Appennino savonese e spezzino

curiosità: Nel Genovesato le conoscenze sulla patata e sulla sua coltivazione sono strettamente legate al nome di Michele Dondero, parroco di Roccatagliata (GE), che nel XVIII secolo, tra la non sottovalutabile diffidenza dei suoi fedeli, la introdusse proprio per arginare la miseria generale della popolazione. Riconosciuta l’importanza ed apprezzatane la bontà e poliedricità, la patata si diffuse in tutto l’entroterra e fu, insieme alla castagna, il cibo principe di molte popolazioni delle campagne nei periodi di carestia e povertà. La patata quarantina, sul territorio della Montagna genovese, è considerata la più buona e antica tra le varietà locali, era infatti già conosciuta alla fine del ‘700.

caratteristiche: La patata Quarantina bianca della Montagna Genovese, dalle innumerevoli denominazioni spostandoci da una vallata all’altra, è la varietà locale ligure di patata per eccellenza (Solanum tuberosum). Tubero a forma da rotonda a rotonda-ovale; buccia liscia, di colore giallo; pasta di colore bianco; germoglio a colorazione antocianica della base blu-violetto. Fiori con frequenza bassa e di colore bianco della parte interna. Il germoglio presenta una colorazione antocianica poco intensa, gemme mediamente profonde e con sfumature rosa chiaro alla base del germoglio.
Qualità culinaria di tipo B (adatta a tutti gli usi), con scarsa consistenza della polpa e aspetto umido, non farinoso e granulazione fine; gusto tipico di patata poco pronunciato, senza retrogusti, delicato. Sul territorio della Montagna genovese è considerata la più antica e la più buona tra le varietà locali. Il prodotto soddisfa a malapena il mercato, peraltro ristretto e locale.

preparazione: Varietà semi-precoce, anche se quarantina probabilmente sottolinea la precocità della varietà, risulta mediamente serbevole; la sua resa è media ma si abbassa nei terreni pesanti e nelle zone umide.

ricetta: Viene tradizionalmente usata in piatti quali la torta Baciocca, torte di patate in genere e gli gnocchi.

Focaccia di patate
Ingredienti
500 g di farina, 300 g di patate quarantine, olio, sale, pepe, lievito di birra q.b.
Preparazione
Bollire le patate e farle raffreddare. Impastare insieme le patate, la farina, l’acqua l’olio ed il lievito. Far lievitare il tempo necessario. Stendere l’impasto in una teglia unta e cuocere in forno a 200° per circa 30 minuti.
Dopo la cottura gettare qualche chicco di sale grosso sulla focaccia ancora calda.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Radice di Chiavari

zona di produzione: Chiavari

curiosità: Introdotta da secoli in coltivazione, sotto l’influenza dei fattori ecologici e di pratiche colturali diverse e per ibridazione naturale, ha caratteri botanici originali e numerose sono infatti le razze sensibilmente divergenti nella forma, nelle esigenze e nel sapore.
Le cicorie a grosse radici sono conosciute in Liguria come scorzonere, o con il sinonimo scorzamara.
Per far sì che la radice di Chiavari assumesse il colore bianco caratteristico, le donne avevano il compito di lavarle e strofinarle fino ad ottenere la perfetta colorazione.
Le barbe (radici avventizie), se presenti, rappresentano un difetto.

caratteristiche: Radice di Chiavari (Cicoria intybus L. var. sativus Bischoff).
Appartiene alla specie delle cicorie e rientra nel gruppo delle cultivar che vengono destinate al consumo diretto, previa cottura.
Presenta radici voluminose, di forma conica, con superficie liscia, senza fibrosità, di sapore amarognolo.
È una varietà di grande pregio e a pasta fine.

preparazione: La radice richiede lavorazioni profonde, anche come contributo alla resistenza della coltura alla siccità. Il seme minuto, da interrare a lieve profondità, e di rapido germogliamento, esige accurato affinamento del terreno.
La moltiplicazione avviene per seme.
La radice di Chiavari veniva tradizionalmente coltivata dopo una coltura da rinnovo. Sfruttava infatti le lavorazioni profonde e le laute concimazioni che si eseguivano per il grano, tipica coltura che la precedeva.

ricetta: Le radici di Chiavari, o meglio radicce, riconoscibilissime perché terminano a punta ed hanno molte foglie alla sommità, sono una costante nel menù tradizionale natalizio quando si mangiano bollite condite con sale, aceto ed olio come contorno, per eliminare il grasso che comportava il piatto forte del pasto e cioè il cappone o il tacchino (il cappon boggio o la bibbin-a a rosto).

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Pisello di Lavagna

zona di produzione: Piana del torrente Entella e entroterra dei comuni di Lavagna e Chiavari

curiosità: La pianta erbacea del pisello è originaria del bacino orientale del Mediterraneo e dell’Asia Occidentale, non si esclude che fosse già nota nell’età del rame, è certo che i suoi frutti fossero consumati in India e in Cina ed in seguito dai Greci e dai Romani. Nel Medioevo si iniziò a consumarli freschi oltre che secchi ed insieme alle fave e alle lenticchie costituivano un pasto povero ma sostanzioso, il pisello infatti come il fagiolo ha un alto valore energetico ma scarso vitaminico, contiene ferro, potassio e fosforo. Per la loro disposizione all’interno dei baccelli sono da sempre sinonimo di ricchezza e fecondità.

caratteristiche: È un pisello con buona vigoria, il fiore è di colore bianco e abbastanza vistoso.
Il bacello, di dimensioni medie e di forma arcuata, non è eccessivamente largo e si presenta di colore verde brillante. I grani, in numero variabile da 5 a 7 (in media 6) e di forma rotonda, hanno superficie liscia e colore verde chiaro. È una varietà a maturazione medio – precoce: il prodotto viene raccolto circa 80 giomi dalla semina.
La pianta ha portamento rampicante e raggiunge un’altezza che varia da cm 130 a cm 150. La caratteristica peculiare è la sua estrema dolcezza.

preparazione: Viene coltivato per la produzione primaverile: già a marzo si possono effettuare i primi raccolti.
Durante la preparazione dei terreno, si interrano i concimi per la quasi totalità del fabbisogno, considerando il breve ciclo colturale; la concimazione organica (30-40 tonnellate a ettaro di letame) è utile nei terreni a basso contenuto di sostanza organica.
Si semina su file distanti le une dalle altre circa cm 80-100, mentre lungo la fila viene distanziato circa cm 3-5.

ricetta: Sgombro con i piselli [Laxerto co-i poisci]
I piselli si consumano cotti in minestre, come contorno passati al burro spesso insieme alle carote o ancora come accompagnamento di carni stufate o pesci.
Ingredienti: g 600 di sgombri, g 300 di piselli già in grani, cipolla, prezzemolo, olio, sale, salsa di pomodoro facoltativa.

Preparazione: pulire i pesci e farli rosolare in olio bollente in una casseruola possibilmente di terracotta. Aggiungere il battuto di cipolla e prezzemolo, quando la cipolla imbiondisce aggiungere i piselli, salare e volendo insaporire con un cucchiaio di salsa. Coprire e lasciare cuocere per circa 20 minuti a fuoco lento.
Altro piatto che si è soliti preparare in prossimità della Pasqua, quando i piselli sono di stagione è lo stufato in umido di capretto, con i piselli, carciofi e patate. Al capretto si può sostituire l’agnello.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Salsa di olive

Materia prima: olive verdi.

Tecnologia di lavorazione: le olive raccolte nel mese di novembre vengono messe in salamoia al 7% di salinità, con foglie di alloro, semi di finocchio e aglio. Al momento dell’uso si tirano fuori dalla salamoia, si snocciolano e si schiaccia la polpa fino a ridurla in pasta, si aggiunge un po’ d’aceto, una piccola quantità d’aglio, olio e si invasetta, talvolta con l’etichetta di patè.

Maturazione: in salamoia fino a due anni.

Area di produzione: in origine la Liguria. Oggi è diffuso in tutto il meridione e nelle regioni dove è presente l’olivicoltura.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: la salsa di olive non ha una lunga tecnologia, chi la fa utilizza varietà locali non necessariamente le più idonee. Sostanzialmente sono le stesse varietà utilizzate per la produzione di olive da tavola nere e verdi. Le principali cultivar per mensa a frutto verde sono: Ascolana tenera, Bella di Cerignola, Nocellara del Belice, Nocellara Etnea, Sant’Agostino, Santa Caterina, Uovo di Piccione; le cultivar a frutto nero a duplice attitudine, adatte cioè per la mensa e per le produzioni di olio, sono: Giarraffa, Itrana, Maiatica di Ferrandina, Moresca, Picholine; le cultivar minori a frutto verde: Pizz’e Garroga, Tonda di Cagliari, Tonda Iblea, Zaituna. Cultivar minore a frutto nero: Cajazzana, Caroleo, Grossa di Cassano, Justi, Mele, Nocellara Messinese, Nolca, Passalunara, Peranzana, Tonda Iblea.

Olive in salamoia

Materia prima: olive verdi e nere scure non troppo mature.

Tecnologia di lavorazione: le olive vengono messe in acqua fredda, cambiandola
parecchie volte, per un paio di giorni finchè non perdono il sapore amaro. Si
mettono poi in salamoia agginugendo chiodi di di garofano, semi di finocchio, alloro e
altri aromi. Richiusi, i contenitori vengono riposti in luoghi freschi, al riparo dalla
luce.

Maturazione: anche due anni.

Area di produzione: Italia olivicola.

Calendario di produzione: novembre, dicembre, gennaio.

Note: al momento del consumo le olive si sciacquano in acqua tiepida, si asciugano e
sono piu gustose se vengono condite con fiori essiccati di finocchio selvatico,
scorze di arance o di limone, un goccio d’olio. Questo sistema di conservare le olive
in salamoia era conosciuto anche dai romani, i quali oltre alla salamoia adoperavano
con generosa abbondanza finocchio selvatico essiccato, semi di lentisco, foglie di
ruta, mosto cotto e aceto. A volte le pestavano prima di ricoprirle con gli
ingredienti suddetti, altre volte le spaccavano con una canna tagliente. Quest’ultimo
metodo, benchè richiedesse più lavoro, era ritenuto il migliore in quanto
conservava alle olive un bel colore bianco che quelle pestate perdevano. Nella
evidente impossibilità di quantificare per indagine diretta le olive destinate alla
conservazione sono stati assunti i dati riferiti dall’annuario Inea 1990 alla voce
“Olive per consumo diretto”, al netto del consumo fresco.

Baciocca

zona di produzione: Valle Sturla e Val Graveglia

curiosità: La baciocca è un piatto diffuso nell’entroterra del levante genovese, composto da pochi elementi, semplici e sostanziosi, ma talmente gustoso da essere proposto oggi come antipasto in molti ristoranti attenti alle tradizioni. Alla sua base ci sono le patate quarantine che trovano la loro terra d’elezione sulla montagna genovese dove vengono peraltro considerate tra le migliori varietà.
Le caratteristiche di questa patata, dal gusto delicato e non farinoso, permettono di ottenere un’ottima torta salata. Il gusto viene arricchito anche e soprattutto dalla tecnica di cottura che vede l’utilizzo della campana di terracotta o ghisa (testo). Fa da letto alla torta, durante la cottura, uno strato di foglie di castagno che, raccolte in estate direttamente dagli alberi, vengono legate in fasci e conservate.
Prima di essere utilizzate devono però essere bagnate con acqua bollente e poste sotto un peso per distenderne i bordi.

caratteristiche: Gustosa torta di patate a fette, cotta nel testo sopra uno strato di foglie di castagno.
preparazione: Ingredienti: 1 kg di patate quarantine, 3 uova, formaggio parmigiano, 1 fetta di lardo, 1 spicchio d’aglio, prezzemolo, olio, burro, sale, pepe.

Preparazione: affettare le patate finemente e porle in uno scolapasta con sale per circa 15 minuti; tritare il lardo, il prezzemolo, l’aglio, la cipolla; aggiungere il tutto alle patate ed insaporirle con il formaggio grattugiato. Porre quindi l’impasto sopra un tagliere di legno (turtà). Una variante prevede che il lardo con gli aromi venga precedentemente soffritto in una terrina; un’altra variante vede l’utilizzo di foglie di bietola.
Porre l’impasto in una sfoglia di pasta fatta di farina e acqua. Far scaldare con fuoco di legna per circa 20-30 minuti il testo, che generalmente è sito nell’essiccatoio delle castagne. Far scivolare con cura l’impasto dal tagliere sulle foglie di castagno, coprire con la campana e lasciare per il tempo necessario alla cottura, circa 30 minuti, senza mai alzare la campana.
La versione più ricca e moderna che in alcuni ristoranti propongono è la seguente:
1 kg di patate quarantine, 70 g di presinseua, 30 g di funghi secchi, 3 uova, pane grattato, formaggio parmigiano, 1 spicchio d’aglio, origano, olio, sale, pepe.
In una terrina sbattere le uova con il parmigiano, l’olio, l’origano e l’aglio tritato; unirvi i funghi secchi ammorbiditi nell’acqua tiepida e tritati e la prescinseua.
Far bollire le patate e passarle al setaccio; poi amalgamarle con gli altri ingredienti, quindi aggiungere sale e pepe a piacere. Ungere il fondo di una teglia, versarci il composto e spolverarci un po’ di pane grattato e un filo d’olio. Mettere in forno a 180 gradi per circa mezz’ora.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Condigion

zona di produzione: Imperiese, Genova

curiosità: Pietanza povera e veloce, da mangiare d’estate magari all’aperto, un tempo le donne lo consumavano sedute sugli scalini di casa, spettegolando con le vicine e servendosi spesso da un unico “grilletto” (piatto).
Esistono diverse versioni del condijon dove però non va mai sottovalutata la presenza del basilico che dona un inconfondibile sapore.
Nell’imperiese tradizionalmente sono presenti solo i pomodori, le olive, il basilico, i peperoni, le acciughe, l’aglio e i condimenti; a Genova invece gli ingredienti sono più abbondanti sino ad ottenere un piatto che ricorda un modesto cappon magro. È sottinteso che la lista degli ingredienti varia, oltre che da zona a zona, anche a seconda delle stagioni. Comunque sia, questa insalata deve essere sempre abbondantemente condita, come indica il suo nome che deriva dal verbo condire e nel rispetto del detto locale: “Non mi fido di tre cose: condiglione senza condimento, bella donna civettuola, contadino senza tridente”.

caratteristiche: Insalata tipica dell’imperiese e specialmente di Oneglia e zone limitrofe, molto simile alla più nota nicoise di oltre confine.
L’insieme dei suoi ingredienti è mutevole come la sua pronuncia.

preparazione: La ricetta che qui si propone è quella più ricca, tipica di Genova.
Ingredienti per 4 persone: 300 g di patate novelle, 4 pomodori da insalata preferibilmente “cuore di bue”, 2 peperoni, 1 cetriolo, 1 cipolla rossa, 100 g di olive taggiasche in salamoia, 4 filetti di acciughe salate (oppure 50 g di mosciamme, oppure tonno), 1 ciuffo di basilico, 2 spicchi d’aglio, 1 uovo sodo (facoltativo), olio extravergine d’oliva, aceto, sale.
Preparazione: lessare le patate, pelarle e lasciarle raffreddare. Bollire l’uovo. Pulire le acciughe e tagliarle in filetti; se usate il mosciamme tagliatelo a fette sottilissime.
Strofinare di aglio la terrina, se vi piacciono i sapori decisi, disporvi le verdure tagliate a pezzetti sottili tranne i pomodori, condire e spolverizzare con le foglie di basilico strappate con le dita. Lasciare riposare qualche minuto prima di servire.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Micotti

zona di produzione: Valle Sturla

curiosità: Furono i Benedettini a bonificare le terre del torrente Sturla, creando terre coltivabili, limitate dalle foreste di querce e di castagni. La cucina locale dipendeva totalmente da quello che la terra produceva ed anche se l’agricoltura era scarsa non mancavano patate e mais, seppur i loro quantitativi soddisfacevano a malapena il consumo familiare. Le patate unite alla farina di mais, meno pregiata di quella di grano tenero, al lardo e a pochi altri ingredienti, semplici ma sostanziosi, davano origine ai micotti.
Ancora oggi in zona c’è chi ha la volontà di riproporre questo piatto, da cuocere sotto il testo nell’essiccatoio delle castagne, tenendo fede alla più pura tradizione.
Facciamo notare che così come nella cucina delle zone montane anche in quella della Liguria dell’entroterra sono presenti grassi animali come il lardo ed il burro che sostituiscono l’olio, onnipresente sulla costa e nelle zone appena retrostanti.

caratteristiche: Le patate, unite alla farina di mais, al lardo e a pochi altri ingredienti, danno origine ai micotti, semplice ma sostanziosa pietanza dalla singolare forma a panettoncino e dal colore dorato.
La ricetta tradizionale vuole che queste antesignane crocchette siano cotte sotto il testo posto nell’essiccatoio delle castagne.

preparazione: Ingredienti: Patate, farina di mais, lardo, burro, cipolle, aglio, prezzemolo, formaggio grattugiato.
Preparazione: Fate bollire le patate, schiacciatele ancora calde e aggiungetevi la farina di mais. Intanto fate soffriggere il lardo con il burro, le cipolle, l’aglio ed il prezzemolo. Versate le patate e dopo qualche minuto togliete il tutto dal fuoco, insaporendo con il formaggio grattugiato. Formate quindi delle palline di impasto a forma di panettoncino.
A questo punto procedete alla cottura sotto il testo, posto nell’essiccatoio delle castagne. Quest’ultimo viene fatto scaldare con fuoco a legna per circa 20-30 minuti. Si asportano le braci, si fa scivolare sul basamento di metallo l’alimento da cuocere, servendosi di un tagliere di legno e si chiude la campana, lasciando chiuso per il tempo necessario alla cottura, senza mai aprire.
La cottura può essere svolta anche nel normale forno ma si penalizza il risultato.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Panella

zona di produzione: Levante Ligure

curiosità: Immancabili nella cucina montana e, ahimè povera, le castagne sono state una vera manna per intere popolazioni. Facili da reperire, davano origine alla farina che permetteva, e permette, una creazione piuttosto ampia di piatti. Il più tipico di tutti è la panella, detta anche pattona, parente povero del castagnaccio. Decisamente sostanzioso e saporito, era consumato come piatto unico dai contadini. La totale mancanza di grassi non permetteva però un apporto nutrizionale completo che veniva soddisfatto da altri piatti più ricchi. Oggi si consuma quasi esclusivamente come dolce e spesso nella più ricca e golosa versione del castagnaccio. In valle Sturla la panella era utilizzata in sostituzione del pane. Veloce da preparare e da cuocere, si trovava sulle mense ad accompagnare il pasto giornaliero. Per le occasioni si arricchiva di pezzi di salsiccia. Lo stesso piatto era anche preparato sostituendo alla farina di castagna quella di mais.

caratteristiche: Preparazione a base di farina di castagne, la sottile panella si presenta di forma circolare e con un colore marrone più o meno intenso a seconda del grado di cottura

preparazione: Ingredienti: 1 kg di farina di castagne, acqua, sale, olio. Porre la farina di castagne, ben setacciata, in un recipiente, alla quale si aggiunge acqua a temperatura ambiente, in modo da formare un impasto cremoso. Si stende su di un tagliere coperto da foglie di castagno e si spolvera con un po’ di acqua in superficie per evitare che si formino le indesiderate bolle. Quindi si procede alla cottura sotto al testo.
Le foglie di castagno sono raccolte a fine luglio direttamente dagli alberi oppure a settembre-ottobre prima che cadano (la tradizione vuole che il giorno di San Lorenzo non si raccolgono foglie, in quanto non si riuscirebbe a conservarle). Queste foglie sono ordinate in fasci di spago e poste ad essiccare al chiuso o all’aperto. Vengono quindi conservate, ma i bordi troppo stropicciati non le renderebbero adatte all’uso: si provvede quindi alla loro preparazione qualche giorno prima di usarle. Vengono bagnate in acqua bollente, si lasciano scolare (per evitare formazione di muffa) e si pongono sotto peso in careghèira per circa mezza giornata. Rimane quindi solo da applicare l’arte della loro corretta disposizione sul tagliere, pena l’imperfetta riuscita del piatto. Cottura: il testo, generalmente posto nell’essiccatoio delle castagne, viene fatto scaldare con fuoco di legna per circa 20-30 minuti. Si asportano quindi le braci, si fa scivolare sul basamento l’alimento da cuocere con modalità indicate in precedenza, si chiude la campana (cioè la parte superiore del testo) e si lascia per il tempo necessario alla cottura, senza mai aprire. Il coperchio o campana del testo, è movimentato attraverso un contrappeso, per permettere con minimo sforzo la regolazione della sua altezza. Il testo è in terracotta o in ghisa.
La ricetta proposta è quella antica: si può anche versare la pastella in una teglia unta e porre in forno a 180° per circa un’ora. La panella sarà pronta quando la crosta incomincerà a spaccarsi.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Panissa

zona di produzione: Tutto il territorio regionale

curiosità: Mancano le origini eroiche nella storia della paniccia ma non per questo è meno importante della compagna farinata. Conosciuta ed apprezzata da epoca remota, rappresenta il fast food locale. Un tempo veniva consumato da operai e studenti come piatto unico, oggi, da tutti spesso come sfizioso antipasto, non solo per moda ma anche per voglia di piatti della storia locale. Immancabile non più solo da-i frisciolae, ma anche in trattorie e ristoranti che la propongono, secondo la tradizione, condita con abbondante olio ed insaporita con sale e pepe. Ancora un esempio di come un piatto dalle origine umilissime, nato dalla mancanza di farina di frumento, possa diventare gustoso al punto da passare indenne attraverso i secoli.

caratteristiche: Farina di ceci e acqua, cotta come polenta, raffreddata e tagliata a rombi: ecco cos’è e come si presenta la panissa, piatto sostanzioso, gustoso e di basso costo.
Condita con olio, aceto e pepe, si può gustare da sola o in insalata associata alla cipolla o ancora, tagliata a strisce sottili e fritta, profumo tipico che diffonde tra i Portici di Sottoripa, zona antistante il porto antico di Genova e gli stretti vicoli.

preparazione: Ingredienti: 300 g di farina di ceci, acqua, sale. Versare in una pentola, nell’acqua già tiepida, la farina di ceci a pioggia, mescolando bene. Cuocere come la polenta rimestando continuamente per circa un’ora. Quindi la si lascia raffreddare in varie forme: la più classica è quella della fondina e si taglia a rombi o a fette. Si può mangiare saltata in padella, fritta o tal quale, condita con cipollotti crudi o semplicemente con olio, aceto e pepe nero, ed ancora farla rosolare insieme alle cipolle tagliate a fettine.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Torta di zucca

zona di produzione: Tutto il territorio regionale

curiosità: Famosa quella di Cenerentola, terrorizzanti quelle di Halloween, dure quelle dei testoni, in tutti i casi protagonista è la zucca, del genere Cucurbita della famiglia delle Cucurbitaceae, sta a significare la pianta che si ricurva su altre e su se stessa.
Difficile è trovare la terra d’origine per l’universale diffusione. Già conosciute dagli Egizi e dai Romani erano presenti sulle tavole d’Asia ed Africa centro orientale.
Con la scoperta dell’America giunsero a noi nuove varietà di zucca. La zucca non solo veniva utilizzata in cucina come ingrediente ma, per la sua peculiare forma e resistenza, anche come contenitore di liquidi (acqua, vino, olio), da cui il nome popolare di zucca a fiasco mentre quelle più piccole e tondeggianti venivano usate come custodia di polvere da sparo, tabacco, sali minerali.
Le troviamo anche utilizzate dai pastori come borraccia durante la transumanza e dai pescatori come galleggiante durante la pesca. Esistono ricettari veneti e toscani del XIV secolo che parlano di saporite ricette con la zucca.
Di storica tradizione la torta è diffusa anche in Liguria in più versioni ed è la regina dell’annuale Sagra della Zucca di Murta, nell’entroterra della Val Polcevera, poco distante da Genova.

caratteristiche: Zucca e pochi altri ingredienti si uniscono per costituire il delicato ripieno di questa storica torta tradizionale diffusa un po’ in tutta la regione e presente nel ponente ligure anche nella versione dolce.

preparazione: Ingredienti: Per la pasta: 300 g di farina, 2 cucchiai d’olio, sale, acqua tiepida q.b., 1/2 bicchiere di vino bianco (facoltativo).
Per il ripieno: 1 Kg di zucca gialla, 3 uova, 1 cipolla, 200 g di spinaci, 1 dl di olio, maggiorana, 20 g di funghi secchi, 100 gr di prescinseua, 100 g di grana grattugiato, noce moscata, pepe.
Preparare la sfoglia impastando farina, acqua, sale e vino fino ad ottenere una pasta morbida. Dividere l’impasto in due parti , infarinarli, coprirli con un canovaccio umido e far riposare per non meno di un’ora. Nel frattempo pulire la zucca, tagliarla e farla cuocere leggermente. Quindi passarla al setaccio. Versare la zucca in un terrina, aggiungere i funghi ammollati, le uova, il grana, la maggiorana, la noce moscata, sale e pepe. Mescolare bene. Coprire il fondo di una teglia ben unta con la sfoglia, stendervi l’impasto e coprire con altra pasta rimboccare i bordi ed infornare per 40 minuti in un forno già caldo a 200°. Esiste anche una versione che non prevede lo strato superiore di sfoglia e in cui si cosparge il ripieno con abbondante pan grattato ed olio. In Valle Bormida, entroterra savonese, nella locale torta di zucca troviamo associati alla cucurbita il riso ed il porro e si distingue per la sostituzione della sfoglia superiore con semplici striscioline di pasta. Nel finalese è possibile trovare anche una versione “dolce” dove nell’impasto, in compagnia della zucca, è possibile riconoscere la marmellata e l’uvetta.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Fungo Porcino spontaneo

zona di produzione: Tutto il territorio dell’entroterra ligure. In particolare Alta Val Bormida, Val d’Aveto, Val di Vara e si prolunga verso la Val di Taro (PR)

curiosità: La raccolta e la lavorazione dei funghi risale al periodo medievale: già allora erano un prodotto molto apprezzato, tanto che gli stessi sono elencati tra le regalie che i Del Carretto richiedevano in occasione delle feste natalizie. Le fiere presenti nelle valli erano legate alla disponibilità di denaro dei contadini, che si presentavano solitamente alla fine dei raccolti agricoli estivi e di quelli delle castagne e dei funghi. Ciò sta a dimostarre che i funghi, fin dall’ottocento costituiscono una componente di rilievo nell’economia agricola di paesi dell’entroterra come Sassello, Varese Ligure e Santo Stefano d’Aveto. Goffredo Casalis riferisce nel suo Dizionario, di una notevole esportazione di tale frutto verso i paesi del litorale e a Genova.

caratteristiche: Il fungo porcino (Boletus edulis) è presente spontaneo nei boschi di tutto il territorio montano regionale, con sfumature organolettiche diverse da valle a valle.
La raccolta dei funghi avviene in boschi di castagno, cerro, faggio, carpino e frassino.
I porcini di faggio sono bianchi e allungati mentre quelli di castagno si presentano più scuri e dal gambo rosso.
La raccolta e la trasformazione di diverse varietà di funghi porcini è documentata da diverse fonti, tra cui alcuni scritti conservati in un monastero femminile di Varese Ligure.
Al fungo è stata riconosciuta dalla legge la caratteristica di “risorsa locale”.

preparazione: Tagliare i funghi a fette, disporli sulle griglie dei cestelli dell’essiccatoio per 12 – 16 ore, oppure sulle reti dei telai al sole, girandoli spesso. I funghi essiccati naturalmente o meccanicamente non devono presentare una percentuale di umidità superiore al 12%. Quelli essiccati naturalmente rispetto a quelli da essiccatoio tendono a raggrinzirsi e a diventare più scuri. I funghi secchi vanno conservati in luogo fresco e il tempo di conservazione non può essere superiore ai 12 mesi dal confezionamento. Nell’ottocento, le monache agostiniane di Varese Ligure preparavano i funghi secchi e li commercializzavano in accurate confezioni costituite da cestini ricoperti da fine carta ritagliata che simulavano con i loro arabeschi, pregiati centrini.

ricetta: Con i funghi secchi si prepara un classico della cucina ligure, il sugo di funghi, per condire generalmente la polenta, i ravioli di magro o i taglierini.
Rosmarino e aglio in proporzione vengono soffritti in olio: si uniscono i funghi ben pestati, e un poco di conserva di pomodoro oltre che pomodori freschi passati; se necessario alla cottura si aggiunga acqua calda o di fungo.
Nel sugo classico di fungo si nota la presenza del rosmarino al posto del più “moderno” prezzemolo.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Funghi sott’olio (Porcino bianco, Pinicola, Cicalotti, Galletti)

zona di produzione: Entroterra ligure

curiosità: Molti erano i metodi di conservazione del fungo: essicato, sotto sale, sott’olio.
In un manoscritto anonimo ritrovato negli archivi del comune di Sassello, intitolato “Cuoco di casa” e datato luglio 1894, tra le ricette per conserve viene riportata quella relativa ai Funghi in addobbo di piatti importanti considerata di migliore conserva: gli ingredienti sono funghi, olio, aceto, chiodi di garofano, cannella, pepe, noce mo-scata, sale, aglio, un ramoscello di ro-sma-rino e di timo. Nel manoscritto la preparawione é la seguente: si porta ad ebollizione l’aceto, l’olio e il sale e si pongono i funghi. Dopo 4-5 minuti si aggiungono le droghe e si continua l’ebollizione per 20 minuti. Si ritirano dal fuoco e si lasciano raffreddare nella pentola. I funghi si pongono quindi in un vaso e per la conservazione si utilizza lo stesso liquido di cottura che dovrà coprirli.
Questa ricetta viene praticata a Sassello dai più attenti cultori delle conserve di funghi. La produzione si può trovare in quasi tutte le valli dell’entroterra ligure che hanno una specifica tradizione nella raccolta e conservazione dei funghi spontanei.

caratteristiche: Porcino bianco “Boletus edulis”; Porcino nero “Boletus pinicola”, Cicalotto (Tri-choloma portentosum); Galletto (Chata-rellus ciabrius);
Sinonimi Burèi da fuiàc (porcino bianco “edulis”); Galliture (galletti); Burèi curù der vèn (porcino nero “pinicola”).

preparazione: Si scelgono esemplari giovani e freschi non parassitizzati, si puliscono, si lavano e si asciugano.
Si prepara un liquido composto da vino bianco secco e aceto bianco forte. Si fanno bollire nella pentola, aggiungendo sale e aromi. La cottura deve avvenire in circa 15 minuti, controllando la consistenza. Una volta cotti si distendono sul tavolo di lavorazione, si asciugano e si sgocciolano.
Quindi si dispongono interi o tagliati nei vasi di vetro, di varie dimensioni, con olio extra vergine di oliva.
I funghi sott’olio possono essere anche ricavati dalla lavorazione del prodotto in salamoia: in questo caso si procede alla dissalazione del fungo fino ad un 5% circa. Successivamente si mette in concia bollente, con aromi vari, per molte ore ed infine si procede alla conservazione sott’olio.

ricetta: Il fungo sott’olio è nella cucina ligure spesso abbinato ad antipasti freddi di salumi e formaggi o in addobbo a piatti più importanti come la cima o i bolliti misti.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Susino collo storto

Zona di produzione: Tutto il territorio dell’entroterra ligure

Curiosità: Tale varietà viene citata nella “Pomona Italiana” del Gallesio come susino Basaricatta o Collo Storto (Prunus ligustica).
L’autore così la descrive: “…è composto di polpa gialla, consistente, carnosa, coperta da buccia color oro, velata da un polline bianco che sparisce toccandola. Il nòcciolo conserva la medesima forma: è lungo e ritorto”. Quindi elogia le sue pregevoli caratteristiche di conservazione non solo “alla pianta, quanto ancora nei magazzini e nei cesti”, quindi un più sicuro trasporto anche verso paesi lontani.
Conclude affermando che “pare particolare al Genovesato” in quanto non viene citata dalle Pomologie d’oltremonte.
Le prugne sono da sempre presenti nella dieta dell’uomo; sono stati infatti trovati noccioli nei villaggi preistorici. Inoltre le prugne secche erano un ottimo contributo calorico per le popolazioni nomadi. Erano molto apprezzate dai Romani che già prima di Cristo conoscevano il susino siriaco. Durante l’epoca delle Crociate vennero importate in Europa nuove specie provenienti dall’Asia Minore e se ne apprezzava non solo il gusto ma anche le capacità lassative, note sia agli Arabi che a Galeno. Le proprietà lassative delle prugne sono talmente conosciute che lo stesso Molière nel suo Il malato immaginario fa ordinare dal medico “prugnette secche per liberare il ventre”. Dobbiamo aspettare comunque parecchi secoli prima che la diffusione e la moltiplicazione delle varietà sia degna di nota. Fu nel XIX secolo che la prugna venne introdotta su larga scala in California dando origine ad una coltivazione capillare non solo in America ma anche in Europa. Tradizionalmente in Liguria il consumo è fresco ma qualche produttore si é anche lanciato nella commercializzazione del frutto essiccato al sole.

Caratteristiche: Susina bianca di pezzatura medio-piccola. La forma allungata a goccia è simile ad un fiaschetto. Il colore dell’epidermide è di una tonalità giallo-aranciata, di media pruinosità.
È una prugna nota per la sua dolcezza e aromaticità.
A maturazione è spiccagna, il nocciolo cioè si stacca facilmente dalla polpa.

Preparazione: Localmente non viene innestata e la produzione si ritrova nei frutteti familiari. Sono rare le coltivazioni specializzate.

Ricetta: Marmellata di susine
Ingredienti: 1 kg di susine, 800 g di zucchero.
Preparazione: liberare dai noccioli le prugne e, con le mani, rompere in pezzi i frutti. Unire lo zucchero con la polpa e lasciare riposare alcune ore. Portare ad ebollizione i frutti mescolando con cura, fin tanto che la marmellata si addensi. Versare nei vasi e chiudere ermeticamente.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Castagna secca

zona di produzione: Tutto il territorio dell’entroterra ligure

curiosità: In tutte le frazioni dell’entroterra ligure la castagna ha nei tempi passati rappresentato il prodotto sostituivo del grano.
Un piatto ricorrente, semplice ma sostanzioso, che si preparava in inverno era il latte nel quale venivano cotte le castagne secche.

caratteristiche: Castagna con dimensione medio piccola, ottima sia consumata fresca che essiccata.
Le varietà locali utilizzate per l’essiccazione sono diverse a seconda delle valli.
In particolare in val Bormida famose sono le varietà Gabbiana e Garessina. Mentre nel levante ligure nomi ricorrenti sono la Gentile, la Carpenese e la Bunneive.

preparazione: Effettuata la raccolta, a mano o meccanizzata, le castagne vengono poste in essiccatoi tradizionali (costruzioni in pietra con un solaio in travi di legno e listelli). Sul pavimento viene acceso un fuoco con legna solitamente di castagno: la fiamma deve rimanere bassa e allo scopo si utilizza la “pula” (buccia) delle castagne secche dell’anno precedente. Il tempo impiegato per la completa essiccazione è di circa 20/30 giorni: quindi le castagne vengono girate facendo in modo che quelle ancora non completamente essicate, vengano posizionate nello strato inferiore e quelle già secche sopra di esse.
Dopo tale operazione si continua l’essiccazione per altri 8/9 giorni.
Ad essiccazione terminata le castagne vengono fatte scendere nell’apposita macchina per la sbucciatura, che effettua anche una prima calibratura, separando le castagne intere dalle piccole e dai frammenti di castagne spaccate durante la fase di sbucciatura.
Le castagne vengono quindi portate in magazzino dove si eseguirà a mano la selezione, eliminando tutte le castagne non idonee alla commercializzazione.

ricetta: Un piatto tradizionale, esempio di alcune vallate, è costituito da un antico piatto unico che prevedeva la bollitura delle castagne con il cavolo rapa (raracòu).
Il tutto si condiva con il buon olio di oliva di prima spremitura.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Confettura di frutta

zona di produzione: Tutto il territorio dell’entroterra ligure

curiosità: Le marmellate sono nate dall’esigenza di conservare la frutta, raccolta in stagione, in modo da poterla gustare nei periodi in cui ve ne è scarsità. Anche ai tempi di Roma antica, vi erano preparazioni con finalità uguali alle nostre confetture: queste erano costituite da frutta intera immersa in vino passito, vino cotto o miele. Columella riporta nell’Arte dell’Agricoltura una ricetta per la conservazione di pere, mele e altri tipi di frutta. Quest’ultima veniva raccolta immatura, ma non acerba. I frutti dovevano quindi visionati per assicurasi che fossero integri, senza vermi né difetti: quindi venivano disposti in recipienti di terra cotta ed immersi in vino passito o in vino cotto, in modo che il frutto fosse interamente coperto. E concludeva con un consiglio: “Ma poi mi preme insegnare che non vi è tipo di frutta che non si possa conservare in miele”… preparazione da eseguire in quanto salutare per gli ammalati.

caratteristiche: Belli, colorati, dolci frutti spontanei, dono del bosco da sempre colti ed apprezzati dall’uomo sin dall’epoca preistorica. Si prestano ad essere consumati al naturale arricchiti di limone ed eventuale zucchero, o trasformati in liquori o sciroppi, o ancora in gelatine e marmellate. L’entroterra e la zona montana della Liguria sono da sempre area di produzione di frutti spontanei e molte aziende delle valli liguri producono confetture di vario tipo. È tradizione trovarle nei mercatini locali e presso i singoli produttori.
Si preparano confetture di: mirtillo selvatico, lamponi, more, fragole, albicocche, prugne, ciliege, castagne, sambuco, pesche, pere, mele al cioccolato, arance, limoni, fichi (con zucchero di canna), prugne, pesche. Si preparano, inoltre, gelatine extra di mele al rosmarino, sambuco, ribes, uva spina e menta.

preparazione: Per un chilo di frutta, ci vogliono circa 800 grammi di zucchero.
Si fa cuocere la frutta assieme allo zucchero mescolando sino ad ottenere una consistenza gelatinosa. La marmellata si versa nei vasi quando è ancora calda e si chiude ermeticamente. Le confetture generano solitamente un ambiente acido e quindi non necessitano di particolari trattamenti termici, anche se è buona regola una sterilizzazione a bagnomaria. I vasi sterilizzati vanno posti in luogo fresco e buio per la conservazione.
La preparazione della gelatina si ottiene da succo e non dalla polpa a differenza delle confetture.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Chinotto candito di Savona

zona di produzione: Tutto il territorio delle province di Genova e Savona

curiosità: Per quanto riguarda i chinotti rimandiamo alla scheda relativa, qui ci soffermiamo sui canditi vanto dei pasticceri locali. Non è sicuro che i canditi siano nati a Genova ma è certo che già nel ‘500 erano famosi ed apprezzati anche alla corte di Francia soprattutto da Caterina de’ Medici. Un paio di secoli più tardi Diderot e D’Alambert nello loro “Encyclopedie” citano proprio i canditi genovesi con parole entusiastiche. Dovranno passare pochi anni ancora perché il nome di Genova sia indiscutibilmente legato alla frutta candita, merito di una nota famiglia di confettieri locali che ha saputo rendere famoso nel mondo questo tipo di dolce che già nell’800 veniva esportato perfino in America.
Si possono candire: pere, albicocche, pesche, fichi, prugne, arance, mandarini, cedro, melone, ananas, violette, zucca, mele cotogne, fragole, marroni e naturalmente chinotti. Il metodo di canditura è simile per ogni tipo d frutta, variano il tempo di cottura e la concentrazione di zucchero.

caratteristiche: Chinotto candito in salamoia, di colore verde brillante-giallo e di dimensioni piccole, del diametro di circa 2,5 cm.

preparazione: I chinotti si immergono interi in acqua salata e si esportano entro fusti di faggio.
Come salamoia si usa l’acqua del mare, messa in botti, dove si lasciano i frutti circa 25 giorni cambiando l’acqua ogni 5-6 giorni, dopo di che si passano in macchine apposite che a mo’ di torchi, asportano uno strato sottile di buccia; poi si rimettono in salamoia per altri 7-8 giorni. I frutti da sciroppare passano quindi attraverso le seguenti fasi di lavorazione: cottura all’ebollizione per 1/2-1 ora a seconda che si tratti di frutti gialli-arancioni o verdi; bagno in acqua dolce per 4-5 giorni, cambiando l’acqua 2-3 volte al giorno; bagno nello sciroppo per 14-15 giorni; conservazione nei barattoli con sciroppo. Nonostante tali numerosi passaggi, i chinotti sia sciroppati che canditi conservano il tipico profumo e sono apprezzati, oltreché per tali pregi organolettici, anche per l’azione stomachica.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Pandolce genovese

zona di produzione: Tutto il territorio regionale

curiosità: Per antonomasia il dolce tipico del Natale a Genova, dall’aspetto ruvido ma dal contenuto sostanzioso come il carattere dei Liguri.
È antichissima la tradizione di arricchire il pane con lo zibibbo, infatti è archeologicamente provato che fosse già noto presso gli Egizi. Gli ingredienti fanno presupporre innegabili origini nel mondo arabo e i mercanti genovesi devono averlo conosciuto durante i loro viaggi e portato a casa dove, nei secoli, fu variato ed arricchito.
C’era un tempo quando sarebbe sembrato blasfemo non cucinare in casa il pandolce per il giorno del Natale, in cui ogni massaia conservava gelosamente la sua ricetta più o meno segreta ma in tutte spiccava la notevole abbondanza di ingredienti ricercati e preziosi. La preparazione di questo dolce era frutto di cura ed amore e c’era addirittura chi, per garantire un’ottima lievitazione, lo portasse a letto e lo ponesse accanto, all’ormai dimenticato “praeve” attrezzo necessario per sollevare le lenzuola attorno allo scaldino.
Un rito accompagnava l’arrivo del pandolce alla fine del desco natalizio come ultimo coronamento di un pranzo speciale. Era il più giovane della famiglia a portarlo in tavola adorno di un rametto di alloro ed era il più anziano a tagliarlo. Una fetta veniva tenuta per i poveri ed una gelosamente conservata per il giorno di San Biagio da sbocconcellare per proteggersi la gola.

caratteristiche: Pane dolce a forma circolare con un diametro variabile tra i 25/30 cm e spessore variabile dai 10/15 cm al centro e degradante ai lati.
Interno farcito di pinoli, uvetta, canditi a pezzetti, finocchietto, pistacchi frantumati.

preparazione: Ingredienti: 4 kg di farina,200 g di lievito, 50 g di finocchio dolce, 75 g di pinoli, 75 g di pistacchi ben mondati, 100 g d’uva passa, 100 g di canditi tagliuzzati a pezzettini, 600 g di burro, 1 cucchiaio di acqua di fior d’arancio, 1 kg di zucchero.

Lavorazione: Prendere i 4 chili di farina, separarne uno e impastarlo con il lievito che abbia almeno 24 ore e tanta acqua tiepida che basti a formare un pane di pasta piuttosto soda; fasciare quindi con un panno, e lasciare lievitare 18 ore; se d’estate mettetelo frammezzo ai tre kg di farina, versando acqua tiepida per rendere la pasta soffice; unire un bicchiere e mezzo di vino tipo Marsala, il burro ammorbidito, un cucchiaio d’acqua di fior d’arancio e lo zucchero spolverizzato. Impastare il tutto, unendo man mano gli altri ingredienti; formare più pani e metterli a lievitare per 12 ore; fasciare all’intorno con un tovagliolo. Terminata la lievitazione togliere il tovagliolo ed incidere un triangolo in cima alla pasta, cuocere in forno a 180° per circa un’ora.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Pinolata della Val d’Aveto

zona di produzione: Val d’Aveto, entroterra chiavarese

curiosità: Semi della generosa pigna, i pinoli sono indiscutibilmente importanti nella cucina genovese, li troviamo anche come coronamento di questo dolce che proprio per la loro presenza prende il nome di pinolata, torta croccante e dorata all’esterno, morbida e soffice dentro.

caratteristiche: Torta dolce da forno di forma rotonda, dal diametro di 25 cm circa e dallo spessore di 2 o 3 cm, avente un aspetto dorato con una superficie ricoperta da pinoli.
Lo strato esterno è croccante mentre l’interno risulta morbido e soffice.

preparazione: Ingredienti: 50 g di mandorle dolci, 50 g di mandorle amare, 2 bianchi d’uovo, 1 pizzico di bicarbonato, 250 g di zucchero, 200 g pinoli, burro.
Lavorazione: tritare le mandorle non troppo finemente ed unirle allo zucchero. Montare i tuorli a neve ed aggiungere un pizzico di bicarbonato. Creare un impasto omogeneo e sodo che dovrà essere versato in una teglia imburrata, cospargere la superficie con i pinoli e lo zucchero semolato. Infornare a 180° sino a quando avrà raggiunto un aspetto dorato.
Questo impasto viene messo nella teglia precedentemente foderata di pasta frolla la quale ricopre il tutto. La superficie viene poi cosparsa con alcuni pinoli e zucchero semolato.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Torta di Chiavari – Torta de Ciävai

zona di produzione: Chiavari, Val Fontanabuona

curiosità: a Ciävai (Chiavari) si produceva una torta che prendeva il nome dalla dinamica cittadina del Golfo del Tigullio e che forse in pochi ricordano. Nota infatti solo in zona, non si escludono le origini nella vicina Val Fontanabuona. Ricco dolce che per la sua munificenza ricorda la torta mitica dei Fieschi è un piacere per i golosi e gli esteti. Ricoperta di panna, impreziosita da briciole di pan di Spagna, circondata da biscotti ben disposti è una vera e propria torta da fiaba. Il più lezioso dei dolci liguri. Data la complessità della sua esecuzione, viene riproposta dall’antico caffé Defilla di Chiavari in una versione più semplice e che di quella antica ricetta ricorda solo il nome.

caratteristiche: torta dolce dal sapore gradevolmente alcolico.

ricetta: ingredienti: pan di Spagna da 500 g, 30-40 lingue di gatto, 100 g di amaretti, 3 uova, 250 dl di panna da montare, 50 g di zucchero vanigliato, 100 g di zucchero semolato, marsala, curaçao, rhum, 70 g di burro.

Preparazione: Preparare uno zabaione con le uova, lo zucchero semolato e 1 bicchiere di marsala. A parte montare la panna. Togliere la sottilissima crosta del pan di Spagna, sminuzzarlo e tenerlo da parte. Tagliare la torta nel senso della larghezza in modo da ottenere due dischi. Disporre nella tortiera 1 disco spruzzato di curaçao e versarvi sopra un terzo della panna montata. Sbriciolare gli amaretti, irrorarli di rhum e distribuirli sulla panna montata, aggiungere ancora panna e zabaione. Ricoprire con l’altro disco bagnato di curaçao. Stendere la panna rimasta e farvi cadere a pioggia le briciole di crosta conservate. Spolverare con lo zucchero vanigliato. Lungo il bordo spalmare il burro ed adagiarvi le lingue di gatto a cornice. Tenere in frigo fino al momento di servire.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Torta di Torriglia

zona di produzione: Torriglia

curiosità: “A bella de Turigia che tutti voean e nesciun piggia”
(La bella di Torriglia che tutti vogliono e nessuno piglia = sposa), dice uno dei detti più noti a Genova e provincia che però ha radici storiche. Esisteva infatti una certa Clementina di Torriglia amante del conte di Lavagna Sinibaldo Fieschi, signore del luogo; dal loro illegittimo amore nacque un figlio, Cornelio, che partecipò alla nota congiura contro i Doria nel 1547.
Non bella ma certamente buona e voluta da molti è la torta di mandorle amare che, assieme ai canestrelli, è il vanto culinario di questo borgo della Val Trebbia, dalla storia antica e articolata che spazia dall’epoca preromana sino alla II Guerra Mondiale.
Torriglia, per la bellezza della sua natura e per il clima eccezionalmente fresco, è nota come “piccola Svizzera”.

caratteristiche: Torta preparata con mandorle amare, viene chiamata la “Bella di Turriglia”, anche se una delle sue prime qualità è quella di essere buona al palato oltre che bella alla vista.

preparazione: Ingredienti: mandorle, zucchero, uova, burro, farina, arancia e vaniglia.
Tritare finemente le mandorle amare. Separare i tuorli dall’albume, sbattere i tuorli con lo zucchero, aggiungere la farina, l’arancia, la vaniglia e il burro.
Lavorare gli ingredienti fino ad ottenere una consistenza cremosa ma ben soda.
A parte, montare a neve gli albumi che dovranno poi essere uniti al composto. Preparare un sfoglia sulla quale adagiare il composto.
Il tutto deve essere messo in uno stampo e infornato a 160° per 25 minuti.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Torta Panarello o Panarella

zona di produzione: Genova

curiosità: resterà deluso chi si aspetta di gustare una semplice torta paradiso, una focaccia dolce ricoperta di zucchero a velo, perché siamo in presenza di una torta sopraffina, inconfondibile per la morbidezza e il delicato sapore di mandorle. Una torta che deve il suo nome alla pasticceria che l’ha inventata parecchi anni or sono, come attesta un listino prezzi degli anni ’30 del ‘900 che ne cita il prezzo: circa 24 lire al chilo.

caratteristiche: torta soffice, dal delicato sentore di mandorle. Si presenta nella classica forma tonda, in diversi diametri, e decorata nella parte superiore con zucchero a velo disposto a scacchi.

ricetta: la torta Panarello è brevettata perciò riportiamo una versione più casalinga dello stesso dolce. Partendo da pochi e semplici ingredienti come la farina, la fecola, il burro, le uova, le mandorle, lo zucchero e il lievito.
Mescolare in una coppa, messa a bagnomaria in un contenitore con acqua calda, i rossi d¿uovo con lo zucchero, il burro ammorbidito, la farina, la fecola insieme al lievito, le mandorle tritate e i bianchi dell’uovo montati a neve. Cuocere in forno a 180° per 45 minuti circa in una teglia da 28 cm di diametro. A fine cottura, aspettare che si raffreddi e successivamente spolverizzare di zucchero a velo creando le caratteristiche losanghe che decorano questo buonissimo dolce.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Biscette

zona di produzione: Ponente genovese e savonese

curiosità: Di origine ponentina, questi biscotti, friabili e frastagliati sul dorso, un tempo erano facilmente reperibili per pochi soldi nelle pasticcerie e forni, ora sono un dolcetto casalingo che caratterizza le merende di bambini fortunati.
Famose sono le biscette di Solva, località nei pressi di Alassio, e gli “S” di Gova nel finalese, versioni differenti negli ingredienti, ma non nella forma, dello stesso dolcetto che ogni anno, nel mese di marzo, viene proposta per ricordare una leggenda medioevale. Si narra infatti che vipere e serpi invasero le spiagge e gli uliveti della zona. Gli abitanti terrorizzati fuggirono sulle alture dove viveva un eremita che con le sue preghiere riuscì ad allontanare i pericolosi rettili.

caratteristiche: Nella forma ricordano delle “S” oppure dei piccoli serpentelli, delle biscette appunto; nel sapore invece sono volto vicini a dei biscotti di pasta frolla, simili ai krumiri piemontesi, che li ricordano anche nella forgia.

preparazione: Ingredienti per 6 persone: 300 g di farina, 140 g di zucchero, 200 g di burro, 1 uovo, 1 bicchiere di latte, una presa di sale, 50 g di zucchero a velo.
Preparazione: amalgamare farina, zucchero, sale ed unitervi il burro, in pezzi, fatto precedentemente ammorbidire; ora incorporare le uova ed il latte e lavorate il tutto sino da ottenere un impasto morbido. Lasciare riposare il composto in luogo fresco. Usare il sac à poche e versare l’impasto nel sacchetto, schiacciare e far scendere sulla teglia imburrata dei pezzi di pasta lunghi circa 10 cm cercando di dargli la forma una S, o di un serpentello: prima di metterli a cuocere farli riposare per alcuni minuti, quindi in forno a 180° per 10-15 minuti. Prima di gustarli, cospargerli di zucchero a velo.

Biscette di Solva:
300 g di farina, acqua q.b., lievito di birra, 1 cucchiaio di semi di anice, 150 g di zucchero, olio extra vergine d’oliva.
Amalgamare tutti gli ingredienti e lavorarli fino ad ottenere un impasto morbido. Lasciare riposare. Poi porre l’olio in una padella e, quando questo sarà ben caldo, farci cadere dentro delle strisce di impasto. Il contatto con l’olio bollente non solo li cuocerà velocemente ma gli darà una forma bizzarra che ricorda quella della biscia. In questo modo si affoga nell’olio la vipera della leggenda e si gusta il dolcetto.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Biscotti del Lagaccio

zona di produzione: Genova, La Spezia, sia sulla costa che nell’entroterra

curiosità: Sulle prime alture di Genova, tra il quartiere di Granarolo e Oregina, alla meta del ‘500 l’ammiraglio Andrea D’Oria fece costruire una diga per rifornire d’acqua il suo palazzo nella zona di Principe. Questa diga diede origine ad un lago artificiale che non piacque al popolo, benché ne sfruttasse la riserva idrica, e lo soprannominò in senso dispregiativo il “lagaccio”. Tale nome rimase alla zona circostante. Non oltre un secolo dopo fu costruita qui una fabbrica di polvere da sparo che sfruttava la riserva d’acqua. Nell’ 800 fu la volta di un opificio di proiettili e, finalmente, di un pacifico laboratorio di gallette del marinaio e di biscotti. Nacque qui, da cui prese il nome, il più amato biscotto di Genova e dintorni che viene denominato anche biscotto della salute in quanto leggerissimo, economico e di lunga durata.

caratteristiche: Biscotti genovesi tipo Lagaccio, biscotto della salute di Sarzana.
Biscotto secco da prima colazione, dalla caratteristica forma di taglio trasversale ai lati.

preparazione: Ingredienti: 600 g di farina di grano tenero, 150 g di burro, 200 g di zucchero, 50 g di lievito di birra e, in alcuni casi, 50 g di finocchietto dolce.

Lavorazione: impastare la farina con il lievito di birra e l’acqua tiepida. Lasciare lievitare sino a quando non avrà raggiunto il doppio del volume. Quindi sistemarlo al centro della restante farina, aggiungere gli altri ingredienti ed un pizzico di sale. Lavorare energicamente e lasciare lievitare la pasta per un’ora. Creare due filoni e lasciarli ancora lievitare. Infornarli per 30 minuti a 180°. Farli riposare per 24 ore, tagliarli a fette sbieche di 2 cm di spessore e farle biscottare. Esiste una versione più antica, di cui riportiamo di seguito la ricetta, che non prevede la lievitazione ma che non garantisce alcuna durata, seccano infatti quasi subito dopo la cottura.

Ingredienti: 300 g di farina, 50 g di burro, 100 g di zucchero, 75 g di semi di finocchio (anice).
Lavorazione: sciogliere il burro a bagnomaria ed unirlo, con un pochino d’acqua, agli altri ingredienti. Lavorare bene per creare dei pani bislunghi; dare quindi sopra tanti leggerissimi tagli trasversalmente con un coltello distanti l’uno dall’altro la larghezza di un biscotto comune (2 cm circa), mettere al forno, affinché prendano una leggera cottura, e si rassodino, una volta rassodati, tagliare il pane, ad uno ad uno, lungo i piccoli tagli già fattivi e riporli in forno a terminare la cottura.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Frittelle di San Giuseppe

zona di produzione: Su tutto il territorio dell’entroterra ligure

curiosità: “A San Giöxeppe, se ti peu, impi a poëla de frisceu” (A San Giuseppe, se puoi, riempi la teglia di frittelle).
Un super classico della cucina della tradizione valbormidese: le frittelle di San Giu-seppe. Immancabili infatti il 19 marzo su tutte le tavole e soprattutto dai falegnami che ricordavano il loro santo protettore con una scorpacciata di frittelle salate e dolci. Tra queste ultime se ne nascondeva una con sgradita sorpresa: l’ovatta al posto dell’uvetta. Lo sfortunato a cui capitava doveva pagare pegno: offrire da bere a tutti i convenuti. Le frittelle sono comunque diventate ormai un patrimonio dell’intera cucina dell’entroterra e si possono trovare in varie forme nelle tipiche locande e trattorie delle valli della Liguria. Nei vari periodi dell’anno è possibile trovare le frittelle con vari ingredienti quali patate, mele, fiori di zucca, cipolle o altre verdure o frutta di stagione.

caratteristiche: Frittelle della Val Bormida.
Frittelle dolci a forme irregolari, con uvetta e zucchero a velo.

preparazione: Ingredienti: 500 gr di farina, 100gr di zucchero, 2 hg di uvetta, 3 uova, 2 bicchieri di latte, 20 gr di lievito di birra, sale, acqua, olio d’oliva, zucchero a velo.
Separare i tuorli dagli albumi. Porre in una terrina la farina e una parte del latte, l’altra usarla per stemperare a tiepido il lievito, unire anche questa 2° parte; aggiungere i tuorli, sale, uva sultanina, ammorbidire in acqua tiepida, miscelare tutto bene creando un impasto morbido, coprire e porre a lievitare per 1 ora. Montare a neve soda gli albumi e unire all’impasto con delicatezza. Friggere in olio bollente. Sgocciolare su carta assorbente e spolverare con zucchero a velo.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Gobelletti

zona di produzione: Lungo il litorale e l’entroterra delle province di Genova e Savona

curiosità: Questi biscotti di pasta frolla riempiti di marmellata avevano un tempo una forma che ricordava dei panettoncini in miniatura, forma assai diversa da quella che si trova spesso in commercio oggi: un esiguo piatto a doppio dischetto.
La forma originale si ottiene da due stampi in metallo: un tronco di cono rovesciato, ed un piccolo cappello (cobeletto) con bordo smerlato e con breve peduncolo per la presa.
La tradizione li vuole presenti sulla mensa per la festa di Sant’Agata, che ricorre il 5 febbraio.

caratteristiche: Biscotto dalla caratteristica forma di piccolo panettoncino, fatto di pasta frolla e farcito con marmellata.

preparazione: Ingredienti: 400 g di farina, 250 g di zucchero, 1 uovo, 150 g di burro, 1 cucchiaio di marsala, marmellata di albicocche o di pesche, latte.

Lavorazione: versare la farina sulla spianatoia, aggiungere lo zucchero, l’uovo, il burro a pezzetti, un poco di latte, il marsala. Impastare velocemente e lasciare la pasta frolla riposare per un ora circa. Stendere la pasta, farne delle forme rotonde da mettere negli stampi, (anticamente, più di 50 anni fa, venivano usate formine metalliche prodotte a mano ). Aggiungere la marmellata (un cucchiaino per ogni biscotto), coprire con un altro strato di pasta. Disporre i dolcetti in forno a 180° per 15 minuti.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Quaresimali

zona di produzione: Genova

curiosità: Inutile spiegare il perché del nome di questi deliziosi dolcetti prodotti e consumati preferibilmente nel periodo prepasquale.
L’assenza di grassi, infatti, ne permette il consumo anche in mancanza di penitenza ma la loro dolce bontà non è certo un sacrificio. La pasta di mandorle era apprezzata a Genova da antica data ed è presente nei menù delle nobili famiglie locali del XVIII secolo.

caratteristiche: Semplici dolcetti di pasta di mandorle, tradizionali del periodo pasquale, si presentano generalmente a forma di ciambellina

preparazione: Ingredienti: 250 g di mandorle sgusciate, farina, 2 cucchiai di finocchietti (semi di finocchio) ricoperti, 150 g di zucchero, 2 albumi d’uovo, acqua di fiori d’arancio.
Preparazione: pestare nel mortaio o frullare le mandorle con lo zucchero. In una terrina aggiungere alle mandorle e allo zucchero gli albumi montati a neve, l’acqua di fiori d’arancio e un cucchiaio di farina e sbattere il tutto con la frusta. Porre sulla spianatoia la pasta ottenuta e stenderla con un mattarello sino ad ottenere uno strato di circa un centimetro di spessore. Con gli stampi appositi ritagliare delle ciambelline su cui spolverare i finocchietti. Disporle sulla placca da forno per 30 minuti, il tempo necessario per ottenere un colore ambrato.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Rotelle di Borzonasca

zona di produzione: Borzonasca (Valle Sturla), entroterra chiavarese

curiosità: Un biscotto, una forma, un nome: rotelle, così si chiamano i canestrelli di Borzonasca, piccolo comune adagiato sul fondovalle della valle Sturla alle spalle di Chiavari. Il confezionamento delle Ruëtte viene eseguito mantenendo fin dal 1870 costanti le caratteristiche del prodotto e tramandandosi la ricetta e il procedimento di lavorazione da tre generazioni. Così recita una poesia locale: “Da in stampo ä man a Ruëtta ä l’è nasciûa, de anni da alûa nè passôu, ciù de çento n’ho contôu. Ma a Ruëtta sempre züena fragrante e profummâ da ô Gian ancon anchèu a se pèu göstä” (Da uno stampo a mano la ruetta è nata, di anni da allora ne sono passati, più di cento ne ho contati. Ma la Ruetta sempre giovane fragrante e profumata da Giovanni ancora si può gustare) da “A Ruëtta” di Marisa Melioli Macera.
Oltre al mercato locale questo delicato dolce soddisfa anche richieste provenienti dagli Stati Uniti, dal Canada, dalla Svizzera e dall’Argentina.

caratteristiche: Biscotti di pasta frolla. La loro sagoma ricorda delle piccole ruote (ruëtte): di forma rotonda, dentellate ai bordi, delle dimensioni di circa 12 cm di diametro, con un ammanco circolare nella parte centrale di circa 5 cm di diametro, lo spessore è di circa di 4-5 mm. La loro pasta è consistente, ma friabile, di colore dorato e si presentano cosparse di zucchero a velo.

preparazione: Si uniscono zucchero, uova, farina, burro, margarina vegetale secondo le dosi tradizionali. L’impasto viene quindi steso a mano e inciso con l’antico stampo che si tramanda ormai da tre generazioni. Il prodotto viene cotto in forno per circa 15 minuti e, una volta raffreddato, cosparso di zucchero a velo.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Schiumette

zona di produzione: Genova

curiosità: Liguria terra di mare e monti, bagnata da un mare spesso agitato che si infrange fragorosamente sulle sponde, formando una schiuma “sciumma” bianca e leggera come questo dolce noto appunto con il nome di “sciumette”, piccole schiume, che ricordano le meringhe da cui si differenziano per la tecnica di cottura e per parte degli ingredienti.
Tipiche del periodo del carnevale, furono talmente apprezzate da essere diffuse tutto l’anno sino a quando l’uso si perse a vantaggio (svantaggio) di altri dolci più elaborati.
I genovesi sono rimasti legati a questo dolce e ne rimpiangono il gusto delicato e l’inconfondibile leggerezza. Ora sono patrimonio di rari cultori dei dolci della tradizione.

caratteristiche: Dolce leggero, dal colore bianco crema, a base di bianco d’uovo.

preparazione: Ingredienti per 6 persone: 1250 ml di latte, 4 uova, 20 g di farina, 100 g di zucchero, 1 manciata di pistacchi pelati, cannella, zucchero a velo, vaniglia in polvere (facoltativo).
Preparazione: porre 1 litro di latte a bollire. Nel frattempo separare il tuorlo dall’albume e montarlo a neve unendovi 2 cucchiai di zucchero semolato e la vaniglia. Versare con un cucchiaio l’albume montato nel latte caldo, posto sul fuoco. Subito le uova rapprenderanno, diventando come fiocchi di cotone. Farle cuocere per pochi istanti avendo l’accortezza di girarle delicatamente. Usare la schiumarola per scolarle e porle nel setaccio. Togliere il latte dal fuoco ed unirvi lo zucchero, poi la farina e mescolare bene. Lasciare raffreddare quanto ottenuto; intanto pestate i pistacchi e metteteli a bollire nel latte rimasto. Quindi passarli al colino. Al latte, allo zucchero e alla farina già incorporati unire i tuorli sbattuti e i pistacchi. Riporre sul fuoco senza raggiungere la bollitura. Mescolare sino ad ottenere una crema che andrà versata sulle sciumette. Infine cospargerle di cannella e zucchero a velo.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Panèra

zona di produzione: Genova

curiosità: I genovesi amano i gelati ma il gelato per antonomasia a Genova è la pànera, l’inconfondibile gelato al caffè e latte, dall’impareggiabile sapore di cappuccino.
Noto a partire dal XVIII secolo, il gelato viene classificato in: mantecato, con il latte, e in sorbetto, a base di frutta, soprattutto agrumi.
Abbiamo la ricetta riportata nelle due differenti “Cuciniere” della metà del 1800, quella del Rossi e quella del Ratto. Entrambi propongono due versioni diverse dello stesso gelato, una decisamente più sostanziosa. Il termine pànera sembra derivi dal verbo “appannare”. “Bicchiere d’acqua di panera” viene infatti definito come “la bibita dei poveri” (Gazzetta del lunedì, 11/04/83), che consisteva appunto in semplice acqua tenuta in ghiacciaia e che, versata nel bicchiere, lo faceva appannare creando la “panera”.

caratteristiche: Gelato dal sapore di cappuccino e dal colore delicatamente nocciola, come la macchia di latte nel caffè.

preparazione: Ingredienti: 50 g di caffè macinato, 1 lt di panna liquida, 300 g di zucchero, 12 rosso d’uovo.
Versare in un tegame tutti gli ingredienti e porre sul fioco leggero, rimestando con una spatola in legno fino a quando tutto si addensa. Togliere dal fuoco, filtrare e passare nella sorbettiera.

Ingredienti: 100 g di caffè, 2 litri di panna, 400 g di zucchero.
Preparazione: macinare in modo grossolano il caffè e scioglierlo in due litri di panna. Porre il composto così ottenuto in un tegame sul fuoco. Dal momento in cui prende bollore, aggiungere lo zucchero e girare con un mestolo di legno. Far riposare sino a quando il caffè non scenderà sul fondo. Filtrare il tutto, usando una telina fina e versare nella sorbettiera.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Torrone – U Turun

zona di produzione: Val Fontanabuona (Genova), valle Sturla (Genova) e valle del Prino, Dolcedo (Imperia)

curiosità: L’origine di questo prodotto risale al 1300. Pare che un cuoco di Cremona per non buttare gli albumi avanzati, li avesse montati a neve e uniti con ottimo miele. Cosse il tutto a fuoco lento e, ancora a caldo, forgiò delle torri, da cui il nome “torrone”, ed essendo molto dure, usate solo come decorazioni natalizie. Il vocabolario fa invece derivare il termine torrone dal sostantivo spagnolo “turròn” e dal verbo “turrar”, arrostire, che a sua volta trae origine dal latino “torrere” (tostare).

caratteristiche: Ebbene si: anche in Liguria, dove non mancano le produzioni di miele e di nocciole, il torrone veniva confezionato, insieme al pandolce, per le festività natalizie. Dal colore che va dal bianco panna al bianco avorio, ha una consistenza morbida.
Là dove si coltivava il nocciolo, la tradizione imponeva che sulla tavola natalizia fosse presente u turùn, preparato in famiglia artigianalmente con le fragranti nocciole del nostro entroterra. Così accade ancora adesso in val Fontanabuona e nel territorio di Dolcedo, con l’eccezione della frazione di Trincheri dove le famiglie lo preparano per la festa di santa Lucia, che cade il 13 dicembre.

ricetta: Ingredienti: miele, nocciole, limone, due ostie. Preparazione: Cuocere il miele insieme alle nocciole (nissoe e linso(r)e) in una pentola di coccio. Aggiunge una scorza di limone grattugiata e versare su di un’apposita sfoglia, tipo “ostia”, detta in dialetto imperiese “nègia”. Un’altra “ostia” ricopre l’impasto. A questo punto si lascia raffreddare su di una piastra di marmo. Il segreto per un buon torrone sta nella cottura, oltre che nella giusta percentuale di nocciole e miele. Se il composto permane sui fornelli più del dovuto o il fuoco è troppo vivace, il miele perde eccessivamente umidità tendendo a cristallizzare e, una volta raffreddato, il torrone risulta duro e non morbido come vuole la tradizione.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2006

Pesto d’aglio

zona di produzione: Val Pentemina

curiosità: All’aglio si aggiunge l’olio e il formaggio grattugiato che un tempo derivava dalle formaggette locali, fatte stagionate, che ogni famiglia produceva per autoconsumo.
Il tutto si amalgama con la panna: una volta si utilizzava la crema di latte, quella affiorata lasciando riposare il latte all’interno di un recipiente largo (le gamelle smaltate), per una notte.
Una variante un po’ più accettabile ai nostri moderni palati prevede l’aggiunta dei pinoli e un quantitativo inferiore di aglio.
È un condimento che tradizionalmente accompagnava la polenta; si sposa però molto bene anche con le penne, le patate quarantine e con i ravioli alle erbe.
Non si sa esattamente il perché della sua origine: poiché gli ingredienti sono gli stessi del pesto, potrebbe essere nato come pesto senza basilico, visto la mancanza di quest’ultimo per buona parte dell’anno nella valle.
È probabile che possa avere origini simili a quelle dello “aioli” provenzale e delle salse a base d’aglio della Spagna mediterranea (alioli) e della Grecia (skordhalià).
Nella pratica gastronomica anche questa salsa, come il pesto, presenta delle piccole varianti, come l’assenza di pinoli o la diversa quantità di aglio.
Difficile da reperire oggi, si trova quasi esclusivamente a Pentema, piccola frazione della Val Trebbia, per antonomasia il paese in capo al mondo, famoso per il suo museo di storia contadina e per il presepe.

caratteristiche: Salsa a base d’aglio di consistenza cremosa e di colore bianco avorio. Sapore tendenzialmente dolce, dove il gusto dell’aglio si equilibra con quello del pinolo.

preparazione: Ingredienti: 2-3 spicchi d’aglio, due manciate di pinoli, 50 g di formaggio grana, due cucchiai di panna da cucina, 30 ml d’olio, sale q.b.
Preparazione: pestare l’aglio, privo della pellicina, nel mortaio, insieme ai pinoli. Unirvi il formaggio grana grattugiato ed una presa di sale; versarvi quindi l’olio ed amalgamare il tutto con la panna. Prima di servire, allungare leggermente usando l’acqua di cottura della pasta. Da ricordarsi che se si dovessero aumentare gli spicchi d’aglio si ottiene una salsa dal sapore decisamente più forte; sarà bene quindi aumentare in proporzione anche gli altri ingredienti. Per maggiore praticità, il mortaio può essere sostituito dal mixer.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Salsa di noci

zona di produzione: Tutto il territorio ligure

curiosità: Nell’antica Persia era già diffuso l’utilizzo di questa salsa che tuttora è presente nella cucina orientale e balcanica. Fu presumibilmente all’epoca della Repubblica che i Genovesi trasportarono, via mare, se non la salsa, sicuramente la ricetta. La “sarsa de noxe”, quindi, fece un lungo viaggio prima di giungere da noi dove fu ben presto utilizzata per dar vita ad un ottimo condimento di consistenza cremosa, di colore bianco avorio dal sapore dolce in cui si riconosce chiaramente il gusto della noce.
Ideale per condire i pansòti (ravioli alle erbe, vedi scheda) dalla caratteristica forma triangolare, gli gnocchi di castagne, ed altro. Anche questa salsa, come il pesto, presenta delle piccole variazioni nella letteratura e nella pratica gastronomica, come l’assenza di pinoli o la presenza a piacere della maggiorana.

caratteristiche: Salsa cremosa dal gusto delicato che normalmente accompagna i famosi pansòti.

preparazione: Ingredienti: 250 g di gherigli di noci già puliti; un cucchiaio (g 25) di quagliata (prescinseua); g 50 di pinoli; tre cucchiai d’olio extravergine di oliva; la mollica di due panini, sale.
Preparazione: pelare i gherigli di noci, dopo averli scottati in acqua bollente
Inzuppare la mollica del pane nell’acqua o nel latte e strizzarla: ciò impedisce che la noce formi olio e renda amara la salsa.
Mettere nel mortaio (o nel frullatore) i gherigli di noce, la mollica, l’aglio, il sale e i pinoli e per chi volesse, la maggiorana. Tritare bene e versare il tutto in una terrina dove il composto verrà diluito con il latte cagliato, scolato dal suo siero, e l’olio.
Mescolare gli ingredienti fino a quando non si saranno tutti ben amalgamati e la salsa avrà l’aspetto di una crema.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Salsa di pinoli

zona di produzione: Genova

curiosità: Presenti in piatti simbolo della cucina ligure come il pesto, la cima alla genovese ed il pandolce, i pinoli, risultano delicatamente saporiti. Proponiamo una salsa a base di pinoli diffusa in tutto il territorio e soprattutto nel genovesato, di consistenza cremosa, di colore bianco avorio, ideale per condire i pansòti (ravioli alle erbe).
In generale le salse servono quasi esclusivamente per accompagnare ed arricchire le pietanze. In Liguria il pesto, la salsa di noci e quella di pinoli sono utilizzate principalmente per condire primi piatti.

caratteristiche: I pinoli sono un ingrediente spesso presente nelle ricette dolci e salate della cucina ligure. Si può dire che questa salsa sia una alternativa ancora più delicata a quella di noci per condire i primi piatti.

preparazione: Ingredienti: g 250 di pinoli; un cucchiaio (25 g) di quagliata (prescinseua); un cucchiaio d’olio extravergine di oliva; la mollica di due panini inzuppati nel latte, sale.
Preparazione: pestare nel mortaio i pinoli assieme alla mollica di pane. Regolare il sale e unire gli altri ingredienti. Mescolare il tutto aggiungendo l’olio per ammorbidire l’insieme.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Sugo di carne alla genovese

zona di produzione: Tutto il territorio Ligure

curiosità: Completo negli elementi, risulta molto sostanzioso e particolare per l’utilizzo dell’olio unito alla carne, sodalizio non certo dietetico ma di sicuro successo gastronomico, ulteriormente arricchito dal passaggio al setaccio della carne e dalla lunghissima e paziente cottura, rito dei giorni festivi.
I tocchi, infatti, simbolo della passione dell’ ars coquinaria, a differenza dei sughi hanno come caratteristica la lentezza della loro preparazione.

caratteristiche: Il tocco è l’ideale condimento per le lasagne, per i taglierini e, naturalmente, per i ravioli. In questo sugo, ottimo, il sapore della carne si unisce a quello dei funghi creando un aroma unico ed indimenticabile che saprà valorizzare al massimo la pasta, se mai ne avesse bisogno.

preparazione: Ingredienti: 500 gr di polpa di manzo magra (perfi), 50 gr di midollo di manzo, burro, sedano, carota, un ciuffo di prezzemolo, 2 foglie di alloro, un rametto di rosmarino, una manciata di funghi secchi, un bicchiere di vino bianco, farina bianca, brodo di carne, concentrato di pomodoro, olio, sale, pepe.
Rosolare in burro e l’olio il midollo con la carne tagliata a pezzetti e l’alloro; salare e unire il trito di dei sapori, la farina, i funghi secchi rinvenuti in acqua tiepida e un poco di concentrato di pomodoro.
Aggiungere, quindi, il vino, lasciandolo evaporare. Dopo aver versato il brodo, cucinare la carne per circa quattro ore, sino a quando non è completamente sfatta.
Togliere dal fuoco e passare tutto al setaccio, schiacciando bene la carne, con l’aiuto di un cucchiaio e legarlo con un poco di farina abbrustolita.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Sugo di funghi alla ligure

zona di produzione: Entroterra ligure

curiosità: Sarà merito dell’aria di mare, saranno i numerosi alberi di castagne, forse sarà fortuna, certamente non sarà campanilismo ma questi prodotti spontanei del sottobosco, da sempre consumati ed apprezzati dall’uomo, nati nella nostra terra sono decisamente di ottima qualità. Persino Giacomo Casanova ne conosceva la fama ed affermava “…sono qui i più saporiti”; sembra che il veneziano nei suoi viaggi includesse una tappa a Genova per i funghi dell’entroterra e, non si esclude, per qualche bellezza locale.
I funghi possono essere consumati in molti modi, anche crudi; qui proponiamo un sugo che è diffuso in tutto il territorio ligure. Benché non sia un piatto esclusivo, il sugo di funghi nostrano si riconosce per il connubio dell’aglio e del rosmarino con i porcini.

caratteristiche: La cucina ligure (genovese) è l’unica che considera il sugo una preparazione a sé stante, non finalizzata ad un cibo specifico, così questo tocco può servire egregiamente per condire riso, pasta, gnocchi e trofie.

preparazione: Ingredienti: g 250 di porcini freschi oppure g 25 di secchi, 4 pomodori per salsa, cipolla, aglio, rosmarino, olio, vino bianco secco, sale e pepe. Per cuocere questo sugo tradizionalmente si usa il coccio in cui si mette l’olio con la cipolla tritata e il sale.
Si aggiungono quindi i funghi puliti e tagliati a fettine, nel caso dei porcini freschi, rinvenuti in acqua tiepida nel caso dei funghi secchi. Aggiungere l’aglio e il rosmarino tritati e cuocere a fuoco lento e tegame coperto. Dopo circa cinque minuti, aggiungere i pomodori pelati e tritati. Far cuocere ancora a fuoco lento aggiungendovi il vino bianco e farlo evaporare. Cuocere per circa trenta minuti.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Aceto di mele

zona di produzione: Entroterra ligure

curiosità: L’aceto viene usato per insaporire i cibi e per renderli maggiormente digeribili. Non vanno dimenticate anche le sue doti disinfettanti e rinfrescanti e le sue capacità anti infiammatorie del cavo oro-faringeo.
L’aceto di mele, dal gusto delicato, si presta ad essere un valido sostituto dell’aceto prodotto dal vino.
Nell’antica Roma, nelle regioni in cui vi era penuria di vino e quindi anche di aceto si raccoglievano i fichi stramaturi per la produzione di un liquido che andava a sostituire l’aceto derivante dalla fermentazione acetica del vino.
Columella ci riporta la ricetta: “…si dispongono in botticelle o in anfore e lì si lasciano fermentare; quando poi sono divenuti acidi e hanno lasciato del liquido, si cola tutta la quantità di liquido acetoso che c’è e si versa in vasi spalmati di pece che ne conservano bene l’odore.”
E conclude: “Questo liquido serve come il migliore e il più forte aceto”. Evidentemente non avevano ancora provato quello di mele.

caratteristiche: Prodotto derivato dall’affinamento del sidro, di mele o pere, attraverso il processo di acidificazione del prodotto.
Dal sidro infatti si produceva un ottimo aceto di mele che, a detta di molti, presenta caratteristiche organolettiche eccellenti.

preparazione: L’affinamento del vin de meie avviene in piccoli barili di legno (caratelli) per il completamento del processo di acidificazione.
L’aceto, il cui nome è la traduzione del latino acetum, nasce dalla fermentazione spontanea del vino o di altre bevande contenenti alcool. L’agente che determina tale fermentazione è un piccolo fungo, Mycoderma aceti.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Basilico Genovese DOP

zona di produzione: territorio ligure

curiosità: Il basilico è una piantina originaria dell’Asia Minore che fece molta strada prima di toccare le nostre terre: importata da secoli ormai lontani in Europa, scelse la Liguria e la Provenza come terre d’elezione. Solo su queste colline il basilico ha trovato le condizioni ambientali ideali per crescere con caratteristiche organolettiche del tutto introvabili altrove. Nelle sue foglie si racchiude l’inconfondibile aroma di mare e di salsedine e si celano gli oli essenziali che donano la sua particolare fragranza

caratteristiche: caratteristiche: le sementi impiegabili per la produzione del “Basilico Genovese” DOP devono appartenere alla specie Ocimum basilicum L. ed avere le caratteristiche di seguito elencate:
– pianta con altezza da media a molto alta e portamento espanso o cilindrico
– densità del fogliame classificabile nelle classi d’espressione intermedie (mediobassa, media, medio-alta) e non nelle classi estreme (bassa o alta)
– forma della foglia ellittica
– bollosità del lembo e incisioni del margine assenti, molto deboli o deboli
– piano della lamina fogliare piatto o convesso
– assenza totale di aroma di menta, aroma intenso e caratteristico

preparazione: il basilico deve essere commercializzato fresco. La pianta intera è confezionata a mazzi con almeno due coppie di foglie vere (in particolare una coppia di foglie vere completamente distesa e la seconda in fase di formazione) e, al massimo, con 4 coppie di foglie vere.
Sono identificabili due tipologie di mazzi: il mazzo picco o “mazzetto” e il mazzo grande o “bouquet”. Il mazzetto è composto da 3 a 10 piante intere complete di radici, e confezionato con carta per alimenti contrassegnata dal marchio D.O.P. ed è legato singolarmente.
Mazzi di maggiori dimensioni rientrano nella tipologia del bouquet (eliminare); Il bouquet è costituito dall’equivalente numero di piante contenute in 10 mazzetti che vengono confezionati in modo analogo. Non è vincolante il peso del prodotto bensì il numero delle piante.
Nella preparazione dei mazzi è consentita l’utilizzazione di materiale inerte da porre a contatto con le radici per evitare una precoce disidratazione delle piantine in esso contenute.
Gli imballaggi per contenere i singoli mazzi o gli eventuali sacchetti devono essere in materiale conforme alle normative vigenti e devono essere contrassegnati con il logo della D.O.P. e con il marchio aziendale completo. L’identificazione aziendale dovrà avere dimensioni e posizionamento che la rendano sufficientemente evidente in rapporto al logo e alla dicitura della D.O.P.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Olio Riviera Ligure – Riviera di Levante DOP

Zona di produzione: nelle province di Genova e La Spezia, l’intero territorio amministrativo dei seguenti comuni:
Provincia di Genova: Orero, Coreglia Ligure, Borzonasca, Leivi, Ne, Carasco, Lavagna, Genova, Rapallo, San Colombano Certeneli, Recco, Chiavari, Bogliasco, Castiglione Chiavarese, Cogorno, Sestri Levante, Casarza Ligure, Moneglia, Sori, Santa Margherita Ligure, Zoagli, Avegno, Pieve Ligure, Camogli, Portofino, Arenzano, Bargagli, Cicagna, Cogoleto, Favale di Malvaro, Lorsica, Lumarzo, Mezzanego, Moconesi, Neirone, Tribogna, Uscio, Mele, Sant’Olcese.
Provincia di La Spezia: Ameglia, Vernazza, Framura, Deiva Marina, Folla, Vezzano Ligure, La Spezia, Arcola, Bolano, Beverino, Pignone, Borghetto Vara, Ortonovo, Castelnuovo Magra, Sarzana, Lerici, Bonassola, Levanto, Santo Stefano Magra, Monterosso al Mare, Portovenere, Riomaggiore, Calice al Cornoviglio, Riccò del Golfo

Materia prima:
La menzione geografica aggiuntiva “Riviera di Levante”, è riservata all’olio extravergine di oliva ottenuto dalle seguenti varietà di olivo presenti, da sole o congiuntamente, negli oliveti: Lavagnina, Razzola, Pignola per almeno il 65%.

Caratteristiche:
colore: giallo;
odore: di fruttato maturo;
sapore: fruttato con sensazione decisa di dolce;
acidità massima totale espressa in acido oleico, in peso, non superiore a grammi 0,5 per 100 grammi di olio

Note: La presenza dell’olivo in Liguria risale al 3000 a.C., ma la specializzazione dell’olivicoltura nel ponente ligure fu avviata tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento ed ebbe un forte sviluppo anche commerciale dal XVII secolo, come testimoniano alcuni documenti in cui si parla del commercio di olio tra Oneglia e il Ducato di Milano.

Riferimenti normativi: Prodotto DOP, Registrazione europea con regolamento CE n. 123/97 pubblicato sulla GUCE L22/97 del 24 gennaio 1997; riconoscimento nazionale con DM 3 agosto 1998 pubblicato sulla GURI n. 193 del 20 agosto 1998

Butiru o Bitiru (Burro)

zona di produzione: Tutto l’entroterra ligure

curiosità: Meno noto dell’olio esiste comunque un burro ligure che dà sapore alla cucina dell’entroterra. Il burro si ottiene dallo sbattimento della crema del latte (zangolatura) che permette la rottura della membrana dei globuli di grasso e la separazione del latticello (parte acquosa). Saranno in molti a ricordare quando da bambini sbattevano con forza e tenacia il latte in una bottiglia di vetro per creare un burro casalingo genuino e saporito, merito non solo della lavorazione ma anche della qualità del latte.

caratteristiche: Sottoprodotto della lavorazione dei formaggi delle varie zone dell’entroterra. Le caratteristiche sono variabili a seconda della zona di produzione del formaggio e dei pascoli utilizzati. Normalmente la resa è bassa in quanto il periodo di affioramento della panna (frazione grassa del latte) è ridotto a 12 ore che corrispondono alla notte che intercorre tra la mungitura e la lavorazione del formaggio).
La produzione è stagionale.

preparazione: La crema, ottenuta per affioramento dal latte, viene lavorata, sbattendola in fiaschi o in zangole per un periodo variabile a seconda della quantità di crema presente: si forma una massa morbida e questa viene passata sotto l’acqua corrente, ottenendo così una tavoletta di burro. La produzione è molto limitata e viene eseguita solo da alcuni operatori e in alcune vallate. Gli utensili sono quelli tradizionali in legno (mestolo, zangola): alcuni, viste le scarse produzioni di crema, al posto della zangola utilizzano un semplice fiasco di vetro. La legislazione italiana definisce burro “il prodotto ottenuto con operazioni meccaniche dalla crema ricavata dal latte di vacca, dal siero di latte o dalla miscela di tali prodotti”.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Val Polcevera DOC

zona di produzione: Genova

curiosità: Abbinamenti gastronomici Si accompagna in modo ottimale con portate a base di verdure come minestrone alla genovese, polpettone di fagiolini, broccoli “trascinati” con le acciughe, torta pasqualina, mesciüa, riso alle erbette, e a base di pesce come minestra con bianchetti o rossetti, sogliola alla mugnaia, frittata di bianchetti, stoccafisso con le favette (co i bacilli).
Questo vino per la sua vivacità, morbidezza e leggerezza, esalta i profumi agresti degli ortaggi e gli aromi delle erbe che danno origine a minestre di esaltante ed esclusivo sapore.

Come servirlo e conservarlo: Deve essere servito a 11-12°C, in bicchieri a calice leggermente svasati e con stelo alto. Viene conservato in cantina idonea, ponendo le bottiglie in posizione coricata, nei ripiani adibiti ai vini rosati. È consigliabile consumarlo entro un anno dalla vendemmia.

Cenni storici: Certamente il vitigno Bianchetta Genovese è aborigeno, anzi, pare esclusivo del genovesato, o meglio delle colline soprastanti la città la città, una volta ricche di orti e vigneti. Infatti molti autori sostengono che il Bianchetta (in dialetto “Gianchetta”) sia originario della Val Polcevera (la cita anche il Maineri alla fine del 1700). Tale ipotesi è confermata dal Gallesio (1839), il quale affermò che l’uva Bianchetta è la base del vino di Coronata e la sua coltivazione inizia appunto in Val Polcevera.

caratteristiche: Vino di colore giallo paglierino più o meno intenso. Odore fine, delicato, discretamente persistente. Sapore secco, sapido, pieno e caratteristico.

Alcolicità: 10,5 – 11%;

acidità totale minima: 5,0 per mille.

preparazione: Viene prodotto con uve derivanti dai vitigni raccomandati o autorizzati per la provincia di Genova

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Golfo del Tigullio o Portofino DOC

zona di produzione: Area comprendente i seguenti comuni della provincia di Genova:
a) per l’intero territorio: Avegno, Bargagli, Bogliasco, Borzonasca, Camogli, Carasco, Casarza Ligure, Castiglione Chiavarese, Chiavari, Cicagna, Cogorno, Coreglia Ligure, Davagna, Favale di Malvaro, Lavagna, Leivi, Lumarzo, Mezzanego, Moneglia, Ne, Neirone, Orero, Pieve Ligure, Portofino, Rapallo, Recco, San Colombano Certenoli, Santa Margherita Ligure, Sestri Levante, Sori, Tribogna, Uscio e Zoagli
b) per parte del loro territorio: Genova, Lorsica, Moconesi

curiosità: Abbinamenti gastronomici
Si accompagna in modo ottimale con minestre di verdure e di bianchetti, risotti con ortaggi di stagione e con frutti di mare, pesci di mare lessi.

Come servirlo e conservarlo: Deve essere servito a 10°C, in bicchieri a calice con stelo alto.
Viene conservato in cantina idonea, ponendo le bottiglie in posizione coricata, nei ripiani adibiti ai vini bianchi. È consigliabile consumarlo entro un anno dalla vendemmia.

caratteristiche: Vino di colore giallo paglierino più o meno carico con lievi riflessi verdognoli. Odore abbastanza ampio, intenso, persistente, con sentori di mela, pesca e lievi di resine di conifere e finocchietto selvatico. Sapore secco ma morbido, sapido, discretamente pieno e continuo. È prevista la tipologia frizzante.

Alcolicità: 11 – 12%; acidità totale minima: 5 per mille.

preparazione: Viene prodotto con uve provenienti dal vitigno Albarola per almeno l’85%, mentre per il complessivo 15%, possono concorrere alla produzione di detto vino, altri vitigni a bacca bianca, non aromatici, autorizzati per la provincia di Genova (Rollo, Pigato, Bosco e Vermentino).

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Miele della Liguria

zona di produzione: Tutto l’entroterra ligure

curiosità: Per proteggere le api dal vento, dal freddo o dal calore, nelle nostre zone un tempo si faceva uso di tronchi cavi di castagno.
Oggi è raro vedere nelle campagne i ricoveri delle api dalle forme antiche, poiché se si vuole effettuare un’apicoltura razionale bisogna necessariamente utilizzare l’arnia moderna a telai mobili.
Esistono diverse razze geografiche di Apis mellifica ma quella presente in Italia è l’ape gialla, Apis mellifica ligustica Spinola. Gli apicoltori sono oggi molto interessati alla conservazione delle razze locali che si sono adattate alla regione in cui lavorano; infatti l’introduzione di razze straniere comporta un incremento di produzione immediata ma nel lungo periodo pone problemi di ibridazione.
La produzione del miele risale al medioevo ed è stato fin dai tempi antichi utilizzato in riti sacri, come simbolo di purificazione.
Nella cucina romana, il miele figurava tra i normali condimenti; con esso usavano anche addolcire il vino se questo risultava aspro.

caratteristiche: Frutto dell’infaticabile lavoro dell’ape, il miele è uno degli alimenti più genuini che possa esistere in quanto non necessita di alcun trattamento né per la produzione né per la conservazione.
I mieli tipici, prodotti dal nettare della flora del nostro entroterra, sono quelli di castagno, di acacia, di erica, di corbezzolo, di millefiori. La qualità del miele varia a seconda della flora mellifera bottinata dalle api.
Il colore del miele da acacia è giallo chiaro paglierino, quello derivato dal castagno è ambrato, il millefiori varia da tonalità chiara a scura a seconda della presenza di melata.
Così come il colore anche il gusto varia: per esempio il miele di castagno risulta tendenzialmente più amaro di quello di acacia o di millefiori.

preparazione: Il miele viene prelevato dall’alveare utilizzando la tecnica dell’affumicamento. La pratica consiste nel creare del fumo in prossimità dell’alveare, in modo che le api, per allontanarlo, scendono nella parte bassa della loro dimora ad agitare le ali dando così la possibilità all’operatore di asportare i telai con il miele.
I telai, tolti dalle arnie, vengono disopercolati con un apposito attrezzo simile ad un coltello e posti in una macchina estrattrice che funziona come una centrifuga (smielatrice). Il miele così recuperato, viene filtrato, fatto decantare ed invasettato.
Dai favi vuoti si recupera la cera con la quale verranno costruiti nuovi stampi di celle. Il prodotto viene promosso in occasione di fiere e sagre nonché in Mostre Mercato locali.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Birra di Savignone

zona di produzione: Busalla – Savignone (Genova)

curiosità: già in epoca preistorica si utilizzava l’orzo per fare bevande. Come testimonianza sono stati rinvenuti semi torrefatti e triturati che probabilmente venivano messi a fermentare nell’acqua, creando una bevanda alcolica e spumosa: forse la birra? Apprezzata dai Sumeri è citata nella Saga di Gilgamesh. I Babilonesi la bevevano a base di orzo, farro e cereali misti. Nota in Egitto già dal IV millennio a.C., faceva parte del corredo per l’aldilà. In Grecia e nel mondo romano era meno apprezzata del vino. Molto diffusa e amata era invece nell’Europa centro settentrionale. I Celti erano dei veri e propri appassionati del “vino d’orzo” e la utilizzavano durante i riti sacri credendo che avesse le stesse virtù della “Fonte della giovinezza”. Nel XIII secolo visse Gambrimus, leggendario re della birra: in questo periodo risale l’unione del luppolo all’orzo nella lavorazione che le conferisce l’inconfondibile gusto amarognolo. Nel 1878 due imprenditori svizzeri acquistarono un terreno a Busalla (Genova) e fondarono la prima fabbrica di birra italiana! Trascorso un quarto di secolo vide la luce la “Società Anonima Birra Busalla”. Oggi questa “microbirreria” recupera un’antica tradizione e offre una interessante produzione: birra chiara, rossa, ambra, scura, al miele e stagionalmente di castagne, Castagnasca, in cui la farina di castagne della montagna genovese, raccolte a mano, seccate a fuoco e fumo e macinate a pietra, le conferisce un particolare aroma. Ancora una volta la castagna diventa coprotagonista di un prodotto ligure.

caratteristiche: bevanda a bassa gradazione alcolica, dissetante, rinfrescante, salutare ed energetica in quanto ricca di vitamine (B1, B5, B6, H), proteine, carboidrati, sali minerali ed oligoelementi contenuti nel lievito.

preparazione: l’orzo viene macinato, con un mulino a due rulli rendendo possibile una triturazione che permette ai chicchi di aprirsi gradatamente e liberare le sostanze nutritive. Quindi si passa alla fase di cottura in caldaia e mescolato con acqua alla temperatura di 45°C. Con l’incremento graduale della temperatura si ottiene l’estrazione progressiva di maltosio, albumine, proteine ed altri composti. Il processo di infusione ha una durata complessiva di circa 120 minuti. Il composto viene filtrato e il mosto si separa dalle trebbie; il mosto di malto, torna alla caldaia dove viene bollito e aromatizzato mediante l’aggiunta del luppolo, continuando l’ebollizione per circa 50/60 minuti. A questo punto il mosto di malto aromatizzato, viene pompato nello scambiatore di calore dove passa bruscamente da una temperatura di 90°C ad una di 8/10°C per evitare fermentazioni errate. Gli ultimi due passaggi consistono nell”aggiunta dei lieviti per la fermentazione e l’estrazione degli stessi per la maturazione che avviene ad una temperatura interna dei tini di circa 2° – 4° C. A questo punto la birra è pronta: può venire infustata, imbottigliata o venduta direttamente alla spina in birreria.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Rose da Sciroppo

zona di produzione: Genova, Valle Scrivia, Valle Sturla

curiosità: le rose da sciroppo sono state sempre presenti negli orti, nei giardini dei genovesi e dei conventi locali, questi ultimi i maggiori fornitori dei confettieri locali. Ricordiamo che per la produzione dello sciroppo si usano solo i petali delle rose, adatti anche alla preparazione di delicate confetture e alla loro canditura. Nel genovesato da qualche anno è nata un’associazione di produttori di rose da sciroppo allo scopo di riportare in auge questa produzione tradizionale.

caratteristiche: di colore e profumo intenso, lo sciroppo di rose è legato alle cose di una volta, ai ricordi antichi, ai raffinati piaceri del passato. Le eleganti bottiglie, con le etichette scritte a mano, facevano bella mostra di se nelle credenze e lo sciroppo veniva bevuto allungato con acqua fresca d’estate per rinfrescare, o caldo d’inverno per lenire le bronchiti: sane abitudini, in voga ancora oggi, tra gli appassionati di questo prezioso prodotto. La varietà di rose maggiormente utilizzata per la preparazione dello squisito sciroppo è la “Chapeuax de Napoleon”, anche se altre nel tempo si sono aggiunte per migliorare la fragranza del prodotto.

ricetta: ingredienti: 300 g di petali, 1 litro di acqua, 1-1,5 kg di zucchero.
Preparazione: pulire i petali da eventuali insetti, polvere o foglioline e metterli in infusione per 24 ore in acqua bollente. Quindi filtrare, strizzare i petali e pesarli: per ogni litro di prodotto aggiungere 1 kg, 1,5 kg di zucchero. A questo punto rimettere tutto sul fuoco e portare ad ebollizione. Lasciare bollire per circa 15 minuti. Importante: lo sciroppo non deve cuocere e la temperatura deve essere raggiunta nel minor tempo possibile. A piacere, aggiungere la buccia di un limone ben lavata e una stecca di vaniglia. E’ buona norma imbottigliare lo sciroppo di rose a caldo per una migliore conservazione del prodotto, infatti non utilizzando nessun tipo di conservante artificiale vi è il rischio di “fioriture” (muffe).

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005

Vino di mele

zona di produzione: Alta Valle Scrivia

curiosità: O vin de meie è il sidro locale che prende il nome dal francese cidre e dal latino tardo sicera, bevanda inebriante.
Molto diffuso all’estero non mancava comunque anche nelle nostre campagne dove le mele non scarseggiavano di certo e la vite a causa delle caratteristiche pedoclimatiche sfavorevoli non raggiungeva la giusta maturazione. La fermentazione dei frutti da origine a questo surrogato del vino, dal gusto gradevole e dal basso contenuto alcolico. La produzione di mele era indirizzata sia per il consumo fresco, raggiungendo il mercato di Genova e del vicino Piemonte, sia per la trasformazione. Le “mele da sacco” quelle cioè di seconda scelta, si vendevano infatti per essere trasformate in “alcool”, ad una ditta piemontese, nei pressi di Tortona. Comunque, anche gli stessi agricoltori erano soliti preparare surrogati del vino, quello che localmente definiscono il “vin de meia” (sidro) e la “vinetta” (con mele e raspi di uva).
Alcuni nella preparazione usavano anche le pere ed in particolare le “negrè” così chiamate in quanto, quando mature, diventano nere nella polpa.

caratteristiche: Bevanda a bassa gradazione alcolica ottenuta dalla fermentazione di varietà locali di mele. La tradizionalità del prodotto è legata, oltre che alle tecniche del processo produttivo, soprattutto alla rigorosa provenienza locale della materia prima.

preparazione: La prima fase di lavorazione consiste nella frantumazione delle mele che, introdotte in un contenitore in legno di forma cilindrica, vengono battute ripetutamente con un pestello di legno fino a ridurle in poltiglia. A questo punto si passa alla torchiatura da cui si ottiene il primo succo, il quale, dopo essere stato filtrato, viene riposto in un recipiente in vetro e lì subisce una prima fermentazione di circa 3-4 giorni.
Il liquido viene quindi nuovamente travasato e lasciato a fermentare, procedendo successivamente all’ultimo travaso.
L’imbottigliamento si esegue in bottiglie da spumante, con tappo a gabbia in quanto il prodotto risulta leggermente frizzante.
Il “Sidro da pomi” della Valle Scrivia deriva dalla lavorazione di varietà locali quali la Selvatica di Casella, mela abbastanza grossa, la Gianchetta, bianca, rotonda, non tanto grossa ma gustosa e la Garbuçinna, mela rossa di medio-piccole dimensioni, presente in Valbrevenna.
La tradizione è iniziata quando la quantità di mela di Milan, di dimensioni medio grosse, dolce e succosa, che il mercato fresco non assorbiva, venivano destinate alla trasformazione.

Fonte: La vetrina di Agriligurianet.it – Regione Liguria 2005