Parmigiano Reggiano DOP

Materia prima: latte di due mungiture, di cui una parzialmente scremata per affioramento.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 33 gradi, aggiungendovi siero innesto più caglio di vitello. Coagula in 12-15 minuti. Dopo la rottura della cagliata effettuata con lo spino (a dimensione di chicco di frumento) si procede ad una prima cottura a 45 gradi, quindi si cuoce ancora fino a 55 gradi, agitando continuamente. Dopo queste operazioni, la massa viene lasciata riposare per 30 minuti, poi si estrae con tela di canapa e si pone nelle fascere, ove subisce una pressatura. Dopo qualche ora si toglie la tela e si inserisce una matrice per la stampigliatura dei dati della forma sulla crosta. La salatura si effettua per bagno in salamoia per 25-30 giorni. Matura in 30-90 giorni in appositi magazzini, dove le forme vengono costantemente spazzolate e rivoltate.

Stagionatura: da meno di un anno fino a tre anni circa, in appositi magazzini di stagionatura. Durante questo periodo, le forme vengono sottoposte a continui e periodici controlli. Resa 6-7%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 18-24; diametro: cm 35-45; peso: Kg 24-40; forma: cilindrica con scalzo leggermente convesso o quasi diritto; crosta: dura, scura ed oleata o giallo dorato naturale; pasta: morbida e vellutata, finemente granulosa; colore: paglierino più o meno intenso; grasso: 32% minimo; sapore: fragrante, delicato, saporito ma non piccante.

Area di produzione: provincie di Parma, Reggio Emilia, Modena, Bologna (in sinistra di Reno) e Mantova (in destra di Po).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: le origini di questo celebre formaggio si perdono nella notte dei tempi. Citato da sempre nei documenti storici e letterari (vi si sofferma Boccaccio nel Decamerone) è un prodotto che oggi vanta a buon diritto un ruolo di prim’ordine nel panorama caseario italiano ed europeo. La sua denominazione è tutelata (da legge 10 aprile 1954, n. 125 e Dpr 30 ottobre 1955, n. 1269), l’origine è garantita (Dpr 5 agosto 1955 n. 667) e il suo commercio vigilato (legge 10 aprile 1954 n. 125 e Dm 17giugno 1957) dal Consorzio del Formaggio Parmigiano-Reggiano.

Ricotta vaccina fresca tradizionale dell’Emilia-Romagna

Siero di latte dalla lavorazione del parmigiano-reggiano, latte, crema di latte (affioramento). Crema di siero di latte derivante dalla lavorazione del parmigiano-reggiano, prima della eventuale regolazione dei costituenti, la componente siero di latte deve costituire almeno il 90% della formulazione messa in opera, NaCl. Coadiuvanti tecnologici: agenti acidificanti singoli o in miscela quali acido acetico, acido citrico, acido lattico, acido tartarico, siero acido (agra), aceto di vino, succo di limone.

Territorio interessato alla produzione: Zona del comprensorio di produzione del parmigiano-reggiano

Cenni storici e curiositàLa ricotta è prodotto che si realizza in quasi tutte le regioni d’Italia in quanto si ottiene dal siero derivante dalla produzione di formaggio. Le sue origini se così si può dire, le possiamo datare all’epoca della civiltà greco e romana epoca alla quale risale l’opera di Columella che nel VII capitolo del De re rustica illustre alcune pratiche casearie. Il termine ricotta deriva dal latino recoctus, cioè cotto due volte ed è un termine di ambito centro-meridionale. In effetti già nella Summa Lacticiorum di Pantaleone da Confienza edita nel 1477, si fa riferimento ai seracia. Il seracium o seracius o seratium è termine collegato al latino serum, siero di latte ed era ricavato dai magister formagerus dalla bollitura del siero inagrito, con l’aggiunta di una certa percentuale di latte intero (fortificazione). Il prodotto così ottenuto era denominato in area lombarda-padana mascherpa o mascarpa o mascherpino, seriràs in piemonte e recocta o ricotta in ambito centro-meridionale.

Guancialino

Tecnologia di preparazione: la guancia o la gola del suino vengono cucite in modo da formare un involucro. All’interno vengono insaccate carni suine grasse e magre derivanti dalla lavorazione di parti pregiate, lardo, pancetta, cotenne tenere tritate, salate e condite. Si consuma cotto.

Composizione:
a) Materia prima: carni grasse e magre del suino, in particolare quelle muscolose, guancia e gola.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, aromi naturali e concia in vino rosso, più spezie in minima quantità.
c) Additivi: salnitro e polvere di latte, non sempre utilizzati.

Maturazione: in cucina riscaldata per due-tre giorni.

Periodo di stagionatura: in solaio o in camera da letto per trenta giorni.

Area di produzione: le province di Modena e di Reggio Emilia, con centri a Russi, Spilamberto, Mirandola, Carpi. E’ conosciuto anche nella provincia di Parma.

Salsiccia passita

Tecnologia di preparazione: le carni di seconda e terza scelta vengono macinate a grana media, conciate e insaccate nel budello naturale. Si consumano sia fresche che stagionate.

Composizione:
a) Materia prima: carni suine di seconda e terza scelta.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale (30 grammi per chilogrammo), pepe, peperoncino.
c) Additivi:

Maturazione: tre o quattro giorni.

Periodo di stagionatura: quaranta giorni circa in luogo fresco e areato. Quando è stagionata molti usano conservarla sott’olio, sotto cenere o nella calcina.

Area di produzione: in tutta la regione Romagna.

Zampone di Modena IGP

Tecnologia di preparazione: le carni suine magre derivanti dalla mondatura di altre preparazioni, le cotenne di pancia e di schiena, più il grasso di gola vengono triturate, salate, condite e insaccate nella zampa anteriore.

Composizione:
a) Materia prima: carni suine magre, cotenne e grasso corposo in proporzioni uguali.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, aromi naturali, spezie, concia in vino rosso corposo.
c) Additivi: sodio o potassio nitrato, polvere di latte, glutammato monosodio.

Maturazione: in cucina con stufa a legna accesa per tre-quattro giorni, nella produzione artigianale.

Periodo di stagionatura: gli zamponi prodotti artigianalmente vengono appesi in solaio per 30-40 giorni.

Area di produzione: la zona tipica rimane Modena e provincia, anche se l’industria lo produce un po’ dovunque. Proprio la grande produzione industriale ne ha fatto perdere quasi completamente la tipicità, per cui anche nel modenese si usa insaccare l’impasto dello zampone nel cresponetto, trattandolo come un cotechino.

Suino pesante

Suino pesante da salumeria tipico delle regioni della Pianura Padana, destinato prevalentemente alla trasformazione industriale, con cute depigmentata e setole bianche, di taglia elevata e a maturazione tardiva. La grande taglia è sostenuta da arti forti e scheletro robusto con una struttura equilibrata e armonica, non troppo allungata, compatta, di forma cilindrica, con ventre sostenuto, masse muscolari abbondanti, non globose o eccessivamente pronunciate. Le spalle sono aderenti al tronco, muscolose, ma compatte, i lombi sono larghi, pronunciati, non troppo lunghi, la groppa è diritta e lunga con la coda molto robusta e attaccata alta. Le cosce, il taglio più pregiato perché destinato alla produzione del prosciutto, devono essere ampie, sviluppate in senso antero-posteriore, ben discese, mai globose.

Territorio interessato alla produzione: Il suino pesante deve essere nato, allevato e prodotto nel territorio geografico compreso nelle regioni Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto, Friuli Venezia Giulia e Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa Pianura Padana è la zona tipica di produzione del suino pesante da secoli. Vi sono reperti archeologici e frammenti ossei che attestano la presenza di suini macellati ad età e pesi elevati fin dall’epoca etrusca e romana, epoca in cui già è presente la trasformazione ed il commercio delle cosce conservate. Con il passare dei secoli l’allevamento del suino ed il consumo dei prodotti da esso derivati assumono via via sempre maggiore importanza, passando per i trionfi gastronomici rinascimentali, ove il suino compare nei banchetti più sontuosi, fino al diciannovesimo secolo in cui si chiude definitivamente quanto resta delle antiche economie e dei connessi sistemi di approvvigionamento e si diffondono i primi laboratori alimentari e le prime salumerie. Sorgono i primi allevamenti di tipi industriale diffusi già nel secolo scorso in Emilia e Lombardia come attività complementare collegata allo sfruttamento dei sottoprodotti dei caseifici e dell’industria molitoria. Contemporaneamente nascono i primi centri di macellazione che si concentrano pure essi nell’area padana vicino ai centri di produzione dei suini. Sempre in questo periodo sorgono attorno alla Pianura Padana, nelle zone pre-collinari e collinari, i primi veri e propri stabilimenti di stagionatura che uniscono l’artigianato del mastro salumaio alla moderna industrializzazione.

Pancetta arrotolata

Territorio interessato alla produzione:Nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, come zona di produzione è indicata esclusivamente la provincia di Rimini, in realtà si produce in tutta la Regione.

Materia prima:pancetta di suino, sale, pepe.
Descrizione del prodottoLa pancetta arrotolata ha una forma cilindrica della lunghezza di 30-40 cm ed un diametro di circa 10 cm.La sezione trasversale rivela, nel suo aspetto, la procedura di produzione arrotolata, in quanto la parte magra, di colore rosso vivo e la parte grassa, di colore bianco della pancetta si presentano nel classico aspetto a spirale.
Lavorazione:Alla pancetta viene tolta la cotenna ed aggiunti il sale ed il pepe, si lascia riposare per 48 ore, quindi viene lavata con vino rosso.Per il confezionamento viene avvolta su se stessa ed immessa in budello di maiale essiccato, legata ed appesa per la stagionatura per almeno quattro mesi.
Cenni storici e curiositàLa pancetta viene stagionata con tre diverse metodologie:- Arrotolata (con o senza cotenna). Se si rimuove la cotenna, la pancetta si insacca in un budello e legata; se all’interno si inserisce una parte di coppa (o “capocollo”) si avrà la “pancetta coppata”- Steccata, con cotenna (piegata e stretta tra due robuste assi tenute legate saldamente fra loro);- Tesa o Stesa con cotenna.Il bacon è una pancetta che subisce il processo di cottura a vapore e successivamente di affumicatura, può peraltro essere ricavato anche dalla schiena o dal fianco del maiale e non solo dalla pancia.

Lonzino, Capolombo

Territorio interessato alla produzione:E’ un prodotto tipico dell’Italia centrale (Toscana, Marche) che in Emilia-Romagna si trova per lo più nelle zone confinanti con le suddette regioni.
Materia prima:Carne di capolombo suino (muscoli della lombata), vino rosso, sale, acini di pepe nero.
Descrizione del prodotto:Il lonzino ha una forma cilindrica leggermente conica, ha una lunghezza di cm 40 con un diametro di circa 8 cm, si differenzia dalla lonza per il fatto che le parti grasse non sono intercalate alle parti magre ma le due componeti appaiono compatte e separate.Il lonzino, rivestito di budello naturale, ha un peso variabile fra 1 Kg e i 3 Kg, di consistenza dura.Il lonzino stagionato va consumato esclusivamente affettato.
Lavorazione:Tagliato e rifilato a mano, il lonzino viene posto sotto sale e aromatizzato eventualmente con il pepe per uno o due giorni. Alla fine di tale periodo il prodotto viene lavato con vino rosso ed insaccato nel budello di maiale o bovino (fresco o essiccato). Esternamente viene fissato con canne tagliate in quarti appositamente legate ed appeso per la maturazione (un tempo sulle travi).La maturazione, in alti solai areati, avviene per almeno 4-5 mesi fino ad un massimo di 10.E’ diffusa anche la pratica, specialmente nell’ascolano, di affumicare il prodotto dopo la sua insaccatura in budello, in apposito locale per circa 12 ore, in presenza di fuoco alimentato con rami secchi di ginepro.
Cenni storici e curiositàPer lonza, nell’Italia centrale s’intende l’insaccato che (con diverse varianti locali) al Nord è chiamato coppa e al Sud capocollo.La parte del maiale utilizzata per la lonza è quella compresa tra l’attaccatura del collo e la sesta o settima costola del carré; dal carré fino al lombo e alla coda si ottiene la pezzatura per il lonzino, che risulta con minori parte grasse.Il lonzino, essendo molto magro, era uno dei salumi che per primi venivano gustati in primavera.

Coppa di testa, Tortella

Territorio interessato alla produzione:Intero territorio regionale.
Materia prima:carne suina, alloro, sale, pepe nero, olive verdi, bucce di arancio, mistrà, mandorle, pistacchi, pinoli.
Descrizione del prodottoLa coppa di testa può presentarsi in varie forme e dimensioni, in base agli usi e consuetudini locali. Tradizionalmente di schiacciata a mattone, oggi si trova più spesso di forma cilindrica.La coppa ha un aspetto e un colore variegati. I colori, in prevalenza bianchi, grigi e marroni, sono quelli caratteristici della carne e del grasso cotti.
Tecnologia di lavorazione:Le teste di suino vengono lessate per almeno 3 ore in appositi caldai di rame, con la sola aggiunta di sale e di altre parti del suino come le cotenne, le carni grasse ottenute dalla macellazione, le ossa, le orecchie, il codino, gli zampetti e altri parti, siano esse sanguigne e rosse che cartilaginose.Dopo la cottura le carni vengono disossate, sminuzzate e rigorosamente a mano vengono impastate, assieme a pepe e agli altri ingredienti e aromi.Il composto viene poi raccolto in un panno e pressato per circa 10-12 ore, per favorire la fuoriuscita del collagene e del grasso fusi.In tempi più recenti si utilizza un involucro sintetico che anziché pressato viene appeso per la fuoriuscita del collagene e del grasso fusi.

Fegatelli

Territorio interessato alla produzione:Intero territorio regionale.
Descrizione del prodottoFegato di maiale tagliato a tocchetti, cotto e conservato in barattoli di vetro o terracotta, ricoperto di strutto.
Tecnologia di lavorazione:Si taglia il fegato a tocchetti, che vengono cosparsi abbondantemente di sale e pepe e avvolti uno ad uno nella rete di maiale (che sarà stata preventivamente tenuta a bagno in acqua fredda per renderla più morbida) in modo da essere completamente ricoperti.Successivamente si preparano degli spiedini infilzando in un rametto di alloro i tocchetti di fegato alternandoli alle foglie di alloro. La cottura si può effettuare alla brace o al forno.A cottura ultimata i fegatelli sono pronti per essere consumati, oppure essere conservati in barattoli di vetro o terracotta ricoperti completamenente di strutto. In questo modo si conservano per tutto l’inverno.

Prosciutto di Modena DOP

Tipo di prodotto:
Prodotto di salumeria ottenuto dalla coscia di suino pesante di razza bianca, esclusi verri e scrofe, stagionata per un periodo di 10-12 mesi. Le cosce fresche destinate a diventare prosciutto di Modena non devono subire, tranne la refrigerazione, alcun trattamento di conservazione.
La forma è a pera, il peso non può essere inferiore a sette chilogrammi.
Dopo avere verificato i criteri di allevamento e macellazione dei suini, la lavorazione del prosciutto di Modena inizia
con la rifilatura della coscia fresca, passa poi alla salagione (primo e secondo sale), al riposo, al lavaggio e asciugatura, ed alla stagionatura vera e propria.
Infine i prosciutti, se ritenuti idonei previo accurato controllo, ricevono l’apposizione del marchio di tutela.

Zona geografica di produzione:
La produzione del prosciutto di Modena avviene esclusivamente nella particolare zona collinare insistente sul bacino oroidrografico del fiume Panaro e sulle valli confluenti e che, partendo dalla fascia pedemontana, non supera i 900 metri di altitudine.
La materia prima è costituita da cosce suine fresche di animali nati, allevati e macellati nelle seguenti regioni del territorio nazionale: Emilia – Romagna, Veneto, Lombardia, Piemonte, Molise, Umbria, Toscana, Marche, Abruzzo, Lazio, Friuli
Venezia Giulia.

Il prosciutto è dunque uno degli alimenti la cui preparazione risale davvero alla notte dei tempi. Esso comprende in sé l’alimentazione a base di carne (sia selvatica che d’allevamento) e la pratica della conservazione di quelle carni, da sempre grosso problema dell’uomo, attraverso la salagione e la stagionatura.

Curiosità storiche e letterarie:
La valle padana, oggi nota anche come la valle del cibo (non usiamo, per carità, l’inutile anglicismo di “food valley”!), è stata e rimane anche la valle dei maiali che vi hanno trovato alimenti adatti.
Nella valle padana gli antichi maiali selvatici, o cinghiali, dopo una parziale addomesticazione, si nutrivano della ghiande e delle castagne dei boschi rispettivamente di pianura e di alta collina e montagna, tanto che il valore di un bosco di querce era stimato in base ai maiali che poteva sostenere e ingrassare. Con la trasformazione agraria del secondo millennio della nostra era, i maiali iniziarono a venire alimentati con gli scarti della produzione del latte, soprattutto con il siero di risulta del formaggio parmigiano, che trovò un valido complemento del grano “turco” o mais giunto dall’America. Da un allevamento brado e poi semibrado si è gradualmente passati ad un allevamento confinato.
Il territorio dell’attuale Emilia-Romagna, fin dall’antichità, è stato diviso in due aree, una “longobarda” nella quale dominava l’allevamento del maiale e l’altra “romana” dove era preminente, ma non esclusivo, il pascolo delle pecore. L’approssimativo confine tra le due aree e quindi tra le attuali Emilia e Romagna passava a oriente di Bologna.
Il poeta Tassoni, nella Secchia rapita, denomina Modena “lombarda”, riferendosi alla cultura longobarda che, per secoli, dominò su gran parte della pianura padana valorizzando il maiale, con il quale otteneva una efficiente utilizzazione dei territori boschivi, ricavandone al tempo stesso una sana alimentazione. Una cultura, quella longobarda, che si riallacciava a quella cultura celtica che l’aveva preceduta negli stessi territori e per la quale il maiale era un animale totemico e carico di significati religiosi,che non impedivano, anzi ne giustificavano e ne valorizzavano il ruolo economico,sociale ed alimentare, soprattutto in un ambito maschile. Uno stretto ed antico legame congiunge infine le culture longobarda e celtica all’ancora misterioso popolo villanoviano e delle terramare che, lasciandoci cospicui reperti ossei suini, ancor oggi ci testimonia di una significativa presenza del maiale, il Sus verrucosus, nelle terre da lui abitate. Una cultura suinicola, quella ora tratteggiata, che non è stata sostanzialmente intaccata, anzi sviluppata e valorizzata dai contatti che la cultura
celtica ebbe con quella del popolo etrusco prima e romano poi e che, attraverso quest’ultimo, si è diffusa nell’area mediterranea cristianizzata, arrivando via via fino ai nostri tempi.
Nell’area dell’attuale Romagna, pur dominata dalla pecora, non mancò l’introduzione del maiale, soprattutto nelle zone più vicine al Po o sulla montagna.
Un sottile ma tenace ed ininterrotto filo culturale, che si perde nella notte dei tempi, collega la presenza del maiale – prima selvatico o cinghiale, poi domestico – con il suo allevamento e la sua domesticazione nella pianura padana occidentale, di cui fa parte l’odierna Emilia-Romagna.

(*) Giovanni Ballarini, Sua Maestà il Maiale. Allevamento,
conservazione delle carni e prodotti tipici
in Giancarlo Roversi e Donatella Luccarini (a cura di), I Tesori della Tavola
in Emilia-Romagna, Bologna, L’inchiostroblu, 1998, pagg. 40 e 41.

Fonte: Ermes Agricoltura – Regione Emilia Romagna

Agnello da latte, agnel, delle razze: sarda e massese

Carne fresca ottenuta da agnelli maschie femmine macellati all’età di circa 30 giorni

Territorio interessato alla produzione: Un tempo allevato e diffuso in tutta l’Emilia-Romagna, in quanto originato dai greggi produttori di latte, la Regione è ancora oggi la zona di produzione, anche se chiaramente l’area di diffusione risente della maggiore o minore presenza degli allevamenti di pecore da latte nel territorio, quindi la Romagna e la Provincia di Bologna sono la maggiore zona di produzione e poi lungo tutta la dorsale appenninica della Regione

Cenni storici e curiositàL’allevamento degli ovini in Emilia-Romagna ha radici antichissime, risalenti al medioevo e all’epoca romana, in particolare in Romagna l’allevamento della pecora si è radicato nella coltura e nella storia alimentare e con essa il consumo dell’agnello da latte. Storici come Massimo Montanari fanno risalire questa peculiarità alimentare al tempo delle invasioni barbariche, con la divisione amministrativa e politica della regione tra i Longobardi che occuparono l’Emilia sino a Bologna e i Bizantini che invece rimasero a lungo nelle Romagne. La divisione politica produsse conseguenze economiche ed alimentari che continuarono nel medioevo e poi sino ad oggi con la diffusione del maiale in Emilia e Romagna, mentre quest’ultima aggiunge al suino anche l’ovino. Negli anni sessanta la pastorizia nella nostra regione stava attraversando una crisi che sembrava irreversibile in particolare per lo spopolamento delle campagne, se non fosse intervenuti nuovi allevatori originari della Sardegna che hanno permesso di riavviare questa forma di allevamento quindi anche la produzione dell’agnello da latte.

Gallo ruspante

Territorio interessato alla produzione:Intero territorio regionale.
Materia prima:Il Gallo Ruspante presenta le seguenti caratteristiche: cute di colore giallo, lunghezza dalla base di impianto della lamina della cresta di cm. 3-5, carena affilata e profonda conseguente allo sviluppo longilineo della muscolatura pettorale.Si utilizzano esclusivamente maschi provenienti da razze selezionate per la produzione di uova da consumo, di certificata provenienza, appartenenti a linee genetiche leggere a crescita lenta.
LavorazioneL’età minima di macellazione è 100 giorni, viene immesso al consumo esclusivamente macellato: parzialmente eviscerato o eviscerato senza frattaglie, con testa e zampe.Il peso minimo del singolo prodotto è il seguente: eviscerato senza frattaglie maggiore/uguale Kg 1,350; parzialmente eviscerato maggiore/uguale Kg 1,4.Allevamento a terra di tipo estensivo, al coperto con aerazione e illuminazione naturale. La lettiera utilizzata è in truciolo di legno e/o di paglia trinciata.Densità massima a fine ciclo: 12 capi per mq e comunque non superiore a Kg 25 di peso vivo per mq.La razione alimentare è composta da almeno il 65 % di cereali di cui non più del 15 % di sottoprodotti somministrata per la maggior parte del periodo di ingrasso.L’età minima di macellazione è 100 giorni comunque deve coincidere con il raggiungimento della maturità sessuale e rigidità della punta dello sterno (ossificata).La macellazione viene effettuata separatamente o in linee di produzione specifiche o in giorni stabiliti.La lavorazione prevede una eviscerazione totale o parziale, un raffreddamento ad aria ed un confezionamento adottando una procedura di rintracciabilità
Descrizione prodotto finitoIl Gallo Ruspante viene immesso al consumo esclusivamente macellato, parzialmente eviscerato o eviscerato senza frattaglie, con testa e zampe, raffreddato ad aria, confezionato singolarmente o in confezioni multiple comunque protette. Il prodotto va conservato a una temperatura compresa tra 0° e + 4°C.
Cenni storici e curiositàL’allevamento del Gallo Ruspante in passato era l’espressione di un allevamento contadino di tipo familiare, in cui i maschi, al raggiungimento della maturità sessuale, erano allevati per la carne, destinata sia all’autoconsumo che alla vendita.Il Gallo Ruspante mantiene ancora oggi inalterate le caratteristiche tradizionali del passato: carni con consistenza, aromi ed sapore tipici, conferitegli da una dieta costituita per la maggior parte da cereali nobili, da un lento accrescimento legato alla prolungata attività motoria e dal raggiungimento della maturità sessuale e a quella del sistema scheletrico.

Crescentina

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, strutto, lievito naturale, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: la farina, il lievito, il sale e lo strutto vengono impastati bene lasciando lievitare per circa un’ora. Poi si formano dei dischetti dal diametro variabile dagli 8 ai 10 cm, ma che nelle zone di Rocchetta Sandri di Fanano (Mo) può raggiungere i 15 cm. Viene cotta sulla piastra. Fa seguito la fase di raffreddamento in ambiente sterile prima del confezionamento.

Area di produzione: Verica, Pavullo in provincia di Modena.

Note: la crescentina che, quando viene fatta a livello familiare è sempre fermentata e per questo si distingue dalle cosiddette tigelle, sostituisce il pane e si accompagna bene con ogni cibo: prosciutto, formaggio, erbaggi. Come si vede la crescentina di Pavullo poco ha a che vedere con la crescentina di Bologna la quale, nel modenese, riceve a sua volta il nome di gnocco fritto.

Gnocco ingrassato

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, cubetti di lardo, lievito madre, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: farina, acqua, lievito e lardo tagliato in piccoli cubetti vengono impastati insieme. Si lascia in riposo per una mezz’ora, poi si mette la pasta in un contenitore – che può essere tondo o quadrato – e si cuoce al forno. A cottura ultimata ha un’altezza di 5-8 cm.

Area di produzione: Modena.

Note: era anche affettuosamente detto “gnocco rancido”, nel senso che la massaia o reggitrice (arzdora) utilizzava, nell’impasto, piccoli ritagli grassi di prosciutto irranciditi. Lo gnocco ingrassato si consumava – come del resto lo gnocco fritto – al mattino, dopo avere rigovernato la stalla e spaccato la legna. Di più facile e rapida preparazione del pane, perché a farla bastava la padrona di casa, serviva a risparmiare il consumo di quest’ultimo, la cui preparazione richiedeva la presenza di più persone. Talvolta si serve come antipasto con cubetti di mortadella oppure preparato con erbe aromatiche essiccate e sminuzzate nell’impasto. Invece con la scomparsa del camino – sostituito dalle cucine economiche – è uscito di scena lo gnocco cotto sotto la brace (Informazione di Emilio Lancellotti, ristoratore in Soliera). A Bologna se ne produce una versione più crostuta perché meno alta, che viene detta crescenta. È citata da Vincenzo Tanara già nel volume “L’economia del cittadino in Villa” (Bologna, 1644).

Pane di Pavullo

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero tipo zero e integrale, strutto, lievito naturale, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: la farina viene impastata con lievito naturale sciolto in acqua salata e con lo strutto fuso al calore. La percentuale di acqua si aggira sul 40%. L’impasto viene lavorato a lungo nell’impastatrice e lasciato lievitare per circa 8 ore. Con questo tipo di impasto – detto duro perché la percentuale di farina è superiore a quella dell’acqua – vengono confezionati diversi tipi di pane, tra cui la micca, detta anche pagnotta, di forma rotonda con la parte superiore segnata del peso di mezzo chilo, il filone, sempre dello stesso peso, la michetta, ecc.

Area di produzione: Verica, nel comune di Pavullo, in provincia di Modena.

Note: il pane di Pavullo gode di meritata fama. Tra i fattori di tale successo vanno sottolineate la varietà dei cereali e l’impiego di lievito naturale o pasta acida che viene rinnovato ogni 6 ore durante l’estate e ogni 12 ore in inverno.

Tigella modenese, tigèla modenese, crescentina modenese, cherscènta modenese

La “Tigella Modenese” è un prodotto a base di farina di grano tenero e strutto di suino, i quali, aggiunti di sale e lievito, vengono impastati con acqua. L’impasto viene quindi suddiviso in pagnottelle che, dopo adeguata lievitazione, vengono lavorato in modo da ottenere dei dischi del diametro di 8-10 centimetri. Al termine della cottura la “Tigella Modenese” uno spessore di circa 1-1,5 cm. La colorazione è dorata e uniforme su entrambe le facce. Il colore interno è bianco e la sua consistenza è soffice. Il sapore è delicato, simile a quello del pane per la presenza nell’impasto del “lievito di birra”.

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Modena

Cenni storici e curiositàNelle zone di montagna del modenese, le Tigelle hanno rappresentato per lungo tempo una consuetudine alimentare rimasta intatta nel tempo e sviluppatasi come conseguenza della scarsità di ingredienti disponibili. I lunghi periodi di carestia succedutisi durante la storia, hanno colpito con maggiore intensità le popolazioni dell’Appennino, la cui sopravvivenza è stata in buona parte merito dei castagni, dai cui frutti si ricavava una farina succedanea a quella del frumento.Tradizionalmente il termine Tigelle indicava stampi circolari di circa 12-15 cm di diametro e dello spessore di 1,5-2 cm, composti prevalentemente da terra di castagneto battuta. Tali stampi venivano sovrapposti, in modo da racchiudere al loro interno l’impasto a base di farina e acqua, e quindi disposti vicino alle braci in ordine sparso oppure impilati nell’apposito tigiarol, attrezzo di forma cilindrica e costruito in ferro nel quale trovavano posto l’uno sopra l’altro i detti stampi. Con il trascorrere degli anni il termine Tigella è stato, e lo è tuttora, utilizzato per indicare l’impasto cotto al suo interno, originariamente chiamato crescentina.

Borlengo

Si prepara mettendo la farina. Le uova ed e il sale, in una teglia indi con una frusta o sbattitore , cominciare ad amalgamare gli ingredienti aggiungendo acqua fino a raggiungere la consistenza desiderata. Condimento lardo, aglio, rosmarino, parmigiano reggiano. Versare un mestolo di colla liquida nel sole, fino a cottura poi precedere al condimento.

Territorio interessato alla produzione: Guiglia

Cenni storici e curiositàLa nascita del borlengo è avvolta in alone di mistero ed alcuni paesi ne rivendicano la paternità. A Vignola appare per la prima volta nel 1936 quando le Truppe del condottiero Giovanni Conte da Barbiano di Aldalisio, alleato di Isacco e Gentile Grassoni, assediarono il Castello, allora governato da Iacopino Rangone. Guiglia lo considera nato nel 1266 ai tempi di Ugolino da Guiglia, durante l’assedio che questo condottiero subì rinchiuso nel suo castello di Montevallaro ad opera dell’esercito della famiglia degli Algani, Guelfi modenesi, capitanato da Nisetta degli Osti, Ruffo dei Rossi, Pepetto dei Trenta e da Crespan Doccia. Ugolino e la famiglia dei Grasolfi, che presidiavano il maniero, si arresero il quattro luglio 1266 e si racconta che riuscirono a resistere parecchi giorni in più grazie a certi impasti cotti di farina e acqua, insaporiti d’erbe, assomiglianti a grandi ostie. Divenendo sempre più piccoli, sottili e trasparenti, vennero considerati non più un cibo, ma una “burla”, da cui dovrebbero derivare la parola “Burlengo” che i pochi superstiti avrebbero diffuso in tutto l’Appennino. Di avviso diverso sono in molti a Zocca, dove lo considerano derivante da Montese o da Moltealbano. Quanto incerta è la nascita del borlengo, altrettanto certe sono invece le condizioni in cui naque quale espressione della scarsità di mezzi di persone sconvolte da guerre, atrocità e tanta miseria.

Ciaccio, ciacc

Farina “0”, acqua, sale. Condimento: pestata di lardo, aglio, rosmarino e formaggio grana.

Territorio interessato alla produzione: Comune di Palagano

Cenni storici e curiositàIl ciaccio della vallata del Dragone risale agli ultimi decenni dell’800, le famiglie alternavano questo povero cibo alla polenta di castagna o di mais. Il ciaccio si chiamava “salada” dalla forma rotonda che ricorda il sole, ovvero dalla forma dei vecchi “stampi” di rame rotondeggianti. Il ciaccio come si fa ora entra nell’uso comune negli anni antecedenti l’ultima guerra mondiale.

Cherseinta sotto le braci, Crescentina

Area di produzioneZona montana della Provincia Reggiana e ModeneseIngredientiFarina bianca, un trito di aglio, lardo, sale, origano e un pizzico di lievito di birra
PreparazioneE’ un piatto alquanto semplice. Si amalgamano gli ingredienti e si lascia lievitare. Si spiana all’altezza di un dito e si cuoce nel caminetto, sotto le braci, per almeno mezz’ora.RicetteChersentina sotto le braciFare una fontana sul tagliere con 500 gr. di farina bianca, un trito di aglio, lardo, sale, origano e un pizzico di lievito di birra, precedentemente sciolto in acqua tiepida. Amalgamare gli ingredienti e lasciar lievitare finchè la pasta non avrà raddoppiato il suo volume. Sarà pronta quando, spingendola con il polpastrello, si rialzerà da sola. Spianarla sino all’altezza di un dito e cuocere nel caminetto, sotto le braci, per almeno mezz’ora. Questa è un’antica ricetta montanara, che può essere preparata anche nei nostri forni moderni, ma perde molto del su originale tipico sapore. Se invece si possiede un camino, si potrà gustarla come facevano i nostri nonni, che erano soliti mangiarla durante la caccia o i lavori duri della campagna.Iori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, Curiosità e vecchie tradizioni pag. 185Cenni storici e curiositàI racconti della tavola a Reggio Emilia, Giorgio Maioli, Edizioni GES, 1980… “la crescente al forno” veniva fatta con la pasta lievitata del pane a cui si aggiungeva ricotta e sale si stendeva per uno spessore di circa due dita. A metà cottura nel forno si estraeva e si spalmava con la panna o crema di latte. oppure la “crescente della teglia”, in cui la pasta lievitata veniva condita con burro, latte, formaggio grattugiato e ricotta e si cuoceva in una teglia ben unta. Infine la “crescente di patate”, ancor oggi in uso sulle tavole della montagna reggiana nei dintorni di Casina e i cui ingredienti, oltre la solita pasta lievitata, sono le patate lesse e il formaggio grana grattugiato, in dose abbondante, nelle proporzioni di due terzi di patate e un terzo di farina.
Iori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, Curiosità e vecchie tradizioni. “Questa è un’antica ricetta montanara, che può essere preparata anche nei nostri forni moderni, ma perde molto del su originale tipico sapore. Se invece si possiede un camino, si potrà gustarla come facevano i nostri nonni, che erano soliti mangiarla durante la caccia o i lavori duri della campagna.”

Gnocco fritt, gnocc frett o gnocc, al gnoc frètt, ‘l gnocc

Farina, sale, olio, strutto, acqua.A differenza della Crescenta fritta, il Gnocco fritto si spiana col palmo della mano in forma rotonda e spessa, grande come la padella, gli si fa con la punta di un dito un piccolo buco al centro e si mette in padella a friggere con lo strutto. Quando è fritto si taglia a spicchi e si mangia da solo o con affettati o formaggi.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il Modenese

Cenni storici e curiositàIl gnocco fritto, analogamente alla crescente, era il piatto forte dei contadini, mezzadri, e boari in concomitanza con i più pesanti ed impegnativi lavori agricoli.

Sfogliata o torta degli ebrei, tibuia

Torta salata composta da vari strati sovrapposti di un impasto a base di farina, burro, strutto e formaggio parmigiano-reggiano.

Territorio interessato alla produzione: Finale Emila, comune della bassa pianura modenese

Cenni storici e curiositàSecondo Annamaria Masina, già nel 1626 la torta aveva fatto la sua comparsa al Finale: esiste infatti, presso l’Archivio di Stato di Modena, la denuncia inoltrata in quell’anno contro un cristiano, certo Giacomo Bertancini, il quale aveva mangiato in prigione, in tempo di Quaresima, la “torta grassa” rubata ad un ebreo. Da Piero Gigli apprendiamo invece che il segreto della sua preparazione, custodito gelosamente per secoli dagli ebrei del Finale, venne divulgato ai cristiani da un certo Mandolino Rimini, un ebreo convertitosi nel 1861. Costui, dopo essersi fatto battezzare e aver assunto il nome di Giuseppe Alfonso Maria Alinovi, pensò bene di vendicarsi del disprezzo dimostratogli dai suoi antichi correligionari, giocando loro uno scherzo atroce: rese pubblica la ricetta della torta, e si mise a venderla ai cristiani sotto ai portici di Santa Caterina (l’odierna Via Mazzini), dopo aver sostituito il burro o il grasso d’oca con lo strutto che, quale derivato del maiale, è inviso agli ebrei come l’acqua santa al diavolo.

Tagliatelle verdi all’emiliana, Tajadeli verdi

Area di produzioneNell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna si trovano due prodotti identificati rispettivamente come:- Tagliatelle verdi all’emiliana, Tajadeli verdi, il cui territorio di produzione è indicato come l’intera Provincia reggiana- Tagliatelle verdi, Tajadёl verdi, Tajadèli verdi, il cui territorio di produzione è indicato come le provincie di Forlì-Cesena e la Romagna.Gli ingredienti e le modalità delle produtti indicate nelle due schede sono sostanzialmente identiche, anche perché in realtà questo tipo di pasta viene prodotta, sia da pastifici che in modo casalingo, praticamente in tutta la regione.Non esistono quindi reali ragioni (se non di ordine campanilistico) per distinguere i due prodotti. Abbiamo comunque deciso di mantenere entrambe le denominazioni, per coerenza con gli elenchi pubblici, ma in entrambi i casi abbiamo deciso di indicare come provincie di produzione tutte quelle in cui si trova questo prodotto, a prescindere dalle diverse denominazioni inserite nei PAT.Peraltro, nelle schede abbiamo mantenuto divise le diverse informazioni presenti nelle schede PAT, soprattutto relativamente alle ricette, cenni storici, curiosità, che si riferiscono ai rispettivi territori.

DescrizioneTagliatelle di sfoglia

PreparazioneMateria PrimaBietole e/o spinaci, sfogliaNota: per dare il colore verde si possono utilizzare in realtà non solo gli spinaci ma anche bietole, ortiche o erbette
LavorazioneCuocere gli spinaci e/o le bietole, strizzateli ben bene e passateli al tritatutto. Fare la sfoglia e unirvi il verde. Tirate la pasta in sfoglie sottili e tagliarle a strisce larghe più di un dito. Quando saranno un po’ asciutte, cuocetele in acqua salata.

RicetteGosetti della Salda Anna, Le ricette regionali italiane, Milano, La cucina italiana, 1967, pag. 418.Ingredienti: spinaci gr. 500, farina bianca, circa gr. 500, burro gr. 80, besciamella, parmigiano reggiano, tre uova, sale. Mondare e lavare bene gli spinaci, poi lessarli (salandoli) con la sola acqua che rimane loro aderente il lavaggio; scolarli, strizzarli molto bene e passarli al setaccio. Versare sulla spianatoia gr. 400 circa di farina, fare la fontana, rompervi nel mezzo tre uova intere e aggiungere gli spinaci; lavare bene la pasta sino ad averla ben liscia; se occorre unire altra farina (non è possibile dare la dose esatta perché gli spinaci possono essere più o meno strizzati). Stendere poi la pasta con il mattarello formando una sfoglia non troppo sottile, lasciarla asciugare, quindi arrotolare la pasta su sé stessa e con un coltello affiatato tagliarla a strisce larghe circa un centimetro. Srotolarle e lasciarle sulla spianatoia, badando di non ammucchiarle affinché non si appiccichino fra di loro. preparare una besciamella. Porre sul fuoco abbondante acqua salata e appena alzerà il bollore mettetevi le tagliatelle, mescolarle e lasciarle cuocere a fuoco vivace. imburrare una teglia, versarvi una parte delle tagliatelle ben scolate, irroratele di besciamella, spolverizzate di parmigiano e mettete qua e là pezzetti di burro; fare uno strato di tagliatelle, ancora besciamella e parmigiano. Proseguire così sino ad esaurimento degli ingredienti, poi mettere il recipiente in forno già caldo per circa 20 minuti, sino a quando la superficie sarà leggermente dorata.

Cenni storici e curiositàDa Gosetti della Salda Anna, Le ricette regionali italiane, Milano, La cucina italiana, 1967, pag. 418. “L’usanza delle tagliatelle verdi è tipicamente emiliana. La “base” verde, che trionfa soprattutto a Reggio Emilia, serve anche per l’altra infinita varietà di pastasciutte e lasagne. La pasta verde, infatti, può essere tagliata grossa, a piccole forme, a listerelle, e poi condita nelle più diverse maniere, sempre però abbondantemente accompagnata da formaggio grattugiato da saporiti, grassi condimenti: primi fra tutti i rossi, granulosi e morbidissimi ragù che richiedono lunga, leggendaria cottura.Da Ferrrari Marta, Ricette e racconti della mia Reggio, Cadelbosco di Sopra, Conad Emilia ovest, 1993Pochi sanno che le tagliatelle hanno una loro storia, curiosa, ispirata dalla bellezza femminile. protagonista è un tale Zaffirano, cuoco di Giovanni II da Bentivoglio, presente alle nozze di Lucrezia Borgia (1501) con il Duca d’Este. Lucrezia Borgia aveva magnifiche chiome bionde e mastro Zaffirano, ammirandole, avrebbe lì per lì inventato, in onore di tali chiome, morbidissime tagliatelle che però non servirono come primo piatto, ma come copertura a ricchissimi piatti di carne.

Tagliatelle verdi, Tajadёl verdi, Tajadèli verdi

Area di produzioneNell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna si trovano due prodotti identificati rispettivamente come:- Tagliatelle verdi all’emiliana, Tajadeli verdi, il cui territorio di produzione è indicato come l’intera Provincia reggiana- Tagliatelle verdi, Tajadёl verdi, Tajadèli verdi, il cui territorio di produzione è indicato come le provincie di Forlì-Cesena e la Romagna.Gli ingredienti e le modalità delle produtti indicate nelle due schede sono sostanzialmente identiche, anche perché in realtà questo tipo di pasta viene prodotta, sia da pastifici che in modo casalingo, praticamente in tutta la regione.Non esistono quindi reali ragioni (se non di ordine campanilistico) per distinguere i due prodotti. Abbiamo comunque deciso di mantenere entrambe le denominazioni, per coerenza con gli elenchi pubblici, ma in entrambi i casi abbiamo deciso di indicare come provincie di produzione tutte quelle in cui si trova questo prodotto, a prescindere dalle diverse denominazioni inserite nei PAT.Peraltro, nelle schede abbiamo mantenuto divise le diverse informazioni presenti nelle schede PAT, soprattutto relativamente alle ricette, cenni storici, curiosità, che si riferiscono ai rispettivi territori.

DescrizionePer tagliatelle si intende il risultato finale della lavorazione di un impasto di farina di grano tipo 00 e di uova fresche.La proporzione è di circa un etto di farina per ogni uovo.L’impasto avviene attraverso la rottura delle uova nello spazio creato in modo circolare al centro della farina.La lavorazione avviene rigorosamente a mano finché si ottiene un impasto elastico e senza grumi.La “sfoglia” viene stesa con un matterello di legno su di un tagliere, parimenti di legno e da essa si ottengono le tagliatelle.Per dare loro il colore verde si aggiungono spinaci lessi, strizzati e tritati.Nota: in realtà per dare il colore di verde si possono usare non solo gli spinaci ma anche bietole, ortiche o erbette.

RicetteTagliatelle verdiSi usano per pasta asciutta e sono più leggere e digeribili di quelle intrise di tutte uova. Per dare loro il colore verde cuocere spinaci lessi, strizzati e tritati con la lunetta. Con due uova e un pugno di codesti spinaci, intridere sulla spianatoia alquanta farina per ottenere una pasta soda da lavorare con le mani. Poi, col matterello, tirarla a sfoglia sottile e, quando essa dà cenno d’appiccicarsi a motivo dell’erba che produce viscosità, spruzzarla leggermente di farina. Avvolgere la sfoglia in un canovaccio, Quando sarà asciutta, tagliarla più larga dei taglierini in brodo, avvertendo che il bello di tali paste è la loro lunghezza, stando a indicare ciò la destrezza della massaia. Appena alzato il bollore, levarle asciutte, condirle con ragù, burro e parmigiano.G. Quondamatteo, L. Pasquini, M. Caminiti “Mangiari di Romagna”, Grafiche Galeati – Imola 1975
****Tagliatelle verdiSi lavorano come le altre tagliatelle ed hanno solamente in più l’impasto di spinaci, o erbette, lessati, ben strizzati e finemente tritati che danno alla pasata un colore verde da cui prendono il nome.Giovanni Manzoni, Così si mangiava in Romagna, Walberti Edizioni 1977;
****Tagliatelle verdiLessate degli spinaci, scolateli bene e tritateli.Ora, impastate con abbondante farina due uova e un pugno di questi spinaci, per fare una pasta piuttosto soda.Dopo averla lavorata con le mani, tiratela col matterello fino a farne una sfoglia sottile. Lasciatela asciugare e tagliatela a listarelle. Appena si alza il bollore scolate le tagliatelle e conditele con burro e formaggio.Dizionario della cucina romagnola. Ricette, vini, personaggi …, a cura di E. Morini e S. Vicarelli, Bologna, Il Resto del Carlino, Poligrafici Editoriale, 1993
****70. Tagliatelle verdiSi usano per minestra asciutta e sono più leggiere e più digeribili di quelle intrise tutte di uova. Per dar loro il color verde cuocete spinaci lessi, strizzateli bene e tritateli colla lunetta. Con due uova e un pugno di questi spinaci intridete sulla spianatoia quanta farina potete per ottenere una pasta ben soda che lavorerete molto colle mani. Poi, col matterello, tiratela a sfoglia sottile e quando dà cenno d’appiccicarsi, a motivo dell’erba che produce viscosità, spruzzatela leggermente di farina. Avvolgete la sfoglia in un canovaccio, e quando sarà asciutta tagliatela alquanto più larga de’ taglierini da brodo, avvertendo che il bello di tali paste è la loro lunghezza il che indica l’abilità di chi le fece. Appena alzato il bollore levatele asciutte e conditele come gli spaghetti alla rustica N. 104, oppure come i maccheroni o le tagliatelle dei N.i 87 e 69; o semplicemente con cacio e burro.Questa dose potrà bastare per quattro o cinque persone.Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, introduzione e note di Piero Camporesi, Torino, Einaudi, 1995.Prima edizione «Nuova Universale Einaudi 1970;

Cenni storici e curiositàLe tagliatelle “nascono” dalla sfoglia e, di questa, si è troppo parlato perché occorra insistere. Sono più spesse di “carta” (è il termine di pastificio) e più sode delle fettuccine romane, conservano, meglio di quelle, una consistenza che il romagnolo Panzini definiva “carnale”. Sono, di regola, gialle, ma possono anche “partire” dalla sfoglia verde, che vedo definita, in un piccolo ricettario fatto preparare dall’oste Luciano Draghetti in occasione di una sua tournée a New York, green ribbon pastry.Massimo Alberini, Emiliani e Romagnoli a tavola – Itinerario gastronomico da Piacenza a Viserba – Longanesi & C. – maggio 1969 Cromotipia E. Sormani – Milano

Tortellini

Una ricetta tradizionale dice: per il ripieno: carne di maiale, carne di vitello, prosciutto crudo, mortadella, Parmigiano-Reggiano, uova, noce moscata e pangrattato. Per la pasta: uova, farina.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione è rappresentata dal territorio della provincia di Modena.

Cenni storici e curiositàModena e Bologna si contendono da secoli, giocosamente, il diritto di fregiarsi del merito dell’invenzione del tortellino. E proprio per metterle d’accordo, una pubblicazione umoristica del secolo scorso pose i suoi natali sul confine delle due province, nel paese di Castelfranco ove, dice la leggenda, in tempi remoti il locandiere della “Dogana” sbirciando in una serratura, intravide l’ombelico di una nobildonna sua ospite, estasiato volle dare vita ad un piatto che gli rimembrasse quella bella visione anche a tavola. Secondo una storia che trae origine dai versi della “Secchia Rapita” di Alessandro Tassoni, altri, rifacendosi ad un fatto mitologico, raccontano che ai tempi della “Secchia”, Venere, Bacco e Marte, reduci dai campi di battaglia, ove per l’ennesima volta si erano scontrati i modenesi e i bolognesi, una sera pensarono di trovarvi riposo presso la locanda “Corona”. Il mattino successivo, Marte e Bacco se ne partirono presto lasciando da sola la dea dell’amore, che ancora dormiva. Questa, quando si svegliò e non vide più i due amici, suonò spaventata il campanello, facendosi sorprendere ancora discinta da un oste guercio, subito accorso, il quale rimase notevolmente impressionato dalle bellissime forme di Venere. Ritornato in cucina, dove aveva preparato una sfoglia (“sfoja”, in modenese) ne strappò un pezzo di cui si servì per fare tanti quadretti. Li riempì di pesto e, ripiegatili, li arrotolò sul dito traendone uno stampo simile all’ombelico di lei. Queste le leggende, ma la verità potrebbe essere molto più terra terra perché responsabili di tale forma non è escluso siano state l’esperienza e la saggezza della “rezdora” la massaia della casa che avrebbe deciso di dare tale forma ai tortellini per evitare che durante la cottura il ripieno si “perdesse” nel brodo, ma restasse ben legato al suo involucro di sfoglia. Va anche ricordato come il rito della preparazione dei tortellini venisse celebrato alcuni giorni prima della festa, in casa di una o dell’altra massaia dove si ritrovavano le “rezdore” insieme per aiutarsi a vicenda e questa era una valida scusa per conversare e raccontarsi gli ultimi avvenimenti.

Tortelli con le ortiche

Area di produzioneSecondo la scheda inserita nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, il territorio sarebbe limitato all’intera Provincia reggiana. In realtà il prodotto si ritrova in gran parte della Regione, soprattutto in Emilia.

DescrizionePrimo piatto costituto da rettangoli di pasta sfoglia ripieni di un impasto di ortiche e ricotta e conditi con burro, parmigiano reggiano e salsa di pomodoro o carne.

PreparazioneMateria PrimaSfoglia, ripieno di ortiche, ricotta,parmigiano reggiano, burroLavorazioneLessare le ortiche per circa 10 minuti, dopo averle ben lavate. Strizzarle e tritarle il più finemente possibile, rosolarle in un soffritto di cipolla, aglio, lardo e burro. Insaporire bene. Fuori dal fuoco aggiungere la ricotta precedentemente lavorata con un cucchiaio di legno affinchè on ci siano grumi e parmigiano reggiano grattugiato a volontà. Essendo l’ortica assai spugnosa e assorbendo molto condimento potrebbe anche occorrervi una quantità di burro maggiore di quella da noi fornita. Tirare una sfoglia non troppo sottile e procedere al riempimento dei tortelli con pesto nel modo solito. Cuocere in abbondante acqua salata e servire con burro, parmigiano e salsa di pomodoro o carne.

RicetteIori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985. pag.69Ingredienti per 8-10 persone:per il ripieno: 1 kg. Di ortiche (raccolte nei mesi di marzo e aprile, utilizzando solo la parte alta della pianta), 400 g. di ricotta, 50 g. di burro, 50 g. di lardo.Lessare le ortiche per circa 10 minuti, dopo averle ben lavate. Strizzarle e tritarle il più finemente possibile, rosolarle in un soffritto di cipolla, aglio, lardo e burro. Insaporire bene. Fuori dal fuoco aggiungere la ricotta precedentemente lavorata con un cucchiaio di legno affinchè on ci siano grumi e parmigiano reggiano grattugiato a volontà. Essendo l’ortica assai spugnosa e assorbendo molto condimento potrebbe anche occorrervi una quantità di burro maggiore di quella da noi fornita. Tirare una sfoglia non troppo sottile e procedere al riempimento dei tortelli con pesto nel modo solito. Cuocere in abbondante acqua salata e servire con burro, parmigiano e salsa di pomodoro o carne.

Cenni storici e curiositàDa “I prodotti tipici della Provincia di Reggio Emilia alla tavola di Matilde di Canossa” – Asse 3 – Mis.341 Acquisizioni di competenze e animazione – Reggio Emilia, luglio 2010. pag. 86Anche il tortello può essere considerato una pietanza medioevale per eccellenza, quindi meritevole di rientrare nel novero dei prodotti matildizzabili. La sua tradizione affonda nel passato storico italiano e trova la sua nascita nella filosofia del riciclo tipico delle epoche passate, allorquando non si poteva, vista la scarsità dei prodotti, buttare via nulla riguardasse la tavola. Proprio per questo motivo sembra sia nata l’usanza delle paste ripiene, tortelli, ravioli, cappellacci, agnolotti e quant’altre presenti in maniera massiccia nella tradizione gastronomica di differenti città. Per quanto riguarda il tortello, la culinaria storica sembrerebbe attribuire ad esso un’origine di poco posteriore all’anno Mille, in particolare nel XI secolo e derivante dalla cultura longobarda, nella quale il radicato nomadismo che ne stava alla base, la obbligava a riciclare ogni cibo che veniva consumato. Nasce quindi la necessità di recuperare le carni consumate in umido o arrosto, i formaggi freschi, che diventano elemento principale di timballi, tortelli e pasticci, che permettevano alla sfoglia o pasta fresca di avvolgere un ricco ripieno. I tortelli nati per necessità, diventano anche l’occasione di essere riempiti con quello che la natura offriva sul momento e da qui i vari ripieni di bietole, spinaci, altri erbaggi, o persino dolci, caratterizzati da miele, frutta candita, marmellata…A sottolineare lo stretto legame tra il tortello e la tradizione culinaria reggiana, si deve ricordare che Matilde di Canossa nella documentazione storica giunta sino a noi, si firma come professante legge longobarda, denunciando l’origine germanica della sua famiglia. Ciò permette noi di ipotizzare senza sbagliare, che nella mensa matildina la tradizione del tortello, che spesso veniva condito con formaggio fresco, burro o ricotta, non Parmigiano Reggiano, che arriverà un secolo più tardi, fosse ben conosciuta.

Tortelli di zucca alla reggiana, Turtei ed zoca

Area di produzioneSecondo l’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna il territorio sarebbe l’intera Provincia reggiana. In realtà i tortelli di zucca si fanno in maniera simile in gran parte della bassa padana, in particolare a Ferrara, Mantova, Modena e Parma.

Materia PrimaSfoglia, ripieno di zucca, noce moscata, parmigiano reggiano, burro

RicetteGosetti della Salda Anna, Le ricette regionali italiane, Milano, La cucina italiana, 1967. Pag. 420Ingredienti:per la pasta: farina bianca, circa 350 gr., 3 uova;per il ripieno: zucca gialla cotta al forno 1 Kg., parmigiano-reggiano grattugiato gr. 200 mezza noce moscata, 3 o 4 cucchiaiate di “savor”, sale e pepe.Per il condimento: burro, grana reggiano grattugiato.Pulire al zucca già cotta, poi tagliarla a pezzetti ed impastarla al parmigiano, unendo un cucchiaino da caffè di sale, un pizzico di pepe, mezza noce moscata grattugiata ed il “savor”. Lavorare bene e a lungo il composto e. Preparare la pasta e stenderla facendo una sfoglia abbastanza sottile. Tgliare la sfoglia in quadrati di circa 8 cm. di lato: su ognuno deporre al centro un cucchiaino di ripieno; piegare poi la pasta, facendo combaciare gli angoli e premerla bene tutt’attorno affinchè cuocendo i tortelli il ripieno non esca. Risulteranno dei rettangoli di cm.8×4. Poco prima del pranzo lessarli in abbondante acqua salata e in pieno bollore immergendoveli uno alla volta. Scolarli con il mestolo forato, togliendoli leggermente al dente: sistemarli a strati in una zuppiera condendo ogni strato con burro crudo (o fatto solo fondere) e abbondante grana grattugiato. Lasciare riposare i tortelli per 2 o 3 minuti e poi servirli.
Ferrrari Marta “Ricette e racconti della mia Reggio”, Cadelbosco di Sopra, Conad Emilia ovest, 1993. Pag.48Ingredienti:Per il pesto: 2 kg. di zucca cruda, 50 g. di amaretti non di nocciole ma di mandorle dolci e amare, 1 pizzico di noce moscata, 3 buone manciate di grana, sale, pepe bianco q.b.,limone grattugiato a piacere, 100 g. di burro.Per la sfoglia: farina 4 hg., 4 uova, 1 cucchiaio di olio, 1 cucchiaio di latte a piacere, 1 pizzico di sale.…alla polpa di zucca cotta e asciugata si aggiungono gli amaretti, in precedenza ben pestati, un pizzico di noce moscata, (a piacere una spruzzatina di pelle di limone grattugiata), sale, pepe il tutto coperto da buon grana. Stendete sul tagliere la sfoglia piuttosto sottile, ritagliate dei quadrati né troppo piccoli, né troppo grandi, ponete al centro del quadrato una noce dipesto e ripiegate. Cuocete in abbondante acqua salata a turno, buttando nell’acqua un tortello alla volta. Condite a strati con burro freschissimo e grana.

Cenni storici e curiositàDa “I prodotti tipici della Provincia di Reggio Emilia alla tavola di Matilde di Canossa” – Asse 3 – Mis.341 Acquisizioni di competenze e animazione – Reggio Emilia, luglio 2010. pag. 86Anche il tortello può essere considerato una pietanza medioevale per eccellenza, quindi meritevole di rientrare nel novero dei prodotti matildizzabili. La sua tradizione affonda nel passato storico italiano e trova la sua nascita nella filosofia del riciclo tipico delle epoche passate, allorquando non si poteva, vista la scarsità dei prodotti, buttare via nulla riguardasse la tavola. Proprio per questo motivo sembra sia nata l’usanza delle paste ripiene, tortelli, ravioli, cappellacci, agnolotti e quant’altre presenti in maniera massiccia nella tradizione gastronomica di differenti città. Per quanto riguarda il tortello, la culinaria storica sembrerebbe attribuire ad esso un’origine di poco posteriore all’anno Mille, in particolare nel XI secolo e derivante dalla cultura longobarda, nella quale il radicato nomadismo che ne stava alla base, la obbligava a riciclare ogni cibo che veniva consumato. Nasce quindi la necessità di recuperare le carni consumate in umido o arrosto, i formaggi freschi, che diventano elemento principale di timballi, tortelli e pasticci, che permettevano alla sfoglia o pasta fresca di avvolgere un ricco ripieno. I tortelli nati per necessità, diventano anche l’occasione di essere riempiti con quello che la natura offriva sul momento e da qui i vari ripieni di bietole, spinaci, altri erbaggi, o persino dolci, caratterizzati da miele, frutta candita, marmellata…A sottolineare lo stretto legame tra il tortello e la tradizione culinaria reggiana, si deve ricordare che Matilde di Canossa nella documentazione storica giunta sino a noi, si firma come professante legge longobarda, denunciando l’origine germanica della sua famiglia. Ciò permette noi di ipotizzare senza sbagliare, che nella mensa matildina la tradizione del tortello, che spesso veniva condito con formaggio fresco, burro o ricotta, non Parmigiano Reggiano, che arriverà un secolo più tardi, fosse ben conosciuta.Da Ferrrari Marta in Ricette e racconti della mia Reggio, Cadelbosco di Sopra, Conad Emilia ovest, 1993Piatto che appartiene alla cucina povera, genuina, una minestra nella quale viene accostato il dolce al salato. La ricetta appartiene anche alla vicine Parma, Mantova, Modena.Nei testi autorevoli di gastronomia, ho trovato l’aggiunta di mostarda di mele o di “savurètt”ma, per conoscenze acquisite, ritengo che i tortelli di zucca alla reggiana non includano nel pesto né “savurètt” né mostarda.

Sfoglia dell’Emilia-Romagna, Spója, Spòia

Area di produzionetutto il territorio della Regione Emilia-Romagna

DescrizionePer “sfoglia” si intende il risultato finale della lavorazione di un impasto di farina di grano tipo 00 e di uova fresche.La proporzione è di circa un etto di farina per ogni uovo.L’impasto avviene attraverso la rottura delle uova nello spazio creato in modo circolare al centro della farina.La lavorazione avviene rigorosamente a mano finché si ottiene un impasto elastico e senza grumi.La “sfoglia” viene stesa con un matterello di legno su di un tagliere, parimenti di legno.

Cenni storici e curiositàLa preparazione della pasta onde si fanno le tagliatelle – la “sfoglia”, in dialetto spòia – richiede un complesso d’attenzioni e di cure che sono il segreto, o la prerogativa, dei cuochi e delle massaie d’Emilia e di Romagna. E’ composta di farina di puro grano, ben setacciata, e d’uova freschissime, convenientemente manipolata e lavorata a braccia e tirata col matterello: essa è soda, fragrante, saporosa. (Provincia di Bologna n.d.r.)La preparazione della pasta fatta in casa è anche in Romagna un’operazione veramente rituale per le cuoche e le massaie: pura farina di grano ed uova, lavorate a braccia, e tirate a matterello, danno la sfoglia sottile, tenera ed insieme consistente che è l’elemento essenziale delle più gustose minestre in brodo ed asciutte della regione, di fritti e di dolci svariatissimi. (Provincia di Forlì-Cesena n.d.r.)Touring Club Italiano, Guida Gastronomica D’Italia, Milano 1931;
****Come in tutta l’Emilia, in Romagna le minestre rappresentano le più importanti specialità gastronomiche.La sfoglia fatta in casa, la spoja, con farina di grano ed uova fresche, lavorata sul tagliere e spianata a suon di matterello e “sugo di gomiti”, ne è la insostituibile materia prima e rappresenta il caposaldo della nostra cucina tradizionale.Famosa e celebrata, essa è una della massime illustrazioni della Gastronomia italiana, specie nella versione di tagliatelle, non mai abbastanza lodate: larghe o strette siano, ma lunghe, assolutamente lunghe. Quelle corte e spezzate sono il naufragio della massaia incapace. Sentenzia l’Artusi: “Conti corti e tagliatelle lunghe”.Tagliatelle dunque, e pappardelle, stricchetti, quadrettini, malfattini, maltagliati, che sono le più semplici fogge in cui le nostre donne laboriosamente trasformano la bella sfoglia ampia, gialla, tondeggiante, compatta, “tirata” con fatica di braccia ed ondeggiar di fianchi, distesa a prosciugare un poco sul tagliere con ampio lembo pendente di fuori…………………..Fare la sfoglia non è, come il profano potrebbe pensare, affare da poco. Vi sono donne che da decine d’anni la fanno, ma non come si deve.Anzitutto l’impasto (e’ spassèl) deve risultare omogeneo, sodo, alquanto elastico, il che richiede lungo e vigoroso rimenare; indi la spianatura, cioè l’assottigliamento a forza di matterello (e’ stciadùr), che esige mano robusta e sperimentata, occhio vigile, senso della misura: poiché la sfoglia deve essere tirata più o meno sottile a seconda del tipo di minestra che con essa si vuol preparare.A volte succede che nel laborioso spianare, tirando qua e là e rigirando la sfoglia, scappino alla massaia buchi o strappi. Ciò rappresenta una non lieve umiliazione per lei, che brontolando tra i denti cerca di cancellare il misfatto saldandovi sopra un pezzetto di sfoglia e spianando affannata e rapida fino a far scomparire le tracce de rappezzo.Nessuna macchina potrà mai eguagliare il lavoro della sfoglia fatta in casa; è un’arte questa e non può uscire che dalle mani. Conosciamo bene molti tipi di tagliatelle all’uovo, di fabbrica. Sono buone, sono sode, tengono la cottura, ma quella lievissima, importantissima granulosità della superficie non c’è ed hanno sempre alcunché di liscio e di scivoloso che il buongustaio tollera ma non apprezza.Eugenio Cavazzuti, poeta nostrano, così descrive, in scarna sintesi, come debbono essere fatte le tagliatelle:“Sôl d’öv e ’d fiôr ‘d faréna,Sol di uova e di fior di farina,amörti duri.impastate sode;La spója ch’ la sèpia grossa; e lêrghi un did:la sfoglia sia spessa e larghe [le tagliatelle] un dito,pròpi a la cuntadéna”.proprio alla (maniera) contadina.
C. Contoli, Guida alla veritiera cucina romagnola, Officine Grafiche Calderini, 1972
****Sfoglia e pastaIl pianeta dell’”amnëstra” romagnola ruota su se stesso e gira attorno al sole della sfoglia, gialla di torli d’uovo, pergamenosa per miniarci sopra le fogge d’una plurisecolare fantasia, ruvida perché vi si fissino i colori (e i sapori) dei condimenti.Fior di farina e torli, cuori del frumento e delle uova colpiti dalla freccia a matterello di un cupido in gonnella, fan l’amore sul tagliere… e quando gli ardori son sopiti ed è finito il tempo dell’attesa, la levatrice “azdora”, assiste al lieto evento.Saranno quadrotti farciti a cappelletti o “orecchioni”, grandi rettangoli per lasagne al forno e piccoli per “stricchetti” e “garganelli”, quadrucci, losanghe per maltagliati, minutaglia per manfettini, strisce per pappardelle e tagliatelle, striscioline per tagliolini, spezzoni per lunghetti?Attribuire alle amnëstre, in brodo o asciutte che siano, una simbologia che risponda a cose di Romagna, significa esercitarsi in immagini d’ambiente.I cappelletti gonfi e rotondi sono i colli che bodano la via Emilia e la via Emilia stessa è una tagliatella srotolata dall’Adriatico al Santerno; gli “orecchioni” sono terre opime del piano; le lasagne sono cataste ordinate dilegna e schiappe di legno sono i “sbrofaberba”, gli “stricchetti” sono una coppia di ballerini del “liscio”, i “garganelli” maccheroni tirati sul pettine in onore della trachea dei polli, i “curzul” vincastri da fascine, i quadrucci coriandoli di carnevale, i passatelli che galleggiano sul brodo il mare pescoso, un risotto all’onda è la valle; la polenta multiforme e tuttofare è colle, terra, mare. (Renzo Amadei)G. Pozzetto, La cucina romagnola, Padova, F. Muzzio Editore, 1997
****…..Si trovano tra di noi delle massaie inarrivabili nel fare la sfoglia (la spoia).Una ragazza che non sappia tirare la sfoglia e cucirsi la camicia, da sposa non sarà mai una buona massaia, dicevano i nostri vecchi, e non avevano poi tutti i torti.In Romagna si preferisce in generale la minestra all’uovo manipolata sulla spianatoia a quella delle fabbriche, perché più buona e più nutriente.A. Sassi, “Alla tavola dei romagnoli”, Riviera Romagnola, n. 9, 28 febbraio 1925;
****Spója, sf. Sfoglia. Il notissimo foglio di farina di grano, intrisa con acqua (meglio se calda), o uova sole, di forma circolare, da cui si ottengono tutte le minestre, lunghe, o corte, fatte in casa.G. Quondamatteo, Grande dizionario (e ricettario) gastronomico romagnolo, Imola, Grafiche Galeati, 1978****………………Proprio per la loro complessità (ma si deve riconoscere, sempre, o quasi, elegante e non involgarita da chi vuol strafare), le ricette emiliane sono, fra quelle del nostro Paese, le più adatte ad allinearsi con quelle della grande cuisine.Il fenomeno di tale trionfo è così ampio e complesso da non consentire un semplice esame tecnico, basato sul rapporto immediato fra materie prime, accostamenti e sapori equilibrati, frutto soltanto di abilità e inventiva di cuochi. Se la cucina emiliana e romagnola appaiono così attraenti, intime, e, diciamolo alfine, sensuali, lo devono al rapporto immediato, cordiale, diretto stabilitosi qui più che altrove, fra belle donne e buona tavola………………..Tuttavia, all’educato distacco delle torinesi, alla scontrosità toscana, all’irruenza trasteverina (la storia dello spillone da capelli che si trasforma in arma da offesa e da difesa) la donna bolognese contrapponeva una cordialità quasi badiale, una accoglienza materna espressa sì dal largo sorriso, ma anche da taiadeli sotti a piatti colmi. Fare le tagliatelle e fare all’amore, sono, per queste donne ammirevoli, due azioni assolutamente parallele. Le leggende legate alla “sfoglia” (il tortellino modellato sull’ombelico di Venere; le chiome di Lucrezia Borgia, tema al cuoco per i tagliolini sottili) hanno sempre un contenuto sanamente erotico, accompagnato da un Leitmotiv sempre caro agli innamorati italiani: “Mo’ tu te ne stai tranquillo, in santa pace, e io ti preparo qualcosina”………………………………….Da quel ceppo vengono le mogli dei repubblicani “storici” che si sposano solo in municipio e vogliono il funerale civile, coi tre giri attorno al monumento di Garibaldi prima della cremazione. Ma anche per quelle amazzoni, la “sfoglia” è una espressione di vita. Tutt’al più adottano i princìpi esposti, in una “tirata” celebre, dalla Polonia, moglie di Sandrone, maschera modenese, quando, durante il carnevale o nel teatro dei burattini, proclama i suoi criteri sul reggimento della famiglia: “Care le mie signore, ricordatevi che la casa va avanti con la “cannella” che tenete in cucina. Se il marito l’è buono, gli fate le tagliatelle: se fa il birichino, la “cannella” gliela date sulla testa”…………………………..Il va e vieni delle dita femminili su impasto, sfoglia e “cannella” richiama la premura delle stesse mani nel rimboccare le coperte o nell’accarezzare. Alla “sfogline” di Rubiera o di Imola può essere ripetuto l’elogio che Giovanni Ansaldo scrisse per celebrare le ventiquattro bellezze della torta pasqualina della Liguria: “Sigillo messo sulla pasta da amate dita, bellezza spirituale creata da care mani industriose”. Gran bevitore di Albana e Sangiovese, pronto a correr dietro, con propositi bellicosi, alle tedeschine e alle svedesi, il dongiovanni della Porrettana ha bisogno, un bel momento, di sentirsi dire: “Ma lo sai che sei ancora un ragazzino? Adesso mettiti lì tranquillo, che io faccio la sfoglia”.Nel 1965, per diversi mesi, curai una rubrica di divagazioni gastronomiche per la radio. Fra gli ospiti, arrivò un giorno Giovanni Poggi, gran prevosto della dotta confraternita del Tortellino e, come tale, continuatore di quella cordialità petroniana, cardinalizia e popolaresca di cui Bologna è alma mater. A una giovane interlocutrice che gli chiedeva il segreto della sfoglia, Poggi ispiratamente rispose: “Signora, preparare la sfoglia è sooprattutto opera spirituale: deve essere tonda come la luna e leggera come una carezza”. Ossia,e qui la voce divenne “tecnica”, “sei decimi di millimetro”.Questo suo ruolo di accompagnatrice dei riposi del guerriero, la sfoglia lo adempie sovente.Negli anni (adesso li definiamo oscuri) del colonialismo, il mio amico capitano Ricciardi comandava un battaglione di ascari libici nel Gebel cirenaico. Al seguito, col resto, Ricciardi si portava anche una ragazza tripolina, già allieva delle suore, appassionata e battagliera. Durante gli scontri coi ribelli, lei ricaricava i moschetti di goitana. Ricciardi: dopo, mentre i muntaz e i buluk-basci, ossia i sottufficiali indigeni, riordinavano i plotoni, contando le perdite e disponevano per la fucilazione dei ribelli catturati, l’amazzone, usando una bottiglia al posto del mancante mattarello, preparava la sfoglia per tagliatelle e ravioli.Massimo Alberini, Emiliani e Romagnoli a tavola – Itinerario gastronomico da Piacenza a Viserba – Longanesi & C. – maggio 1969 Cromotipia E. Sormani – Milani

ManifestazioniSagra delle sfogline – Massalombarda Ravenna (Ra) – fine Agosto****Sfoglino d’oro è una gara organizzata dal Comune di Bologna e dedicata alla sfoglia, che vuole premiare lo sfoglino che dimostra maggiore abilità ed esperienza nel prepararla.****Il Matterello d’oro (Bologna, presso lo Studio Tv dell’Antoniano, lo stesso dello Zecchino d’Oro)
****Il Tortellino d’Oro (Bologna)

Gnocco di patate, Gnocchi di patate, Sgranfignone, Macarun s’al pateti, Gnòc

Area di produzioneSi producono in tutta la Regione. Nelle schede dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna si segnala come prodotto nelle provincie di Forlì-Cesena, in Romagna e, col nome di Sgranfignone, nel Comune di Medesano (PR).

PreparazioneMateria primaPatate, Farina, Uova, SaleDi particolare interesse quelli realizzate con patate di origine locale, come le cosiddette patate “vecchie” di Medesano (PR) a pasta particolarmente bianca (ricche di amido e quindi tendenzialmente farinose), o le patate di Montescudo (RN).
LavorazioneLavorazione a mano dell’impasto finalizzata alla realizzazione di “rotoli”, destinati ad essere successivamente tagliati a tocchetti, il tutto rigorosamente a mano, con il risultato finale che consiste in singoli “sgranfignoni”. Il prodotto ottenuto non richiede stagionatura, può essere utilizzato fresco oppure conservato in frigo o in congelatore e utilizzato successivamente.

RicetteGli gnocchiTra le minestre più diffuse vi sono gli gnocchi di patate che si possono fare in diversi modi.1 – Lessate le papate, spellate e passate rapidamente con l’apposito ferro (quello dei passatelli), si aggiunge quel tanto di farina che tenga unito l’impasto e, per renderlo più sodo, vi si unisce un uovo. Si dimena rapidamente la pasta così ottenuta, si allunga in tanti bastoncini del diametro di un pollice, si taglia a tocchetti di 2-3 centimetri, che si infarinano e – sempre rapidamente – si passano sul rovescio di una grattugia calcandoli con il dito a metà lunghezza in modo da ricavarne una specie di conchiglietta. Si gettano nell’acqua bollente salata. Appena affiorano si tolgono con il ramaiolo, si lasciano sgrondare e si versano nel piatto di portata e, a strati, si condiscono con formaggio parmigiano (prima) e ragù di carne (poi).2 – Fatto l’impasto come al n. 1, escluso l’uovo, ma con un po’ più di farina, si aggiunge un pizzico di lievito secco. Si condisce a piacere.G. Quondamatteo, Grande dizionario (e ricettario) gastronomico romagnolo, Imola, Grafiche Galeati, 1978;
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Gnocchi di patateGli gnocchi di patate, chiamati da noi impropriamente ma insostituibilmente macaron d’patéta, compaiono qualche volta sulle mense romagnole, e si prestano a varie versioni.Le patate, lessate e schiacciate, si impastano con farina e uova. C’è chi omette le uova, ma noi ne consigliamo almeno una ogni 5-6 persone. L’impasto ottenuto viene rifilato man mano a forma di lungo serpentello grosso un dito circa, che va tagliato a pezzetti, a loro volta passati sulla grattugia o sui denti di una forchetta a prendere rugosità o rigatura, oppure semplicemente segnati con la punta dell’indice a farne un piccolo incavo.Si servono con burro e pomodoro, o con prosciutto e pomodoro. Quest’ultima presentazione, a nostro parere, è la vera “morte” degli gnocchi. Col ragù ci sembrano assai meno pregevoli.C. Contoli, Guida alla veritiera cucina romagnola, Officine Grafiche Calderoni 1972
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Gnocchi di patateSe gli gnocchi sono buonissimi al ragù, come al burro e pomodoro, il nostro parere è che sono assolutamente superiori se conditi così:Se avrete fatto gnocchi per sei persone, tagliate a dadolini piccoli 2 etti di prosciutto magro e grasso, ed altrettanto farete con mezz’etto di buona coppa d’estate. Tritate finemente 20 grammi di finissima mortadella e ponete il tutto in una teglia con una noce di burro, facendo rosolare lentamente e strizzando ogni tanto col cucchiaio di legno. Aggiungete uno spicchio d’aglio che non dimenticherete di togliere non appena le carni saranno moderatamente dorate. Versate quindi pomodoro passato ed un tantino di conserva sciolata in poca acqua salata.Regolate di pepe e lasciate bollire quietamente sino ad ottenere una salsa alquanto densa.Condite con essa gli gnocchi ben scolati e cospargete di parmigiano abbondante.C. Contoli, Guida alla veritiera cucina romagnola, Officine Grafiche Calderoni 1972
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Macarun s’al pateti (gnocchi)Si realizzavano, più o meno, alla maniera di oggi, impastando farina e patate schiacciate (o passate al ferro dei passatelli), in parti pressoché uguali. La variabile dipendeva dalle patate, dal loro stato di umidità. La pasta prodotta si divideva e si assottigliava a “bigoloni”, tagliati poi a pezzi. I singoli macarun venivano resi molto ruvidi dalla grattugia, o scavati a conchiglia con un dito: e ciò perché, una volta cotti e scolati, vi si attaccasse meglio il sugo al pomodoro (o il ragù di carne), prima dell’abbondante sfurmajeta.Vittorio Tonelli, A Tavola con il contadino romagnolo, 1986 Grafiche Galeati
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Gnocchi di patate alla romagnolaGrammi 600 di patate lessate dette “le tonde di Ravenna”,300 grammi di farina,un pizzico di sale.Lavorare il tutto poi creare gli gnocchi, cuocerli e condirli con un soffritto a piacimento.Giovanni Manzoni, Così si mangiava in Romagna, Walberti Edizioni 1977;
****89. Gnocchi di patateLa famiglia de’ gnocchi è numerosa. Vi ho già descritto gli gnocchi in brodo del N. 14: ora v’indicherò gli gnocchi di patate e di farina gialla per minestra e più avanti quelli di semolino e alla romana per tramesso o per contorno, e quelli di latte per dolce.
Patate grosse e gialle, grammi 400Farina di grano, grammi 150
Vi noto la proporzione della farina per intriderli, onde non avesse ad accadervi come ad una signora che, me presente, appena affondato il mestolo per muoverli nella pentola non trovò più nulla; gli gnocchi erano spariti. – O dov’erano andati? – mi domandò con premurosa curiosità un’altra signora, a cui per ridere raccontai il fatto, credendo forse che il folletto li avesse portati via.Non inarchi le ciglia, signora – risposi io – ché lo strano fenomeno è naturale: quelli gnocchi erano stati intrisi con poca farina e appena furono nell’acqua bollente si liquefecero.Cuocete le patate nell’acqua o, meglio a vapore e, calde bollenti, spellatele e passatele per istaccio. Poi intridetele colla detta farina e lavorate alquanto l’impasto colle mani tirandolo a cilindro sottile per poterlo tagliare a tocchetti lunghi tre centimetri circa. Spolverizzateli leggermente di farina, e, prendendoli uno alla volta, scavateli col pollice sul rovescio di una grattugia. Metteteli a cuocere nell’acqua salata per dieci minuti, levateli asciutti e conditeli con cacio, burro e sugo di pomodoro, piacendovi.Se li volete più delicati cuoceteli nel latte e serviteli senza scolarli; se il latte è di buona qualità, all’infuori del sale, non è necessario condimento alcuno o tutt’al più un pizzico di parmigiano.Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, introduzione e note di Piero Camporesi, Torino, Einaudi, 1995
****GnocchiFate cuocere in acqua salata un chilo di patate. Cotte che siano, sbucciatele e passatele allo schiacciavate. Impastate insieme due uova, un po’ di sale, 80 g di burro e del formaggio grattugiato. Lavorate la pasta versandovi sopra, poco alla volta, della farina (seicento grammi sono più che sufficienti per sei persone).Fate dei bastoncini grossi quanto un dito di media grossezza, e tagliateli in tocchetti, che premerete con un dito contro una forchetta o dorso della grattugia per dargli forma ovoidale e superficie arricciata.Metteteli a cuocere in un’ampia pentolas, avendo cura di cuocerli un poco alla volta. Quando vengono a galla, gli gnocchi sono cotti.Scolate e condite con ragù di carne e parmigiano. V’è chi li condisce con burro fritto e formaggio. Questione di gusti.G. Quondamatteo, L. Pasquini, M. Caminiti “Mangiari di Romagna”, Grafiche Galeati – Imola 1975****
Gnocchi di patateLessate in acqua salata una certa quantità di patate; sbucciatele, schiacciatele ed impastatele con farina e uova insieme ad un po’ di burro ed a formaggio grattugiato. Fate dei bastoncini grossi un dito; tagliateli in piccoli segmenti e metteteli a cuocere in una pentola fino a che vengano a galla.Serviteli con ragù o burro e pomodoro e parmigiano.E’ un particolare piatto che si serve in grandi occasioni. Alcuni condiscono gli gnocchi con prosciutto, mortadella tritata, aglio. Ma questi non sono gli gnocchi classici.Mario Tabanelli, Romagna in Cucina, luglio 1988 – Magalini Editrice;
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Gnocchi di patateGnóc
Per 4 persone:g 500 di patate gialle di sabbiag 150 di farinaun uovo
Lessare le patate, pelarle, schiacciarle ed impastarle con la farina e l’uovo. Lavorare la pasta in tanti cilindri e tagliare a tocchetti. Calcare col dito nel mezzo di ognuno come per ottenere delle piccole conchiglie. Calare gli gnocchi in acqua bollente salata e raccoglierli appena affiorano in superficie, condire con sugo a piacere. Un tempo si usava condirli col sugo di pomodoro fatto con la conserva, sugo matto, o col sugo di salsiccia e pancetta.
Le patate di sabbia sono tipiche di Belluria ed erano vendute in tutta Italia. Alvaro Antolini, detto ad Cucini, commerciante di patate ed e’ Gag ad Matiàon andavano a prendere i semi nel Fucino (AQ), un’area bonificata dal Principe di Torlonia proprietario della Tenuta Torre di San Mauro Pascoli.E’ magnè. I mangiari negli usi dei contadini romagnoli, dai racconti di R. Giorgetti e di sua mamma M. Manuzzi, a cura di D. Bascucci [et al.], Rimini, Panozzo Editore, 2002;
Sgranfignone di MedesanoIngredienti dell’impasto: 1 Kg di patate, 300 gr. di farina, 1 uovo intero, sale.Preparazione: Si procede lavando le patate della qualità coltivata localmente, senza sbucciarle, mettendole in una pentola con acqua salata fino a raggiungere la cottura. Ancora calde le patate vanno sbucciate, schiacciate e messe su un piano di lavoro ben infarinato; a quel punto si aggiunge un pizzico di sale, la farina e si impasta il tutto fino ad ottenere un composto compatto ma allo stesso tempo soffice.Quindi si aggiunge un uovo e si continua ad impastare fino ad ottenere un impasto senza grumi e compatto. Si divide l’impasto in tanti rotoli dello spessore di 2-3 centimetri, si tagliano gli sgranfignoni riponendoli su una superficie o un vassoio infarinato, quindi ogni singolo gnocco viene passato su una forchetta premendoli col pollice per ottenere la tipica filettatura sul dorso e la concavità interna che permette di assorbire bene il condimento.Una volta finiti,lasciate riposare gli sgranfignoni per 15 minuti, il tempo per mandare in ebollizione l’acqua di cottura. Si fanno cuocere avendo l’accortezza di utilizzare una pentola abbastanza grande con l’acqua salata: si scolano quando salgono a galla e si condiscono.Condimento: gli sgranfignoni vengono conditi in modo semplice utilizzando burro e formaggio Parmigiano-Reggiano stravecchio (anche di 40 mesi), prodotto per tale utilizzazione nel caseifici della zona. Una variante tradizionale prevede anche il condimento con sugo di pomodoro, facendo rosolare in poco burro la polpa di pomodoro insieme a basilico fresco, il tutto destinato ad essere infine abbondantemente cosparso di Parmigiano Reggiano (meglio se il solito “stravecchio”).

Cenni storici e curiositàA Montescudo (RN) si celebra da più di 40 anni lasagra della patata e festa degli gnocchi, nel mese di agosto.Lo sgranfignone della tradizione medesanese, preparato con farina di frumento e patate di una varietà particolare (che ne garantisce la morbidezza), è un prodotto della cucina popolare le cui radici sono piuttosto antiche, che trovano traccia in alcuni aneddoti e canti polari risalenti alla seconda metà del 1800.Si racconta che….”Una leggenda popolare narra che nei secoli passati, nel giorno di S. Crispino, ossia il 25 ottobre, i maggiorenti locali offrivano un pranzo ai loro “villani”, durante il quale veniva assaggiato del vino nuovo, si gustava il sugo d’uva fatto di uva spremuta e bollita con farina e zucchero, ed il piatto principale era rappresentato dallo “sgranfignone”, originariamente un grossolano pastone realizzato con patate e farina di frumento. Affinatosi nel tempo, con l’aggiunta di altri ingredienti, lo sgranfignone veniva offerto dai monaci del posto a chi chiedeva ristoro; ed era distribuito gratuitamente alle famiglie più povere durante i periodi difficili.Proprio il recupero di questa anticha tradizione culinaria locale, ha fatto emergere nella scena gastronomica di Medesano lo “sgranfignone”, gnocco di patate protagonista indiscusso da oltre 50 anni della sagra che da tale prodotto prende il nome : “ La sagra dello Sgranfignone”.La manifestazione è la più antica festa gastronomica dell’Emilia Romagna. Una lunga catena umana, oltre cinquanta persone (un altro centinaia negli altri reparti), preparano gli sgranfignoni in diretta dalla cottura delle patate al servizio dei gnocchi con i sughi preferiti.

Filastrocca: “La sgranfignoneda” da Il Pingolo – Rime…sparseA la sira ed l’AscensionIan fat la festa di Sgranfgnon.E, tut fora a lavorerC’me ‘l colonii ‘n riva al mer,con calderi e con fogonian cott su ‘n muc ed sgranfgnon!
E chi pleva e chi resgheva,chi feva fog e chi schiseva.Ian comincè a la matennaPar isar pront a ora ‘d senna;e quand e stè ora d’impastere cors lì Fredo al forner!
Gheva po’ ‘na servitùChe inveci d’on piat la nin magneva du;a ghera la Franca ‘d Paladencla serviva in ti tavlen,acsi elta e csi scavissacla ‘ smedeva c’me na bissa.
Le ste al Club ed la RisedaCl’ ha vur fer la sgranfgnonedaE par feres pu onorL’ha tot fina I sonador!!!
…………………………………
E gnu d’la genta da lontanIen gnu zo fin da VaranE tut in piaza c’me i coionPar magner e sti sgranfgnon !

Marmellata di zucca

Materia prima: zucca.

Tecnologia di lavorazione: la zucca sbucciata va tagliata a pezzetti e messa in pentola con lo zucchero nella quantità di un terzo del peso della polpa di zucca, succo di un limone e buccia grattugiata. Si lascia bollire fin tanto che non ha raggiunto la giusta consistenza. Raffreddata si mette nei barattoli riponendo al riparo dalla luce in luogo fresco.

Maturazione:

Area di produzione: comprensorio di Carpi e altre località della Padania.

Calendario di produzione: settembre.

Note: tradizionalmente si consuma per la colazione del mattino, per farcire i tortellini e per le crostate. Curioso come, nonostante venga riposta nei barattoli quando é fredda, la conserva non si deteriori.

Salsa alle verdure

Materia prima: pomodoro, carote, fagiolini, sedano, peperoni, cipolle.

Tecnologia di lavorazione: si fanno bollire i pomodori per due ore, si passano al passaverdure e si aggiungono le verdure una alla volta a distanza di 20 minuti: prima le carote tagliate a pezzetti, poi il sedano, i fagiolini, le cipolle ed infine i peperoni. Si lascia bollire ancora per 30 minuti aggiungendo un bicchiere d’olio. Si invasa ancora bollente, si chiudono i barattoli ermeticamente, si coprono con un panno e si lasciano raffreddare.

Maturazione:

Area di produzione: prov. di Modena.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: questa salsa serve per accompagnare il lesso, piatto tipico della zona.

Salsa da lesso

Materia prima: cipolle, carote, prezzemolo, peperoni.

Tecnologia di lavorazione: tritare finemente (in piccoli pezzi) le verdure. Mettere a bollire l’aceto con sale e zucchero e quando bolle aggiungere le verdure lasciandole cuocere per 10 minuti. Scolare e mettere nei vasi con olio.

Maturazione: 20-30 giorni.

Area di produzione: prov. di Modena.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: cannella, noce moscata, carote, pepe lungo, buccia d’arancio, zucchero sciolto con sugo d’agresto, aceto rosato erano gli ingredienti di una salsa per lessi in grande uso nella metà del ‘700.

Salsa modenese

Materia prima: cavolfiori, fagiolini, cipolline, carote, sedano, peperoni.

Tecnologia di lavorazione: le verdure tagliate a pezzetti si lasciano bollire per alcuni minuti nell’aceto. Si scolano e si mettono nei vasi ricoprendo con olio.

Maturazione: 20-30 giorni.

Area di produzione: prov. di Modena.

Calendario di produzione: autunno, inverno, primavera.

Note: il lesso, oltre che con le salse di verdure dei modenesi “veraci”, viene consumato anche con la “sapa”, mosto cotto che è la base dei dolci natalizi modenesi come il pane di Natale. Mentre un tempo la sapa accompagnava la polenta dei contadini di tutta Italia.

Semiconserva di rafano

Materia prima: radice di rafano.

Tecnologia di lavorazione: la radice di rafano, dopo accurata pulitura, viene grattugiata; le si addiziona un po’ di pane grattugiato e si aromatizza con l’aceto meglio se balsamico, poi si aggiunge olio mescolando il tutto. Si mette nei barattoli coprendo d’olio. Si mantiene anche per mesi.

Maturazione:

Area di produzione: Ferrarese e Modenese.

Calendario di produzione: autunno-inverno.

Note: in alcune zone viene addolcita con il formaggio. Sembra che questa conserva sia stata portata a Modena dalla moglie del penultimo duca di questa città, di origine austriaca. La facile conservazione di questo prodotto, che pur non essendo stato sterilizzato si conserva per lungo tempo in frigorifero, si spiega con la presenza, nella pianta di rafano come in quella di tutte le piante, di sostanze aromatiche (polifenoli, acidi fitici, saponine) che caratterizzano i loro odori e i sapori, con funzione antibatterica.

Conserva di granoturco

Materia prima: pannocchie di granoturco allo stadio di maturazione cerosa, intere o
sgranate.

Tecnologia di lavorazione: si fa cuocere il mais per non più di 5 minuti. Si lascia
raffreddare conservando nei vasi di vetro in soluzione salina, a temperatura non
superiore ai 14-15°C.

Maturazione

Area di produzione: tutta la Padania.

Calendario di produzione: agosto-settembre.

Note: ii prodotto si consuma saltato in padella fino all’apertura del chicco. E’ molto
gradito alle nuove generazioni, tanto che la produzione industriale è in costante espansione.

Peperoni sott’aceto

Materia prima: peperone, della varieta “piacentino” verde da orto.

Tecnologia di lavorazione: i peperoni, previa lavatura e pulitura, sono bolliti in
aceto per 2 o 3 minuti, insieme al sale e alle spezie, che ogni famiglia sceglie sulla
base del proprio gusto. Una volta bolliti e raffreddati vengono sistemati in
damigiane a bocca larga coperti di aceto e un filo d’olio. In superficie viene
sistemato un pezzo di marmo (non poroso), che tiene pressati i peperoni evitando
il contatto con l’aria.

Maturazione: 10-15 giorni.

Area di produzione: tutta la Padania, ma con altre varietà in tutta Italia.

Calendario di produzione: agosto-settembre.

Note: il consumo viene fatto durante il periodo invernale e accompagna i lessi misti
e i piatti grassi come cotechino, zampone, lingua di vitello, ecc. Nell’alto Sannio ottengono il caratteristico nome di “pipauri”.

Tartufo in salamoia

Materia prima: tartufo sia bianco che nero.

Tecnologia di preparazione: i tartufi vengono selezionati a mano, ripuliti
dalla terra con uno spuzzolino uno per uno, lavati, messi in barattoli. Si
aggiunge la salamoia e si sterilizza in autoclave. Si conservano in lungo
fresco e buio.

Maturazione:

Area di produzione: Piemonte, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo.

Calendario di produzione: autunno, inizio inverno.

Note: oltre al tartufo hianco (Tuber magnatum pico) e a quello nero (Tuber
melanosporum) anche il tartufo estivo scorzone (Tuber aestivum) è oggetto
di trasformazione. Di colore blu-nerastro con cuticola verrucosa, si
distingue dal più pregiato tartufo nero di Norcia per la carne più chiara
tendente al bianco nocciola marmorizzato. Il melanosporurm è invece nero.
Un altro (Tuber mesentericum) è molto diffuso nella zona di Ariano Irpino
oltrechè nel Lazio, in Toscana e nel sud delle Marche e dell’Umbria, dove
viene consumato insieme a formaggi freschi di capra in insalata.

Funghi porcini sott’olio

Materia prima: funghi porcini.

Tecnologia di preparazione: i funghi porcini, dopo accurata pulitura,
vengono sbollentati per alcuni minuti in acqua, aceto e sale.
Si fanno asciugare per alcune ore. si condiscono con vari aromi, tra cui
l’aglio, che variano da regione a regione e si mettono nei barattoli ricoprendoli
di olio. Si conservano in luogo fresco al buio.

Maturazione: un mese circa.

Area di produzione: tutta l’ltalia appennica.

Calendario di produzione: autunno.

Note: con questo sistema vengono altresì conservate tutte le varietà di
funghi commestibili, a cui si aggiungono differenti erbe aromatiche.

Melone tipico di San Matteo Decima

Tipica mela della bassa modenese, ben colorata e di pezzatura medio-piccola. Oltre che da consumo fresco è ottima da cuocere.

Territorio interessato alla produzione: San Matteo Decima.

Cenni storici e curiositàNel 1303 Pier De Crescenzi, cultore della agricoltura bolognese, ne scrive nel suo trattato “Ruralium Commodorum Libri XII”. Pier De Crescenzi era nato a Bologna nel 1233 ed aveva nel suo trattato la propria ampia esperienza di questioni agrarie. Il De Crescenzi nel “Libro VI Degli Orti” al capitolo XXI tratta “de cocomeri”, al capitolo XI, tratta “del cocomero” ed infine al capitolo LXXI tratta “de melloni cioè poponi”, come documentano fotocopie di pagine di una inerente pubblicazione fiorentina del 15 luglio 1478 conservata presso la Biblioteca della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Bologna. Il De Crescenzi non dà soltanto norme di cultura ma suggerisce anche modi di degustazione delle citate cucubitacee. Si perde nella memoria dei tempi la consolidata tradizione dell’area persicetana quale coltivatrice del Melone e del Cocomero, cui con tutta probabilità si può ritenere abbai attinto il De Crescenza per le sue esperienze, area che ancora oggi mantiene intatta tale tradizione in San Matteo della Decima. Negli ultimi testimoniano la cultura del Melone nell’area persicetana le seguenti testimonianze:Nel 1833 il pittore Angeo Lamma commissionato per il decoro della volta della Sala consigliare del Consorzio dei Partecipanti di San Giovanni in Persiceto, tra i prodotti tipici della zona oltre al mais, la pesca, l’uva rappresenta anche il Melone.Nella raccolta fotografica del Sindaco Lodi (1817-1911) si può notare una sezione particolare dedicata “alla Melonia” dove sono ritratti alcuni contadini locali con Cocomeri e Meloni in abbondante quantità segno della già grande diffusione di tale coltura nella zona di San Matteo Decima; varia documentazione risalente fino ai primi del 1900 la si trova all’interno dellArchivio Storico del Consorzio dei Partecipanti di San Giovanni in Persiceto il cui territorio per la maggior parte si estende in zona San Matteo Decima.

Susina di Vignola

La “Susina di Vignola” è caratterizzata da una buona serbevolezza, elevato profumo e sapore dolce.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione della “Susina di Vignola” comprende il territorio dei seguenti Comuni:nella Provincia di Modena: Bastiglia, Bomporto, Campogalliano, Castel Nuovo Rangone, Castelfranco Emilia, Castelvetro, Formigine, Guiglia, Marano sul Panaro, Medena, Nonantola, Ravarino, San Cesario sul Panaro, San Prospero, Savignano sul Panaro, Soliera, Spilamberto, Vignola, Zoccanella Provincia di Bologna: Anzola Emilia, Baricella, Bazzano, Bologna, Castel d’Argile, Castello di Serravalle, Crespellano, Crevalcore, Galliera, Malalbergo, Minerbio, Molinella, Monte San Pietro Monteveglio, Sala Bolognese, San Giorgio di Piano, San Giovanni in Persiceto, San Pietri in Casale, Sasso Marconi, Savigno, Zola Predosanella Provincia di Ferrara: Cento, Ferrara, Poggio Renatico, Sant’Agostino

Cenni storici e curiositàI primi indizi sulla presenza del susino coltivato sono piuttosto vaghi; nella cronaca settecentesca di Domenico Belloj si legge dell’abbondanza, nel territorio di Vignola, di “…. nucibus, pomis, caeterisque tum aestivis cum autumnalibus arborum frugibus ….”(… noci, pomi, e svariati altri frutti sia estivi che autunnali….); ancora poco preciso, circa le specie arboree, è il catasto del 1786.Le prime testimonianze scritte che esplicitano la presenza della coltura del susino in Vignola risalgono alla fine del secolo scorso. Un primo documento è rappresentato da una lettera del Sindaco al direttore della cattedra ambulante di agraria di Modena, datata 22 luglio 1899; da essa si ricava che le coltivazioni legnose erano abbastanza sviluppate con prevalenza di ciliegi, susini, peschi, meli e peri.Seguono poi due articoli: il primo compare nel numero di Maggio dell’anno 1909 nella rivista “eco del Panaro” e riporta la notizia di un gravissimo attacco di bombici che danneggiano assai seriamente le drupacee e le viti allora presenti.Tali fonti ufficiali non fanno altro che legittimare una tradizione orale nelle quale il susino è presente costantemente e il cui ricordo si perde nelle generazioni passate e non è quindi da escludere che tale specie (come anche per il ciliegio) sia stata coltivata in Vignola sin da tempi ben più remoti.La susinicoltura si è andata ulteriormente espandendo a partire dall’immediato dopoguerra, con l’introduzione delle prime varietà cino-giapponesi provenienti dagli Stati Uniti. Si assiste quindi ad una crescente specializzazione degli agricoltori e degli altri operatori del settore che, nel giro di pochi anni, riescono a creare, come per le ciliegie, quell’identificazione tra il territorio in questione, di cui Vignola è il baricentro, e le susine.Al fine di tutelare questo patrimonio culturale ed economico il Consorzio della ciliegia tipica di Vignola iniziò a metà degli anni ‘80 a sperimentare l’applicazione del regime di tutela alla susina, formalizzandolo nel ‘92. la nuova denominazione diventa quindi: Consorzio della ciliegia, della susina e dalla frutta tipica di Vignola.

Pera dell’Emilia Romagna IGP

Tipo di prodotto: Prodotto frutticolo fresco ottenuto dalle varietà: Abate Fetel, Cascade, Conference, Decana del Comizio, Kaiser, Max Red Bartlett, Passa Crassana, Williams.
Esso viene ottenuto con tecniche tradizionali e rispettose dell’ambiente. Le forme di allevamento sono palmetta e fusetto; la densità consentita è di 3.000 piante per ettaro. La dimensione degli alberi deve essere tale da consentire l’ottenimento di prodotti di alto livello qualitativo; la produzione massima ammessa è di 4.500 chilogrammi per ettaro.
Ove possibile, la difesa fitosanitaria di prevalente utilizzo deve far ricorso alle tecniche di lotta integrata o biologica.
La pera dell’Emilia-Romagna all’atto dell’immissione al consumo deve avere le caratteristiche proprie delle diverse specie indicate.

Zona geografica di produzione: La zona di produzione è costituita dal territorio atto alla coltivazione della pera nelle province di Reggio Emilia, Modena, Ferrara, Bologna, Ravenna.

Curiosità storiche e letterarie: Tra le pagine raccolte come “trattati di civiltà della tavola”, Emilio Faccioli (*) trascrive testi di specialisti nelle attività coreografiche dell’imbandire la tavola o del tagliare le abbondanti portate che, nei secoli scorsi, costituivano ostentazione di ricchezza e nobiltà.Il taglio della pera è uno degli esercizi dei quali Vincenzo Cervio mostra le necessarie attenzioni e le indispensabili evoluzioni. Forse non c’entra molto con la pera dell’Emilia-Romagna, in quanto provenienza geografica, ma vale la pena di leggerlo e cimentarsi nell’opera: più complicato a dirsi che a farsi.

“Come si trincia una pera, sia di qual sorte si voglia.
Ancora che io abbia ragionato a bastanza del modo che si deve tenere per imbroccare e trinciare la mela a tal che facilmente si potrà tralassare di raggionare de la pera, per andar quella quasi imbroccata e trinciata in uno medesimo modo, ma per essere la pera un frutto tanto gentile e apprezzato molto, non ho voluto restare di ragionare di esso, se non altro, almeno per mostrarvi un altro modo d’imbroccare e di trinciarlo ancora.
Volendo adunque trinciare la pera, sia di qual sorte si voglia, tu piglierai la forcina picciola e il coltello picciolo delle frutte e con la punta del coltello tu infilzerai la pera; ma nota che in dui luochi potrai porre la punta del coltello: l’uno sarà di sotto, a canto il fiore, alzando il pero in alto con il picollo di sopra; avendo poi la forcina con li branchi volti disopra e con buona grazia tirando la pera da basso la imbroccherai nel mezo del fiore nella forcina; l’altro modo sarà di porre la punta del coltello nel mezo della pera per il fianco, ma che il taglio guardi in fuora voltando la parte del picollo di sopra, tenendo la punta della forcina volta di sopra,alzando un poco la pera in alto, con grazia la imbroccherai nella punta della forcina, giusto nel mezo del fiore, facendo che il picollo resti disopra; e ognuno di questi dui modi che tu imbrocchi starà bene, purché tu lo facci con grazia; dipoi con il taglio del coltello verso te, tenendo sempre nelle mani di sorte che tu possa arrivar col dito alla punta e con il primo taglio tu cimerai via il picollo di netto; tirandolo poi col taglio verso te, sottilmente ne monderai la pera girando di mano in mano la forcina, per accomodare la pera al taglio del coltello, avertendo sempre a far di modo che tu non spicchi punto della scorza; mondato che tu avrai la pera sopra la forcina con la parte del picollo disopra, tu darai tre o quattro tagli alla pera del picollo fino dabasso con il girare la pera intorno, ma darai ogni taglio di sorte che tu non spicchi niente; dipoi con prestezza caccerai la punta del coltello ne la pera a canto la forcina e con il dito grosso della mano della forcina, tu spingerai un poco la pera in fuora e la desimbroccherai, la qual resterà sopra la punta del coltello e con grazia spingerai la mano del coltello innanzi, porrai la pera sopra il tondo e con il dito lungo la spingerai fuora del coltello e la fari stare nel medesimo tondo; e di questo modo anderai facendo fino che tu avrai finito di trinciare tutte o parte di quelle che faranno di bisogno.
E questo sarà a bastanza per averti mostrato il modo che si deve tenere nel imbroccare e trinciare la pera.
Vi sono ancora di molti altri modi per trinciare le pere, delli quali non ho voluto parlare parendomi che non vi sia il più bello di questo, volendola trinciare sopra la forcina.”

(*) Vincenzo Cervio, Il trinciante, Roma 1593.
in Emilio Faccioli (a cura di), L’arte della cucina in Italia. Libri di ricette e trattati della civiltà della tavola dal XIV al XIX secolo,Torino, Giulio Einaudi editore, 1987, pagg. 518-9

Fonte: Ermes Agricoltura – Regione Emilia Romagna

Saba dell’Emilia-Romagna, sapa

Descrizione del prodotto:Sciroppo dolce ottenuto da lenta e prolungata bollitura del mosto, generalmente di uve bianche.Colore dall’ambrato al rosso, odore intenso di caramello, sapore mielato, sapido e vellutato.

Territorio interessato alla produzione: L’area di produzione, trasformazione ed elaborazione è rappresentata dall’intero territorio facente parte della regione Emilia-Romagna. Si produce anche nelle Marche,LavorazioneLe uve vengono pigiate e il mosto così ottenuto viene messo in recipienti di rame o acciaio al contatto col fuoco fino ad ottenere un’evaporazione di circa 2/3 del liquido.Segue la decantazione e la conservazione in recipienti di vetro che può durare alcuni anni.

Cenni storici e curiositàLa Saba è uno sciroppo che in Emilia-Romagna si è tradizionalmente preparato nelle campagne dal secolo scorso fino alla fine degli anni Cinquanta, che tuttavia ha radici millenarie risalenti all’epoca romana.Saba è il termine dialettale usato in Emilia-Romagna per indicare questo prodotto a base di mosto, anche conosciuto con il nome Sapa.Nelle Georgicae è descritta in maniera accurata la tecnica enologica in uso nell’agro bolognese ai tempi di Columella, nella quale si parla, tra le altre cose, anche della Sapa, impiegata addirittura per nutrire le lumache, alla cui carne sembrava conferire un gusto più delicato.Columella cita la Sapa nel De re rustica e Plinio offre una descrizione di questo mosto cotto nell’opera Naturalis Historia.Plinio narra inoltre che quando l’imperatore Augusto pranzò a Bologna presso un ricco veterano di Antonio, gli vennero serviti opera pistoria (i nostri dolci) fatti con mosto cotto: la Sapa e il Savor, impiegati già allora per la preparazione di molti dolci.In epoche più recenti la Sapa viene menzionata da Ludovico Ariosto nella Satira III scritta nel 1518. In essa l’autore di Reggio Emilia, rivolgendosi al cugino Annibale Malaguzzi, parla del suo nuovo lavoro e difende la propria dignità. Fedele al mai smentito ideale di vivere libero, al punto di rinunciare al servizio del cardinale Ippolito piuttosto che seguirlo in Ungheria, Ariosto ricorda che se il cardellino e il fanello possono vivere in gabbia, e l’usignolo vi si adatta malamente, la rondine in un giorno vi morirebbe di rabbia. Così è per lui che a qualsiasi delizioso cibo servile preferisce una rapa da lui stesso cotta e condita con aceto e Sapa: “In casa mia, mi sa meglio una rapa / Ch’io cuoca, et cotta s’un stecco me inforco / Et mondo et spargo poi di aceto et sapa”.Vincenzo Tanara, agronomo e gastronomo bolognese del XVII° secolo, ricorda la Sapa in uno dei suoi scritti risalente al 1644: L’economia del Cittadino in Villa. In tale opera Tanara, riferendosi alla Sapa, scrive: “Fassi servir l’uva per indolcire vivande in luogo di miele, senza spesa, mediante la sapa, o sabba; Non credo, che l’huomo possa desiderar più gusti di quello, che rende la vite; questa è mosto colato, e fatto bollire fino, che cali i due terzi”. A proposito del tempo necessario al suo ottenimento l’agronomo bolognese fornisce alcuni suggerimenti: “E’ meglio il peccare in troppo cuocerla, che in non lasciarla cuocere assai: Si conosce la sua perfettione col ponerne due goccie sopra una carta, se col far star pendente la carta, la goccia non si stacca, è cotta assai; se ancora intinte le due cime de’ diti, grosso, e indice, e quelli congionti insieme, quando è cotta, nello staccarli si sente viscosità, e fa quasi fila. Serve la Sapa alla cucina, e credenza in moltissime occasioni, come à suo luogo si dirà”.Lodovico Antonio Muratori, vissuto tra il 1662 e il 1750, Bibliotecario del Serenissimo Duca di Modena, nell’opera Antiquitates Italicae medii aevi al termine Saba fornisce la seguente definizione: “Antiquis autem Latinis nihil aliud Sapa fuit, nisi Italicum sapa, Mutinensibus saba, idest mustum decoctum.”Pellegrino Artusi, insigne gastronomo nato a Forlimpopoli nel 1820, nella sua celebre opera La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, pubblicata per la prima volta nel 1891, nomina il prodotto tra gli sciroppi usando le seguenti parole: “La Sapa, ch’altro non è se non uno siroppo d’uva, può servire in cucina a diversi usi poiché ha un gusto speciale che si addice in alcuni piatti. E’ poi sempre gradita ai bambini che nell’inverno, con essa e colla neve di fresco caduta, possono improvvisar dei sorbetti”.Il suo utilizzo nel tempo è stato quello di conferire gusto e sapore a vivande e bevande. La ritroviamo, infatti, tra gli ingredienti utilizzati nella produzione del “Panone di Bologna” (versione più semplice e contadina del Certosino dato che al posto del miele si utilizzava la Saba e alla mostarda si sostituiva il “Savór”), dei Sabadoni, (“tortelloni” di grossa e allungata dimensione legati ad antiche consuetudini della gente romagnola), e appunto del Savór, una sorta di marmellata a base di Saba e frutta, prevalentemente mele cotogne e pere.

Agresto

Materia prima: uva non matura raccolta nel mese di luglio (lugliatica).

Tecnologia di lavorazione: i grappoli di uva acerba vengono mostati in un piccolo tino e il succo raccolto va messo in una botticella ed esposto al sole per un certo tempo. Un altro metodo consiste nel far bollire il mosto fino a ridurlo di due terzi. Oppure si passava il mosto al setaccio versandolo poi in piccoli recipienti esposti al sole per tre o quattro giorni. Il prodotto che ne risultava era denso e si conservava in vasi. Al momento dell’uso se ne stemperava una piccola quantità in acqua o brodo per dare carattere ai cibi o anche per preparare bibite rinfrescanti.

Maturazione:

Area di produzione: Area della Padania (solo a livello amatoriale).

Calendario di produzione: estate.

Note: nel Medio Evo era il condimento per eccellenza, sempre presente sia sulla mensa dei ricchi che su quella dei poveri. Dal gusto piacevolmente acidulo ma non aggressivo come l’aceto, è stato fino alla fine del secolo scorso il condimento più usato. Nel Nord Europa lo preparavano con le mele acerbe. Aveva anche proprietà terapeutiche e veniva indicato negli stati febbrili, nelle angine e nelle stomatiti. Il suo declino coincide con la diffusione della coltura del pomodoro, la cui salsa venne usata proprio sui piatti precedentemente insaporiti con l’agresto.

Marene fritte

Materia prima: ciliege amarene.

Tecnologia di preparazione: snocciolate, le amarene si mettono in una padella, aggiungendo lo zucchero necessario, lasciando bollire a fuoco alto (di qui l’improprio termine di fritte), mescolando spesso per favorire l’evaporazione dell’acqua. Quando sono ben asciutte si invasetta chiudendo il barattolo e conservando al buio.

Maturazione:

Area di produzione: nel Modenese.

Calendario di produzione: estate.

Note: questa preparazione si utilizza esclusivamente per fare le crostate casalinghe.

Marmellata di cocomero

Materia prima: cocomero.

Tecnologia di lavorazione: all’anguria tagliata a cubetti si aggiunge una parte di zucchero lasciando macerare per 24 ore. Si passa poi al setaccio e il sugo raccolto lo si fa bollire fintantoché non si è ridotto a sciroppo. Si aggiungono i pezzi di anguria aromatizzati al limone lasciando bollire fino a completa cottura. Si versa nei barattoli chiudendoli ermeticamente.

Maturazione:

Area di produzione: Prato Cozzo (En), provincia di Modena.

Calendario di produzione: estate.

Note: nel Modenese la tecnica è leggermente diversa e la diversità consiste nel far bollire i pezzetti di cocomero insieme alle fettine di 6-7 limoni e allo sciroppo che si è formato nelle 24 ore di macerazione. La qualità di cocomero idonea per questa marmellata è quella lunga, ma non deve essere verde né troppo rotonda. Varietà che, a detta della presidentessa del Club delle Fornelle, si trova difficilmente e solo nella Bassa modenese.

Mostarda di Carpi

Materia prima: mosto cotto, mele, pere, mele cotogne, arance.

Tecnologia di lavorazione: si fa bollire il mosto per circa 15 ore finché non si è ridotto della metà e non ha assunto l’aspetto denso dello sciroppo. Si aggiunge la frutta sbucciata e tagliata a pezzi, ivi compresa la buccia di mezza arancia – privata della parte bianca – lasciata a bagno per 24 ore cambiando l’acqua 3/4 volte. Si lascia bollire ancora riducendo il volume della metà. Si invasa e si conserva in luogo fresco e asciutto buio e ben areato.

Maturazione:

Area di produzione: comune di Carpi.

Calendario di produzione: autunno durante la vendemmia.

Note: questa mostarda era così rinomata in passato che Carpi veniva chiamata “Carpi dalla mostarda fina”. I modenesi, forse un po’ invidiosi del primato, ribattevano “e degli asini regina”. “Mustardin” era il nome dato ad una tipica maschera carpigiana che faceva la sua apparizione a Carnevale.

Prugne in aceto

Materia prima: prugne.

Tecnologia di preparazione: si puliscono le prugne tagliando, ma non togliendo, il picciolo. Si forano con uno stecchino e si ricoprono con aceto precedentemente bollito con gli altri ingredienti. Si ripete l’operazione per ben tre volte e la terza volta si fanno bollire per 10 minuti anche le prugne. Si rimettono le prugne nel vaso e si fa bollire il liquido fino a renderlo denso. Quando gli ingredienti sono freddi riunirli in vaso. Chiudere ermeticamente e conservare al buio.

Maturazione: 1 mese circa.

Area di produzione: comprensorio di Carpi (Mo), Sardegna e, sporadicamente, in altre regioni.

Calendario di produzione: fine agosto, primi settembre.

Note: ricetta che si tramanda da una generazione all’altra presso alcune famiglie. Essa consente di eliminare ogni forma di microrganismo patogeno.

Mistocchine, Mistuchina, mistuchen, mistòk, mistocchi ed fareina ed castagn

Territorio interessato alla produzione:
Vengono prodotte in tutta la Regione, in tutta la zona appenninica e non solo, spesso con nomi leggermente diversi a seconda dei dialetti locali.IngredientiFarina di castagna, semi di anicini, acqua, sapa, scorze di arancia e limone e zucchero a velo.LavorazioneSi impasta la farina di castagna con acqua e il rimanente degli ingredienti in una impastatrice e si cuoce in forno o piastra. Si conserva in frigo perché non indurisce.RicetteIori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, pag. 189Mistocchi ed fareina ed castagnOccorrono 300 gr. di farina di castagne; latte; sale; strutto per ungere il “sol”Mescolare la farina di castagne con sale, latte ed eventualmente un po’ d’acqua in modo da ottenere un impasto abbastanza sodo. prelevarne piccole dosi e farne delle palline che schiaccerete e poserete sulla teglia. Cuocere per pochi minuti in forno ben caldo.
Gosetti della Salda Anna, Le ricette regionali italiane, Milano, la cucina italiana, 1967.Mistocchine (Castagnaz o Pinza)Ingredienti: farina di castagne gr. 300 un po’ di latte pochissimo strutto saleIn una zuppiera mescolare accuratamente la farina di castagne con un po’ di latte, un pizzico di sale e acqua sufficiente ad ottenere un impasto abbastanza sodo. Con un pezzetto dell’impasto fare una palla ed appiattirla, dandole la forma tonda o ovale caratteristica delle mistocchine, continuando così sino ad aver esaurito la pasta. Cuocerle su fiamma viva mettendole in una padella leggermente unta.
Nota: è questa un’antica specialità romagnola che veniva preparata sulla strada di venditori ambulanti.—MistocchineAntica ricetta è questa delle mistocchine, un tempo preparate e vendute per strada da caratteristici venditori ambulanti. Preparate 500 gr di farina di castagne e impastatela con acqua calda e un pizzico di sale. Stendete l’impasto dello spessore di 1 cm circa e ritagliatelo in losanghe dalla caratteristica forma leggermente ovalizzata. Le mistocchine andrebbero cotte su una piastra posta sulla brace. Eventualmente potete sostituire questo tipo di cottura con il forno ben caldo.
MistuchìniVëcia rizèta l’è questa dal mistuchìni, una völta preparêdi e vindudi par la strê da ambulént.Tulì 500 gr d’faréna d’castâgn e impastê cun aqua chêlda e un pizgutìn ad sêl.Stindì l’impast dla gruséza di 1 cm zirca e artajéli in rómb cun la deima uvêla.Al mistuchìni a gli andréb coti sôra una piastra messa sôra la bresa.In tót i chës a putì, int i pi d’ste möd d’cutura druvê e’ fôran bèn chêld.Fosca Martini, Romagna in bocca, 1977 Editrice “Il Vespro”Traduzione in romagnolo del Prof. Icilio Missiroli*****MISTOCCHINEImpastate farina di castagne con acqua, tirare l’impasto col matterello facendo una sfoglia molle, grossa due centimetri, e tagliarla in tante piccole forme ovali. Infarinarle con la stessa farina e cuocere le forme ovali dalle due parti su una piastra o sul testo molto riscaldati, poi servirle fredde o calde con vino Sangiovese.Giovanni Manzoni, Così si mangiava in Romagna, Walberti Edizioni 1977;
*****AL MISTUCHÊN¹(La Gagia – Fusignano)Ingredienti: Kg 0,500 di farina di castagne.Esecuzione: Setacciate la farina di castagne di buona qualità ed impastatela, un poco alla volta, con acqua bollente. Fate una sfoglia né troppo molle né troppo soda dello spessore di un cm e mezzo.Con lo stampo tagliate tante losanghe e cuocete sulla stufa per breve tempo. (In mancanza di stufa, prendete una lamiera, ponetela sugli alari del focolare con sotto le braci). Quando esse da ambo le parti hanno una leggera crosticina, toglietele ed avvolgetele nella farina di castagne. Servitele il dì seguente, fredde, ben avvolte in farina di castagne.¹la prima volta che udimmo il grido “Mistuchéin”, fu a Bologna, da studenti, di notte, da parte del mistocchinaio, armato di lanterna e scaldino, appostato, avvolto nella capparella, all’angolo della vecchia via Rizzoli col vicolo del “fittone” (fallo) delle Spaderie.La Coronedi-Berti, nel suo monumentale “Vocabolario bolognese-italiano”, così scrive: “Mistuchèina: Mistocchino: Specie di schiacciatina fatta con farina di castagne intrisa con acqua. Della medesima pasta si danno anche varie forme, come di animali o altro, per dilettare i bambini”. Di qui: Parèir una mistuchèina, per cose deformi o dalle forme buffe, curiose.G. Quondamatteo, L. Pasquini, M. Caminiti “Mangiari di Romagna”, Grafiche Galeati – Imola 1975;
*****MistocchinePer la preparazione delle mistocchine serve, come detto, farina di castagne da impastare con acqua (ancor meglio con latte) e da tirare con il matterello. Se ne ricava una sfoglia un po’ grossolana, nel contempo equilibratamente molle e soda, dello spessore di 1 cm circa, tagliata a losanga, oppure lavorata in forma ovale, piuttosto allungata.La cottura avviene sulla stufa, su una piastra o sul testo per piadine, si effettua da ambo le parti sino a identificare la leggera e caratteristica crosticina esterna. Le mistocchine vengono infarinate (sempre con farina di castagne) sia durante la breve cottura sia durante il loro parziale raffreddamento prima di servirle.La loro degustazione, se eccessiva, procura una sorta di ingozzamento, che richiede generosa bevuta di vino. Quale? Cagnina di Romagna Doc.Graziano Pozzetto, La cucina romagnola, Franco Muzzio Editore, 1995;
*****Mistocchinegr. 250 farina di castagna, latte, olio di oliva, sale.In una terrina, mescolate la farina di castagne con un pizzico di sale e latte e acqua, nella stessa quantità, il necessario ad ottenere una pastella duretta.Con l’impasto fate delle palline che appiattirete col palmo delle mani e friggerete in padella con poco olio fumante.Sgocciolatele dorate da ambo i lati e servitele subito.Giovanna Savoldi, Le ricette della mia cucina emiliana e romagnola, Firenze 1980
Cenni storici e curiositàCi accingiamo a dare la ricetta di questa tradizionale preparazione dalla forma tondeggiante e schiacciata, cotta nel forno in un “sol” o teglia di metallo stagnato, con la farina di castagne. Se ne preparavano però di molti svariati tipi ad esempio con farina di frumentone, zucchero, strutto e uova, oppure con farina di castagne e gli stessi ingredienti del precedente. potevano essere arricchiti con uvetta passa e aromatizzati con scorza di limone e anice. Da Iori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, pag. 189Mistocchine. – Piccole paste fatte di un intriso di farina di castagne, cotte su lamine di ferro. E’ un dolce di modesta fattura, altre volte popolarissimo a Bologna, così come lo erano le donnine che, stabilite lungo i portici con la loro cucinetta, ivi le confezionavano e le vendevano ai passanti. Le venditrici sono pressoché scomparse, le mistocchine rimangono ancora in qualche piccolo negozio fedele alla tradizione.Touring Club Italiano, Guida Gastronomica D’Italia, Milano 1931;
*****MISTOCCHINE“Al mistuchèn” (le mistocchine) sono dolci “famosi” fin dai tempi antichi, quando gli ambulanti le vendevano per le strade. Oggi, i pasticceri le sfornano ancora; ma la maggior parte della gente le conosce solo con il nome di “ricciarelli”. L’antica ricetta prescrive: schiacciate cinquecento grammi di buona farina di castagne ed impastatela, un po’ per volta con dell’acqua bollente. Preparate una sfoglia né troppo molle né troppo soda che dovrà essere spessa un centimetro e mezzo. Tagliatela in modo da ottenere tanti rombi che dovranno essere cotti su una piastra messa sulla brace o sulla stufa. Le mistocchine vanno servite fredde. In campagna un tempo le preparavano al mattino e solo il giorno dopo finivano sulla tavola, per la gioia dei bambini.Dizionario della cucina romagnola. Ricette, vini, personaggi …, a cura di E. Morini e S. Vicarelli, Bologna, Il Resto del Carlino, Poligrafici Editoriale, 1993;

Pasta Margherita

Zona di produzioneNell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, come zona di produzione è indicata esclusivamente la Provincia di Forlì-Cesena e la Romagna. In realtà è un dolce che si produce un po’ dappertutto, e comunque in gran parte della Regione.
IngredientiFarina di patate, zucchero, uovaRicette576. Pasta MargheritaAvendo un giorno, il mio povero amico Antonio Mattei di Prato (del quale avrò occasione di riparlare), mangiata in casa mia questa pasta ne volle la ricetta, e subito, da quell’uomo industrioso ch’egli era, portandola a un grado maggiore di perfezione e riducendola finissima, la mise in vendita nella sua bottega. Mi raccontava poi essere stato tale l’incontro di questo dolce che quasi non si faceva pranzo per quelle campagne che non gli fosse ordinato. Così la gente volenterosa di aprirsi una via nel mondo coglie a volo qualunque occasione per tentar la fortuna, la quale, benché dispensi talvolta i suoi favori a capriccio, non si mostra però mai amica agl’infingardi e ai poltroni.
Farina di patate, grammi 120.Zucchero, in polvere, grammi 120.Uova, N. 4.Agro di limone.
Sbattete prima ben bene i rossi d’uovo collo zucchero, aggiungete la farina e il succo di limone e lavorate per più di mezz’ora il tutto. Montate per ultimo le chiare, unitele al resto mescolando con delicatezza per non ismontar la fiocca. Versate il composto in uno stampo liscio e rotondo, ossia in una teglia proporzionata, imburrata e spolverizzata di zucchero a velo e farina, e mettetela subito in forno. Sformatela diaccia e spolverizzatela di zucchero a velo vanigliato.Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, introduzione e note di Piero Camporesi, Torino, Einaudi, 1995
********Pasta MargheritaEra un dolce al taglio di facile composizione e di bella presenza, per quella sua “crescita” che avveniva senza lievito.Gl’ingredienti, secondo una ricetta che Annunziata Ricchi ha raccolto da zia Angela, erano costituiti da quattro uova, centoventi grammi di zucchero e altrettanti di fecola. Si lavoravano i tuorli, aggiungendo lo zucchero e, sempre lentamente, la farina di patate.Quasi trenta minuti si lasciava il tutto a riposare, il tempo necessario per montare a neve gli albumi e inserirli nell’impasto.Il successo della lavorazione dipendeva proprio dalla sua durata, che non doveva essere inferiore all’ora, complessivamente, secondo un accorgimento sperimentato e qualificante.¹La cottura avveniva finalmente al forno, non troppo caldo, in una ventina di minuti.¹¹Ogni dolce ha le sue esigenze, spesso segrete, che qualificano e premiano chi le scopre, chi le segue con illuminata pazienza.Vittorio Tonelli, A Tavola con il contadino romagnolo, 1986 Grafiche Galeati;********La Pasta MargheritaEra un dolce, come la ciambella, che si offriva a fine pasto con un buon bicchiere di vino dolce. Il successo della preparazione dipendeva dalla sua lunga lavorazione. Per una perfetta riuscita, suggeriamo di aiutarvi con fruste elettriche, in modo che gli ingredienti possano gonfiare il più possibile ottenendo così, a fine cottura, quella crescita e leggerezza che sono le sue caratteristiche.In una terrina si lavora con un cucchiaio di legno il burro portato a temperatura ambiente finché diventa morbido e cremoso.Si aggiunge poi lo zucchero semolato e si comincia a montare con la frusta elettrica, unendo le uova intere a una a una. Infine si versano la fecola, la farina e il lievito, continuando a montare per almeno altri 30 minuti: più il composto “monta”, più sicuro è il risultato. Si versa infine in uno stampo imburrato e infarinato e si cuoce in forno a 180 °C per 30-35 minuti.
Ingredienti3 uova intere; 100 g di burro a temperatura ambiente; 200 g di zucchero semolato; 250 g di fecola; 2 cucchiai di farina; 1 bustina di lievito per dolci.Liliana Babbi Cappelletti, Civiltà della tavola contadina in Romagna, 1993 Idealibri s.r.l. Milano;

Sfrappole, Sfrappe, Fiocchetti, Chiacchiere delle suore, Sfrapli, Al frap, fiuchét, Ciacri dal sori

Area di produzione
Nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, come zona di produzione è indicata esclusivamente laProvincia di Forlì-Cesena e la Romagna. In realtà è un prodotto, tipico del periodo di Carnevale, che si trova in tutta la Regione (e in gran parte d’Italia), assumendo di volta in volta nomi diversi, senza variare sostanzialmente nella preparazione.RicetteSfrappolePrendete una sfoglia di pasta sottile e tagliatela a strisce con una rotella dentata. Friggete queste in olio e zuccheratele abbondantemente dopo averle intrecciate.Ne uscirà un dolce gustoso.Sono celebri in particolare negli ultimi giorni di carnevale quando vengono offerte ai convitati.Mario Tabanelli, Romagna in Cucina, luglio 1988 – Magalini Editrice*********Fiocchetti (o Sfrappe)(Corrado Iacuzzi – Cesena)300 gr. di farina – 2 uova – 30 gr. di burro – un cucchiaio di zucchero – un pizzico di sale. Impastate senza lavorare troppo la pasta. Quindi tirate con il matterello una sfoglia molto sottile e con una rotella dentata ritagliatela a strisce larghe circa un cm. e lunghe circa 20 cm. Intrecciatele e annodatele e poi friggetele nello strutto bollente. Scolarle sopra una carta che assorba l’unto e cospargetele con abbondante zucchero a velo.E’ uno dei dolci più modesti ma non per questo meno cari, della cucina romagnola. La ricetta è quella tradizionalmente seguita nella mia famiglia da almeno tre generazioni.G. Quondamatteo, L. Pasquini, M. Caminiti “Mangiari di Romagna”, Grafiche Galeati – Imola 1975;*********Sfrappolegr. 350 farina; 3 uova; latte; zucchero; anice; limone; sale; strutto; zucchero a velo.In una terrina battete i tuorli delle uova con lo zucchero, incorporate, man mano, una grattugiata di limone, un pizzico di sale, ½ bicchierino di anice e la farina. Allungate con latte tiepido il necessario ad ottenere un composto non liquido. Lavorate poi l’impasto con le mani e stendetelo a sfoglia spessa. Ritagliate, con la rotella dentata, dei quadrati e rettangoli che annoderete o piegherete in vari modi e friggerete in padella con strutto (o olio) sfrigolante.Sgocciolate le sfrappole dorate da ambo i lati e servitele spolverate di zucchero a velo.Giovanna Savoldi, Le ricette della mia cucina emiliana e romagnola, Firenze 1980;*********SfrappoleLe sfrappole sono una diversa presentazione, per cui la pasta, sottile, viene tagliata con la rotella dentata a mo’ di pappardelle che poi vengono intrecciate, fritte e zuccherate abbondantemente.C. Contoli, Guida alla veritiera cucina romagnola, Officine Grafiche Calderini, 1972;*********Chiacchere delle suore (frappe)Nello strutto, o in olio, si mettevano a friggere pure i ritagli di una sfoglia, impastata con uova, (e, volendo, con latte e pizzichi di zucchero, bicarbonato, sale) e divisa con la “rotella” in tanti nastri dentellati, come… frappe (da qui il nome italiano). Essi, una volta rinsecchiti, si mettevano in un piatto e si spolveravano di zucchero, per poterli gustare meglio quando si sentivano scricchiolare tra i denti, in un brusìo di chiacchere… conventuali.Anche oggi si fanno spesso al ciacri dal sori (o sfrapli, o fiuchét, o crostoli), usando a Sant’Agata gl’ingredienti nel seguente dosaggio: quattro etti di farina, mezzo di burro o strutto, un pizzico di sale, un cucchiaio di anice e uova quante bastano per l’impasto¹.¹Un’altra ricetta di San’Agata lascia invece indeterminata la farina e precisa i quantitativi degli altri componenti: tre uova, un bicchiere di latte, mezzo bicchiere di acqua, sei cucchiai di zucchero, un etto di burro, più “dose” lievitante.Vittorio Tonelli, A Tavola con il contadino romagnolo, 1986 Grafiche Galeati;*********FrappeAnche in Romagna, come pure in altre regioni, è questo il dolce classico del carnevale. Per una dose di frappe sufficienti a 6 persone, impastate 400 gr. di farina con 2 uova, 50 gr. di burro o strutto, 50 gr. di zucchero, un pizzico di sale e 1 cucchiaio d’anice. Se l’impasto risultasse troppo duro ammorbiditelo con qualche cucchiaio di latte. Fate una sfoglia molto sottile, quindi con la rotella ritagliate delle strisce cui darete la forma che preferite. Friggete le frappe in abbondante strutto molto caldo e cospargetele di zucchero.FrapPar una dös ad frap ch’al bèsta par 6 parsôn impastì 400 gr. d’faréna cun 2 öv, 50 gr. d’butì o gràs, 50 gr d’zócar, 1 pizgutìn ad sêl e una cucêra d’mistrà. Se l’impast e’ fóss tròp dur, fasìl piò murbi cun quéjca cuciarêda d’lat.Fasì una spója propi stila, pu cun la rudéla tajé dal strèsal cun la deima ch’la v’piés d’piò. Farzì al frap int un bël pö d’gras bulént e spurbièj sôra d’zócar.Fosca Martini, Romagna in bocca, 1977 Editrice Il Vespro;Traduzione in romagnolo del Prof. Icilio Missiroli*********SfrappoleSi parte da un impasto a base di farina bianca per dolci, burro fuso, scorza di limone grattugiato, bicarbonato, tuorli d’uovo, liquore di anice o rosolio (oppure in alternativa vino bianco), poco sale, lievito, zucchero e latte sufficiente a impastare il tutto fino a ottenere una pasta abbastanza consistente. Questa si lavora con il matterello, ottenendo una sfoglia sottile, che si taglia a strisce lunghe una spanna e larghe 4-5 cm.In una padella con olio d’oliva bollente (o arachide o strutto) si mettono le sfrappole (cioè le strisce annodate una per una) a friggere .Poste su carta assorbente, vengono poi spolverizzate con zucchero a velo, eventualmente irrorate con alkermes o rosolio.Le sfrappole si possono altresì farcire con zabaione caldo, miele fresco e liquido (il solito d’acacia), saba, sciroppi casalinghi (a base di ciliegie o frutti di sottobosco)Graziano Pozzetto, La cucina romagnola, Franco Muzzio Editore, 1995;**********Sfrappole di ForlìFarina 240 grammi – Burro 30 grammi – Zucchero pestato fine grammi 30 – Uova 2 – Un pizzico di sale.Impastate colle mani. Lasciar riposare la pasta e tirarla col matterello simile alla sfoglia della piadina. Tagliare la sfoglia a strisce lunghe 10 o 15 centimetri e intrecciarle tra loro. Cuocere in padella con olio e strutto. Levate da questa spolverarle di zucchero. Servire le Sfrappole o Frappole con zabaione caldo o con vino caldo o con miele liquido e con sciroppi di saba, di ciliegia, di marena, di ribes, di fragola, di lampone.Giovanni Manzoni, Così si mangiava in Romagna, Walberti Edizioni 1977************Ciacar dal sori (frappe e sfrappole)Dolci carnevaleschi, friabili e croccanti; quando si gustano paion riprodurre un cicalio nascosto, sommesso, tipico delle suore.Per l’impasto:g 500 di farinag 400 di strutto (o burro)2 uovail profumo di anice (liquore), a piaceresalePer la cotturaStrutto, per friggereZucchero a veloSul tagliere (spianatoia) disponete la farina aperta a cratere; aggiungete lo strutto, sgusciate le uova, salate e profumate (a piacere) con un goccio di anice. Quindi lavorate come al solito, fino ad ottenere un impasto liscio e piuttosto sodo; da spianare a sfoglia sottile con il matterello, da tagliare con la speronella (ruota dentata) a strisce larghe circa 4 cm e lunghe 10. In alcune famiglie i nastri si lasciano piuttosto lunghi, per poterli annodare.Le frappe si friggono nello strutto; una volta dorate si sgocciolano, si asciugano sopra fogli di carta assorbente, quindi si servono, imbiancate di zucchero a velo.A. Molinari Pradelli, La Cucina della Romagna, 1998 Newton & Compton editori s.r.l.Cenni storici e curiositàLe chiacchiere, o bugie, o frappe, sono dei tipici dolci italiani preparati solitamente durante il periodo di carnevale, chiamati anche con molti altri nomi regionali.
Derivano probabilmente dalle frictilia, dolci fritti nel grasso che nell’antica Roma venivano preparati proprio durante il periodo dell’odierno Carnevale.sono conosciute con nomi differenti nelle diverse regioni italiane:
-bugie (Piemonte, Liguria eccetto Lunigiana);-cenci o crogetti (tutta la Valdarno da Arezzo a Montecatini Terme);-strufoli o melatelli (se con miele) (Maremma toscana);-chiacchiere (alcune zone dell’Umbria, basso Lazio, Abruzzo citeriore, Molise, Puglia, Basilicata, Campania, Calabria, Sicilia, ma anche a Milano, nella zona delle alpi apuane e della Lunigiana, nell’Emilia settentrionale e in in alcune zone della Sardegna);-cioffe (Abruzzo ulteriore);-cróstoli, gróstoli o gròstoi o grustal (Polesine, Veneto a eccezione della zona compresa tra Venezia, Padova e Verona, Trentino, Venezia Giulia, Alto Adige, Ferrara, alcune zone della Liguria);-cróstui o cróstoli (Friuli);-cunchielli’ (in alcune aree del Molise);-fiocchetti (Montefeltro, Romagna costiera);-frappe (Lazio dalla zona di Latina e Aprilia a Viterbo, a Roma, nel nord della Ciociaria, alcune zone dell’Umbria, alcune zone delle Marche e dell’Emilia);-galàni (zona tra Venezia, Padova e Verona)-gale o gali (Vercelli, Bassa Vercellese, provincia di Novara e Barenghese);-gasse (Montefeltro);-guanti (Alife, zona del Matese);-intrigoni (Reggio Emilia);-lattughe (provincia di Mantova, provincia di Brescia. In dialetto latǖghe);-maraviglias (Sardegna in lingua sarda);-merveilles (Valle d’Aosta);-rosoni o sfrappole (Modena, Bologna, Romagna);-galarane o saltasù (Bergamo)-saltasù (Bergamo);-sfrappe (Marche);-sfrappole (Bologna);-sprelle (Piacenza);-risòle (Cuneo e sud del Piemonte);-sossole (desueto a Verona, soppiantato da galàni);-pizze fritte (Romagna interna);e ancora stracci, lasagne, pampuglie, manzole, garrulitas (in sardo).

Intrigoni, Sfrappole emiliane, Intrigoun

Area di produzioneLa zona di produzione è da considerarsi l’intera Provincia reggiana (ma si trovano anche nelle altre provincie emiliane)
Altri nomi del prodottoGli intrigoni sono conosciuti con nomi differenti nelle diverse regioni italiane:bugie (Genova, Torino, Asti, Imperia), italianizzazione del ligure böxie, cenci o crogetti (Toscana), chiacchiere (Basilicata, Sicilia, Campania, Lazio, Umbria, Puglia, Calabria, a Milano, Sassari e Parma), cioffe (Sulmona, centro Abruzzo), cróstoli o cróstołi (Ferrara, Rovigo, Vicenza, Treviso, Trentino, Friuli, Venezia Giulia), cunchiell’ o qunchiell (Molise), fiocchetti (Montefeltro e Rimini), frappe (Roma e Ancona), gałàni o sosole (Venezia, Verona, Padova), gale o gali (Vercelli e Bassa Vercellese), guanti (Caserta), gròstołi o grostoli (Trento), intrigoni (Reggio Emilia), crostoli o grustal (Ferrara), maraviglias (Sardegna), rosoni o sfrappole (Modena, Bologna, Romagna), sfrappe (Marche), sprelle (Piacenza), risòle (Cuneo e sud del Piemonte), e ancora stracci, lasagne, lattughe, pampuglie, manzole, garrulitas.

PreparazioneMateria PrimaFarina, burro, uova, strutto per friggere, zucchero a veloLavorazioneVersare in una ciotola i tre tuorli, unire lo zucchero semolato e mescolare, aggiungere il liquore, un pizzico di sale, la scorza di limone grattugiata, il burro appena sciolto, la farina e tanto latte freddo tiepido quanto ne occorre per ottenere un composto piuttosto sodo. Lavorare bene la pasta poi con il matterello stendere una sfoglia sottile e tagliarla con la rotellina dentata a strisce larghe cm. 5 e lunghe circa cm. 20. Poi friggerle e3 spolverizzare con zucchero a velo.

Ricette- Intrigoni, “Ricettario di Casa Re, Antonio Re, 1800”: uova n.2, zucchero∫3, vino bianco dolce∫5, farina quanto basta per pasta da tagliatelli cioè circa ∫19. Dibatti bene le uova collo zucchero, poi aggiungi il vino e mesci bene. Incorporavi molta pasta di farina col mestolino. Cava e fa pasta col resto, maneggiando a vescica. Stendi pastella da tagliatelli e taglia gl’intrigoni, cui friggerai ad uno ad uno, servendoti di un banchetto ad operare. Lo strutto sia bollente e proverai con ritaglio. Il colore sia di (nanchino) o biondo dorato o sauro. Possono crudi stare dal tempo prima d’esser fritti e sino 24h dopo fritti.
– Frappe (Intriconi), “La Cuciniera Maestra, Leopoldo Bassi, 1848”: p.83 prendete una libbra di farina e mezz’oncia di burro, 2 uova e se mettete solamente i rossi ne occorrono 3, mettete i rossi o le uova in una scodella con 2 cucchiaini da tavola colmi di zucchero raffinato e si sbattano moltissimo poi vi si aggiunge un poco di anice e si seguita a sbattere ancora indi si aggiungono alla farina e si impasta mettendovi tanto anice quanto è necessario per formare una pasta non troppo dura e si impasta fintanto che si può, indi si tira una pasta sottilissima, si tagliano le frappe e si fanno friggere nello strutto bianco.
Gosetti della Salda Anna, Le ricette regionali italiane, Milano, La cucina italiana, 1967. pag. 474Sfrappole Emiliane. Ingredienti: fior di farina gr. 500, burro gr. 100, tre uova, strutto odo olio per friggere, una cucchiaiata di zucchero, una cucchiaiata di cognac o anice, zucchero al velo, un limone, latte, sale.Versare in una ciotola i tre tuorli, unire lo zucchero semolato e mescolare, aggiungere il liquore, un pizzico di sale, la scorza di limone grattugiata, il burro appena sciolto, la farina e tanto latte freddo tiepido quanto ne occorre per ottenere un composto piuttosto sodo. lavorare bene la pasta poi con il matterello stendere una sfoglia sottile e tagliarla con la rotellina dentata a strisce larghe cm. 5 e lunghe circa cm. 20. Mettere sul fuoco una casseruola di rame, ben profonda (con molto strutto o olio) e quando sarà bollente ma non troppo immergervi le strisce di pasta annodate a “gale”, facendo in modo che friggendo rimangano bianche; appena pronte toglierle dal grasso e lascarle sgocciolare sua una carta che assorbe. Spolverizzare generosamente le “sfrappole” di zucchero al velo quando sono ancora calde; servirle tiepide o fredde, accompagnandole con vino bianco.
– Pasta per intrigoni, “Breve Manuale del Mangiare Reggiano, N. Iori, 1985”: pag. 141 questo è il tipico dolce di Carnevale, che viene fatto in forma di strisce lunghe circa 10 centimetri e ripiegate su loro stesse come per intrigarle. E’ proprio da questa particolare forma che trae il suo nome. Occorrono 500 grammi di farina bianca, 1 uovo intero, 2 tuorli, 3 cucchiai abbondanti di zucchero, 30 grammi di burro, profumo di Sassolino, vino bianco secco per impastare. Procedere come per i tortellini fritti al forno, tirando la pasta però molto più sottile in strisce della lunghezza di circa 10 centimetri e della larghezza di circa tre annodandole ed intrigandole su loro stesse. Friggere in abbondante strutto, sgocciolarle e spolverizzarle con zucchero al velo. Possono essere mangiate da sole e/o accompagnate con panna montata.


Cenni storici e curiositàLa tradizione delle frappe probabilmente risale a quella delle frictilia, dei dolci fritti nel grasso che nell’antica Roma venivano preparati proprio durante il periodo dell’odierno carnevale.
Possono anche essere coperte da miele, cioccolato e/o zucchero a velo, innaffiate con alchermes o servite con il sanguinaccio dolce o con mascarpone montato e zuccherato.
Da Ferrrari Marta, Ricette e racconti della mia Reggio, Cadelbosco di Sopra, Conad Emilia ovest, 1993Il Carnevale a Reggio Emilia, anche in tempi passati, non ha mai avuto esplosioni di follie popolari. nell’Ottocento, nella nostra città, c’era la stagione lirica e, in questo periodo, venivano approntate delle gustose cenette nei camerini posti dietro ogni palco del nostro Teatro municipale. Si organizzavano anche balli mascherati, mancava però il Carnevale della strada, ossia la sfilata dei carri allegorici con musiche e gruppi di maschere. in provincia,invece, la tradizione del Carnevale della strada è ancora molto sentita, e in molti paesi, esistono laboratori artigiani particolarmente attrezzati per la creazione di maschere e costumi, anche per corsi carnevaleschi di alte regioni.

Zabajone, Zabaglione, Zambajoun

Zona di ProduzioneLa scheda dell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT) della Regione Emilia-Romagna indica l’intera Provincia di Reggio Emilia (a cui è legata un’antica leggenda). In realtà si tratta di un prodotto realizzato frequentemente un po’ in tutta in Italia e quindi in tutta la Regione, sia a livello delle pasticcerie che a livello domestico.Materia PrimaRossi d’uovo, moscato, zuccheroLavorazioneLo zabaione viene preparato a caldo, a bagnomaria, e montato sino ad essere ben soffice con una frusta da cucina. Accompagna torte della tradizione reggiana quali la zuppa inglese e la cascatella.RicetteLibro contenente la maniera di cucinare e vari segreti e rimedi per malattie e altro. libro di casa di una famiglia reggiana del Settecento, a cura di G. bizzarri, E. Bronzoni, Ancona, Il lavoro editoriale, 1986, pag. 104
Zabaione: Si prenda una chiccara di moscato, due rossi d’ovo, quattro cucchiaini di zucchero e si batti a freddo col frullo della cioccolata e si ponga sopra al foco sempre mestando e quando spuma si getti nella chiccara sempre frullando.Cenni storiciLo zabaione è una preparazione che vanta parecchi secoli di storia. Tuttavia vi sono fonti discordanti riguardo alle sue origini ed al suo nome.Una di queste tradizioni racconta che sia stato “inventato” nel 1500 vicino a Reggio Emilia per una casualità. Si narra che il capitano di ventura Emiliano Giovanni Baglioni arrivò alle porte della città e si accampò. A corto di viveri mandò, com’era uso a quel tempo, alcuni soldati a razziare i campi dei contadini della zona. Il raccolto, però, fruttò ben poco e il Capitano Baglioni si ritrovò con uova, zucchero, qualche fiasca di vino e delle erbe aromatiche. In mancanza d’altro fece mescolare il tutto e lo diede ai soldati al posto della solita zuppa e questi ne furono entusiasti. L’uso popolare chiamava Giovanni Baglione ‘Zvàn Bajòun’ e la crema ne prese il nome diventando prima ‘Zambajoun’, poi Zabajone e infine Zabaglione.Un’altra tradizione, almeno altrettanto affermata, sostiene che questo preparato sia stato inventato, sempre nel XVI secolo, a Torino e chiamata crema di San Baylon e quindi semplicemente Sambayon (tutt’ora in piemontese lo zabaione si chiama sanbajon) per ricordare il francescano Pasquale Baylón, santo protettore dei cuochi.La più antica attestazione di una preparazione dello zabaione arriva probabilmente da Napoli: la ricetta compare infatti nel Ms. Bühler, 19, ff 1-76 – oggi conservato presso la Morgan Library & Museum di New York – e risulterebbe datata intorno all’anno 1450.Altre antiche fonti certe sullo zabaione arrivano da Mantova. È mantovana infatti, una delle più antiche ricette conosciute, e si deve ad un cuoco di corte della famiglia Gonzaga. Eccola: “Per far un zambalione: Si pigliarà ova fresche sei, zuccaro fino in polvere libra una e meza, vino bianco oncie sei, il tutto si sbatterà insieme, e poi si pigliarà un tegame di pietra vitriato a portione della detta composizione, si mettarà due once di butiro a disfar nel tegame, quando sarà disfato si butterà la composizione dandogli fuoco sotto e sopra. Se si vorrà mettere nella composizione cannella pista se ne mettarà un quarto, se si vorrà ammuschiar conforme il gusto, avertendo però alla cottura che non si intostisca troppo. Puoi fare ancora il zambalione in questa maniera: pigliarai oncie due di pistacchi mondi, pellati e poi pistati nel mortaio e stemprali con il vino, che va fatto il zambalione, e questo zambalione serve assai per i cacciatori, perché alla mattina, avanti vadino alla caccia, pigliano questo; se per sorte perdessero il bagaglio possano star così sino alla sera; se può fare con il latte di pignoli, come di sopra, e per convalescenti, che non possono pigliar forza, si fa col seme di melone.”
A Venezia si narra che nel XVII secolo si consumasse una crema di queste caratteristiche proveniente dalle coste della Dalmazia, chiamate in dialetto Zabaja e che da queste derivi il nome.È tuttavia probabile che queste tradizioni siano almeno in parte romanzate e che, considerando la diffusione degli ingredienti e la loro semplice reperibilità, una crema simile allo zabaione fosse nota e diffusa in tempi ben più remoti: per esempio nel 1533 un dolce simile allo zabaione era servito, in forma ghiacciata, alla corte di Caterina de’ Medici ed è probabile un’ascendenza ancora più antica.Qualunque fosse la sua origine, la ricetta si diffuse ovunque, legandosi ai diversi vini liquorosi tradizionali (Porto, Marsala, Xeres, Rivesaltes), grazie alla maliziosa tradizione che lo pubblicizzò come rinvigorente nei giochi d’amore. La ricetta tradizionale piemontese prevederebbe l’utilizzo di moscato dolce, tuttavia è attestato anche l’uso di vini rossi o bianchi non liquorosi come il Barbera, il Nebbiolo o l’Arneis.

Spumini, Schiumini, Spumén

Area di produzione
Nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, come zona di produzione è indicata esclusivamente laProvincia di Forlì-Cesena e la Romagna. In realtà si producono in tutto il territorio regionale e un po’ in tutta Italia.IngredientiAlbumi d’uovo, zucchero semolatoRicetteSpumini… Con uova e zucchero (un albume per ogni etto, a Monteiottone), si realizzavano i candidi spumini che, più minuti di quelli di oggi, erano chiamati a San Piero “sputi di monaca”. La “montata” richiedeva una buona ora di colpi di forchetta nel capace piatto di coccio; e la “neve”, a cucchiaiate, scendeva poi in una teglia leggera (di alluminio), per essere cotta al forno, dopo il pane.Vittorio Tonelli, A Tavola con il contadino romagnolo, 1986 Grafiche Galeati;
*****Gli spuminiIl forno che si andava raffreddando dopo la cottura del pane era ideale per cuocere gli spumini. Occorreva maestria e pazienza per prepararli; riuscivano solo se le chiare venivano montate a neve sodissima e la temperatura del forno era ben regolata.Si montano con la frusta le chiare insieme allo zucchero, lavorando per circa 1 ora se l’operazione è fatta a mano, per 20-25 minuti se si usano le fruste elettriche. Con una tasca per dolci o due cucchiaini, si adagiano sulla placca imburrata o ricoperta con carta da forno delle palline di composto grandi poco più di una noce, tenendole a una certa distanza le une dalle altre. Si infornano a calore altissimo, portando però subito la temperatura a 160° C, si cuociono a questa temperatura per 20-25 minuti, si spegne il forno e si tolgono dopo un’oretta, senza mai aprire lo sportello. Si staccano dalla placca solo quando sono freddi.
Ingredienti
100 g di zucchero semolato per ogni chiara d’uovo; poco burro per ungere la placca.Liliana Babbi Cappelletti, Civiltà della tavola contadina in Romagna, 1993 Idealibri s.r.l. Milano;*****Spumini… Con uova e zucchero (un albume per ogni etto, a Monteiottone), si realizzavano i candidi spumini che, più minuti di quelli di oggi, erano chiamati a San Piero “sputi di monaca”. La “montata” richiedeva una buona ora di colpi di forchetta nel capace piatto di coccio; e la “neve”, a cucchiaiate, scendeva poi in una teglia leggera (di alluminio), per essere cotta al forno, dopo il pane.Vittorio Tonelli, A Tavola con il contadino romagnolo, 1986 Grafiche Galeati;
*****SpuminiSchiuminiQuattro albumi d’uovo, 300 g di zucchero
Sbattere con la frusta gli albumi d’uovo che dovranno essere freschissimi, assieme allo zucchero semolato, dopo averli entrambi scaldati sul fuoco. Appena si rassoderanno, dopo circa 10 minuti, con l’aiuto di una tasca da pasticceria depositare tante grosse noci sulla placca del forno ben imburrata, molto distanziate le une dalle altre. Cuocere in forno appena tiepido (140°) anche un’ora se necessario, almeno finché gli schiumini saranno ben asciutti.Ricettario della cucina regionale italiana, Accademia Italiana della Cucina (Touring Club Italiano 2003)

Pan di Spagna

Area di produzione
Nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, come zona di produzione è indicata esclusivamente laProvincia di Forlì-Cesena e la Romagna. Si tratta peraltro di una preparazione assai diffusa in tutta la Regione.IngredientiUova, zucchero, farina
RicettePan di SpagnaErba di Spagna, pan di Spagna… Il nome della nazione consorella, dominatrice in anni lontani di parte dell’Italia, ha lasciato un segno nella cultura popolare, insieme alla Francia del resto, sua storica antagonista nelle contrade italiche e… nel detto, rassegnato, di chi aveva fame:
O Frencia, o Spagna…Purchè se magna!
Non si usava di solito alcuna “dose” lievitante per il pan di Spagna, qualche volta presente al pranzo della trebbiatura e tra i doni, gentili, che le ragazze facevano ai morosi.Stando a una ricetta di Ranchio, si sbattevano i tuorli di sei uova insieme a sei cucchiai di zucchero e si univano alla biuda, cioè alla chiara, montata a neve attraverso la solita forchetta (che alla fine doveva restare in piedi, da sola, a prova della densità raggiunta). Sopra si spolveravano quattro cucchiai di farina di grano (o di fecola), mentre si lavorava di mestolo, sempre in un senso. Volendo, si aggiungeva un pizzico di “dose”, da ciambella. L’impasto si calava in una teglia, unta a freddo e appena imbiancata di farina. Durante la cottura, di un’ora circa, non si doveva operare alcun controllo, perché il dolce avrebbe rischiato di abbassarsi. E il calore doveva essere moderato e costante nel forno del pane (oggi sostituito da quello della stufa); per questo, alcuni stuccavano con la mota le eventuali fessure lasciate da un lastrone imperfetto, ai battenti.Vittorio Tonelli, A Tavola con il contadino romagnolo, 1986 Grafiche Galeati;
****Il pan di SpagnaEra il dolce che rallegrava con la sua presenza i lavori di trebbiatura, sostituendo a fine pasto la classica ciambella.Si montano le uova con lo zucchero (a piacere, se ne può sostituire una parte con il miele) fino a raddoppiarne il volume.Si versa poi a pioggia la farina setacciata, mescolando con delicatezza. Il composto si sistema in una tortiera imburrata e si manda a cuocere in forno a 180° C per circa 20 minuti senza mai aprire lo sportello.Se il pan di Spagna non è da farcire, si può sostituire la farina con fecola di patate oppure fare a metà e metà.
Ingredienti
4 uova intere; 5 tuorli d’uovo; 250 g di zucchero semolato oppure 220 g zucchero e 30 g di miele; 250 g di farina 00 o di fecola, oppure 125 g di farina 00 e 125 g di fecola; poco burro per la tortiera.Liliana Babbi Cappelletti, Civiltà della tavola contadina in Romagna, 1993 Idealibri s.r.l. Milano;
****519. Pane di Spagna¹Uova, n. 6Zucchero fine in polvere, grammi 170.Farina d’Ungheria o finissima, grammi 170.Odore di scorza di limone a chi piace.Dimenate prima i rossi d’uovo con lo zucchero, poi aggiungete la farina, asciugata al fuoco o al sole, e dopo una lavorazione di circa mezz’ora versateci due cucchiaiate delle sei chiare montate per rammorbidire il composto, indi il resto mescolando adagio.Potreste anche montare le uova sul fuoco come nel Dolce alla napoletana N. 586. Cuocetelo al forno.
¹ Il pane di Spagna è un dolce di vecchia tradizione “… sorte di biscotto assai delicato, et è quello stesso che chiamano Pan di Spagna: si compone con dodeci uova, e libre due di zucchero fino senza chiarificarlo, quali cose prima assai si misticano, poi se gli aggiunge farina oncie otto seguitando il maneggiarlo,, poi ridotto in forma d’una gran pagnotta con lento fuoco cotto si taglia in pezzi, e si ritorna di nuovo nel forno; poi si serve coperto di zucchero. Gli speciali, e le Monache lo tagliano in fette longhe, e similmente lo ritornano a rasciugar nel forno la suddetta composizione con un poco di chiara; e posta in un tegame in forma di bocconcini li chiamano biscottini, over in forma longa biscotti alla Savoiarda”. (Tanara, L’economia del cittadino in villa cit., p. 34).Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, introduzione e note di Piero Camporesi, Torino, Einaudi, 1995****PAN DI SPAGNA
800 grammi di zucchero, 150 grammi di farina di patata. 200 grammi di farina di semola. Due chiare di uova montate. 100 grammi di burro liquefatto.Cuocere a fuoco lento il tutto ben mescolato entro stampi bassi e lunghi unti di burro.Giovanni Manzoni, Così si mangiava in Romagna, 1977 Walberti Edizioni

Castagnole

Territorio interessato alla produzione:Nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, come zona di produzione sono indicate esclusivamente le Province di Forlì-Cesena e Rimini. In realtà si producono sull’intero territorio regionale.
Ingredienti:farina, uova, zucchero, mistrà, buccia di limone grattugiata, alchermes, zucchero o miele, latte, olio di oliva e strutto.Coadiuvanti tecnologici: sale, lievito in polvere.
Descrizione del prodottoPur rimanendo invariati gli ingredienti le castagnole assumono forme diverse sul territorio: nel pesarese hanno forma allungata, irregolare e contorta, di colore dorato; l’alchermes, con cui vengono cosparse una volta cotte, dona loro un colore rosso acceso, mitigato dallo zucchero con cui vengono spolverate.Occasionalmente vengono anche farcite con crema pasticcera.
Lavorazione:Gli ingredienti vengono amalgamati fino a formare un impasto morbido ed elastico.Nel pesarese con tale impasto si formano dei filoncini di circa 10 cm che vengono lessati in acqua bollente e lasciati poi gonfiare; quindi si incidono per la lunghezza e si cuociono in forno; al termine, le castagnole vengono spolverate con zucchero semolata o alchermes. Nelle altre zone della Regione, dall’impasto si formano dei bastoncini che, tagliati in modo da dare loro la forma desiderata, si friggono, preferibilmente con strutto o olio di oliva.Quindi si scolano con carta assorbente e si cospargono con alchermes, zucchero o miele.
Cenni storici e curiositàLe castagnole rappresentano un dolce tipico del periodo del carnevale.Si trovano in forme e dimensioni diverse un po’ in tutto il territorio regionale.

Salsa verde per bolliti

Zona di ProduzioneNell’elenco dei prodotti agroalimentari tradizionali della Regione Emilia-Romanga è indicata l’intera Provincia di Reggio Emilia. In realtà la salsa verde per i bolliti si ritrova perlomeno in tutta l’Emilia, dove si trova spesso il bollito, e viene prodotta, con leggere variazioni negli ingredienti, sia nella ristorazione che a livello domesticoMateria PrimaPeperoni verdi, carote,cipolla, sedano, finocchio e aglio, olio e sale come condimento.LavorazioneTritare finemente gli ingredienti e condire con olio e sale.RicetteLibro contenente la maniera di cucinare e vari segreti e rimedi per malattie e altro. libro di casa di una famiglia reggiana del Settecento, a cura di G. bizzarri, E. Bronzoni, Ancona, Il lavoro editoriale, 1986, pag. 102Salsa verde: pistacchi, erbucci, bieta, maiorana e fanne sugo, uva passa, pane abbrustolito, pesta il tutto. cannella, noce moscata e agresta.
Ricettario di Casa Re. Antonio Re, 1800Salsa verde: bianchisci prezzemolo poi pestalo. Aggiungi zucchero mollica di pane inzuppata d’aceto e ben spremuta. Incorpora bene e staccia. Alcuni aggiungono odor d’aglio, pepe, sale ed anche un’acciuga. insapora bene e staccia due volte. stempera poi con aceto a dovere.Iori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, pag. 40Salsa verde per bolliti.Ingredienti: Peperoni verdi in abbondanza, 2-3 carote, 1 bella cipolla, sedano e finocchio freschi, 2-3 spicchi d’aglio. Tritare finemente tutti gli ingredienti e condire con olio e sale. Serve da accompagnamento a carni o pesci lessi.

Aceto Balsamico tradizionale di Modena DOP

Descrizione del prodotto: colore bruno scuro, carico e lucente; densità apprezzabile in una corretta, scorrevole sciropposità; “bouquet” caratteristico, fragrante, complesso ma bene amalgamato, penetrante e persistente, di evidente ma gradevole e armonica acidità; sapore caratteristico, così come attraverso i secoli è stato consacrato dalla tradizione in immutabile continuità, dolce e agro e ben equilibrato con apprezzabile acidità con lieve tangente di aromaticità ottenuta per l’influenza dei vari legni usati dei vaselli di acetaia, vivo, franco, pieno, vellutato, intenso e persistente, in buona sintonia con i caratteri olfattivi che gli sono propri; acidità totale non inferiore a 4,5 gradi ( espressa in grammi di acido acetico per 100 grammi di prodotto); densità a 20 gradi centigradi (non inferiore a 1,240).

Conservazione: Dato il prolungato invecchiamento nelle acetaie e le caratteristiche intrinseche che ne derivano, il prodotto non è soggetto a rischi di alterazione durante la conservazione. L’Aceto balsamico tradizionale di Modena va conservato in recipiente di vetro, avendo semplicemente cura di chiudere bene il contenitore e conservarlo lontano da sostanze che emanino profumi particolari o sentori pronunciati.

Metodo di produzione: Ottenuto dalle uve di Lambrusco, Ancellotta, Trebbiano, Sauvignon, Sgavetta, Berzemino e Occhio di Gatta.
L’Aceto balsamico tradizionale di Modena è ottenuto da uve tipiche della zona di origine, il cui mosto, cotto a fuoco diretto e a vaso aperto, viene posto in botti di legno pregiato dove acetifica naturalmente. A seguito di successivi travasi in botti di dimensioni sempre minori, e dopo molti anni di maturazione e invecchiamento, acquista le caratteristiche organolettiche tipiche. A questo punto interviene la valutazione degli esperti degustatori a sancire il raggiungimento del miracoloso equilibrio che solo l’alchimia del tempo e la mano esperta dell’uomo sanno concedere a questo prodotto.

Consumo: Il balsamico è duttile, ma a non saperlo impiegare correttamente si corre il rischio di sprecarlo: si tratta di trovare il giusto equilibrio tra la quantità utilizzata e il risultato che si vuole ottenere. Si consiglia di assaggiarlo sulla punta di un cucchiaio prima dell’impiego, per percepirne, volta per volta, la rotondità oppure l’intensa acidità.
L’Aceto balsamico tradizionale di Modena può essere gustato su tutte le verdure, fresche e lessate, sui bolliti, per preparare salse e per rifinire preparazioni di carne e pesce, sul Parmigiano Reggiano, sulla frutta (ideale sulle fragole) e sul gelato.

Cenni storici: L’Aceto balsamico tradizionale di Modena costituisce una realtà unica al mondo nel panorama dei condimenti. A differenza dell’aceto, che proviene da un liquido alcolico, l’aceto balsamico tradizionale è ottenuto da un mosto cotto di uve tipiche della zona di origine, bianche e zuccherine.
La tradizione gastronomica modenese arricchisce molti dei suoi piatti con il particolare sapore di questo condimento, la cui origine risale al tempo dei Romani, che utilizzavano il mosto cotto concentrato (sapa) per condire le loro pietanze.

Fonte: Disciplinare di Produzione della DOP “Aceto Balsamico Tradizionale di Modena

Nocino, nosen, nozèn

Territorio interessato alla produzione:
Nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna è indicato come tipico delle provincie di Forlì-Cesena e della Romagna.In realtà il prodotto viene realizzato, sia a livello industriale che domestico, praticamente in tutta la Regione.
Materia primaAlcool, zucchero, noci acerbe.Cannella, chiodi di garofano, noce moscata, buccia di limone (facoltativi).RicetteCominciamo dagli ingredienti: 1 l di alcol, 750 g di zucchero, 750 g di acqua, 30 grosse noci con il loro mallo (se le noci sono piccoline se ne aumenta il numero!), chiodi di garofano, cannella, e scorza di limone.Si fa bollire l’acqua insieme allo zucchero fintantoché questo si è sciolto, e si unisce poi l’alcol. In un vaso di vetro a chiusura ermetica si mettono i tocchetti di noce e sopra vi si versa il liquido, insieme a un po’ di buccia di limone (solo la parte gialla), 3-4 chiodi di garofano e un po’ di cannella.Chiuso il vaso, lo si mette via per almeno 40 giorni, non dimenticando di scuoterlo un paio di volte ogni 48 – 72 ore.Prima di passarlo in bottiglia il nocino va filtrato con un comune panno bianco di tela.E’ un tonico e un digestivo di gradevolissimo gusto, che può essere “irrobustito” sol che si varii il rapporto fra acqua e alcol a favore di quest’ultimo.E’ Lunëri Rumagnôl – Antologia di cultura romagnola – a cura di Gianni Quondamatteo, Grafiche Galeati – Imola 1981
****NocinoQuesto liquore risulterà migliore se le noci verranno raccolte dalla pianta nella notte di S. Giovanni Battista (24 giugno).Per ogni litro di spirito (alcool), noci 15Zucchero, grammi 650Acqua, grammi 250Una noce moscataUn pizzico di cannellaChiodi di garofano.Le noci debbono avere il mallo sano e verde. Si spezzano in quattro parti e si mettono in fusione nello spirito insieme alla cannella, alla noce moscata grattugiata e i chiodi di garofano per circa trenta e quaranta giorni ricordandosi di agitare qualche volta il miscuglio. Passato il tempo voluto si levano le noci e gli altri ingredienti rimasti e vi si aggiunge lo zucchero sciolto nell’acqua.Si agita alquanto poi si filtra.Giovanni Manzoni, Così si mangiava in Romagna, Walberti Edizioni 1977;
****750. NocinoIl nocino è un liquore da farsi verso la metà di giugno, quando le noci non sono ancora giunte a maturazione. E’ grato di sapore ed esercita un’azione stomatica e tonica.
Noci (col mallo), N. 30.Spirito, litri uno e mezzo.Zucchero in polvere, grammi 750Cannella regina tritata, grammi 2Chiodi di garofano interi, 10 di numero.Acqua, decilitri 4.La corteccia di un limone di giardino a pezzetti.
Tagliate le noci in quattro spicchi e mettetele in infusione con tutti i suddetti ingredienti in una damigiana od un fiasco della capacità di quattro o cinque litri. Chiudetelo bene e tenetelo per quaranta giorni in luogo caldo scuotendo a quando a quando il vaso.Colatelo da un pannolino e poi, per averlo ben chiaro, passatelo per cotone o per carta, ma qualche giorno prima assaggiatelo perché se vi paresse troppo spiritoso potete aggiungervi un bicchier d’acqua.Pellegrino Artusi, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene, introduzione e note di Piero Camporesi, Torino, Einaudi, 1995
****Da un vecchio quaderno romagnolo emigrato forse più di un secolo fa a Roma, ritorna in Romagna il menu di un giorno importante – ripetiamo, di almeno cento anni orsono – in una nostra vecchia casa patriarcale aperta all’ospitalità. Dobbiamo questa preziosa riproduzione alla cortesia della signorina Gabriella Capizzi, che ringraziamo vivamente.……………….E per finire una versione della ricetta di un antico liquore, il NocinoSpirito puro litri uno, noci 8 affettate fine, zucchero due libbre, acqua due bicchieri e mezzo, chiodi di garofano e odore di cannella. Lasciate in fusione le noci con lo spirito per tre mesi insieme a chiodi di garofano e cannella.Bollite lo zucchero nell’acqua, fare la miscela; dopo 24 ore si filtra. Mezza dose ne viene un litro.G. Quondamatteo, Grande dizionario (e ricettario) gastronomico romagnolo, Imola, Grafiche Galeati, 1978;
Cenni storici e curiositàLe origini si perdono nei secoli, qualcuno sostiene che i romani cogliessero le noci nei boschi di Noceto, per fare il piacevole infuso (col vino, naturalmente, poiché non conoscevano i distillati e quindi l’alcool). Nel medioevo la pianta della noce era considerata malefica, consacrata ai riti infernali, infatti si narrava che su queste piante volassero, le streghe. Si dice che i Longobardi praticassero nelle nostre campagne strani riti pagani, con noci raccolte col mallo, nel mese di giugno. Le giovani contadine per molti secoli si sono lavate la faccia nella rugiada della notte di San Giovanni, prima di raccogliere le noci, così sarebbero diventate più belle. Tra tutte queste usanze e credenze si dice sia nato il nocino di S. Giovanni di Noceto (PR); un’antica leggenda affermava che questo ottimo liquore è stato inventato da una guardia del Medioevo. Non è noto dove facesse la guardia questo soldato (certo nei pressi di Noceto), ma si sa che con un infuso di noci voleva fare innamorare una deliziosa ragazza del luogo. Stanco di corteggiarla si rivolse ad una maga che gli consigliò una pozione magica con alcool, zucchero, corteccia di limone, cannella, chiodini di garofano e noci con mallo, raccolte dopo S. Giovanni, il tutto da filtrare dopo 40 giorni. dopo aver sorseggiato il composto, la giovane si innamorò, ma oltre che a lei il liquore fu offerto a tutti i suoi compagni, suscitando tanto entusiasmo che ben presto la ricetta si diffuse per i 30 castelli dei dintorni. Ancor’oggi, lasciando da parte la stregoneria medioevale, gustiamo questo liquore, che ha infinite proprietà digestive ed è anche un elisir di lunga vita.

Maraschino, Maraschèin

Area di produzioneNell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna è indicata la produzione nella sola provincia di Reggio Emilia. In realtà il prodotto si trova diffuso in tutta Italia, e sicuramente in tutta la Regione.Materia PrimaIl maraschino è un liquore, dolce e incolore a base di un tipo particolare di ciliegia il Prunus cerasus, (conosciuto anche con il nome di visciolina o amarena), avente un contenuto alcolico del 30% circa, e tradizionalmente commercializzato in tipiche bottiglie impagliate a mano. Il liquore deve il suo nome alle varietà del frutto usato in Dalmazia la marasca (cerasus acidior), dove il maraschino è nato.RicetteCamparini l. (Ciripiglia Numa), Cucina tradizionale reggiana, Reggio Emilia, Nironi e Prandi, 1944“Maraschin” formato con alcool e zucchero e “maràschi” ( marasche,ciliegie amarasche) , postevi in infusione fredda ed al quale non si attribuiscono altri intenti che di soddisfare la golosità.
Sandra Montani- Anita Veroni- “La cucina della Bassa Padana: saba sugo e savoret”. Franco Muzzio editore. 1986 Padova, pag.Maraschino:Procurare delle marasche in quantità tale da poter ottenere grammi 500 di midolle. (con il frutto smidollato si può preparare un rapido e delizioso dessert facendolo bollire per un quarto d’ora e lasciare raffreddare ).Continuando col liquore, mettere in infusione le midolle con gr 500 di alcool e lasciare macerare per 40 giorni. Fare bollire 400 gr di acqua con 500 gr di zucchero e quando lo sciroppo sarà raffreddato unire all’alcool colato; filtrare e imbottigliare. Si consiglia di lasciare invecchiare a lungo e di usarlo, poi, sia come liquore sia come componente per le macedonie di frutta.In cucina il maraschino viene sovente impiegato per la preparazione di dolci oppure per la correzione di macedonie di frutta o di gelati. Si presta inoltre nella preparazione di cocktail (es. Aviation cocktail).
Cenni storici e curiositàLa produzione del rosolio maraschino ebbe inizio a Zara nel Medioevo. La più antica ricetta fino ad oggi pervenuta, risalente al XVI secolo, la si deve ai farmacisti di un monastero domenicano della città. La produzione del maraschino proseguì senza sosta anche grazie all’annessione della città al Regno d’Italia, ma venne gravemente compromessa dagli eventi bellici della seconda guerra mondiale.
In seguito ai bombardamenti alleati, che distrussero gran parte della città e con essa le storiche distillerie, e alle rappresaglie dei partigiani titini, gli imprenditori zaratini cercarono rifugio in altre regioni d’Italia, seguiti dalla stragrande maggioranza dei dalmati italiani che presero la strada dell’esodo in vista della cessione di Zara alla Jugoslavia (1947). Nella penisola italiana il maraschino trovò una patria d’adozione, fino a diventare un liquore molto conosciuto e diffuso in tutta la penisola.

Montuni del Reno DOC

Zona di produzione: 28 comuni nella provincia di Bologna e 6 comuni nella provincia di Modena. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti di buona esposizione ubicati in terreni di medio impasto tendenti all’argilloso.Vitigni: Montu’ 85%, altri vitigni a frutto bianco, non aromatici, raccomandati o autorizzati nelle province di Bologna e Modena, fino ad un massimo del 15%.Resa massima per ha: 180 qli.Resa massima di uva in vino: 70%.Gradazione alcolica minima: 10,5%.Acidita’ totale minima: 6,5 per mille.Estratto secco netto minimo: 18 per mille.Invecchiamento: nessuno.Caratteristiche organolettiche: colore giallo paglierino; profumo gradevole, caratteristico, leggermente vinoso; sapore asciutto o amabile, sapido, di giusto corpo.Qualificazioni: nessuna.Tipologie: viene prodotto anche nel tipo “Frizzante”.

Colli Bolognesi Classico Pignoletto DOCG

Zona di produzione: l’intero territorio dei comuni di Monteveglio e Monte San Pietro ed in parte di Sasso Marconi, Bazzano, Crespellano, Casalecchio di Reno, Zola Predosa e Castello di Serravalle, in provincia di Bologna e parte del comune di Savignano sul Panaro, in provincia di Modena

Vitigni: da uve dei vitigni Pignoletto per un minimo dell’85% con eventuale aggiunta di uve Pinot bianco, Riesling italico e Trebbiano romagnolo

Gradazione alcolica minima: 12 gradi

Tipologie: Bianco

Caratteristiche organolettiche: colore paglierino chiaro con riflessi verdognoli, odore delicato caratteristico, sapore tranquillo

Abbinamenti: Colli Bolognesi Classico Pignoletto: piatti a base di pesce, come antipasti, primi piatti, crostacei, fritture, verdure e formaggi giovani dolci.

Riferimenti normativi: La Doc Colli bolognesi Classico Pignoletto è stata riconosciuta con Decreto del 04.08.1997, pubblicato sulla GU del 02.09.1997

Colli Bolognesi DOC

Zona di produzione: in provincia di Bologna il territorio comunale di Monteveglio, Castello di Serravalle, Monte San Pietro, Sasso Marconi, Savigno, Marzabotto, Pianoro, e parte di Bazzano, Crespellano, Casalecchio di Reno, Bologna, S. Lazzaro di Savena, Zola Predosa, Monterenzio; ed in provincia di Modena parte di Savignano sul Panaro. Sono esclusi dalla Doc i vigneti ubicati in terreni molto freschi, specie di fondovalle, ed anche quelli in esposizione inadatta o mal coltivati.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Sottozone: Colli Bolognesi Colline di Oliveto, Colli Bolognesi Colline di Riosto, Colli Bolognesi Colline Marconiane, Colli Bolognesi Monte San Pietro, Colli Bolognesi Serravalle, Colli Bolognesi Terre di Montebudello, Colli Bolognesi Zola Predosa, Colli Bolognesi Classico Pignoletto.

Reno DOC

Zona di produzione: i comuni di Anzola dell’Emilia, Argelato, Bazzano, Bentivoglio, Bologna, Budrio, Calderara di Reno, Casalecchio di Reno, Castel Guelfo di Bologna, Castello d’Argile, Castel Maggiore, Castenaso, Castel San Pietro Terme, Crespellano, Crevalcore, Dozza, Granarolo dell’Emilia, Imola, Medicina, Ozzano dell’Emilia, Pieve di Cento, Sala Bolognese, San Giorgio di Piano, San Giovanni in Persiceto, San Lazzaro di Savena, San Pietro in Casale, Sant’Agata Bolognese e Zola Predosa, in provincia di Bologna; inoltre Nonantola, Ravarino, San Cesario sul Panaro, Castelfranco Emilia e Savignano sul Panaro, tutti in provincia di Modena

Vitigni: Il Reno Bianco Doc è prodotto con uve Albana e/o Trebbiano romagnolo per un minimo del 40% e con altre uve a bacca bianca autorizzate della zona; il Montuni è prodotto dalle uve del vitigno Montù per un minimo dell’85% e da altre uve a bacca bianca non aromatiche della zona; il Pignoletto è prodotto con uve dell’omonimo vitigno per l’85% a cui possono essere aggiunte quelle di altre varietà a bacca bianca della zona

Gradazione alcolica minima: 10,5 gradi

Tipologie: Bianco, Montuni e Pignoletto; tutti possono essere prodotti nelle versioni Tranquillo, Vivace e Frizzante e Secco, Abboccato, Amabile e Dolce

Caratteristiche organolettiche: Reno Bianco Doc: colore giallo paglierino più o meno intenso, odore gradevole delicato, sapore secco o abboccato o amabile o dolce, sapido e armonico. Montuni: colore giallo paglierino, odore gradevole, caratteristico e vinoso, il sapore risulta secco o abboccato o amabile o dolce, di giusto corpo. Pignoletto: colore giallo paglierino scarico con riflessi verdognoli, odore delicato caratteristico, sapore secco o abboccato o amabile o dolce, armonico e fine

Abbinamenti: Reno Bianco Doc Fermo: piatti a base di pesce, salumi tipici romagnoli, tortellini. Montuni Fermo: antipasti di pesce, primi piatti a base di pasta con sugo bianco di verdure e crostacei, pesci bolliti, asparagi e formaggi molli. Pignoletto: piatti a base di pesce non troppo elaborati, prosciutto di Modena, culatello, spalla cotta, tortellini in brodo.

Riferimenti normativi: La Doc Reno è stata riconosciuta con DPR del 14.02.1997 pubblicato sulla GU del 25.02.1997

Lambrusco di Sorbara DOC

Zona di produzione: i territori dei comuni di Bastiglia, Bonporto, Campogalliano, Camposanto, Carpi, Modena, Nonantola, Ravarino, San Prospero, Soliera, in provincia di Modena.

Vitigni: Lambrusco di Sorbara 60%, Lambrusco Salamino 40%.

Resa massima per ha: 140 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11%.

Acidita’ totale minima: 7 per mille.

Estratto secco netto minimo: 22 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: spuma vivace, evanescente; colore rosso rubino o granato di varia intensita’; profumo gradevole con sentore di violetta; sapore asciutto o amabile, di corpo, fresco, sapido, armonico e frizzante.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti: minestre e primi piatti tradizionali emiliani, salumi, cotechino e zampone, piatti a base di uova, carni e verdure fritte

Lambrusco Grasparossa di Castelvetro DOC

Zona di produzione: i territori dei comuni di Castelfranco Emilia, Castelnuovo Rangone, Castelvetro, Fiorano, Formigino, Maranello, Marano sul Panaro, Modena, Prignano sul Secchia, San Cesario, Savignano sul Panaro, Spilamberto, Sassuolo, Vignola.

Vitigni: Lambrusco grasparossa 85%, altri Lambrusco ed “Uva d’oro”, fino al 15%.

Resa massima per ha: 140 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 10,5%.

Acidita’ totale minima: 6 per mille.

Estratto secco netto minimo: 20 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: spuma vivace, evanescente; colore rosso rubino con orli violacei; profumo spiccatamente vinoso e particolarmente intenso; sapore asciutto o amabile, sapido, armonico e vivo di acidita’.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti :minestre e primi piatti tradizionali emiliani, salumi, cotechino e zampone, piatti a base di uova, carni e verdure fritte.

Lambrusco Salamino di Santa Croce DOC

Zona di produzione: i territori dei comuni di Campogal-liano, Camposanto, Carpi, Cavezzo, Concordia, Medolla, Mirandola, Novi, San Felice sul Panaro, S. Possidonio, Soliera.

Vitigni: Lambrusco Salamino 90%, altri Lambrusco ed “Uva d’oro”, fino al 10%.

Resa massima per ha: 150 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11%.

Acidita’ totale minima: 7 per mille.

Estratto secco netto minimo: 23 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: spuma vivace ed evanescente; colore rosso rubino di varia intensita’; profumo vinoso, intenso con caratteristico sentore di fruttato; sapore asciutto o amabile, nettamente vinoso, gradevole, ricco di corpo, sapido, fresco e frizzante.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti: minestre e primi piatti tradizionali emiliani, salumi, cotechino e zampone, piatti a base di uova, carni e verdure fritte.

Miele del crinale dell’Appennino emiliano-romagnolo

Il miele si presenta liquido subito dopo la smelatura e cristallizza più o meno rapidamente a seconda dell’origine botanica. Il miele uniflora di castagno conserva a lungo lo stato fisico liquido. In ogni caso, durante la commercializzazio, il prodotto deve presentare uno stoto fisico uniforme. Il colore varia da toni chiari a toni scuri, a seconda della presenza di castagno e/o di melata. Odore e aroma vegetali-fruttati, di media intensità, via via più pungenti a seconda della presenza di castagno. Sapore dolce, con una eventuale nota amara più o meno forte in relazione alla componente di castagno.

Territorio interessato alla produzione: Il miele prodotto da alveari delimitata dal confine regionale a sud e stesa fino alle prime propaggini collinari a nord (altitudine 200 m)

Cenni storici e curiositàL’apicoltura è un’attività molto diffusa nelle più antiche tradizioni rurali del territorio regionale. Ne fanno fede numerose testimonianze bibliografiche. In seguito, tra la fine dell’800 e l’inizio del 900, si sono definite le basi di una apicoltura moderna come ancora oggi viene praticata. L’aspetto più importante e caratterizzante è stata l’introduzione e la diffusione sul territorio regionale degli alveari razionali, in anticipo rispetto alle altre regioni italiane. L’apicoltura emiliano-romagnola si configura quindi, precocemente, come attività agricola evoluta: nel periodo succitato infatti si ritrovano numerosissime indicazioni del fervore di tale attività. Molti apicoltori che operano nella Regione rappresentano veri innovatori di tecniche e materiali apistici, pubblicano manuali diffusi in Italia e all’estero, sono promotori dei primi convegni apistici, creano apiari scuola.

Miele di erba medica della pianura emiliano-romagnola

Sono destinati alla produzione solo alveari costituiti da colonie popolose e in buono stato sanitario e arnie razionali in buone condizioni.La difesa sanitaria degli alveari deve essere condotta secondo le norme stabilite dal servizio sanitario nazionale, in particolare rispettando i tempi di carenza previsti.L’eventuale nutrizione artificiale deve essere sospesa prima della posa dei melari. E’ vietato l’impiego allo stesso fine di qualunque sostanza in grado di residuare nel miele alterandone le caratteristiche di tipicità (miele e polline provenienti da zone diverse da quella di produzione, sostanze amidacee ecc.).I favi dei melari debbono essere vuoti e puliti, regolarmente sostituiti e non debbono avere mai contenuto covata.

Territorio interessato alla produzione: Il miele prodotto su fioritura di erba medica (Medicago sativa L.) da alveari posti nell’area compresa tra il confine regionale a nord e le prime propaggini collinari a sud, fino a 200 m di altitudine.

Miele vergine integrale

Zona di produzione:
L’apicoltura è un’attività molto diffusa nelle zone rurali del nostro territorio. Le aree a particolare vocazione sono la Pianura Padana (caratterizzata da fioriture di leguminose, soprattutto erba medica) e la fascia appenninica (ricca di piante nettarifere tra cui lupinella, sulla, castagno, rovo, lampone, pruno selvatico, mirtillo ed erica).

Descrizione:
L’indicazione “miele vergine integrale” è nata per distinguere una varietà di miele con caratteristiche qualitative superiori a quelle previste per legge per la denominazione di base (miele). Secondo il disciplinare che ne definisce la produzione, il miele vergine integrale viene prodotto secondo le norme tradizionali in alveari a favo mobile, estratto per centrifugazione, con umidità idonea a garantire una lunga conservazione naturale e a prevenire fenomeni di fermentazione. Non deve subire trattamenti che possano modificare le caratteristiche proprie del miele fresco appena estratto e, in particolare, non deve subire riscaldamenti a temperatura superiore a 40° C. Viene inoltre conservato in modo da mantenerne inalterate le caratteristiche compositive e organolettiche proprie della sua origine naturale e delle particolari procedure di produzione e conservazione seguite. Il miele vergine integrale si presenta nella maggior parte dei casi allo stato cristallizzato che diventa garanzia di un processo di preparazione tradizionale. Infatti, lo stato liquido è tollerato solo se spontaneo, cioè nei primi mesi dopo la produzione o quando la composizione naturale del miele (cioè l’origine botanica) lo consenta.

Tecniche di preparazione:
Il miele può essere utilizzato anche come ingrediente di piatti o dolci diversi. Il miele può sostituire fino a un terzo dello zucchero: torte e biscotti risulteranno di una consistenza più elastica, meno asciutti, più uniformemente dorati, dotati di un aroma inconfondibile e si conserveranno freschi più lungo. Occorre trovare però mieli che abbiano un gusto che ben si adatta al cibo o alla bevanda ai quali viene aggiunto, completandone l’aroma o producendo un piacevole contrasto. Qualche esempio: una bevanda dissetante fatta con acqua, miele di eucalipto e succo di limone; la tisana della sera dolcificata con miele di tiglio; frullato di latte, fragole e miele di lavanda; succo di arancio con miele di arancio oppure ricotta e miele di castagno.

Cenni Storici e Geografici:
In cucina il miele è un ingrediente più antico dello zucchero: non per niente latte e miele era il cibo degli dei! Inoltre, si noterà che la maggior parte dei dolci tradizionali, quelli che in tutte le regioni d’Italia si preparano e si consumano per le feste, soprattutto a Natale, contengono miele come componente insostituibile. In particolare, l’apicoltura ha sempre svolto un ruolo importante nella zona di Castel San Pietro Terme e Gallo Bolognese, grazie all’apicoltore castellano Giulio Piana, cui è dedicato un ambito premio che viene consegnato ai migliori mieli nazionali la terza domenica di settembre a Castel San Pietro Terme.

Consorzio di Tutela:
Associazione Nazionale per il miele vergine integrale – Via Tagliaverde, 10 San Paolo Solbrito (Asti)

Organo di Tutela:
Osservatorio Nazionale della Produzione e del Mercato del Miele – Via Matteotti 72 40024 Castel San Pietro Terme (BO)
Tel. e Fax 051/940147 – E-Mail: osservatoriomiele@libero.it

Eventi correlati:
NaturalMiele – Castel San Pietro Terme, in giugno.
Premio Giulio Piana – Castel San Pietro Terme, terza domenica di settembre.

Riferimenti Normativi:
La legge nazionale sulla commercializzazione del miele in vigore dal 1982 al 1998 stabiliva che il miele vergine integrale commercializzato con un’indicazione relativa all’origine botanica possedesse determinati requisiti di composizione al fine di garantirne l’effettiva unifloralità. Questa legge è stata oggi soppressa per incompatibilità con la normativa comunitaria, alla quale l’Italia ha dovuto uniformarsi. Al momento attuale i produttori di miele di qualità hanno presentato alla Comunità Europea una domanda perché questa denominazione venga riconosciuta a livello europeo attraverso il meccanismo delle “attestazioni di specificità”, un sistema che permette al consumatore di riconoscere i prodotti agroalimentari che devono le loro speciali e peculiari caratteristiche a particolari processi tradizionali di preparazione.

Vin brûlè, Vino brulè, Brulè

Area di produzione
Nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, come zona di produzione è indicata esclusivamente laProvincia di Forlì-Cesena e la Romagna. In realtà è diffuso su tutto il territorio regionale e non solo.
RicetteVINO BRÛLE’Versate in una casseruola un litro o due di vino rosso secco, aggiungete cannella, chiodi di garofano, zucchero quanto è necessario, buccia e succo di limone (se il vino fosse invece dolce un bicchierino di Campari) e fatelo bollire per mezz’ora o poco più.(cotto la sera del I novembre 1936)Primo Placci, Mangiari d’altri tempi nella Romagna popolare, 1978 – Walberti Edizioni Lugo;
*****VINO BRÛLE’Fare bollire il vino con zucchero, cannella, chiodi di garofano e scorza abbondante di limone. Questa bevanda va bevuta calda e cura molto bene un forte raffreddore, una costipazione, una leggera forma influenzale.Giovanni Manzoni, Così si mangiava in Romagna, Walberti Edizioni 1977;
*****VINO BRULE’Per 4 personelt 1 vino rosso5 fichi secchiun pugno di castagne secchescorza di arancio3-4chiodi di garofanoun pezzetto di cannellaun pizzico di pepe4 cucchiai di zucchero
Mettere il vino rosso in un tegame con dentro i fichi secchi, le castagne secche, la scorza dio arancio, i chiodi di garofano, la cannella, il pepe ed infine lo zucchero, appena inizia a bollire fiammeggiare, aspettare che si spenga poi versare nei bicchieri.
Dapprima si beveva il vino cotto, poi si mangiava la frutta. Talvolta ne bevevano un poco anche i bambini prima di andare a dormire, tanto bastava per esser un po’ frastornati. Era anche possibile preparare uno sciroppo per lenire la tosse facendo bollire con l’acqua le castagne, i fichi secchi e il miele.E’ magnè. I mangiari negli usi dei contadini romagnoli, dai racconti di R. Giorgetti e di sua mamma M. Manuzzi, a cura di D. Bascucci [et al.], Rimini, Panozzo Editore, 2002
*****VIN BRULE’La ricetta è elementare: per quattro o cinque persone, prendete una bottiglia di vino rosso secco ma non troppo duro (bene il Sangiovese), versatelo in un tegame, aggiungete chiodi di garofano e cannella, quindi un po’ di scorza di limone e mettete sul fuoco. Quando il vino comincerà a bollire, accendete un fiammifero e dategli fuoco. Lasciate cuocere finché la fiamma non si spegnerà da sola, ma prima di toglierlo dal fornello provate con almeno un altro fiammifero.Quando l’alcool sarà del tutto evaporato e la fiamma non si riaccenderà più, passatelo per un colino e servitelo rigorosamente caldo in bicchieri dove avrete versato zucchero a piacere (in genere un cucchiaio a persona) e una fettina di limone. Oggi in commercio si trovano già confezionate le bustine di aromi pronte e dosate. I tipici bicchieri che si usano per servire il “brulè” sono quelli da ponch, meglio se di vetro e manico robusti. Si abbina benissimo con le castagne e la ciambella.Dizionario della cucina romagnola. Ricette, vini, personaggi …, a cura di E. Morini e S. Vicarelli, Bologna, Il Resto del Carlino, Poligrafici Editoriale, 1993;*****Vino brulèVersate in una casseruola un litro di vino rosso secco, aggiungete cannella, chiodi di garofano, zucchero quanto è necessario e buccia di limone.Ponete il recipiente sul fuoco e mescolate fino a sciogliere lo zucchero.Quando il vino comincia a bollire, facendo molta attenzione a non scottarvi, avvicinate un fiammifero alla superficie affinché l’alcool contenuto prenda fuoco e lasciate fiammeggiare fino al completo spegnimento.Servite il vino brulè fumante e il suo aroma speziato vi delizierà.Mangiare in Romagna – Cultura, ricette e tradizione, La Greca Arti Grafiche Forlì, 2008Cenni storici e curiositàPer i romagnoli è il “brulè” e basta, senza anteporvi il termine vino, che si riferisce solo a quello vero, puro, col suo sapore e il suo apporto alcoolico foriero di allegria. Il brulè, invece, il suo “spirito” lo perde tutto nella sua pur gioviale fiammata, per accogliere il gusto degli aromi che vi si immergono. Era tradizione in certe località bere il brulè la sera di San Sebastiano (patrono di Solarolo). Più in generale, oltre che come simpatico compagno di conversazioni attorno al tavolo nelle fredde serate d’inverno, dedicate magari alle partite a carte, era ed è visto come bevanda particolarmente indicata per chi abbia il raffreddore, il mal di gola o sia in procinto di buscarsi un’influenza.………………………………………….Dizionario della cucina romagnola. Ricette, vini, personaggi …, a cura di E. Morini e S. Vicarelli, Bologna, Il Resto del Carlino, Poligrafici Editoriale, 1993;

Polenta pasticciata

Area di produzioneNell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna la produzione è indicata nella solaprovincia di Reggio Emilia. In realtà si produce in tutta la Regione.Ricette
Iori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, pag. 59Polenta pasticciata:Per 6 persone occorrono 600 gr di farina gialla, 400 gr. di pomodori maturi; 200 gr di salsiccia; 10 gr. di burro: 50 gr. di lardo; una manciata di funghi secchi fatti rinvenire con acqua tiepida, conservando questa acqua dopo averla ben filtrata. Preparate una “pisteda” di cipolla, carota, sedano e lardo. Quando saranno ben rosolati unire i funghi ben sminuzzati, la salsiccia spellata, i pomodori, tirando a cottura con l’acqua dei funghi. Cuocere al farina gialla per circa 1 ora in acqua salata, lasciandola abbastanza sostenuta. Imburrare uno stampo e porre sul fondo un po’ di sugo preparato. Alternare, fino ad esaurimento degli ingredienti, la polenta con il sugo e il parmigiano grattugiato, terminando con il sugo, qualche fiocchetto di burro ed abbondante parmigiano grattugiato. Lasciare gratinare.
La cuciniera maestra. Ovvero metodo facile per cucinare esposto chiaramente con l’aggiunta di ricette per la compilazione di liquori e la conservazione dei cibi, Reggio Emilia, L. Bassi, 1984, pag. 50
Polenta pasticciata: Preparate una buona polenta e disponetela a strati entro una casseruola, cospargetela mano mano di burro sciolto con funghi e formaggio grattugiato. Se vi aggrada potrete impiegare anche un po’ di salsa di pomodoro. fate cuocere con fuoco sotto e sopra e servite.
Gosetti della Salda Anna, Le ricette regionali italiane, Milano, la cucina italiana, 1967, pag. 450
Polenta pasticciata:Ingredienti: dose per 4 persone. Farina gialla gr. 500, pomodori maturi gr. 400, salsiccia gr. 200, burro gr. 100, lardo gr. 50 funghi secchi gr. 25, una cipolla, una carota un gambo di sedano poca farina bianca,parmigiano grattugiato, sale, pepe. Ammorbidire in acqua fredda i funghi. lavare i pomodori e spezzettarli. tritare il lardo con la cipolla e il sedano, porre a fuoco, unire la salsiccia senza pelle, i funghi strizzati ed i pomodori: salare, pepare e lasciare cuocere il tutto per circa mezz’ora. imburrare uno stampo dai bordi alti. Nel frattempo preparare una polenta piuttosto soda. A cottura ultimata tagliarla a fette e impastarne due o tre con un poco di farina bianca; con il mattarello stenderla formando una sfoglia e con parte di essa rivestire lo stampo imburrato. Mettere uno strato di fette di polenta, un poco di sugo, qualche fiocchetto di burro e una manciata di parmigiano, ancora polenta, sugo ecc., continuando così fino ad esaurimento degli ingredienti, ricordando di mettere a metà circa della “torta”, la salsiccia. Coprire tutto con la sfoglia tenuta da parte, e cuocere in forno già ben cado per circa un’ora, poi servire. Variante: in alcune zone lo stampo non viene rivestito, ma solo imburrato e poi si sistema in esso la polenta, a strati, intervada sugo e salsiccia. Il risultato è ugualmente ottimo.

Minestra con punte di asparagi, Sparseina

Area di produzioneNell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, come zona di produzione è indicata esclusivamente la Provincia Reggiana. In realtà si produce, con minime varianti, un po’ in tutta la regione.
RicettaMINESTRA CON PUNTE DI ASPARAGI
Ingredienti: dose per 4 personeAsparagi verdi sottili gr. 400, riso gr. 200 burro gr. 50 una cipolla novella, salsina di pomodoro, brodo di carne, grana reggiano grattugiato, sale, pepe.Fare un soffritto con la cipolla tritata, il burro, il sale ed il pepe; quando la cipolla avrà preso colore aggiungere un bicchiere di acqua nella quale sia stato sciolto mezzo cucchiaio di salsa di pomodoro, e le punte degli asparagi. Incoperchiare e cuocere a fuoco moderato. Mettere sul fuoco la pentola con il brodo; appena alzerà il bollore buttarvi il riso e quando sarà quasi cotto aggiungere il soffritto di asparagi. mescolare, lasciare sul fuoco ancora qualche minuto, poi servire la minestra accompagnandola con del buon grana grattugiato.
Nota portata tipica di primavera; nel reggiano la chiamano minestra con la “sparseina”: così infatti sono denominati i primi piccoli asparagi
Gosetti della Salda Anna, Le ricette regionali italiane, Milano, La cucina italiana, 1967, pag.405La prima domenica di maggio, nel comune di Vezzano sul Crostolo, si tiene tutti gli anni la Festa dell’Asparago Selvatico

Minestra di castagne

Area di produzioneArea appenninica della Regione Emilia-RomagnaRicetteIori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, pag. 52Minestra di castagne:Ingredienti: 500 gr di castagne secche e sale.Cuocere le castagne in acqua con una presa di sale. Preparare una sfoglia nel modo classico, tagliarla per i mal tagliati e, quando le castagne saranno cotte, buttare nello stesso tegame anche i maltagliati. Servire ben caldo.
Materie per uso di cucina. Libro di famiglia della famiglia Cassoli. 1700, pag.Minestra di castagne di magre : mettete in casseruola del butirro , tre cipolle trite, due radici, una pastinaca, sedani, tre peri un poco d’aglio e il tutto bene trito, garofano in polvere. Fate cuocere il tutto fino a che siano un poco colorite, aggiungete acqua e sale e fatele cuocere,dopo passatele per straccio e prendete mondine e cuocetele nel brodo della suddetta salsa, e la metà sfatele, e le altre sane.
Minestra di castagne: si metta in una casseruola un pezzo di butirro, tre cipolle trite, due radici, pastinache, sedani, tutto tritato, un poco d’olio, e due garofani sodi;dopo che hanno preso colore metteteci dell’acqua e fatele ben bollire vi metterete le castagne scorzate e ne disfarete alcune,le altre le lascerete sane.

Pan cott, Zuppa di pane

Area di produzione
Nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, come zona di produzione è indicata esclusivamentela zona montana della Provincia Reggiana, in particolare la zona intorno a Castelnovo né Monti. In realtà si produce in tutta la Regione, con varianti locali.IngredientiPane raffermo, ragù di carne e soffritto.RicettaPAN COTTPreparare un soffritto con aglio, lardo e prezzemolo e farlo ben rosolare. Tagliare a fette del pane casareccio leggermente raffermo e in una teglia alternare, partendo da uno strato di ragù di carne, uno strato di soffritto ed uno di pane e così via sino ad esaurimento degli ingredienti. Spolverare ogni strato con abbondante parmigiano reggiano grattugiato. Infornare e gratinare.
Iori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, 74Cenni storici e curiositàTipico piatto del riuso di avanzi e materie prime altrimenti non più utilizzabili. Se la ricetta sopra indicata è una ricca preparazione tipica del reggiano, più frequentemente il Pan Cotto si trova nel resto della regione come zuppa di pane raffermo cotta nel brodo e insaporti con odori (rosmarino, alloro, ecc.). Alcuni vi aggiungono anche salsa di pomodoro.

Tinche all’emiliana

Area di produzioneLa zona della bassa pianura padana, in particolare i canali irrigui o il PoRicettaTinche all’emilianaIngredienti dose per 4 personeQuattro belle tinche, olio d’oliva, una piccola cipolla, uno spicchio d’aglio, un gambo di sedano, una carota, quattro pomodori al sugo, sale, pepe.
Quando le tinche sono ancora vive, fare ingoiare loro una cucchiaiata di aceto, che toglie ai pesci il caratteristico sapore di fango. Pulirle, squamarle e lavarle accuratamente, staccare le teste e tenerle a parte. Pelare i pomidori e spezzettarli. Tritare la cipolla, la carota, il sedano e l’aglio: mettere il ricavato in un recipiente, unire qualche cucchiaiata d’olio e soffriggere lentamente bagnando di tanto in tanto con qualche cucchiaiata d’acqua. Salare, pepare, aggiungere i pomidori e le teste dei pesci; cuocere bene poi passare tutto quanto al setaccio, lasciando cadere il passato in un casseruola pulita. Sistemare nel recipiente le tinche e cuocerle a fiamma bassa.
Gosetti della Salda Anna, Le ricette regionali italiane Milano, La cucina italiana, 1967, pag. 431

Cipollata, Zigulleda, Siguleda

Zona di ProduzioneSecondo l’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, la zona di produzione èsarebbe da considerarsi l’intera Provincia di Reggio Emilia. In realtà una frittata del genere si ritrova regolarmente in tutto il territorio regionale.DescrizioneFrittata con cipolle e parmigiano reggiano.
Materia PrimaCipolle o cipollotti, uova, olio, sale, pepe e Parmigiano Reggiano.RicetteIori Galluzzi M.A. – Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, pag. 200Zigulleda: Bisogna che consideriate un uovo a persona, 4 o 5 belle cipolle o cipollotti e parmigiano-reggiano grattugiato a volontà per una dose sufficiente a 3-4 persone. Rosolate bene le cipolle con olio,sale e pepe. Sbattere le uova con il parmigiano,scolare le cipolle dall’olio di cottura e mescolarle alle uova. Versare il composto nuovamente nella padella e portare a cottura sempre mescolando. L’aspetto della zigulleda dovrà essere molto simile alle cosiddette uova strapazzate.
Ferrrari M., Ricette e racconti della mia Reggio, Cadelbosco di Sopra, Conad Emilia ovest, 1993, pag. 109Siguleda o cipollata.Ingredienti: 4 uova, 4 o 5 cipollotti con gambo fresco, un cucchiaio scarso di farina, 2 manciate di grana, sale, pepe, olio q.b., 1 spruzzatina di aceto.Versate nella padella l’olio, fate rosolare i cipollotti tagliati a rotelle con i gambi: devono appassire, scolateli dell’olio di cottura e lasciate raffreddare e, con calma, versateli in una terrina dove, in precedenza, avrete sbattuto a dovere le uova, la farina e il formaggio con sale e pepe.Mescolate il tutto e rimettete nella padella dove l’olio sarà ancora caldo. Lasciate cuocere.Togliete dal fuoco e spruzzate leggermente la siguleda con aceto, magari balsamico se ne disponete.

Pesce gatto in umido, Pèesc gat

Area di produzioneNell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna è indicata la produzione soprattutto nella bassa Pianura reggiana. In realtà si trova in tutta l’area nei pressi del fiume Po, in cui viene intensamente pescato.RicetteIori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, pag. 113Pesce gatto in umido:Per 6 persone occorrono 6 pesci gatto di media grossezza che avrete ben puliti, eviscerati, a cui avrete però lasciato le teste. Preparate un battuto con cipolla, prezzemolo e aglio, rosolateli bene con olio di oliva e aggiungete i pesci gatto precedentemente infarinati. Bagnate con un bicchiere di vino bianco ben secco, fatelo evaporare e portate a cottura con conserva di pomodoro fresco, nella misura di circa un cucchiaio per ogni pesce. Aggiustate di sale e pepe. Cuocete per circa un’ora a fuoco moderato e servite con polenta abbrustolita calda.
MONTANI, Sandra – VERONI, Anita. La cucina della Bassa Padana: Saba, sugo e savoret. Padova, Franco Muzzio, 1986, p. 51Pesce gatto in umico con piselliPreparare lavati e scolati i pesce gatti. Soffriggere in una padella: cipolla, olio, burro e aggiungere, poi, pomodoro a fette, foglie di basilico, rosmarino, sale e pepe. Mescolare ed aggiungere mezzo bicchiere d’acqua. Lasciare bollire questa salsa per 20 minuti, dopo di che aggiungere il pesce gatto ed i piselli. Cuocere quanto necessario.
Cenni storici e curiositàC’era quello “nostrano” (che proprio nostrano non era, in quanto importato dal Nord America alla fine dell’800) ma ormai acclimatato e considerato autoctono. I proprietari dei laghetti di pesca sportiva hanno scoperto però che con il pesce gatto americano, Channel cat fish, che pesa almeno tre chili e non tre etti come il nostrano, per i pescatori c’era più soddisfazione e così l’hanno importato dagli Stati Uniti agli inizi degli anni ’70.In particolare i primi allevamenti di pesce gatto furono avviati nel modenese, ma visto il successo ottenuto, in breve si estesero a tutta la Pianura Padana, ed oggi abbiamo allevamenti di pesce gatto in Emilia Romagna, in Veneto che in Lombardia.
L’introduzione del pesce gatto nelle acque italiane ha danneggiato la fauna autoctona, in particolar modo la tinca e il luccio, poiché il pesce gatto è un vorace predatore, ma non è preda di nessuno per via delle sue spine velenose.

Ossobuco, òs bus

Area di produzione
Nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna, come zona di produzione è indicata esclusivamente laProvincia di Forlì-Cesena e la Romagna. Si preparano in realtà in gran parte della Regione.
IngredientiOssobuco di vitello (preferibilmente giovane), sedano, carote, cipolla, prezzemolo, olio extra vergine di oliva, salsa di pomodoroRicetteOssobucoIn Romagna si usa in genere il singolare, mentre è più logico parlare di “ossibuchi”. Comunque, ecco come ci piace di farli:Preparato un battutino di cipolla, sedano, carota e qualche fogliolina di prezzemolo, lo facciamo soffriggere in ampia casseruola con olio e burro. Uniamo un chiodo di garofano, quindi vi disponiamo sopra gli ossibuchi, lasciandoli cuocere un poco da ogni parte.Allora uniamo un bicchierotto di vino bianco secco ed a prosciugamento versiamo poca salsa di pomodoro sciolta in acqua calda. Regoliamo di sale e pepe e facciamo bollire adagio fino a cottura.Togliamo le fette, passiamo al setaccio sugo e ortaggi del tegame, poi rimettiamo gli ossibuchi cospargendoli col sugo ricavato.Lasciamo ispessire opportunatamente a bollore lento e serviamo poi sopra un letto di purea di patate.C. Contoli, Guida alla veritiera cucina romagnola, Officine Grafiche Calderoni 1972;
****Ossobuco*Acquistate dal vostro abituale fornitore quattro pezzi di garretto di vitello giovanissimo. Infarinateli e poneteli in casseruola, dove avrete fatto soffriggere burro, grasso di prosciutto, e un pesto di sedano, carota e cipolla.Rosolateli adagio e quando saranno coloriti d’ambo le parti, versate vino bianco, estratto di pomodoro e un po’ di brodo di carne. Condite con pepe e sale, e fate cuocere giusto, a fuoco lento.Prima di togliere dal fuoco, insaporite – se lo desiderate – con due foglie di salvia, rosmarino, prezzemolo tritato e buccia di limone.*Lealmente, qui, la Romagna si leva il cappello a onor della Lombardia, di Milano (oss büs, col risotto), la cui gente, davvero in gamba, l’ossobuco sa confezionarlo e divorarlo splendidamente, senza “tenerlo nella schiena”, come gli stessi milanesi sono usi dire degli infingardi, di coloro, cioè, che mancano di operosità e di pazienza nel lavoro.Al vero diletto provato dai lombardi nel mangiare l’ossobuco, noialtri, da ghiotti importatori, non possiamo oppore che l’ingordigia.G. Quondamatteo, L. Pasquini, M. Caminiti Mangiari di Romagna, Grafiche Galeati – Imola 1975;****OssobucoE’ questo un piatto molto diffuso in Romagna, e preparato così: per 6 persone tritate ½ cipolla, 1 costa di sedano, 1 carota e 1 mazzo di prezzemolo, e fate soffriggere tutto in 50 gr. di burro. Infarinate leggermente 6 ossibuchi e fateli rosolare nel soffritto. Aggiungete quindi qualche foglia di salvia, 1 bicchiere di vino bianco secco e il sale necessario.Mano a mano che il vino evaporerà, unite dei ramaioli di brodo caldo per evitare che gli ossibuchi si asciughino troppo. La cottura durerà circa 1 ora. Servite gli ossibuchi ben caldi con abbondante sugo di cottura.
Òs busL’è quest un piat ch’us s’ mâgna indapartót in Rumâgna e preparê acsè: par 6 parsôn tridé ½ zvòla, 1 gâmba d’sàral, 1 caröta e 1 maz d’pidarsul e fasì sufrézar tot in 50 gr. D’butì. Dasì un’infarinadìna a 6 òs bus e fasìj rusê int e’ sufret.Azunzì pu quejca fóia d’sêvia, un bicir d’ven biânc sec e e’ sêl nicisêri.Mān a mān che e’ ven e’ svapurarà, unì di ramarul d’bröd chêld parchè j òs bus i n’ s’asuga tròp. La cutùra la durarà intôran a un’ora.Purtì in têvla j òs bus bèn chêld cun un bël pö d’sug d’cutùra.Fosca Martini, Romagna in bocca, 1977 Editrice Il Vespro****OssobucoTagliate a pezzettini un sedano, una cipolla, quattro carote e cuocerli con olio e brodo in una pignatta di terracotta. Aggiungere sopra il composto suddetto gli ossibuchi (due a persona), un cucchiaio di conserva di pomodoro, il sugo di due limoni e per ultimo due mazzetti di prezzemolo tritati, sale e pepe.Giovanni Manzoni, Così si mangiava in Romagna, 1977 Walberti Edizioni
****Osso BucoSi prepari un battuto di cipolla, sedano, carote e prezzemolo e lo si faccia friggere in una casseruola con olio e burro.Vi si dispongano sopra gli ossi buchi. Si versi ancora vino bianco ed un po’ di salsa di pomodoro. Si bolla adagio. Si tolgano le fette di ossobuco e le si cosparga col succo preparato. Si può aggiungere salvia, prezzemolo e buccia di limone.E’ questo un piatto molto celebrato in Lombardia fra le cose più rare; in Romagna lo si trova solo in qualche occasione.Mario Tabanelli, Romagna in Cucina, luglio 1988 – Magalini Editrice;****Ossibuchiper 4 persone4 ossibuchi, gr. 50 burro, gr. 50 grasso di prosciutto crudo, cipolla, sedano, carota, prezzemolo, conserva di pomodoro, vino bianco secco, limone, farina, sale.In una casseruola, fate sciogliere il burro e mettete a rosolare il battuto di grasso di prosciutto e il trito di una cipolla, una carotina e un gambo di sedano.Quando il trito è appassito, aggiungete gli ossibuchi infarinati e lasciateli insaporire bene prima da un lato, poi dall’altro. Salate ed innaffiate con mezzo bicchiere di vino bianco; a sua evaporazione unite un cucchiaio di conserva di pomodoro diluita in mezzo bicchiere di acqua tiepida.Continuate la cottura a fuoco lento e se il fondo restringesse troppo, aggiungete poca acqua calda.Un minuto prima di ritirare la casseruola dal fuoco, cospargete gli ossibuchi con la buccia di mezzo limone grattugiata e un cucchiaino di prezzemolo tritato. Servite subito.Giovanna Savoldi, Le ricette della mia cucina emiliana e romagnola, Firenze 1980
****OSSOBUCOPrima di tutto occorre preparare il classico battuto di cipolla, carota e sedano tritati finemente, senza dimenticare pure qualche fogliolina di prezzemolo. Il tutto va soffritto in padella, in questo caso preferibilmente col burro e un po’ d’olio. Per chi lo gradisce, si può aggiungere oltre a sale e pepe un chiodo di garofano oppure alcune foglie di salvia.Quando il battuto sarà rosolato, mettete gli ossibuchi in padella, versate un bicchierino di vino bianco ovviamente secco. Quando sarà evaporato, tirate a cottura con passato di pomodoro (un poco) e acqua per allungare un po’ quest’ultimo. C’è chi usa aggiungere brodo, se il composto si asciuga troppo rispetto alla cottura degli ossibuchi, che richiede poco meno di un’ora. Se il battuto non fosse troppo fine, passatelo e cospargetene le fette di ossobuco prima di togliere dal fuoco. Con l’ossobuco stanno benissimo i piselli, cotti assieme nella salsa di pomodoro.Dizionario della cucina romagnola. Ricette, vini, personaggi …, a cura di E. Morini e S. Vicarelli, Bologna, Il Resto del Carlino, Poligrafici Editoriale, 1993;

Lesso di carni, Less

Area di produzioneNell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna è indicato come tipico della sola Provincia di Reggio Emilia. In realtà si tratta di una preparazione che si trova regolarmente in tutta l’Emilia, ed è spesso legata nella tradizione casalinga all’uso delle carni per il brodo.Materia PrimaCarni: tagli di carne di manzo (vedi di seguito per le differenze tra bollito e lesso), gallina, ossa di bue con midollo; Aromi per il brodo: qualche pomodoro maturo, carote, cipolle, sedano, aglio e a chi piace una foglia di lauro o alloroRicette
Iori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, pag. 8Allesso brasèPrendere un pezzo do coscetto di manzo e piantatevi dei pezzetti di cannella in vari posti poi legatelo con una acciaia come un salame ben stretto. Prendete una casseruola e mettetevi il burro, lardo e prosciutto, cipolla, carote, sedano e sale e poi mettetevi il vostro manzo e fatelo bollire voltandolo spesso e quando è venuto bel rosso levatevi la cipolla, il sedano e le carote e mettetevi un po’ di brodo intanto che termini di cuocersi e quando è cotto tagliatelo a fette, mettetelo nel piatto e vuotatevi sopra il suo intinto.
MONTANI, Sandra – VERONI, Anita. La cucina della Bassa Padana: Saba, sugo e savoret. Padova, Franco Muzzio, 1986, p. 51
Lesso: Il lesso è stato per lungo tempo il piatto forte della nostra cucina e tuttora riveste un posto importante sulla nostra tavola. In un pranzo ricco un bel piatto di lessi misti viene servito dopo la minestra e prima dell’arrosto. Deve essere accompagnato con salse di verdure, crude o cotte, e da mostarda. Le carni consigliate per questo piatto sono: lingua di manzo, una gallina intera, un pezzo di manzo (spalla) un pezzo di testina di vitello. Se si desidera un buon lesso, mettere in una pentola di acqua calda le carni scelte e aggiungere: una carota, una costa di sedano, qualche foglia di prezzemolo, una foglia di cipolla. Salare e fare cuocere lentamente. Nel piatto di portata insieme ai lessi sopra descritti compare anche il cotechino, lessato a parte ed affettato; nel periodo di Natale per una tavola più ricca e festosa, secondo la tradizione il cappone sostituisce la gallina.Cenni storici e curiositàSia il Bollito che il Lesso sono due modalità di preparazione di carne in brodo. La principale differenza è che il Bollito presenta una carne più saporita ed un brodo più leggero, mentre il Lesso è utilizzato principalmente per fare un buon brodo ma la carne ha meno sapore.
Il Lesso si ottiene utilizzando carne di Manzo anche non di primo taglio, con in più eventualmente altri ritagli di carne, nervetti, ossa di bue con midollo come ad esempio coda o ginocchio, e parti meno nobili del pollo come ali, collo etc. Mettete in pentola grande la carne immersa in acqua fredda e un pizzico di sale grosso. L’acqua deve ricoprire di due dita la carne. Aggiungete gli aromi e portate ad ebollizione. Otterrete così in ottimo brodo. La carne che si ottiene è molto sfruttata, ma è comunque buonissima servita fredda, tagliata a fettine sottili, e condita con molto limone e sale. In alternativa la carne può essere utilizzata per preparare sughi, polpette o quanto vi suggerisce la fantasia.

Patata di Montese

Ciò che distingue la patata di Montese dalle altre varietà presenti in commercio è il suo sapore particolare, che le deriva dalle caratteristiche dei terreni della zona di produzione, unitamente alla elevata conservabilità del prodotto senza ricorrere a trattamenti chimici.Le cultivar tradizionalmente impiegate sono quelle tardive e medio-tardive, con colore della polpa giallo chiaro o bianca e colore della buccia giallo o bruno rossastra. Sono escluse le varietà precoci. La dimensione del tubero è medio/piccola compresa tra 40 e 80 mm., di forma allungata, ovale o rotonda.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione è rappresentata dal territorio del comune di Montese e parte di quello di Zocca per la provincia di Modena, parte dei comuni di Gaggio Montano, Castel d’Aiano e Vergato per la provincia di Bologna.

Cenni storici e curiositàAssieme alla farina di castagne, ai formaggi vaccini e ad alcuni prodotti della panificazione (come le Crescentine o Tigelle), la patata è stata per lunghi anni alla base dell’alimentazione contadina.La coltivazione della patata di Montese, prodotto da sempre molto apprezzato in ambito provinciale ed interprovinciale, è andata assumendo sempre maggior importanza negli anni recenti come attività redditizia nel contesto dell’economia locale.

Polenta di farina di castagne, puleinta ad fareina ad castagne

Territorio interessato alla produzione:
Nell’elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della Regione Emilia-Romagna è indicata la produzione nel solo Appennino Reggiano. In realtà viene prodotta in tutte le zone montane della Regione.IngredientiFarina di castagne, sale, acqua, burro, ricotta, latte.
PreparazioneIori Galluzzi M.A.–Iori N., Breve manuale del mangiar reggiano, Reggio Emilia, N. Iori, 1985, pag. 58Polenta di farina di castagne:Per 6 persone occorrono: 1 kg di farina di castagne, acqua salata per la cottura. Cuocere la farina di castagne come una normale polenta. Al momento di condirla però dovrete avere un composto abbastanza sostenuto. Preparate il piatto di portata con la “pattona” questo è il suo nome dialettale, su cui avrete versato latte di pecora completamente scolato dal suo siero per circa cinque giorni.Cenni storici e curiosità
E’ una ricetta di antica origine molto diffusa sul territorio delle valli piacentine dove si trovano i castagneti.

Sulada

Le materie prime sono rappresentate da farina di grano tipo 0, sale fino, acqua e olio extra vergine di olive.Si amalgamano gli ingredienti fino ad ottenete impasto omogeneo e liquido facilmente versabile. Preriscaldare la padella con l’olio, versarvi un mestolo di impasto e stenderlo uniformemente con un cucchiaio di legno fino a farne uno strato di spessore uniforme. Girare la “Suläda” per cuocere e dorare anche l’altra parte.

Territorio interessato alla produzione: Vallata del torrente Dragone, ricetta raccolta nella borgata di Medola

Cenni storici e curiositàAlimento povero consumato nell’ambiente rurale. Il nome Suläda deriva dalla padella (Söl) utilizzata per la cottura.

Spongata, spunghèda

Dolce da forno rivestito esternamente di pasta frolla e ripieno di miele, mandorle, pinoli, noci, frutta candita, cedro, uvetta e biscotti sbriciolati.

Territorio interessato alla produzione: Modena e provincia. Un dolce la cui tradizione è sostanzialmente reggiana, ma che è fatto anche a Modena per ragioni di “cuginanza” estense.

Cenni storici e curiositàUn dolce la cui tradizione è sostanzialmente reggiana, ma che è fatto anche a Modena per ragioni di “cuginanza” estense. A Modena la spongata era molto conosciuta già nel XVI secolo, quando la produzione era controllata da una “grida” estense.In un registro delle Masserie Estensi la Spongata figura nella lista di doni inviati «per Modena e Ferrara» al Magnifico Borso d’Este.Nei documenti dell’archivio di Modena si trovano notizie, segnate dalla badessa Eleonora d’Este, figlia di Eleonora d’Aragona, di Spongate inviate per Natale da Brescello al duca di Ferrara.

Crescenta fritta, cherscènta frètta

Simile al gnocco fritto, si differenzia però da quest’ultimo per i prodotti utilizzati che sono farina, uovo, latte, sale, burro, bicarbonato. La sfoglia ottenuta dall’impasto, opportunamente tagliata a losanghe, viene fritta nell’olio e si mantiene fragrante per alcuni giorni. Si consuma con formaggio e/o affettati.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il modenese

Cenni storici e curiositàLa cherséinta era nutrimento tradizionale della povera gente, di campagna e di città, particolarmente quale colazione mattutina o a ultimazione e coronamento di determinati lavori (bendìga).

Bensone, balsone, balsòn

Dolce da forno classico, antico e semplice. E’ tradizione gustarlo, oltre che come normale dolce, anche intinto in un bicchiere di vino lambrusco in modo che la pasta dorata e morbida prenda il colore del vino.Per altri è da accompagnare preferibilmente con vino amabile rosso o bianco.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il modenese.

Cenni storici e curiositàA Medolla e’ legato alla millenaria Fiera di Bruino che si tiene la prima domenica di luglio ed in occasione della quale viene distribuito gratuitamente dal comune assieme ad un bicchiere di vino lambrusco.

Sassolino

Tra i liquori più caratteristici della provincia di Modena si segnala il Sassolino, il cui nome deriva dalla città di origine: Sassuolo. Il Sassolino di Modena è un liquore dal sapore asciutto, persistente, con forte sentore di anice, ottimo come digestivo, correttore del caffè e inimitabile nella preparazione dei dolci ai quali dona un sapore inconfondibile. Il prodotto è incolore, limpido e brillante. Il sapore asciutto, aromatico, persistente, con forte sentore di anice. L’odore profumato, caratteristico dell’anice. Il Sassolino di Modena viene confezionato in recipienti di vetro aventi la capacità massima di 1 litro.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione è rappresentata dal territorio della provincia di Modena

Cenni storici e curiositàLe origini del distillato sono antiche, così come la storia di alcune delle ditte produttrici locali che continuano inalterata la produzione da alcuni secoli. Secondo la bibliografia locale la lavorazione ebbe inizio a Sassuolo ad opera di alcuni speziali svizzeri provenienti dal Cantone dei Grigioni che qui si insediarono a partire dal 1804. La produzione del Sassolino è stata sempre legata alla provincia modenese, fin dai tempi in cui “i famosi anici stellati cinesi venivano pestati nel mortaio e distillati lentamente tra i sassi del famoso limpido fiume Secchia” (Album Sassolese “Il lavoro”, Modena 1993). Grazie ai cadetti dell’Accademia Militare di Modena che, provenienti da tutta Italia, si recavano a Sassuolo per il campo estivo e le esercitazioni di tiro, il prodotto acquistò fama anche fuori della provincia ed in altre regioni italiane, pur conservando la tipicità di un liquore di nicchia. Secondo la bibliografia locale furono proprio i cadetti dell’Accademia a dare al liquore il nome poi definitivo di Sassolino.

Anicione, andsòn

Le materie base sono costituite da: alcool di origine agricola, semi di anice verde (pimpinella anisum), semi di anice stellato (anice badiana cinese).

Territorio interessato alla produzione: Territorio del Comune di Finale Emilia (MO)

Cenni storici e curiositàNon risulta una data precisa di creazione dell’anicione ma la ditta “Casoni” (inizialmente DI.L.CA) è sorta nel 1814 e già da allora ne assicurata la produzione. C’è chi ne attribuisce la paternità ad una famiglia di distillatori proveniente dal Cantone dei Grigioni (CH).