Toma del Maccagno

Materia prima: latte intero o parzialmente scremato.Tecnologia di lavorazione: analoga alla Toma di Balme.Stagionatura: fino a 4 settimane circa.Caratteristiche del prodotto finito: altezza: variabile; diametro: cm. 20-30; peso: Kg. 6-7; forma: cilindrica; crosta: sottile, liscia e chiara; pasta: con occhiatura pronunciata, color giallo ora.Area di produzione: area del Biellese, della Val del Cervo, dell’Elvo e della Sessera (VC).Calendario di produzione: tutto l’anno.Note: un tempo il latte usato per la sua preparazione veniva filtrato con ortiche, licheni e felci.

Gorgonzola DOP

Materia prima: latte intero di una sola mungitura.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte previa pastorizzazione a 28-34 gradi, aggiungendovi fermenti lattici (streptococchi), muffe (penicillium) più caglio liquido. Coagula in 15 minuti. Dopo la rottura della cagliata (a dimensione di guscio di noce) si lascia riposare per 10-15 minuti. Dopo queste operazioni, la massa viene raccolta in teli di canapa e messa a sgocciolare per 10-12 ore a 15-18 gradi e umidità del 90-95%. Si effettua quindi la stufatura durante 5-6 giorni rivoltando le forme ogni giorno. La salatura si effettua a secco, a giorni alterni durante due-tre settimane. Matura in 20-30 giorni in ambiente a 6-l0 gradi e umidità del 75-80%, dove le forme vengono forate prima sull’una e poi sull’altra faccia con aghi di rame o di acciaio ad intervallo di 4-5 giorni per favorire lo sviluppo delle muffe. Resa 11,5%.

Stagionatura: variabile.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 16-20; diametro: cm 25-30; peso: Kg l0-13; forma: cilindrica; crosta: dura, ruvida, di colore rossiccio; pasta: unita, tenera, di colore bianco o appena paglierino, non opaca, erborinata (dal dialetto erborin = prezzemolo, per via dell’aspetto); grasso: 48%; sapore: dolce.

Area di produzione: dalla Lombardia (Gorgonzola é circa a metà strada tra Milano e l’Adda) essa si é andata spostando verso la pianura piemontese.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: il Piemonte rappresenta un po’ più di metà della produzione. L’aggiunta di muffe artificialmente coltivate venne introdotta per la prima volta all’inizio del secolo su indicazione dello studioso O. Josan Olsen. Riconosciuto Doc con Dpr del 30.10.1955, è ora tutelato da un apposito Consorzio che ha sede in Novara, nuovo epicentro produttivo.

Grana Padano DOP

Materia prima: latte di due mungiture, di cui una scremata per affioramento o centrifugazione. Alimentazione: erba verde e mangimi in primavera-estate; insilati, fieno e mangimi in autunno-inverno.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a 32-35 gradi, aggiungendovi siero-innesto più caglio liquido. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata (a dimensione di chicco di mais) si aggiunge dello zafferano e si cuoce in due fasi: prima a 45 gradi, si spurga e poi si riscalda fino a 55 gradi. Dopo queste operazioni, la massa viene estratta con tele, previa eliminazione di gran parte del siero, e messa in mastelli di legno a spurgare per trenta minuti. Si deposita poi nelle fascere e si sottopone a pressione per 8-10 ore. La salatura si effettua a secco, ad intervalli di due giorni per 15 giorni, oppure in salamoia per 30-40 (tipo lombardo) o 15-20 giorni (tipo emiliano). Matura in circa 60 giorni, durante i quali le forme vengono periodicamente unte con olio di lino. Resa 7%. Additivi: formaldeide, nei limiti consentiti dalla legge.

Stagionatura: da 12 mesi fino a tre anni. Resa 6%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 16-20; diametro: cm 40-45; peso: Kg 35-40; forma: cilindrica; crosta: dura, spessa, di colore giallo scuro; pasta: granulosa, a volte umida e attaccaticcia, di colore giallo chiaro.

Area di produzione: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto, nelle provincie definite dal Decreto 30.10.1955 numero 1269.

Calendario di produzione: tutto l’anno, nelle sorti maggengo (primavera-estate) e invernengo (autunno-inverno).

Note: il Consorzio di tutela nasce il 18.6.1954. Da testimonianze del XIV secolo si deduce che la tecnica migliore per produrre il grana fosse appannaggio di Piacenza e dei piacentini. Benvenuto da Imola annotava che gli esperti mercanti, durante i loro lunghi viaggi per mare, si rifornivano di grana piacentino perché “più serbevole e resistente a tutte le malattie”. Il primo documento che parla di questo formaggio risale al 1184, mentre le prime fabbriche di formaggio detto “di grana” si localizzarono all’epoca del XII secolo nel quadrilatero compreso tra il Po, il Ticino, l’Adda e la latitudine di Milano. Dai ritagli delle forme del grana si ottiene il cosiddetto “tosello”, che consiste in fettuccine quasi gommose, di colore grigio paglierino tenue, dal gusto leggermente salato. I caseifici lo regalano, in quanto non ha mercato. Si consumava un tempo come “complimento” ammorbidito sulle fette di polenta abbrustolite sulle braci. Altro sottoprodotto del Grana è il “balon”, ossia formaggio grana mal riuscito, con sapore molto piccante provocato da particolari alterazioni fermentative. La maggior parte dei “balon” viene rilavorata per ottenere vari formaggi molli industriali o formaggi fusi. Va citato infine il “formaggio nisso”, costituito da Grana o formaggelle di montagna andate a male. In alcuni casi si accelerava il processo di fermentazione lasciandolo al sole spalmato di olio. E’ ricercato dai bevitori ed ha un gusto molto piccante. Nel Cremonese viene chiamato “tara”, ma è conosciuto, prodotto e consumato soprattutto in Emilia, nel Piacentino, in una quantità stimata di circa 50 quintali annui.

Toma Piemontese DOP

Zona di produzione: La zona di provenienza del formaggio comprende il territorio amministrativo delle province di Novara, Verbania, Vercelli, Biella, Torino e Cuneo e di alcuni comuni in provincia di Asti ed Alessandria

Tipologia: Formaggio semicotto a pasta morbida (con latte intero) o a pasta semidura (‘semigrasso’)

Descrizione: Ha forma cilindrica, facce piane o quasi piane con scalzo leggermente convesso, peso compreso tra 1,8 e 8 chilogrammi, altezza tra 6 e 12 centimetri e diametro tra i 15 e i 35 centimetri. La pasta è di colore bianco paglierino con occhiatura minuta e diffusa; la stagionatura è variabile dai 15 ai 60 giorni a seconda della dimensione

Note: Le origini della Toma piemontese risalgono all’epoca romana, ma solo in documenti dell’XI secolo si trovano citazioni che la identificano con precisione. Incerta è l’etimologia della parola toma, che viene usata in Piemonte, in Valle d’Aosta, in Francia e in Sicilia; potrebbe forse riferirsi alla fase di caduta della caseina durante la coagulazione, che in dialetto è appunto detta ‘tomè’. In ogni caso la denominazione richiama il nome tradizionale del formaggio prodotto nella relativa zona di produzione, costituita in prevalenza da territori montani e pedemontani.

Riferimenti normativi: Prodotto DOP, Registrazione europea con regolamento CE n. 1107/96 pubblicato sulla GUCE L148/96 del 21 giugno 1996; riconoscimento nazionale con DPCM 10 maggio 1993 pubblicato sulla GURI n. 196 del 21 agosto 1993; incarico di vigilanza con DM 26 maggio 1995 pubblicato sulla GURI del 28 giugno 1995

Sargnon

Materia prima: avanzi di formaggio, specialmente gorgonzola e altri piccanti.

Tecnologia di lavorazione: i pezzi di formaggio vengono fatti fermentare in vasi di terracotta con aggiunta di rhum o grappa per la durata di circa un mese. É pronto al consumo, quando é terminata l’inverminatura (sargnon d’la pignata).

Stagionatura: da 15 fino a 30 giorni circa.

Caratteristiche del prodotto finito: pasta: cremosa e spalmabile di colore bianco, a volte giallastro; spesso anche grigio, di odore piuttosto forte.

Area di produzione: Biella e zone del Vercellese.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: molto simile al Bruss, forse è nato nello stesso modo. Una variante é costituita da un formaggio, modellato a palline, prodotto con latte vaccino scremato e lasciato stagionare quindici giorni circa, con aggiunta di peperoncino e pepe. Non va poi dimenticato il frachet, prodotto con latte cagliato, impastato con sale, pepe, peperoncino, grana grattugiato e gorgonzola, il tutto essiccato in teli di canapa.

Seirass (sairass) di latte o ricotta piemontese

Il Seirass di Latte o Ricotta Piemontese viene ricondotto erroneamente ad un latticino della tipologia “ricotta”. In effetti la sua tecnica di produzione lo fa rientrare a pieno titolo tra i formaggi, essendo il risultato di una coagulazione acida e presamica del latte. A differenza delle altre ricotte, questa è prodotta a partire da puro latte, in passato principalmente di pecora, adesso solo di latte vaccino. La forma del Seirass di Latte o Ricotta Piemontese è tradizionalmente quella del caratteristico cono arrotondato che deriva dall’impiego di tele cucite a formare appunto un cono.

Territorio interessato alla produzione: E’ probabile che il Seirass di latte o Ricotta Piemontese abbia visto la luce nella zona cuneese di Roaschia, molto conosciuta per la fervente attività di allevamento transumante di greggi ovini. In seguito si è diffuso anche in altri territori cuneesi e torinesi ma è più corretto definire, in mancanza di dati storici precisi, il territorio in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàRelativamente al Seirass di latte o Ricotta Piemontese sono state reperite numerose testimonianze orali.

Caprino di Rimella

Materia prima: latte di capra; raramente viene addizionato con latte vaccino. Alimentazione: a foraggio tipico della zona.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 18-20 gradi aggiungendovi caglio di vitello o di agnello. Dopo la coagulazione, la massa viene posta nelle formelle o lasciata sulla canapa, dopo averle dato una forma tonda. Matura in due-tre giorni.

Stagionatura: da 50 giorni, fino a due mesi circa, ma di solito non si effettua.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm. 1; diametro: cm. 8-9; peso: Kg. 0,2; forma: cilindrica; crosta: appena accennata di colore dal bianco al marrone chiaro; pasta: morbida, spalmabile, di colore biancastro. Sapore: piccante dopo i 50 giorni di stagionatura.

Area di produzione: Valsesia, comune di Rimella in particolare (VC).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: prodotto destinato per lo più all’autoconsumo, viene smerciato direttamente nel Vercellese o in Lombardia.

Caprino lattico piemontese

Il formaggio Caprino Lattico Piemontese è la denominazione che raggruppa produzioni caseariepiemontesi a latte caprino, rientranti nelle tipologie casearie genericamente definite come “lattiche”. In Piemonte l’allevamento della capra da latte non ha mai avuto una evoluzione paragonabile a quella vaccina. In molti casi la tecnologia casearia non era dissimile da quella applicata con il latte di vacca, generalmente ne differiva la pezzatura finale del formaggio e, di norma, se ne diminuiva anche la stagionatura. Negli ultimi decenni si è diffusa anche la versione tecnologica definita “a coagulazione lattica”, storicamente appartenente al formaggio conosciuto anche come “Formaggetta”.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il Piemonte

Cenni storici e curiositàIl termine Caprino Lattico Piemontese non compare in testi storici, è stato coniato per raggruppare formaggi di simili tecnologie che in passato acquisivano nomi territoriali per abitudine ma senza specifiche caratteristiche abbinate.

Caprino presamico piemontese

Il formaggio Caprino Presamico Piemontese è la denominazione all’interno della quale si comprendono produzioni casearie piemontesi a latte caprino, rientranti nella tipologie casearie genericamente definite come “Toma” o “Caciotta”.

Territorio interessato alla produzione: L’intero territorio del Piemonte.

Cenni storici e curiositàIl termine Caprino Presamico Piemontese non compare in testi storici, è stato coniato per raggruppare formaggi di simili tecnologie che in passato acquisivano nomi territoriali per abitudine ma senza specifiche caratteristiche abbinate.

Toma di capra

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: Si tratta di un formaggio ottenuto a partire da latte di capra intero crudo. Il peso delle forme può
variare dai 2 ai 4 Kg. Il diametro è pari a circa 20 cm. Lo scalzo è di 8- 12 cm.
Metodiche di lavorazione: Al latte viene aggiunto un misurino di caglio per 100-150 litri. Si attende per circa un’ora, quindi si procede alla rottura a “chicco di riso” e ad un leggero riscaldamento della cagliata (a circa 35 °C).
Dopo una sosta di circa 5′ si estrae la cagliata e la si pone in fascere comprimendola manualmente. Le forme rimangono nelle fascere per circa 24 ore durante le quali si effettuano due rivoltamenti.
Si procede con un’asciugatura su assi di legno che si protrae per circa una settimana. La salatura è effettuata a secco (12 ore per faccia) o in salamoia (immersione per 24 ore e successiva asciugatura per 24 ore con un rivoltamento).
La stagionatura dura almeno 15 – 60 giorni. Talvolta si protrae per tre mesi o più.

ZONA DI PRODUZIONE: Valsesia (VC). Tutti i Comuni.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI:
– La caldaia di lavorazione, gli attrezzi di taglio e lavorazione della cagliata in caldaia e gli stampi
sono talvolta realizzati in legno. Negli altri casi i materiali sono “lavabili” (acciaio inox, rame
stagnato, plastica alimentare)
– Tele di sgrondo della cagliata in tessuto naturale
– Assi di stagionatura in legno

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA: Il locale di caseificazione non presenta caratteristiche particolari. Il locale di stagionatura presenta spesso pareti geologicamente naturali.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO
PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI:

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Seirass di siero di pecora

Il Seirass di siero di pecora è un latticino della tipologia “ricotta”, prodotto a partire da siero dilavorazione di formaggio presamico di pecora, quali la Sola di Pecora, il Murazzano, il Testun di Pecora ed altri formaggi di latte ovino. Nella tradizione, le due principali razze ovine da latte allevate in Piemonte, sono la pecora di razza delle Langhe e la pecora di razza Frabosana-Roaschina. Si presenta in forme differenti, tradizionale è quella simile ad un panettone un poco schiacciato ricavato dalla disposizione della ricotta messa a scolare in una tela appesa.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il territorio piemontese.

Seirass stagionato

Il Seirass stagionato è un latticino della tipologia “ricotta”, prodotto a partire da siero di lavorazione di formaggio presamico di vacca, capra o pecora in purezza o misti. Oggigiorno è poco prodotto, limitato particolarmente al periodo estivo e di alpeggio, il Seirass stagionato in passato era la principale modalità di consumo della ricotta perché, attraverso la asciugatura e stagionatura, si poteva portare nel tempo la caratteristiche nutrizionali della ricotta fresca. Si presenta in forme differenti, sia leggermente tonda o a panettone che più schiacciata per effetto della pressatura.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il territorio piemontese.

Fegatino sotto grasso

Tecnologia di preparazione: l’impasto di questo insaccato é uguale a quello del salame della duja e cioè le carni di prima scelta e il grasso di pancetta vengono macinati a grana media, a questo si aggiunge un 10% di fegato di maiale finemente triturato, si concia con sale, pepe, aglio e salnitro e si insacca il tutto nel budello torto di manzo.

Composizione
a) Materia prima: carni magre (coscio culatello), coppa, grasso di pancetta, fegato di maiale proveniente da allevamenti nazionali.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, aglio.
c) Additivi: salnitro

Maturazione: dieci giorni in locale riscaldato e ventilato, vengono poi messi sotto grasso fuso di suino.

Periodo di stagionatura: sotto strutto, da un minimo di 2 mesi ma anche per più di un anno.

Area di produzione: province di Novara e Vercelli. Rinomate quelle della zona collinare della bassa Val Sesia.

Fidighin, Fideghina (Mortadella di fegato cruda)

Il Fidighin è un insaccato di carne suina, caratterizzato dalla presenza di fegato. E’ un prodotto di piccole dimensioni, viene conservato sotto strutto.Un tempo il contenitore usato per la conservazione era un orcio di terracotta, o “doja”, riempito di strutto, per rendere morbido il prodotto e proteggerlo dall’ossidazione. Oggi al posto della “doja”, vengono utilizzati contenitori adatti agli alimenti in plastica o vetro.

Territorio interessato alla produzione: Province di Novara, Vercelli e Biella.

Cenni storici e curiositàLa tradizione è confermata dalle testimonianze di abitanti della zona raccolte da uno studio fatto dall’Università del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro” per conto della Provincia di Novara.

Mula

Tecnologia di preparazione: la carne magra di testa viene tagliata grossolanamente con guanciale: si unisce circa il 40% di impasto per salame, e si condisce. Si aggiunge poi la lingua di maiale precedentemente tenuta sotto sale per circa quattro giorni, lavata e asciugata, e si insacca il tutto nel budello equino (che dà il nome al salume). Il prodotto finito prende l’aspetto di un melone a causa della legatura con spago, che lo divide in tanti spicchi. Si consuma bollito e viene servito caldo.

Composizione
a) Materia prima: carni di suino di seconda scelta e lingua di suino.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, aglio, noce moscata, chiodi di garofano, cannella.
c) Additivi: salnitro.

Maturazione: alcuni giorni.

Periodo di stagionatura: circa due mesi. Poi può essere messa sotto strutto fuso, in un orcio di coccio: in questo caso si mantiene, rimanendo morbida, per più di un anno.

Area di produzione: province di Novara, Vercelli e, in provincia di Asti, nel Monferrato.

Salam d’la dujia

Tecnologia di preparazione: le carni suine di prima scelta, e il grasso di pancetta vengono macinati a grana media, conditi e insaccati nel budello torto di manzo. Dopo la maturazione, vengono messi in un recipiente detto duja e coperti con strutto fuso che, solidificandosi, li mantiene morbidi per lunghi periodi, anche più di un anno, conferendo un caratteristico sapore piccante.

Composizione
a) Materia prima: carni magre (coscio, culatello), coppa, grasso di pancetta di suini provenienti da allevamenti nazionali.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, aglio, vino rosso.
c) Additivi: salnitro.

Maturazione: tre o quattro settimane secondo le condizioni climatiche.

Periodo di stagionatura: sotto strutto, per un minimo di otto/nove mesi, ma anche per più di un anno.

Area di produzione: province di Novara e Vercelli, rinomate quelle della zona collinare della bassa Val Sesia.

Salame di patate

Il salame di patate è un prodotto tipico del Canavese, viene prodotto fra settembre e aprile, prima che le patate comincino a germogliare. É un insaccato morbido a base di carne suina, lardo, patate bollite e spezie.

Territorio interessato alla produzione: Canavese e alcune zone del Biellese.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale conferma che il salame di patate veniva già prodotto nell’Ottocento ed era un modo per le persone meno abbienti per aumentare la quantità di salame aggiungendovi le patate.

Batsuà

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: E’ una preparazione per una particolare ricetta gastronomica
Metodiche di lavorazione: Pulitura ed eventuale rasatura degli zampini. Bollitura con un po’ di aceto. Disossatura e taglio a strisce. Le striscette così ottenute verranno impanate e consumate fritte.

ZONA DI PRODUZIONE: Diffusa in varie zone del Piemonte
MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI: Non si segnalano attrezzature particolari

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA: Normali salumerie

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: Tradizione orale.
Citiamo inoltre Imbriani L.: Roseo Piemonte. Edito APS Piemonte, p.100

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Lardo

Si presenta di forma rettangolare o quadrata, di peso variabile tra 2 e 4 kg, la consistenza è compatta. La parte grassa ha un colore bianco latte, il magro ha un colore che va dal rosa al rosso vivo, determinato dai fasci muscolari. Il lardo, macinato o in cubetti (analogamente a quanto avviene per la pancetta), entra a far parte dell’impasto degli insaccati, oppure, dopo adeguata lavorazione, è consumato come antipasto o impiegato in varie preparazioni culinarie.

Territorio interessato alla produzione: Diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale conferma la necessità di conservare un prodotto altamente calorico.Fin dai tempi più antichi veniva utilizzato come grasso in cucina, per insaporire le carni o per insaporire/condire zuppe e minestre povere.Tra le varie preparazioni, meritano di essere menzionati il Lardo al Rosmarino (Cavour) ed il Lardo della Doja tipico della zona di Ronco Biellese (Biella). Il Lardo della Doja è del tutto peculiare sia per le modalità di preparazione, sia per l’utilizzazione gastronomica. Infatti, il Lardo è posto in una giara di terracotta (doja) assieme a sale, spezie e bacche di pino mugo per un periodo di 4-5 mesi, durante il quale assume un colore rosso mattone.La tradizione popolare ricorda anche l’uso terapeutico di questo prodotto per la cura per esempio del “Fuoco di Sant’Antonio”e per la cura di alcune forme infiammatorie.Osservando le gabelle dei secoli passati relative ai prodotti presenti sui mercati delle varie città del Piemonte si può notare che il lardo era sempre menzionato. Ne è un esempio la Lettera della Camera Ducale di Torino del 1627 (Archivio di Stato 14:2°) che stabilisce le tasse sui prodotti commercializzati sul mercato di Torino che prende in considerazione tre tipologie di lardo.

Pancetta con cotenna

La Pancetta con cotenna ha forma rettangolare, si presenta ripiegata su se stessa in modo da mantenere all’esterno la cotenna e cucita con lo spago; in molti casi viene semplicemente ripiegata a libro e legata.

Territorio interessato alla produzione: Diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale ha trasmesso nel tempo le antiche ricette contadine, esistono inoltre salumifici che producono pancetta mantenendo le vecchie ricette da più generazioni.

Prosciutto cotto

Il prosciutto cotto è un prodotto diffuso in tutto il Piemonte, è costituito dalla massa muscolare dellacoscia del maiale sottoposta a salagione e cottura. Al taglio, la fetta si presenta di colore rosato,generalmente contornata dal grasso di copertura della coscia. La consistenza della fetta è morbida, non secca e non gommosa. Il sapore è delicato, poco salato e con sentore di erbe e spezie.

Territorio interessato alla produzione: Prodotto diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàIn Piemonte esistono salumifici che operano da oltre 50 anni ma la produzione del prosciutto è certamente più antica se Giovanni Vialardi, vice-capocuoco dei Re Carlo Alberto e Vittorio Emanuele II nell’elencare gli “Hors-d’oeuvre” (antipasti) cita, tra gli altri sia il Giambone cotto e crudo che il Presciutto cotto e crudo. Curioso il fatto che faccia la distinzione tra Giambone e Presciutto dato che in piemontese il prosciutto cotto viene denominato “giambun”. E’ possibile che il primo fosse di spalla o viceversa o che il secondo avesse una diversa provenienza.

Salami aromatizzati del Piemonte

I salami aromatizzati del Piemonte sono particolari produzioni di salumeria, diffuse sul territoriopiemontese, preparate con carne di suino e con tecnologia di produzione paragonabile fra loro.Le caratteristiche principali che distinguono le varie tipologie sono la concia ed il tipo di insacco.

Territorio interessato alla produzione: Diffuso in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale tramanda di generazione in generazione le ricette per la preparazione di questi prodotti e molte salumerie ancora oggi producono secondo antiche ricette.

Sanguinacci

L’aspetto è quello di un salsicciotto di piccole dimensioni, con una lunghezza di 12-15 cm e diametro di 4-5 cm, di colore scuro, per la presenza di sangue, privo di muffe di superficie. Il profumo è delicatamente speziato, il sapore intenso, ma con note di dolce Si tratta di un insaccato povero, preparato con rifilature di maiale, patate (in alternativa riso o pane) e sangue.

Territorio interessato alla produzione: Tutti i Comuni della Valsesia, alcune zone del novarese e del vercellese.

Cenni storici e curiositàNon è stata reperita documentazione bibliografica relativa a questa tipologia di sanguinacci, ma la tradizione orale conferma la necessità di utilizzare al meglio tutti gli ingredienti poveri del maiale e quindi anche il sangue, per potersi sfamare. La disponibilità di patate, nelle zone montane, e in particolare in Valsesia, ha fatto sì che il sanguinaccio con patate diventasse un prodotto tipico delle zone alpine (si pensi per esempio ai sanguinacci valdostani che a seconda della disponibilità di patate o barbabietole potevano contenere l’uno o l’altro ortaggio). Il sanguinaccio con riso e con pane è caratteristico delle zone risicole e di pianura.

Bue di carrù

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E METODICHE DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI:
Caratteristiche: Si tratta del bovino di razza Piemontese ‘nostrano’, che fino al dopoguerra si utilizzava per lavorare i campi e a fine carriera (3 anni circa) era avviato al macello. Il temine ‘nostrano’ è qui
utilizzato per indicare gli animali diversi dai bovini Piemontesi ‘della coscia’.
Attualmente sta diventando una produzione legata al prestigio dell’azienda, il che porta ad allevare un bovino anche fino a 4-5 anni.
A Carrù (CN) vengono valutate classi differenti di buoi dai 16 ai 18 mesi (Vitello in bocca), fino al bue finito in bocca (4 anni almeno)
Metodiche di allevamento: I vitelli sono castrati a 3-6 mesi. E’ questo il momento migliore, ma alcuni castrano in epoche diverse.
In genere si utilizzano piani alimentari non specifici, almeno per i primi tempi, basati sulla
somministrazione di foraggi e pochi concentrati. Poi nell’ultimo anno si effettua il finissaggio,
incrementando gli sfarinati.
Attualmente il numero di buoi sta aumentando e vi sono miglioramenti anche in termini di qualità
del bestiame.

ZONA DI PRODUZIONE: Tutto il Piemonte, in particolare Piemonte meridionale.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE, IL CONDIZIONAMENTO O L’IMBALLAGGIO DEI PRODOTTI:

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI LAVORAZIONE, CONSERVAZIONE E STAGIONATURA 7) DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE METODICHE DI LAVORAZIONE CONSERVAZIONE E STAGIONATURA SI SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI: La Fiera si tiene ormai da 100 anni ed appartiene alla tradizione.
Il bue era già utilizzato prima dell’avvento delle trattrici agricole, la sua ‘storia produttiva’ ha
dunque più di 25 anni.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Lingua di bovino cotta

La Lingua di bovino cotta è una preparazione a base di lingua di vitellone o di bovino adulto.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il Piemonte, in particolare le zone nord-occidentali.

Cenni storici e curiositàIn molte salumerie del Piemonte si produce la Lingua cotta da più di 50 anni.La lingua cotta in vari modi è riportata su tutti i ricettari di cucina piemontese sia settecenteschi che ottocenteschi. La lingua cotta e servita con il bagnetto verde o il bagnetto rosso è invece un piatto più popolare, diffuso in quasi tutto il Piemonte e che compare su gran parte dei ricettari piemontesi pubblicati dall’ultimo dopoguerra ad oggi.

Salamino di vacca o sausiccia d’vacca

Il salamino di vacca è un prodotto tipico della tradizione della Valsesia, si tratta di un insaccato preparato con carne magra di vacca ed una percentuale non superiore al 20% di pancetta di maiale, a cui vengono aggiunti sale e spezie.

Territorio interessato alla produzione: Tutti i Comuni della Valsesia, alcune zone dell’alessandrino (Cascina Grossa, paesi della Fraschetta, Litta Parodi, Mandrogne) e del Biellese.

Cenni storici e curiositàLa bibliografia è scarsa, ma la tradizione orale conferma la necessità di utilizzare animali a fine carriera e di provvedere alla conservazione della carne.

Bergna

La bergna è un’antica preparazione dei pastori del biellese e della Valsesia. Si tratta di carne di pecora o capra disossata, conservata con sale ed asciugata all’aria o al calore del camino. La carne si presenta di colore rosso scuro, tendente al marrone, dura al tatto per la forte disidratazione, il sapore è intenso e sapido. Si consuma tagliata a fette sottilissime, come un prosciutto crudo, oppure tagliata in piccoli pezzi e arrostita sulla brace.

Territorio interessato alla produzione: Montagne della Valsesia e del Biellese.

Cenni storici e curiositàÉ una pratica arcaica utilizzata dai pastori, specialmente nei periodi di alpeggio per poter conservare le carni. Tradizione orale.

Castrato Biellese

La razza ovina biellese è una razza autoctona del Piemonte originaria della zona del biellese poi diffusasi anche nelle province di Torino, Cuneo, Asti, Novara e Vercelli.L’attitudine produttiva prevalente è la produzione di carne anche se, nella pianura torinese e cuneese, non sono rare le pecore biellesi munte e il loro latte trasformato per la produzione di tomette e di ricotta di pecora.

Territorio interessato alla produzione: Il biellese, l’alto canavese, il Verbano Cusio Ossola.

Cenni storici e curiositàNell’area del biellese, si hanno notizie relative all’allevamento di pecore e contestuale artigianato laniero fin dal Medioevo. I primi censimenti dell’agricoltura (e del settore ovino in particolare) risalgono alla fine del 1700. Uno standard della razza biellese fu definito ufficialmente nel 1959 con un D.M. poi modificato nel 1985.

Salame o Salamino di capra o Susiccia d’crava

Descrizione del prodottoIl Salame di Capra è un insaccato confezionato con carne di capra, in genere a fine carriera, nella proporzione del 70% e lardo per la parte restante. Può anche essere prodotto sostituendo il 20% di carne di capra con carne suina o bovina. Ha forma cilindrica, sottile, leggermente ritorta, colore rosso scuro.
Il prodotto ha un peso di circa 100 g ed una lunghezza di 10-13 cm. La consistenza non è omogenea poiché dipende dal periodo di stagionatura. La produzione avviene generalmente in primavera ed in autunno.In alcuni casi si usa anche la carne di pecora.

Territorio interessato alla produzione: Tutto il Piemonte. É un prodotto diffuso su tutto l’arco alpino in particolare nelle zone della Valsesia, del Verbano Cusio Ossola e delle Valli di Lanzo, del Canavese e del Biellese.
PreparazioneL’impasto prevede: carne di capra ben sgrassata, carne di maiale, lardo o pancetta, carne di bovino. La carne è macinata, conciata con sale pepe e spezie per formare salami di 15-20 cm legati in file. Il tutto è insaccato nel budello torto di bovino. Seguono il prosciugamento per una settimana nella cosiddetta “paiola”, una cella con una temperatura di 20°C ed un’umidità relativa del 65%, e la stagionatura in ambiente fresco (10-12°C) con umidità relativa del 70-80% per un periodo di 20-30 giorni od anche di alcuni mesi, nel qual caso il salume diventa molto secco.In Valsesia la carne è insaccata in budello fine, la legatura è semplice. Il salame è stagionato a lungo finché non è completamente duro, per venire poi tagliato in fette sottilissime.
Cenni storici e curiositàL’origine del Salame di capra deriva da un’esigenza di conservabilità della carne per gli allevatori dei territori montani. In Valle di Lanzo rappresentava, assieme alla toma, un componente caratteristico del pasto dei boscaioli e dei minatori.L’aroma risente dell’influenza delle spezie impiegate nella concia, che mascherano in parte il sentore di selvatico della carne di capra.Può anche essere consumato fresco, dopo 15 giorni.

Mocetta

La mocetta è sostanzialmente carne salata con una concia di sale, pepe, spezie e stagionata. I tagli sono molto magri, il colore è rosso intenso o bruno, il profumo è delicato, ma caratteristico a seconda del tipo di carne utilizzato (suino, bovino, ovicaprino, animali selvatici come camoscio o capriolo). La consistenza è leggermente asciutta e il gusto gradevole e saporito.

Territorio interessato alla produzione: É un prodotto diffuso su tutto l’arco alpino in particolare nelle zone della Valsesia, del Verbano Cusio Ossola e dell’Alto Canavese.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale conferma la necessità di conservare le carni provenienti dalla cacciagione o da macellazione forzata in seguito a incidenti degli animali nei luoghi impervi.

Salame d’oca (graton d’oca)

Il Salame d’Oca è un particolare insaccato preparato con carne d’oca, carne magra suina e grasso suino.Il peso varia da 1 a 2 kg a seconda del tipo di involucro utilizzato per l’insacco. Si presenta esternamente di colore giallo-oro e di consistenza elevata. La fetta al taglio presenta una struttura compatta, il colore è rosato, il profumo ed il sapore sono delicati con sentore di spezie usati nella concia.

Territorio interessato alla produzione: Novarese, Vercellese e Casalese.

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale è confermata da testimonianze di esperti salumieri che da tempo producono questo prodotto e da foto d’epoca conservate presso gli archivi di alcuni Comuni (es. Carpignano Sesia).

Salame d’asino

Il salame d’asino è un insaccato preparato con carne di asino e pancetta suina.

Territorio interessato alla produzione: Novarese (Oleggio – Bellinzago) e Vercellese (Borgomanero comuni limitrofi). Astigiano (Moncalvo e Calliano).

Cenni storici e curiositàLa tradizione orale attesta come il salame di asino sia diffuso in varie zone del Piemonte, soprattutto in quelle aree dove venivano maggiormente utilizzati come animali da soma e a fine carriera venivano macellati per farne salami.

Biova

La biova è il classico pane piemontese di piccolo formato, ed è forse il più comune che si può trovare in Piemonte. Sono pagnotte vendute in due formati, uno di 100-150 g, e l’altro di 500 g circa.

Territorio interessato alla produzione: Le biove sono prodotte in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa biova ha origini assai remote e la sua produzione è attestata da studi storici locali.È conosciuta da sempre, ma anche l’etimo è incerto. È nella memoria collettiva e nei ricordi di tutti i piemontesi, ma le origini di questo pane, veloce da produrre e gustoso, non sono documentate.È fortemente documentata la presenza sul territorio da moltissimo tempo, con documenti commerciali di ogni genere.Nessun paese in particolare rivendica la primogenitura delle biove.

Grissino stirato

I grissini stirati sono forse il prodotto di gastronomia torinese più famoso al mondo. Si tratta di pasta di pane lavorata in modo da assumere una forma molto allungata, anche un metro e mezzo, tanto quanto la larghezza delle braccia del panettiere. Infatti l’impasto, molto morbido, viene diviso in pezzetti lunghi una decina di centimetri, che sono allungati, “stirati”, prendendo le due estremità e tirando le finché le braccia ci arrivano.

Territorio interessato alla produzione: I grissini stirati sono prodotti in tutto il Piemonte, con un epicentro storico a Torino, nelle Valli di Lanzo, nel Canavese, e nel Pinerolese.

Cenni storici e curiositàÈ stato un prodotto di lusso per tavole di signori, prodotti solo con farina bianca e resi ricchi con l’aggiunta di grassi.Fra i grandi appassionati del grissino torinese troviamo lo stesso Napoleone, il quale creò, all’inizio del XIX secolo un servizio di trasporto apposito tra Torino e Parigi, dedicato al trasporto di quelli che egli chiamava les petits bâtons de Turin.Il numero di produttori di grissini stirati, soprattutto nelle valli di Lanzo era enorme, e la tradizione si è mantenuta tramandando la sapienza dai fornai ai garzoni per generazioni.

Miacce, miasse o miasce e amiasc

Nell’area piemontese compresa tra il canavesano, nel nord della provincia di Torino, su fino ai confini con la Svizzera, passando per la Valsesia, in provincia di Vercelli e spingendoci alla estrema punta nord del Piemonte, adesso provincia di Verbania-Cusio-Ossola, troviamo un’area accomunata da antiche tradizioni alimentari Walser, e la tradizione forse più significativa riguarda la produzione di un antico sostituto del pane,che ha la caratteristica di non essere cotto al forno, bensì su piastre di ferro messe direttamente sul fuoco.Questi prodotti, che prendono nomi e composizioni diversi, com’è tipico per i prodotti poveri delletradizioni alpine, si chiamano in Valsesia: “miacce”. Gli altri nomi con cui sono conosciute, a seconda del luogo di produzione, sono: miasce o miasse nel canavese, stichett, runditt e amiasc nel verbano.Hanno tutte in comune la preparazione di una pastella più o meno ricca come composizione, e lasuccessiva cottura a fuoco vivo.

Territorio interessato alla produzione: Le miacce vengono prodotte in tutti in comuni della Valsesia.

Cenni storici e curiositàSono la versione “povera” dei canestrelli, a cui assomigliano per la metodica di produzione.Il 24 maggio, giorno dell’Ausiliatrice, a Settimo Vittone e paesi vicini, per tradizione si mangiano le Miasse con la Zuppa di Bugole e con il Salignun.Ogni anno, in autunno, a Quincinetto, si svolge la Sagra delle Miasse.

Plin

I plin, o “agnolottini al plin”, più impropriamente raviolini al plin, sono dei piccoli agnolotti, eseguiti alla moda piemontese, e quindi con il ripieno di carne, ma, a differenza degli agnolotti, sono molto più piccoli (almeno la metà se non un terzo) e la sfoglia è molto più sottile.Di solito poi la sfoglia è molto ricca in uovo, seguendo la tradizione della Langa di usare molti tuorli per la pasta all’uovo.

Territorio interessato alla produzione: Sono tuttora un primo piatto caratteristico della cucina piemontese, in particolare della Langa e dell’astigiano, normalmente consumato in occasione di ricorrenze.

Cenni storici e curiositàLa presenza dei plin nell’area compresa tra le province di Torino, Cuneo e Asti è indubbia, ma soprattutto basata sulla tradizione agreste e non facilmente reperibile sui testi i cucina antichi.Le testimonianze locali hanno memoria perenne dei plin, facendoli risalire almeno all’inizio del secolo scorso.Un’unica antica citazione testuale risale al 1846 ad opera di F. Chapusot, cuoco torinese.

Agnolotti

Gli agnolotti sono costituiti da due fogli di pasta all’uovo, di forma quadrata o vagamente rettangolare, con all’interno un ripieno a base di carne.Sono tuttora un primo piatto caratteristico della cucina piemontese, tradizionalmente consumato inoccasione di ricorrenze.

Territorio interessato alla produzione: Gli agnolotti sono preparati, secondo varianti multiple e non classificabili univocamente, su tutto il territorio della regione.

Cenni storici e curiositàNon mancano le leggende, tra cui una che fa derivare il nome da un certo “Angelotto”, cuoco del Marchese di Monferrato, che preparò un piatto con gli avanzi rimasti dopo l’assedio del Principe d’Acaja.Secondo le più recenti considerazioni, anche se non del tutto condivise a livello popolare, gli “agnolotti” si distinguono dai ravioli per il tipo di ripieno.Gli agnolotti infatti prevedono sempre la presenza di carne, mentre i ravioli sono preparati con formaggio e verdure. A supporto di ciò si può constatare come già nel 700 il Vocabolario degli Accademici della Crusca distingua il raviolo dall’agnolotto, definendo: “ricco d’erba e cacio il primo, più ricco di carne e uovo il secondo”.L’inizio della separazione concettuale tra ravioli ed agnolotti si può datare al 1570, quando Bartolomeo Scappi, nell’Opera, descrive un tipo di pasta ripiena ma con la definizione di “anolini”. la diffusione ne ha probabilmente alterato il nome, ma la presenza di carne nel ripieno marca da allora la diversità tra le due paste ripiene.

Riso di Baraggia Biellese e Vercellese DOP

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE
CONSOLIDATE NEL TEMPO: I “Risi di Baraggia Biellese e Vercellese” designano il prodotto ottenuto dalle varietà di riso che, nel corso dei tempi, si sono adattate o si potranno adattare in futuro al particolare ambiente della Baraggia Vercellese e Biellese.
Le varietà in oggetto sono: Arborio, Baldo, S. Andrea, Cannaroli, Ariete, Alpe, Taibonnet, Saturno, Gladio, Loto, Nembo, Balilla, Fragrance, Maratelli.
La Baraggia è l’area pedemontana che dalle Prealpi, site sotto il massiccio del monte Rosa, si sviluppa verso il piano a terrazzi o in lieve graduale declivio, da nord-ovest a sud est.
Il suolo ed il sottosuolo – contrariamente ad altri tipi di brughiera sabbiosi e con scheletro abbondante, d’origine alluvionale – sono generalmente compatti, asfittici, deficienti di vita microbica, poveri di humus.
L’irrigazione delle colture è assicurata, mediante canalizzazione, dai corsi idrici che scendono dalle Alpi e dalle Prealpi contribuendo, per il loro scarso titolo di inquinanti, a favorire un ambiente protetto.
Il clima della Baraggia risulta profondamente differente dal clima della tipica pianura vercellese: si presenta più freddo e più ricco di precipitazioni piovose rispetto alle altre zone risicole.
In un articolo pubblicato, nel 1973, sulla rivista “Il Riso” ed intitolato “Condizioni climatiche del Vercellese e loro effetti sulla coltura del riso nell’annata 1971” si ritrovano utili informazioni sulla coltivazione in Baraggia; in particolare, si sottolinea come le condizioni climatiche non siano analoghe a quelle della restante zona risicola ma siano decisamente più sfavorevoli.
La risicoltura ha consentito la bonifica delle zone baraggive, portando innovazione e benessere agli agricoltori locali, migliorandone il reddito e, quindi, le condizioni ed il tenore di vita.
Sotto il profilo morfologico e fisiologico, le piante di riso, quando coltivate in Baraggia, assumono un abito vegetativo meno sviluppato rispetto a quello che la medesima varietà manifesta in altre zone colturali.
Il grano del riso a maturazione assume una superiore compattezza, una superiore traslucidità, minori dimensioni per volume e per peso, rispetto a quello di altre zone, per l’identico tipo varietale.
Le produzioni di qualsiasi varietà coltivata non superano il limite di 7,0 t/ha.
Anche a causa della scarsa fertilità del terreno, i risultati produttivi, normalmente, sono inferiori a quelli ottenibili in situazioni ambientali più favorevoli e, nel contempo, si consegue il miglioramento della qualità. In seguito alla cottura, il riso di Baraggia manifesta quasi costantemente una superiore consistenza del grano rispetto all’omologo prodotto di altre zone e una minore collosità, a parità di trattamento o di metodologia nella preparazione dell’alimento.
Le quantità dei fertilizzanti azotati debbono essere commisurate alle normali ed effettive necessità della coltura, ricavate anche tramite le analisi chimiche del terreno.
La tecnica di fertilizzazione deve privilegiare l’interramento dei residui pagliosi di altre colture precedenti e l’impiego di fertilizzanti organici. E’ escluso l’uso di concimi nitrici e dei composti o formulati fertilizzanti che contengano metalli pesanti.
Le operazioni di essiccazioni del riso grezzo devono essere eseguite con mezzi e modalità operative tali da evitare o da ridurre al minimo la contaminazione degli involucri del grano di riso dagli eventuali residui del combustibile e da odori estranei. Sono preferibili gli essiccatoi a fuoco indiretto, meglio se l’alimentazione dei bruciatori è derivata da metano o GPL.
Il riso grezzo o risone posto in magazzino e quello offerto in vendita per la lavorazione non deve superare il 14% di umidità.
Per i “Risi di Baraggia Biellese e Vercellese” è stata presentata istanza di riconoscimento dell’attestazione comunitaria IGP.
La comunicazione di tale richiesta è stata fatta sul Bollettino Ufficiale della Regione Piemonte, n. 20 del 17 Maggio 2000.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di produzione dei “Risi Baraggia Biellese e Vercellese” è compresa nel triangolo tracciato dal fiume Sesia ad est, il torrente Elvo a ovest sud-ovest e la strada Biella Cossato Gattinara a nord nordovest.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO
INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: I materiali e le attrezzature utilizzate per la preparazione dei “Risi di Baraggia Biellese e Vercellese” sono in regola con le attuali disposizioni di legge.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali per la lavorazione dei “Risi di Baraggia Biellese e Vercellese” sono realizzati secondo le norme igienico-sanitarie vigenti.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Il termine Baraggia ha origini agronomiche e, da sempre, è stato usato per indicare i terreni poco fertili, posti su diversi livelli e occupati da vegetazioni spontanee tipiche della brughiera quali rovi, erica, querce, ecc.
L’unico mezzo per rendere i terreni utilizzabili dal punto di vista agronomico, era rappresentato dalla disponibilità costante di molte acque irrigue; l’irrigazione più di qualsiasi altro mezzo rappresenta, infatti, lo strumento per neutralizzare l’acidità del terreno, in particolare, se si tratta di irrigazione per sommersione. Proprio per queste ragioni, il riso, che richiede nelle tipiche zone di coltivazione padane la pratica dell’irrigazione per sommersione, la stessa raccomandata per la bonifica, poteva diventare una delle poche colture adatte a questi terreni.
La coltivazione del riso venne inizialmente introdotta in via sperimentale, usando le varietà risicole più adatte alle limitative e difficili condizioni climatiche: i risultati furono subito incoraggianti dal punto di vista agronomico, mentre a livello economico le spese di coltivazione non erano ancora compensate da adeguati ricavi.
L’adozione, nella zona della Boraggia, del riso quale pianta pioniera bonificante, ma capace anche di assicurare una produzione, poteva avere successo solo se fossero stati attuati grossi interventi di bonifica: era essenziale assicurare una costante e notevole disponibilità di acqua irrigua, per trasformare le desolate lande incolte in regolari campi coltivati. Era, inoltre, importante la scelta di varietà adattabili al particolare clima.
Le varietà pregiate di riso italiano sono andate incontro ad un lento ma inesorabile declino in quanto, a livello comunitario, sono state valutate alla stessa stregua di varietà qualitativamente inferiori.
Inoltre, è del tutto assente, sul nostro mercato, la promozione delle varietà tipiche in quanto tali; si consente, così, di confezionare risi di vario tipo, rispettando la legge, nel quasi anonimato varietale, soffermandosi sull’aspetto a volte solo pubblicitario (chicco grosso, lungo, per risotti, …).
Appare evidente la necessità di trovare e/o potenziare opportunità di collocamento del prodotto riso di qualità ad un giusto prezzo, soprattutto per quello proveniente dalle zone più svantaggiate e significativamente vocate.
In questo scenario, risulta evidente che una delle strade da percorrere è quella della valorizzazione delle varietà tipiche italiane, che possiedono caratteristiche qualitative di pregio, da tempo riconosciute, ma meno che mai pubblicizzate, al fine di diffonderne il consumo, la cultura e l’apprezzamento, in Italia e nella UE, ma anche in altri continenti.
La reputazione acquisita dal riso raffinato prodotto in Baraggia, fin dal XIX secolo, è affidata ad un prodotto ritenuto dal consumatore dotato di precipue caratteristiche di tenuta alla cottura.

Bibliografia:
· Casati, Banterle, Baldi, Il distretto agro-industriale del riso, Franco Angeli Editore, 1999;
· Questo è il riso, L’Editoriale, 1989;
· Riso Idea, Ente Nazionale Risi, 1993,
· Antonio Tinarelli, Gian Lorenzo Mezza, Prontuario della varietà di riso coltivate in Italia, Centro Stampa Unicoper,1980.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Risi tradizionali

Sono sei le varietà “storiche” tra quelle ancora diffusamente coltivate per caratteristiche agronomiche, organolettiche e per tradizione di utilizzo in piatti e preparazioni tipiche delle cucine regionali italiane.Esse appartengono tutte alla subspecie Orhyza sativa japonica e sono: Arborio, Baldo, Balilla,Carnaroli, Sant’Andrea, Vialone Nano.

Territorio interessato alla produzione: In Piemonte si producono nelle province di Alessandria, Vercelli e Novara.La coltivazione, la lavorazione e il confezionamento delle sei varietà avvengono nell’area geografica della valle del Po, che comprende le regioni Piemonte, Lombardia, Emilia e Veneto.All’interno di quest’area, la diversa diffusione delle sei varietà è relativamente significativa, in quanto tutte e sei sono praticamente coltivate e consumate in tutta l’area, anche se si possono individuare per ciascuna di esse delle zone dove più preferibilmente sono coltivate (e consumate).
PreparazioneL’utilizzo del riso in cucina cambia notevolmente in base alla varietà: Arborio, particolarmente adatta a piatti tipici quali minestre asciutte (risotto giallo, risotto con la zucca, riso e “luganega”) ma anche in brodo (minestrone alla genovese e minestrone alla milanese); Baldo, di ottimo rapporto qualità/prezzo, con ottimi risultati nella preparazione di quasi tutti i piatti sia nei risotti mantecati sia in piatti come il sartù, gli arancini, la tiella o le torte di riso; Balilla, oltre all’impiego industriale (fiocchi di riso, riso soffiato, riso al latte), in cucina è la varietà ideale per molti dolci tradizionali: torte, frittelle, budini, nonché per tutte le minestre di riso della tradizione popolare; Carnaroli, le sue eccezionali qualità “gastronomiche”, ricercato dai migliori chef del mondo, lo rendono inimitabile per risotti, insalate e timballi; S. Andrea, estremamente adatto alla preparazione dei piatti tradizionali, specie le minestre; Vialone Nano, riso con grande capacità di assorbimento, ideale per insalate e soprattutto risotti, in particolare quelli con il pesce o le verdure.
Cenni storici e curiositàL’introduzione del riso in pianura padana risale alla seconda metà del XV secolo. Nel corso di oltre cinquecento anni la coltivazione di questo cereale è diventata una delle principali attività agricole dell’intera zona e quella che più profondamente ne ha modificato paesaggio, insediamenti umani, organizzazione del territorio, cultura, stili di vita e abitudini alimentari. Se tradizionalmente si dice che gli italiani del sud sono mangiatori di pasta e quelli di Alpi e Prealpi mangiatori di polenta, quelli che abitano la piana del Po mangiano prevalentemente riso.

Riso S. Andrea Piemonte

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE
CONSOLIDATE NEL TEMPO: LIn un contesto internazionale, il settore risicolo italiano sarebbe il primo a soccombere se la crisi del settore dovesse permanere o aggravarsi ulteriormente. In questo scenario, risulta evidente che una delle strade da percorrere sia quella della valorizzazione delle varietà tipiche italiane, che possiedono caratteristiche qualitative di pregio, da tempo riconosciute, ma, meno che mai, pubblicizzate.
Obiettivo è diffondere il consumo, la cultura e l’apprezzamento di tale prodotto, in Italia, nell’Unione Europea ed anche in altri continenti.
Tra le varietà da salvaguardare, merita un posto di primo piano il riso S. Andrea, varietà iscritta a registro il 25/10/1974, che nasce da una selezione della varietà Rizzotto (Lady Wright x P6) per opera dell’Ente Nazionale Risi – Milano, responsabile della sua conservazione in purezza. Il riso S. Andrea è compreso nella classe fino, che presenta chicchi affusolati e con buona tenuta alla cottura ed è particolarmente indicato, quindi, per i risotti, minestre in brodo e asciutte, contorni e piatti unici.
Dal punto di vista geografico, la coltivazione del S. Andrea è legata ad un’area ben delimitata della baraggia vercellese con caratteristiche pedoclimatiche specifiche. Ciò fa si che, anche dal punto di vista colturale, quando si parla di S. Andrea, la mente corra subito alla zona baraggiva, terra di eriche e boschi ai piedi del Monte Rosa. Qui, i ritmi di vita e di lavoro risentono ancora delle tradizioni antiche e l’uomo si assoggetta ai ritmi della natura: ad esempio, il terreno non può essere lavorato quando si vuole, ma solo quando esso stesso lo consente.
La risicoltura ha consentito la bonifica delle zone baraggive, portando innovazione e benessere agli agricoltori locali, migliorandone il reddito e, quindi, le condizioni ed il tenore di vita.
La coltivazione del risone dal quale si produrrà il riso S. Andrea Piemonte avviene utilizzando semente certificata e facendo ricorso alla rotazione.
Nel caso di riso dopo riso, si utilizza normalmente o l’aratura autunnale ed erpicatura primaverile oppure il sovescio autunnale ed aratura primaverile.
Le concimazioni prevedono l’impiego di concimi di origine organica per almeno il 30% delle necessità nutrizionali totali della pianta, avendo comunque come obiettivo primario la qualità della granella (sana, matura ed omogenea), rispetto alla quantità prodotta per unità di superficie, che comunque normalmente non supera i 65 quintali per ettaro.
L’essiccazione avviene in modo graduale, cioè con l’ausilio di essiccatoi in grado di diminuire uniformemente e progressivamente l’umidità delle granelle di risone; tale umidità non deve essere inferiore all’11% e superare il valore del 13% sia per lo stoccaggio che per la lavorazione.
Sono utilizzati essiccatoi con fuoco indiretto, fatta eccezione per quelli alimentati a metano, gasolio agricolo o GPL che possono anche essere a fuoco diretto.
La trasformazione e l’elaborazione del riso S. Andrea Piemonte avviene all’interno della zona di produzione.
Le lavorazioni comprendono la sbramatura e la sbiancatura. Lavorazioni secondarie possono essere usate a completamento e/o integrazione della sbiancatura e includono la lavorazione all’elica smeriglio e alla lucidatrice ad acqua ed aria.
Allo scopo di evitare che il riso perda le sue caratteristiche peculiari, durante le varie fasi di trasformazione ed elaborazione, necessarie per renderlo edibile, la lavorazione è di tipo artigianale e si utilizzano macchine particolari, in modo da rispettare i periodi di riposo del prodotto e di garantirne la freschezza e la sua conservazione senza alterarne le caratteristiche intrinseche.
Per il “Riso S. Andrea Piemonte” è stata presentata istanza di riconoscimento dell’attestazione comunitaria DOP da parte della Riseria Provera.
La comunicazione di tale richiesta è stata fatta sul bollettino Ufficiale della Regione Piemonte, n° 20 del 17 maggio 2000, con la pubblicazione del relativo disciplinare di produzione proposto.

ZONA DI PRODUZIONE: Il risone destinato alla produzione del riso “S. Andrea Piemonte” viene coltivato, trasformato ed
elaborato in alcuni comuni della Baraggia Vercellese.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO
INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Per la produzione del Riso S. Andrea è possibile usare solo ed esclusivamente macchine sbiancatrici “tipo Amburgo” aventi telarini (griglie) alcuni con fessure allungate, posizionate con la loro
dimensione massima nel senso di rotazione dello smeriglio, altri con fessure aventi la dimensione massima nel senso perpendicolare alla rotazione dello smeriglio.
Per la conservazione del risone e del riso lavorato (in tutte le fasi), non è ammesso alcun trattamento insetticida e/o fumigante, con prodotti di sintesi o naturali fatto salvo l’impiego di atmosfera modificata (max. 18% di CO2).
I materiali e le attrezzature utilizzate per la preparazione del riso S. Andrea sono in regola con le attuali disposizioni di legge.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: Il prodotto in lavorazione deve sostare entro un deposito prima di passare da una macchina all’altra.
Tali depositi dovranno avere una capacità minima idonea allo scopo e dovranno, inoltre, avere un sistema di aspirazione per evitare condensa.
I locali per la lavorazione del riso S. Andrea sono realizzati secondo le norme igienico-sanitarie vigenti.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: La coltivazione del riso S. Andrea è localizzata, prevalentemente, nella zona baraggiva che si estende nelle province di Vercelli e Biella ed è delimitata a Nord dalle Prealpi biellesi, ad Est dal fiume Sesia, ad Ovest dal torrente Elvo e, a Sud, da una linea che collega il comune di Santhià con il torrente Cervo ed il fiume Sesia. I pianori della baraggia rappresentano i primi terreni che collegano la bassa collina con la fertile Pianura Padana.
I primi dati riguardanti la coltivazione della varietà S. Andrea risalgono al 1961 quando la cultivar si estendeva su 15 ettari. Per i tre anni successivi, non sono disponibili dati, mentre, nel 1964, la varietà risulta coltivata su 20 ettari. Da questo momento, l’estensione dell’area coltivata a S. Andrea è in continuo aumento: 834 ettari nel 1966, 1.846 ettari nel 1970, 3.415 ettari nel 1975, 6.273 ettari nel 1980, ma la punta massima viene raggiunta nel 1990 con l’estensione di 11.469 ettari.
Appare evidente la necessità di trovare e/o potenziare opportunità di collocamento del prodotto riso di qualità ad un giusto prezzo, soprattutto per quello proveniente dalle zone più svantaggiate e significativamente vocate. Una delle strade da percorrere in tal senso sarebbe quella della salvaguardia dei risi italiani di qualità, tra cui, soprattutto, il S. Andrea, tramite la divulgazione e la promozione delle caratteristiche storiche, morfologiche, sociali e anche culinarie del prodotto.

Bibliografia:
· Casati, Banterle, Baldi, Il distretto agro-industriale del riso, Franco Angeli Editore, 1999;
· Questo è il riso, L’Editoriale, 1989;
· Riso Idea, Ente Nazionale Risi, 1993,
· Antonio Tinarelli, Gian Lorenzo Mezza, Prontuario della varietà di riso coltivate in Italia, Centro Stampa Unicoper,1980.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Trota affumicata

Materia prima: trote.

Tecnologia di lavorazione: le trote vanno eviscerate e lavate in acqua e aceto o acqua e limone. Metterle in salamoia aromatizzata con pepe, alloro, coriandolo, seme di finocchio, ecc. e lasciarle per 3-5 giorni, a seconda della grandezza, riguardandole almeno una volta al giorno. Tolte dalla salamoia, vanno appese all’aria per qualche giorno. Successivamente vengono affumicate esponendole al fumo per 3-4 giorni, ad intervalli di 4-5 ore. Conservare all’asciutto in luogo fresco.

Maturazione: 10-15 giorni.

Area di produzione: Trentino Alto Adige, Piemonte, Lombardia, Veneto,
Marche, Umbria.

Calendario di produzione: primavera, inizio estate, fine estate, inizio autunno.

Note: é un prodotto che si conserva bene per qualche tempo in zone non molto umide. Diversamente é meglio tenerlo in frigorifero. Si consuma in insalata, o sulle tartine come antipasto. La specie di trota più indicata per questo tipo di preparazione é quella salmonata.

Tinca in carpione

Materia prima: tinca.

Tecnologia di lavorazione: il pesce, precedentemente salato e infarinato, viene fritto in abbondante olio bollente. A parte si lascia bollire una quantità di aceto e una di acqua a cui si aggiunge il sedano, le cipolle, l’aglio, la salvia, l’alloro, il rosmarino ed il sale. La salsa ottenuta viene versata sul pesce precedentemente sistemato nei vasi di vetro. Si lascia riposare per tre giorni e si conserva in frigorifero per alcuni mesi.

Maturazione: 3 o 4 giorni.

Area di produzione: tutto il Piemonte.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: la tinca é un pesce diffuso in tutta Europa. In Italia si trova ovunque anche se non in modo abbondante. Ha un corpo tozzo coperto di piccole squame e di un abbondante strato di muco. Di colore verdastro, la tinca può superare i 5 Kg. di peso e difficilmente si trovano individui sessualmente maturi al di sotto dei 25 cm. L’accrescimento non é molto rapido: la femmina matura verso i 4 anni, il maschio al terzo anno di età.

Prodotti ittici in carpione

Sono preparazioni ittiche ormai poco in voga ma molto importanti in passato.Era consolidata la tradizione di conservare in carpione i prodotti della pesca tipo tinche, anguillee trote.

Territorio interessato alla produzione: Un tempo le Lamprede erano diffuse un po’ dappertutto: famose quelle della pianura del Po tra Vigone e Carignano e anche quelle di Chivasso. Ma il “paese delle Lamprede” è oggi soprattutto Cercenasco, piccolo centro nella pianura torinese, tra Airasca e Vigone.

Cenni storici e curiositàTradizione orale e libri di cucina del 1800.

Asparago di Borgo d’Ale

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE
CONSOLIDATE NEL TEMPO: Appartenente alla famiglia delle Liliacee, l’asparago è una specie ortiva perenne le cui parti
commestibili sono i turioni, germogli di sapore particolarmente delicato, che si sviluppano dai rizomi sotterranei e possono assumere diverse colorazioni: verdi, bianchi o violetti. I rizomi, detti comunemente zampe, portano le radici e si sviluppano verso l’alto.
Gli asparagi di Borgo d’Ale si contraddistinguono per specifici requisiti di carattere chimico-fisico, sanitario, organolettico ed estetico che derivano dalle varietà coltivate, dal particolare ambiente pedoclimatico in cui si ottengono e dalla tecnica colturale utilizzata.
Peculiari risultano talune qualità organolettiche dei germogli quali la dolcezza e la tenerezza. Tali caratteristiche associate alla tradizionale colorazione verde-bianca dei turioni, appositamente mantenuta con opportune tecniche colturali, fanno dell’asparago di Borgo d’Ale un prodotto gradito al consumatore locale ed adatto alle preparazioni culinarie piemontesi.
Per quanto attiene la preparazione del terreno, per la produzione dell’asparago, è consuetudine, nell’autunno o nell’inverno che precede l’impianto, praticare un’aratura profonda (40-60 cm) con interramento di letame oltreché di concime chimico.
Successivamente, si provvede ad erpicare e pareggiare la superficie del suolo sul quale, seguendo il sistema classico, vengono aperte fosse parallele profonde 20-30 cm e larghe 50-70 cm alternate da zone di circa 100 cm di larghezza dove si accumula il terreno rimosso dalle fosse.
La profondità dell’impianto influenza il tipo di prodotto e la durata dell’asparagiaia. Il sistema classico permette, rispetto a più recenti metodi a solchi più superficiali, di ottenere turioni di calibro superiore e garantisce una maggior durata dell’impianto.
Di solito, l’impianto si effettua utilizzando le “zampe” (materiale riproduttivo di uno o più anni), che vengono poste a dimora in primavera, disponendole sul fondo delle fosse con le radici orientate in senso normale alla direzione longitudinale delle fosse ed a distanza di circa 50 cm l’una dall’altra. La densità media degli impianti dell’area borgodalese è di circa 20.000 piante/ha (130-150 cm tra le file).
La pratica della concimazione viene razionalizzata calcolando la quota di elementi nutritivi da apportare sulla base del tipo di terreno e degli asporti della coltura, a loro volta determinati dalla produzione media dell’appezzamento. Sovente viene effettuata un’analisi chimico-fisica del terreno prima dell’impianto in modo da poter meglio valutare l’opportuno apporto di nutritivi ed ovviare tempestivamente ad eventuali deficienze in micro e macro elementi legate alla notevole permanenza della coltura sullo stesso terreno.
La dose massima di azoto è di 130 kg/ha, di cui solo il 20% può essere apportato in primavera per evitare di modificare le qualità organolettiche del prodotto. D’altra parte, l’assorbimento degli elementi nutritivi avviene soprattutto in corrispondenza della fase vegetativa estiva, periodo durante il quale, quindi, deve essere prevalentemente distribuita la quota azotata prevista.
È consigliato l’apporto di fertilizzanti organici, in particolare letame, nelle dosi di 10-15 t/ha nel periodo autunno-invernale, nel quale si effettua anche la concimazione fosfo-potassica.
La durata del periodo di raccolta viene attentamente programmata in funzione dell’età dell’asparagiaia e dello sviluppo vegetativo raggiunto nel periodo estivo.
Nell’anno successivo all’impianto, il numero di raccolte si riduce al minimo, da 0 a 6-7, in base allo sviluppo vegetativo conseguito. Al terzo anno, si oscilla tra le 10 e le 20 raccolte (distribuite in circa 15-30 giorni) ed al quarto anno (piena produzione) non si superano i 60 giorni di raccolta, in un periodo compreso tra l’inizio di aprile e la fine di maggio.
Un valido parametro che indica il momento in cui è conveniente sospendere la raccolta è la diminuzione del calibro dei turioni.
Un corretto equilibrio, tra la fase produttiva e quella vegetativa, è indispensabile per ottenere soddisfacenti rese produttive e longevità dell’asparagiaia. Quando il periodo di raccolta viene eccessivamente prolungato, le piante non riescono ad elaborare sufficienti sostanze di riserva per assicurare una nuova emissione di turioni con caratteristiche quanti-qualitative ottimali.
Il clima dell’area è tale da consentire di non praticare irrigazioni durante il periodo primaverile, poiché l’andamento pluviometrico è in grado di garantire sufficiente disponibilità idrica nel terreno.
Vengono effettuate solo irrigazioni di soccorso per scorrimento nel periodo successivo alla fine della raccolta, periodo in cui la vegetazione raggiunge i 60-80 cm di altezza e la pianta elabora sostanze di riserva determinanti per garantire una buona produzione l’anno successivo.
L’asparago di Borgo d’Ale viene prodotto senza l’uso di diserbanti chimici in pre-ricaccio ed è, pertanto, esente da rischi di residui dovuti a tali prodotti. Quando necessario, viene effettuata una scerbatura (intervento manuale) durante il periodo della raccolta.
La raccolta viene effettuata manualmente, il prodotto viene lavorato in giornata e, sempre in giornata, viene conferito al commerciante.
Si garantisce, così, la perfetta freschezza dell’asparago di Borgo d’Ale, che arriva al consumatore entro 24 ore dalla raccolta senza necessità di frigoconservazione se non durante il trasporto. La qualità superiore del prodotto così ottenuto viene valorizzata privilegiando canali commerciali che promuovono il consumo del prodotto entro 72 ore dalla raccolta.
Gli asparagi commercializzati presentano le seguenti caratteristiche:
· Privati da qualsiasi residuo di terra, i turioni vengono tagliati perpendicolarmente al loro asse longitudinale e ben serrati in mazzetti di peso prestabilito (con le opportune tolleranze) di 500, 750, 1.000 grammi;
· La lunghezza dei turioni varia da un minimo di 22 ad un massimo di 27 cm;
I turioni possono appartenere alle categorie Extra o I, con calibro conforme alle norme di legge.

ZONA DI PRODUZIONE: L’area vocata per la coltura degli asparagi viene individuata nel territorio del comune di Borgo d’Ale e di alcuni comuni limitrofi, quali Alice Castello, Cigliano, Moncrivello e Maglione. L’area è
compresa tra le regioni agrarie “Morenica della Serra” e “Pianura del Canale Cavour” ed è caratterizzata da terreni di origine fluvio-glaciale, ricchi di scheletro, a classificazione granulometrica compresa tra “sabbioso” e ranco-sabbioso” che permettono un ottimo drenaggio e consentono di ottenere la desiderata colorazione del turione.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Ogni singolo mazzetto è confezionato con una carta o un film sui quali si riporta il marchio, l’etichetta e quant’altro favorisca la commercializzazione del prodotto.
L’etichetta evidenzia la ragione sociale del produttore, il termine “asparagi” con descrizione della colorazione, l’origine del prodotto, la categoria commerciale, il calibro, il numero del registro degli operatori.
Vengono preferibilmente utilizzate cassette in legno, plastica o cartone di 30×40 cm, contenenti otto o dieci mazzetti, ma possono venire utilizzati anche altri contenitori meno tradizionali su richiesta del mercato.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali dove avviene il confezionamento del prodotto, effettuato manualmente, sono a norma con le disposizioni di legge.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Dalla documentazione reperita nell’areale di produzione, si evince che questo prodotto era coltivato già dal 1970 e che nel 1976 erano censiti più di 300 ettari. Attualmente, la coltura si estende su circa 350 ettari per una produzione di 10.000 quintali.

Bibliografia: G. Fassino, E. Feure, R. Rolando, Situazione della coltura dell’asparago in Piemonte, Associazione
Regionale Gruppi Coltivatori, Sviluppo, 1976, Torino.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Zucchini di Borgo d’Ale

Gli Zucchini di Borgo d’Ale si contraddistinguono per specifici requisiti di carattere organolettico ed estetico che derivano dal particolare ambiente pedoclimatico e dalla tecnica colturale adottata dagli orticoltori locali.La colorazione tipica degli Zucchini di Borgo d’Ale è il verde scuro; i frutti sono molto teneri e privi di semi. Si tratta di un prodotto particolarmente gradito ed apprezzato sul mercato ortofrutticolo piemontese e lombardo.

Territorio interessato alla produzione: L’area vocata per la coltura degli Zucchini di Borgo d’Ale viene individuata nel territorio del comune di Borgo d’Ale e di alcuni comuni limitrofi, quali Alice Castello, Cigliano, Moncrivello, Maglione, Roppolo, Cavaglià, Viverone e Santhià.

Cenni storici e curiositàLa coltivazione di questo prodotto è iniziata agli inizi degli anni ’60.Ha avuto una grande diffusione come coltivazione a pieno campo, agli inizi degli anni ’80, e da documenti comunali risultavano coltivati circa 150 ettari con una produzione superiore ai 30.000 quintali.Attualmente si evidenzia a livello locale, una significativa contrazione degli investimenti produttivi in tutto l’areale di Borgo d’Ale con investimenti di c.a 40 – 50 ettari e rese di 6 – 8.000 q di prodotto.

Fagiolo di Saluggia

L’accessione locale Fagiolo di Saluggia è geneticamente e fenotipicamente identificabile. La pianta è di taglia nana, caratterizzata da un ciclo di maturazione medio precoce. Le piante producono baccelli contenenti semi reniformi, striati e con tegumento esterno sottile. I baccelli sono caratterizzati da forma cilindrico allungata, tendenzialmente diritti, con colore di fondo bianco/paglierino screziato di rosso vivace.

Territorio interessato alla produzione: Tradizionalmente, il Fagiolo di Saluggia viene coltivato nel territorio del Comune di Saluggia (VC) ed in piccole porzioni di terreno dei territori appartenenti ai vicini comuni di Livorno Ferraris, Cigliano i cui terreni hanno caratteristiche pedologiche simili.

Cenni storici e curiositàLa presenza e la coltivazione del fagiolo a Saluggia risalgono a tempi antichissimi ed è stata documentata da studi storici locali.Presso il Comune di Saluggia sono conservati documenti storici attestanti la vocazionalità del territorio e la tradizione della coltura.Nel 1998 è stato costituito il Consorzio di Tutela del “fagiolo di Saluggia” con l’intento di valorizzare questo tipico prodotto dell’agricoltura vercellese. Nella seconda decade di luglio, si tiene, in Saluggia, la “Grande notte del fagiolo”.

Conserva di granoturco

Materia prima: pannocchie di granoturco allo stadio di maturazione cerosa, intere o sgranate.

Tecnologia di lavorazione: si fa cuocere il mais per non più di 5 minuti. Si lascia raffreddare conservando nei vasi di vetro in soluzione salina, a temperatura non superiore ai 14-15°C.

Maturazione

Area di produzione: tutta la Padania.

Calendario di produzione: agosto-settembre.

Note: ii prodotto si consuma saltato in padella fino all’apertura del chicco. E’ molto gradito alle nuove generazioni, tanto che la produzione industriale è in costante espansione.

Conserva di rose

Materia prima: petali di rosa canina.

Tecnologia di lavorazione: le rose vengono sfogliate e ad ogni petalo si recide la “unghia”, ossia quella parte del petalo attaccata alla corolla, perché di sapore amarognolo. I petali così tagliati si mettono in una terrina aggiungedovi una pari quantità di zucchero e del limone spremuto. Strofinarli bene con le mani per favorire la rottura delle fibre e la fuor uscita degli umori. Si lascia macerare il tutto per qualche tempo, si incorpora dello sciroppo di zucchero preparato a parte lasciando bollire fino al raggiungimento della giusta consistenza. Si mette nei barattoli e si chiudono ermeticamente conservandoli al buio.

Maturazione:

Area di produzione: tradizionale in Piemonte, Veneto e Toscana.

Calendario di produzione: maggio e giugno.

Note: La conserva di rose, tradizionale in Piemonte, viene fatta anche nel convento dell’isola di S.Lazzaro, ad opera dei fratelli armeni, ma solo per uso interno. Le conserve di rosa che si trovano in commercio sono quasi tutte importate dai paesi dell’Est europeo, soprattutto dalla Bulgaria.

Peperoni sott’aceto

Materia prima: peperone, della varieta “piacentino” verde da orto.

Tecnologia di lavorazione: i peperoni, previa lavatura e pulitura, sono bolliti in
aceto per 2 o 3 minuti, insieme al sale e alle spezie, che ogni famiglia sceglie sulla
base del proprio gusto. Una volta bolliti e raffreddati vengono sistemati in
damigiane a bocca larga coperti di aceto e un filo d’olio. In superficie viene
sistemato un pezzo di marmo (non poroso), che tiene pressati i peperoni evitando
il contatto con l’aria.

Maturazione: 10-15 giorni.

Area di produzione: tutta la Padania, ma con altre varietà in tutta Italia.

Calendario di produzione: agosto-settembre.

Note: il consumo viene fatto durante il periodo invernale e accompagna i lessi misti
e i piatti grassi come cotechino, zampone, lingua di vitello, ecc. Nell’alto Sannio ottengono il caratteristico nome di “pipauri”.

Mele autoctone del Piemonte

In Piemonte sono coltivate molte varietà autoctone: Mela Buras, Mela Carla, Mela Gamba Fina Lunga, Renetta Grigia di Torriana, Mele autoctone del Biellese, Mele del Monferrato, Valle Grana, Mele della Val Sangone, Mele della Valle di Susa, Mele della Val Sesia, Mele della Val Sessera, Mele delle Valli di Lanzo, Mele di Cavour,

Territorio interessato alla produzione:La produzione di mele interessa l’intero territorio regionale.

Cenni storici e curiositàFino alla prima metà del Novecento la melicoltura piemontese si diffonde soprattutto lungo le vallate alpine, nelle zone pedemontane e collinari. In seguito si espande anche in pianura affiancandosi alle tradizionali colture erbacee. In tale periodo e fino agli anni ’40 dello scorso secolo il Piemonte ha rivestito un ruolo di tutto rilievo nel contesto della melicoltura italiana contribuendo per oltre il 20% al totale nazionale. Nei primi anni ’50 del XX secolo il sistema colturale è perlopiù promiscuo e pochi sono gli impianti specializzati. Le piante sono lasciate libere di svilupparsi a pieno vento. Come portainnesto si utilizzava in genere il franco per far sì che la pianta vivesse e fruttificasse il più a lungo possibile. Le varietà a maturazione invernale erano conservate nelle cantine fresche e ventilate. Oppure le mele erano talvolta immerse in grandi recipienti di vetro colmi d’acqua aromatizzata con chiodi di garofano, dove i frutti infrollivano conservandosi fino a giugno.

Mele della Valsesia

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATE NEL TEMPO: La frutticoltura valsesiana, un tempo largamente diffusa su tutto il territorio, anche con specifici mercati stagionali, ha subito, dal dopoguerra, un notevole ridimensionamento produttivo.
Non vi è stato, come in altri luoghi, l’aggiornamento varietale e, quindi, anche economico dei frutteti, con il conseguente abbandono di numerosi ettari di meleti. Ciò ha però di fatto consentito il mantenimento, sia pur in piccole quantità, di quasi tutte le vecchie varietà di mele più o meno pregiate.
Sulle numerose varietà (Vitorio, Carla, Carpandù, Sunaja, Vinà, Bela d’macc, Giuda, ecc.) sono in corso studi ed approfondimenti genetici, oltre alla realizzazione di un frutteto collezione.
Ciò porterà a breve ad avere dati certi sulla specificità di ciascuna varietà, soprattutto ai fini di una loro protezione e valorizzazione.

ZONA DI PRODUZIONE: La zona di produzione comprende tutti i comuni della Valsesia (Vercelli).

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Non si segnalano particolari attrezzature e/o materiali impiegati per la conservazione e per l’imballaggio delle cultivar di mele in oggetto.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali dove vengono effettuate le operazioni di conservazione e confezionamento (cantine e/o magazzini ricavati da locali delle abitazioni) rispettano le attuali normative riguardanti l’igiene degli alimenti.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: La melicultura valsesiana ha origini antiche, legate prima ad un’economia di autoconsumo e, poi, al commercio come documentato dalla presenza sul territorio valsesiano di specifici mercati ortofrutticoli prima del 1940.
Dal dopoguerra, la coltura si è progressivamente ridotta ed alcune varietà rischiano ormai l’estinzione.
La modestissima produzione attuale è venduta direttamente in azienda ad amatori dei prodotti di nicchia ed ai turisti.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Pesche del Piemonte

La coltivazione della pesca è il frutto di una storia iniziata a fine ‘800 sulle colline del Roero, a Volpedo risalgono agli anni ’20 del secolo scorso. È il periodo della trasformazione del pesco da specie selvatica a vera e propria coltura specializzata in tutto il Piemonte e proseguita negli anni ’30 del XX secolo all’altipiano saluzzese e a Borgo d’Ale (VC) arrivata a interessare negli ultimi decenni del secolo scorso ampi territori vocati alla coltura del pesco, in collina così come sull’arco pedemontano della provincia granda.

Territorio interessato alla produzione: La peschicoltura cuneese è diffusa in buona parte del territorio cuneese, seppur concentrata nelle aree a maggior vocazione ambientale (l’altopiano saluzzese, in particolare), nella zona di Borgo d’Ale (VC) e nell’alessandrino.

Cenni storici e curiositàLe testimonianze dei primi impianti di pesco a Volpedo e dintorni risalgono al 1914, quando la fillossera dilaniò i vigneti della zona. Gerolamo Lucotti e Pietro Carena furono due tra i pionieri della peschicoltura nella zona di Volpedo, che tra il 1919 e il 1920 ebbero il coraggio di sostituire il gelso con il pesco. L’uso della denominazione Pesche di Volpedo risale agli inizi del ‘900. Intorno al 1920 a Volpeglino, un piccolo comune del territorio la peschicoltura si sviluppò grazie all’attività del Cav. Guidobono, che propose un’alternativa alla viticoltura dilaniata dalla fillossera. Per i primi impianti di pesco furono utilizzate le varietà Waddel (o Guidobono), Hale, Elberta, Amsden. Tra il 1925 e il 1930 la peschicoltura si sviluppò anche nei paesi limitrofi a Volpeglino, fino oltre le pendici delle vicine colline.Si deve successivamente a Carlo Baravalle, avvocato prestigioso del foro Torinese, cultore apprezzato dell’arte fotografica, il vero sviluppo commerciale del frutto. Questi pose al centro del proprio impegno amministrativo (1935-43) la questione frutticola.

Pesche di Borgo d’Ale

CARATTERISTICHE DELLE VARIETA’ LOCALI DA SALVAGUARDARE, METODICHE DI COLTIVAZIONE E/O VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATE NEL TEMPO: La coltura del pesco è praticata a Borgo d’Ale da centinaia di anni.
Tra le numerose varietà coltivate, si possono ricordare la “Bella di Borgo d’Ale”, una varietà tipica di pesca bianca, assai rara ed inconfondibile per i suoi aromi, la cultivar “Cervetto”, “Maria Bianca” e “Rosa del West”, anch’esse pesche a polpa bianca particolarmente aromatiche e apprezzate dai consumatori, che le identificano come le cosiddette “pesche della vigna”.
I sesti di impianto, le forme di allevamento, i sistemi di potatura e le lavorazioni colturali (epoca di potatura, diradamento dei frutti, irrigazione) sono concepiti in linea con una gestione integrata del frutteto, per raggiungere l’obiettivo primario della qualità.
Primaria è la necessità di ottenere produzioni qualitativamente apprezzabili ed è altresì vero che all’aumentare della densità di piantagione si verifichi uno scadimento qualitativo della produzione (minor pezzatura, minore colorazione e minore consistenza dei frutti).
La forma di allevamento adottata nell’area borgodalese è il “vaso basso”, forma di per sé inadatta ad effettuare impianti fitti, ma che consente una buona illuminazione e buon arieggiamento anche dei frutti dei rami interni o più bassi e si presta all’ottenimento di frutta di alta qualità. Essa consente, inoltre, di effettuare da terra tutte le operazioni colturali. Il sesto di impianto utilizzato è mediamente 5×4 m, con un numero di piante/ha variabile da 500 a 620.
Potatura e diradamento devono concorrere a migliorare gli aspetti qualitativi dei frutti.
La pratica della concimazione viene razionalizzata calcolando la quota di elementi nutritivi da apportare sulla base del tipo di terreno e degli asporti della coltura, a loro volta determinati dalla produzione media dell’appezzamento.
Prima di un nuovo impianto, si effettua un’analisi chimico-fisica del terreno in modo da poter meglio valutare l’opportuno apporto di nutritivi, ovviando ad eventuali eccessi o deficienze in micro e macro elementi.
La dose massima di azoto utilizzata è di 60 kg/ha per piante di vigoria elevata, 80 kg/ha per piante di vigoria media, e 120 kg/ha per piante di vigoria scarsa; non vengono effettuate concimazioni azotate all’inizio della fioritura e tali distribuzioni vanno sospese 45 giorni prima dell’inizio della raccolta (allegagione-indurimento del nocciolo) per evitare di alterare negativamente la qualità del prodotto.
La dose massima di fosforo (P2O5) utilizzato è di 50 kg/ha, mentre la dose massima di potassio (K2O) è di 150 kg/ha. È consigliato l’apporto di fertilizzanti organici, in particolare letame maturo, i cui apporti in unità fertilizzanti vanno incluse nelle dosi ammesse. L’irrigazione viene usualmente effettuata per scorrimento. In prossimità della raccolta, vengono effettuate solo irrigazioni di soccorso anche in base alle indicazioni fornite dal servizio tecnico del Consorzio.
La superficie complessiva è di circa 500 ettari con una produzione stimata di circa 95.000 quintali.
Il prodotto si inserisce in un “circuito commerciale breve” che prevede la raccolta manuale dei frutti al giusto grado di maturazione (2-3 kg di durezza misurati con il penetrometro) e normalmente non si prolunga la raccolta oltre il terzo passaggio. In ogni caso la durata del periodo di raccolta viene attentamente programmata dal servizio tecnico del Consorzio di produzione in funzione dell’andamento stagionale e soprattutto della varietà.

ZONA DI PRODUZIONE: L’area vocata per la coltura delle pesche è prevalentemente quella dei territori dei comuni di Borgo d’Ale e Maglione e di alcuni comuni limitrofi, quali Alice Castello, Cigliano, Moncrivello, Cossano Canavese, Viverone.
L’area è compresa tra le regioni agrarie “Morenica della Serra” e “ Pianura del Canale Cavour” ed è caratterizzata da terreni di origine fluvio-glaciale, ricchi di scheletro, a classificazione granulometrica compresa tra “sabbioso” e franco-sabbioso” che permettono un ottimo drenaggio ove il pesco trova un habitat particolarmente favorevole.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATE PER LA CONSERVAZIONE E/O L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Le pesche di Borgo d’Ale vengono confezionate manualmente, possibilmente in campo, con frutti divisi in non più di tre calibri e disposti in plateaux mono o a due strati alveolati, di legno o di cartone con misure 30×50 cm.
Presso il centro aziendale vengono predisposti pallets in luogo riparato dal caldo.
Il conferimento al magazzino viene effettuato il più presto possibile per il rapido raffreddamento e il conferimento al commerciante deve essere effettuato entro 36 ore dalla raccolta.
La qualità superiore del prodotto così ottenuto viene valorizzata privilegiando canali commerciali che promuovano il consumo del prodotto entro 60 ore dalla raccolta.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali dove avviene il confezionamento del prodotto, effettuato manualmente, sono a norma con le disposizioni di legge in materia igienico sanitaria degli alimenti.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE LA VOCAZIONALITA’ TERRITORIALE CONSOLIDATA NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI VENTICINQUE ANNI DEL PRODOTTO ORTOFRUTTICOLO INDICATO NELLA PRESENTE SCHEDA: Nella cronologia storica borgodalese di fine ottocento, si trovano notizie riguardanti una consistente emigrazione verso la Francia e le Americhe.
Alcune fonti indicano proprio le Americhe come provenienza del materiale genetico che, in quegli anni, arrivò a Borgo d’Ale e dal quale si svilupparono le prime coltivazioni peschicole razionali che ebbero inizio nel 1900.
In questo periodo, la produzione aveva uno sbocco difficile: pochissimi erano gli acquirenti ed i produttori dovevano portare la frutta con il “biroc” nelle città vicine, dove, però, incontravano uno scarso favore e prezzi bassissimi.
Ai tempi duri, si aggiunsero attacchi di parassiti che, in assenza di trattamenti, portarono al deperimento degli alberi, obbligando così i pionieri della nostra frutticoltura ad estirpare le coltivazioni ed a reintrodurre le vecchie colture più sicure e redditizie.
Nel 1920, alcuni valenti agricoltori di Bordo d’Ale, sotto la guida dei tecnici della cattedra Ambulante di Agricoltura, ripresero la peschicoltura piantando i primi quattro appezzamenti di pescheti (in tutto venti stari) in regione via Areglio.
Da questa data in poi, fu un continuo crescendo arrivando, nel 1930, a trecento giornate di pescheti impiantati.nelle regioni limitrofe al centro abitato.
Se produrre sembrava facile, difficoltosa si presentava la vendita: le pesche raccolte al mattino presto, venivano portate dagli stessi produttori con i “biroc”, nei mercati di Crescentino, Cavaglià, Biella e Vercelli con costi e perdite di tempo eccessivi anche per i frutticoltori già attrezzati per questo tipo di trasporto.
Questa situazione, determinata da una produzione di pesche in espansione produsse i suoi effetti: il 21 luglio 1931, il Regio Podestà di Borgo d’Ale richiedeva al Consiglio Provinciale dell’Economia l’istituzione di un mercato stagionale di frutta e verdura che fu inaugurato il 3 maggio 1932.
La frutticoltura iniziò a portare a Borgo d’Ale notevoli benefici economici: ne è prova una relazione podestarile del 17 luglio 1937 indirizzata al Prefetto dove si faceva presente la “necessità di stimolare la peschicoltura che ha dato e dà risultati economici importanti per tutto il territorio del comune”. Vi si annunciava anche per l’8 agosto 1937 l’inizio della “Prima Sagra del Pesco” comprendente manifestazioni varie tra le quali la Mostra delle Pesche. La relazione continuava informando l’autorità prefettizia che erano circa mille le giornate di pescheti di Borgo d’Ale e che al mercato affluivano già anche le produzioni di frutta e verdura di Alice Castello, Cossano e Maglione. Il Podestà faceva poi notare che la produzione settimanale era di circa 500 quintali di pesche, vendute ad un prezzo medio di 8-12 soldi al kg e che le contrattazioni non si svolgevano più tutte nell’area del mercato di Piazza Verdi con ore e regole fisse, ma vi era la presenza anomala di un mercato parallelo che si svolgeva durante tutta la settimana con vendite effettuate direttamente nei pescheti ed anche nella piazza centrale del paese.
La tendenza a disertare il mercato si accentuò negli anni che precedettero e seguirono il conflitto mondiale. La produzione stimata nell’epoca che va dal 1947 al 1950, secondo i dati dell’Archivio Comunale, si aggirava tra i 27.000 ed i 37.000 quintali annui e, per tentare uno sbocco diverso per la produzione peschicola, venne fondata la società ICAB con lo scopo di trasformare parte del prodotto in confettura.
Negli anni ’60, Borgo d’Ale venne riconosciuto come “Centro Piemontese delle pesche”.
Nel 1965, la produzione era di 63.948 quintali di pesche vendute.
Nel 1967, venne inaugurato il nuovo Mercato Unico di Strà Bianzè.
Le pesche di Borgo d’Ale, prodotte in aziende diretto-coltivatrici di dimensioni medio piccole, vantano una tradizione colturale che permette loro di distinguersi dai normali standard qualitativi dei prodotti presenti sul mercato: in particolare la raccolta effettuata scalarmente in prossimità della maturazione fisiologica esalta le qualità organolettiche dei frutti, determinate dal contenuto in zuccheri, acidi ed aromi e dalla consistenza della polpa. La permanenza prolungata sulla pianta migliora anche colore e pezzatura dei frutti, che, più delicati, vengono confezionati manualmente e giungono freschissimi al consumatore.

Bibliografia:
· Il Mercato di Borgo d’Ale, Consorzio di Gestione del Mercato Ortofrutticolo di Borgo d’Ale.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Uva fragola

L’uva fragola di Suno e di Carpignano è un’uva nera da tavola (botanicamente classificabile come Vitis labrusca L. o da taluni ritenuta un ibrido tra quest’ultima e la Vitis vinifera L.) dal sapore intensamente dolce e aromatico – con tipiche note di fragola.

Territorio interessato alla produzione: L’area vocata per la coltura dell’uva fragola viene individuata in provincia di Vercelli nel territorio del comune di Borgo d’Ale e di alcuni comuni limitrofi, quali Alice Castello, Cigliano, Moncrivello e Maglione.La zona di produzione dell’uva “precoce” in provincia di Novara è costituita da un’area più ampia all’interno dei Comuni di Mezzomerico, Suno e – in minima parte – Oleggio e Marano Ticino e da un nucleo più piccolo quanto significativo a Landiona.

Cenni storici e curiositàLa prima testimonianza di un vigneto a Carpignano risale al 1703, quando si cita un manso con sedime e viti. Alla fine del XIX secolo l’unica vite coltivata in Europa (la Vitis vinifera) fu aggredita dalla fillossera che ne minacciò la completa distruzione. La soluzione fu ricercata nell’importazione come portinnesti dei vitigni americani divenuti resistenti al parassita alcuni puri, altri ibridi di specie americane e, successivamente, altri ibridi di specie americane con specie europee. Questa vasta operazione di sostituzione dei vigneti portò anche alla diffusione dell’uva fragola in alcune aree del Novarese.

Marmellata di sambuco

Materia prima: bacche di sambuco.

Tecnologia di lavorazione: bacche di sambuco e prugne vengono fatte cuocere per circa mezz’ora, si passano al setaccio e si rimettono sul fuoco aggiungendo lo zucchero e badando bene di non farle attaccare. Verso la fine della cottura si aggiungono i semi di finocchio triturati.

Maturazione:

Area di produzione. Valsesia, Valtellina e altre regioni del centro-Nord.

Calendario di produzione: autunno.

Note: il sambuco è una pianta originaria dell’Europa e dell’Asia e prospera bene fin sopra i mille metri privilegiando i margini dei boschi, le rive dei fiumi, i vecchi ruderi e gli spazi aperti. Dagli antichi popoli italici era considerato albero totemico e segnava il confine del campo coltivato: di questa usanza si ritrova traccia in alcune zone d’Abruzzo, dove un tempo abitavano Sabini, Sanniti e Sabelli. Una pianta alimentare e medicinale nello stesso tempo: torte farcite e frittelle di fiori per la mensa, ma anche tisane e decotti per tossi e raffreddori. Nel Nord d’Europa e in quella dell’Est usano le bacche e i fiori per fare il vino.

Mostarda piemontese

Materia prima: uva.

Tecnologia di lavorazione: si mette a bollire in un recipiente l’uva ammostata. Quando bolle vanno tolti gli acini d’uva e la schiuma. Man mano che il volume diminuisce il calore deve essere sempre più moderato per evitare che si attacchi. Va poi filtrata con un panno bianco e rimessa sul fuoco fintantoché non si é ridotta di due terzi. Si mette nei vasi e si conserva al buio.

Maturazione:

Area di produzione: Piemonte. In Calabria con l’identica tecnica e le stesse modalità di esecuzione si produce il mosto cotto.

Calendario di produzione: autunno.

Note: la mostarda piemontese non ha la senape ed é l’unica mostarda che ha due versioni: quella con il solo impiego dell’uva Barbera (il vero Mustum) e l’altra che addiziona al mosto cotto pere, mele cotogne, cannella, chiodi di garofano, zucche, fichi e – in alcune odierne versioni commerciali – anche gherigli di noce, nocciole e mandorle tostate.

Composta di marroni

Materia prima: marroni.

Tecnologia di lavorazione: dopo aver tolto la prima buccia ai marroni, si sbollentano in acqua tanto quanto basta per togliere agevolmente la pellicola. Si rimettono sul fuoco con acqua a cui si aggiunge un pizzico di sale, qualche foglia di alloro e dei semi di finocchio. Si fa cuocere quanto basta per ottenere una purea morbida, dopo aver aggiunto lo zucchero e la vaniglia.

Maturazione:

Area di produzione: tutto il Piemonte, Appennino.

Calendario di produzione: autunno.

Note: in tutto il Piemonte la castagna viene consumata il giorno dei morti. Un tempo, quando tradizione e magia si intrecciavano poeticamente, si lasciava un grande piatto in cucina perché le anime dei defunti potessero servirsene. Cibo consumato anche dalle donne romane durante i riti di Cibele e Cerere(in sostituzione dei cereali proibiti durante il rito),il castagno deve la sua diffusione nell’Italia del nord e nell’Europa centrale proprio ai romani mentre il miglioramento della coltura nel Medioevo lo dobbiamo ai frati benedettini e camaldolesi che ne fecero una pianta fondamentale per l’economia delle zone alto collinari e montane. La sua importanza viene meno solo intorno agli anni ’50, anni del grande esodo: coincidente – circostanza davvero singolare – con la diffusione del cancro corticale.

Torta di castagne

In questa torta possiamo trovare molti ingredienti diversi, tra cui uova, burro, amaretti, cacao o altri frutti come mele o pere. Si aromatizza con arancia, limone, rhum, marsala o noce moscata.L’ingrediente principale è però sempre la farina di castagne, ottenuta tritando le castagne fresche bollite o usata come farina vera e propria ottenuta dalle castagne secche.

Territorio interessato alla produzione: La torta di Castagne si produce in tutto il Piemonte, ma è particolarmente diffusa in Monferrato. È molto nota quella del comune di Pontestura (AL).

Cenni storici e curiositàLa sua presenza nei ricettari data da almeno l’inizio del secolo, ma la tradizione orale testimonia della torta di Castagne da un periodo molto più vecchio, e potremmo dire che sia nata con le castagne stesse.Ricordiamo che con le castagne, anticamente, in assenza di grano si preparava pane di necessità.Nel comune di Pontestura (AL), i primi riferimenti alla produzione di questo dolce risalgono al 1800 quando, per la festività della Pasqua, oltre ai fornai anche le famiglie preparavano queste torte, che erano cotte nei forni, allora, a legna. Ora rimane un solo fornaio, e le famiglie dispongono del proprio forno, mantenendo però viva la tradizione della preparazione della torta.Non esiste una ricetta originale, poiché la produzione casalinga, con i suoi mille trucchi e segreti, rende impossibile una codifica univoca.

Asianot

Gli Asianot sono dei biscotti simili a dei frollini, rigati in superficie, di piccole dimensioni, dal gusto delicato e dal colore dorato, che vantano una storia singolare, fatta di ricette segrete, tramandate in punto di morte da dame di compagnia di nobildonne.

Territorio interessato alla produzione: Gli Asianot si producono a Asigliano Vercellese e a Vercelli.

Cenni storici e curiositàNel Comune di Asigliano Vercellese si preparano dei biscotti di pasta frolla e taluni asseriscono che fossero i dolcetti preferiti della contessa Marianna Buronzo-Signoris, dama di compagnia della Regina presso il Castello di Racconigi (CN) e ultima contessa di Asigliano, la famiglia che aveva governato il Paese dal 1650 fino al 1856.Tali biscottini erano preparati soprattutto in occasione delle grandi feste che si tenevano nel parco della villa. Seppure le ospiti della contessa insistessero per ottenere la ricetta, questa rimaneva gelosamente custodita, e appannaggio delle donne di servizio.Il segreto fu svelato dapprima dalla signora Lisot alla nipote Mincota (Domenica) quando quest’ultima stava per lasciare casa per sposarsi, poi, nel 1975 quando l’ormai novantenne nonna Mincota si ammalò.Fu così che, dopo 100 anni di segreto assoluto, quale riconoscimento per le cure e l’assistenza ricevute, la ricetta passò nelle mani di un noto pasticcere di Asigliano che mise in commercio questi biscotti, rendendoli popolari, e furono chiamati Asianot.

Baci di dama di Tortona

I baci di dama di Tortona sono dei dolci di composizione originale, consistenti in due semisfere di pasta di biscotto alla mandorla, tenute insieme da una goccia di cioccolato fondente.Il nome ricorda, secondo alcuni, il fatto che il profilo dei baci di dama rassomigli ad una bocca di donna appena socchiusa.

Territorio interessato alla produzione: La produzione dei baci di Dama di Tortona avviene a Tortona, in provincia di Alessandria, ma con la medesima ricetta si produce in pratica in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàI baci di Dama di Tortona sono una specialità tortonese che alcune pasticcerie della zona producono da oltre un secolo, la ricetta si trova già nei manuali di cucina di fine ‘800, anche se non è riferita direttamente ai “baci” prodotti a Tortona.Sicuramente questi dolci hanno valicato i confini di questa bella città, e sono prodotti in tutto il Piemonte; la “Guida Gastronomica d’Italia” del Touring Club Italiano, nel 1931, cita i baci di dama come prodotti tipici di Novi Ligure, ma nell’edizione dell’”Italia Turistica” dello stesso Touring, all’inizio degli anni ’70, si indicano i “Baci di Dama” come di origine tortonese.I “Baci di Dama”, secondo il principale studioso ed esperto di questo dolce, il Dr. Carlo Sterpone, furono inventati però nel 1890 a Tortona, a seguito dell’intuizione dei fratelli pasticcieri Angelo e Secondo Zanotti, registrati come pasticceri operanti a Tortona dal 1885. Questi depositarono nel 1890 il marchio di fabbrica “Baci di Dama Zanotti”. Un’altra pasticceria nacque dalle collaborazioni di Angelo Zanotti con Stefano Vercesi, e quest’ultimo, dopo una vera e propria “disfida” per rivendicare la primogenitura dei dolci, decise di depositare il marchio “Baci Dorati Vercesi”.Il marchio “Baci di Dama Zanotti” depositato nel 1890 rimase in vigore fino agli anni ’30. Dopo di allora la produzione e l’uso della denominazione divennero liberi.

Bicciolani

I bicciolani sono biscotti di pastafrolla aromatizzata con una miscela di spezie, che è caratteristica di ogni produttore, e in quanto tale, gelosamente custodita. Troviamo, in questi dolci simbolo della città di Vercelli, oltre agli ingredienti della pasta, anche cannella, chiodi di garofano, macis, noce moscata, cardamomo, coriandolo, ed eventualmente vaniglia e pepe.

Territorio interessato alla produzione: I bicciolani sono i biscotti tipici di Vercelli.

Cenni storici e curiositàPuò essere avvalorata una provenienza orientale, visto che nella ricetta sono previste spezie levantine.La presenza di aromi in genere usati per preparazioni salate, fa supporre che questo dolce possa essere nato dal riutilizzo dell’impasto avanzato per preparare pasticci a base di cacciagione, molto comuni nella cucina piemontese tardo medievale.Su alcuni documenti del ‘600 sono menzionati dei bicchiolati usati come pagamento per coloro che trasportavano e seppellivano i morti di peste, ma non si sa se questi possano essere messi effettivamente in relazione con gli attuali bicciolani.Alcuni pensano che i bicciolani appartengano alla città di Vercelli come eredità dell’occupazione austriaca prima della guerra d’indipendenza. L’ipotesi più tecnica è quella che attribuisce i bicciolani alla creazione, risalente al 1809, di un pasticcere vercellese che si chiamava Carlo Provenzale.In ogni caso le tracce di questo biscotto si trovano diffusamente almeno nell’ultimo secolo; Giuseppe Ciocca, nel suo Pasticcere e il Confettiere Moderno del 1907, li cita come antico prodotto Vercellese, dando una misura sufficientemente precisa di quanto tempo siano associati Vercelli e i bicciolani.

Biscotti della salute

I Biscotti della salute sono delle specie di fette biscottate ricavate da un filone di pane, in genere cotto su una placca e non su uno stampo. Questo conferisce a questi biscotti una forma tipica di fetta di pane, ovale a forma di una mezza luna.Il gusto è poco dolce, sono particolarmente ricercati per la leggerezza e la grande friabilità, può essere presente anche un leggero sentore di anice.

Territorio interessato alla produzione: I Biscotti della salute sono prodotti in tutto il Piemonte, l’epicentro produttivo più importante è Ovada, crocevia delle culture culinarie piemontese e ligure (AL).

Cenni storici e curiositàI biscotti del Lagaccio, progenitori del biscotto della salute, nacquero nel 1593 nel quartiere del Lagaccio, a Genova, dove esistette, fino agli anni ’60 un bacino artificiale. All’epoca un forno iniziò a produrre questi biscotti, che erano l’ideale per la conservazione in barca.Questo tipo di versatile pane dolce si diffuse rapidamente, e dalla Liguria si diffuse in Piemonte, tramite quel crocevia di culture che era ed è l’Oltregiogo, area dell’alessandrino al confine con la Liguria.I Biscotti della salute, anche conosciuti come “crocion” in Piemonte, sono talmente radicati sul territorio piemontese, che ne troviamo due citazioni molto antiche: da V. di S. Albino, nel Gran Dizionario piemontese-italiano del 1859, dove nella ricetta compaiono le uova e non i grassi; e nell’ancora più antico Vocabolario Piemontese-Italiano di Michele Ponza da Cavour, edito a Torino nel 1830.La fortuna e la diffusione dei Biscotti della salute in Piemonte, è certamente dovuta all’imprenditore Walter Marchisio, che fondò a Torino nel 1922 la Wamar.

Ossa da mordere

Le Ossa da mordere sono i più tipici “biscotti da credenza”, ovvero dolci che si possono conservare a lungo nella credenza di cucina, sempre pronti per un rapido e occasionale consumo.Questi biscotti sono presenti, con poche varianti, come preparazioni casalinghe, artigianali o dipasticceria quasi ovunque in Italia, e hanno praticamente ovunque lo stesso nome.Sono duri e croccanti, ma con pazienza si sciolgono in bocca lasciando a lungo in sapore delle mandorle.Si differenziano dai “Brût e Bon” per la presenza di farina, e per la forma ancora più irregolare.

Territorio interessato alla produzione: Le Ossa da mordere sono prodotti da quasi tutte le pasticcerie e da molte panetterie, le zone a maggior diffusione sono le province di Novara e Vercelli. Particolarmente rinomati quelli di Borgomanero (NO).

Cenni storici e curiositàLa produzione piemontese delle Ossa da mordere si perde nel passato, con testimonianze legate a ricorrenze, feste, banchetti e documenti commerciali che ne attestano la produzione almeno fin dal secolo scorso.Le prime tracce sicure della produzione piemontese risalgono al 1869, quando questi biscotti furono messi in vendita nella offelleria di Borgomanero (NO).

Paste di Meliga

Le paste di meliga sono dei biscotti preparati con una miscela di farina di mais e di farina bianca, uova, zucchero e burro, dalla superficie rugosa e di solito vagamente striata, a forma rotonda, o di mezza luna, di “S”, di bastoncino o a seconda degli usi locali. Hanno colore dorato e sono molto friabili e croccanti.

Territorio interessato alla produzione: Le paste di meliga si producono in quasi tutto il Piemonte, ma la tradizione associa alle paste di meliga il monregalese, soprattutto Pamparato e Vicoforte Mondovì, le vallate cuneesi in generale e la zona di Barge in particolare. Sono molto diffuse, con piccole variazioni compositive e di forma, anche nelle Valli di Lanzo, in Canavese e nel Biellese.

Cenni storici e curiositàLe paste di meliga hanno una ricetta antica che si perde nel tempo. Le prime tracce delle paste di meligasi trovano nel “Confetturiere piemontese” del 1790 in cui compaiono con il nome di michette di meliga.La tradizione di Barge, in provincia di Cuneo, vuole l’origine almeno al 1850, ed è una famiglia da allora produttrice, di generazione in generazione, che porta la testimonianza diretta della storia di queste paste.Proprio questa famiglia ricevette nel 1934, in occasione della tradizionale festa locale detta “ottobrata bargese”, il “Diploma di Medaglia d’Oro”, per la produzione delle batiaje.

Bonet

Il bonet è un dolce tecnicamente simile ad un budino. La base della ricetta prevede sempre la presenza di uova e latte che rapprendono durante la cottura.Si prepara in stampi rettangolari da circa 1-1,5 kg, le dimensioni finali del dolce sono circa 12x8x25 cm.È comunemente preparato anche in stampi monoporzione o multiporzione con forme di fantasia;tradizionalmente infatti, lo stampo tronco-piramidale ricordava il tipico cappello piemontese da cui deriva il nome del dolce stesso.

Territorio interessato alla produzione: Il bonet è prodotto sull’intero territorio piemontese.

Cenni storici e curiositàL’etimo del nome è evidente: si rifà al termine bonet, che in piemontese significa berretto.Il nome bonet significa anche attrezzo da cucina di forma congruente al nome.

Panna cotta

La panna cotta, dolce al cucchiaio avente una consistenza simile a un budino, appartiene a tutta latradizione piemontese, ma la sua diffusione maggiore e capillare appartiene alla Langa. Classicamente è di colore bianco, di consistenza cremosa e soffice. Normalmente è servita leggermente irrorata con zucchero caramellato. Non è infrequente trovarla accompagnata da salse leggermente acide a base di frutta, soprattutto frutti di bosco.

Territorio interessato alla produzione: La panna cotta è prodotta sull’intero territorio piemontese, ma è originaria della Langa.

Cenni storici e curiositàSembra che la panna cotta sia stata “portata”, come ricetta, da una signora ungherese in Langa, dove, vista la facile reperibilità della panna, ha trovato fertile terreno di diffusione in tutto il Piemonte.Si fa notare, per inciso, che in piemontese non esiste un termine specifico per la “panna”, che è sempre stata chiamata “fiore del latte”, con una crasi dei termini fiore e affioramento, molto comuni nel passaggio dal lessico tecnico a quello popolare.Questo starebbe a testimoniare la recente introduzione del dolce nella tradizione piemontese, ed una origine non territoriale.

Caramelle classiche dure

Le caramelle classiche dure si distinguono dalle comuni pastiglie di zucchero perché il processo di produzione è un processo “acaldo”, in cui lo zucchero è portato ad alta temperatura e formato in stampi di varie fogge e disegni.Oltre allo zucchero, tra gli ingredienti, troviamo il glucosio, miscelato con lo zucchero per evitarne la cristallizzazione, e essenze varie, succhi, addirittura marmellate e aromi, quando non paste di frutta.

Territorio interessato alla produzione: Le caramelle classiche dure sono prodotte in Piemonte.

Cenni storici e curiositàDa sempre, si dice “Caramelle di Torino” per indicare un prodotto derivante dall’esperienza nella quale si sono confrontate più generazioni.Una prima sorta di caramella (in verità, forse, dei bastoncini di zucchero di canna) fu importata dalla Siria da Goffredo di Buglione, all’epoca della prima Crociata (1097–1099), ma la sua vera origine è riconducibile alla diffusione dello zucchero comune, ottenuto dalla lavorazione industriale della barbabietola e, conseguentemente, alla scoperta ed alla produzione di confetti, di tondini di zucchero aromatizzati e delle pasticche di orzo per “mollificare la tosse”. Le prime “caramelle” furono confezionate da un confettiere piemontese con “sucher d’ördi” (zucchero d’orzo).I prodotti della confetteria erano, un tempo, consumati solo dai componenti di case reali e da nobili famiglie aristocratiche. La commercializzazione di questi prodotti incominciò solo nella seconda metà dell’800, le piccole botteghe confettiere si ingrandirono fino a diventare vere e proprie industrie e la città di Torino incominciò ad essere conosciuta per la produzione di pastiglie e di caramelle di qualità.Tra l’800 ed il ‘900 si pensò di “vestire” le caramelle, sia per proteggerle che per abbellirle.Le caramelle classiche dure conquistarono tutti i mercati e poterono fregiarsi, essendo consumate dalla casa reale, di stemmi, medaglie e nodi di Savoia, simboli grafici di un successo tradizionale.

Cioccolatini torinesi

I Cioccolatini Torinesi sono presenti e lavorati su tutto il territorio piemontese e, sulla base dellatradizione pasticcera torinese, la grande fantasia dei maestri cioccolatai fa sì che vengano continuamente riproposti in gusti e formati sempre nuovi.Si può però tentare di classificare i prodotti tradizionali per macrocategorie, quali:- Cremini- Cioccolatini ripieni- Cioccolatini al liquoreQuesta classificazione si riferisce soprattutto alla forma dei cioccolatini ed al tipo di ripieno.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione, originaria di Torino, è allargata a tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàAnche se la lavorazione del cioccolato data dal 1700, allora non si produceva il cioccolato come lo si conosce adesso. In quel tempo i “cicôlatè” miscelavano cacao, zucchero e aromi ottenendo forme grossolane di pani o salami di cioccolato, chiamati “pan” e “rolò”. Questi col tempo diventano sempre più raffinati, fino a evolvere nei celebri “diablotin ‘d cicôlata”, ovvero dei pezzetti di cioccolato, sovente aromatizzato, da consumarsi in un sol boccone. Di quei primi “cioccolatini”, battezzati appunto “diablotin”, abbiamo una definizione precisa di V. di Sant’Albino: ” pezzetti di cioccolata in figura di rotella piana, girella, troncisco di cioccolato che si mangia crudo”.Si sostiene che l’origine del termine “diablotin” sia da attribuire addirittura a Cagliostro (1743-1795), uso a preparare pasticche con virtù particolari per i suoi pazienti.La ricetta dei “diablotin” compare ufficialmente sul “Confetturiere Piemontese” nel 1790.Dall’inizio dell’800, poi, il ruolo di Torino nell’evoluzione della tecnica di lavorazione del cioccolato assume un’importanza che si ripercuoterà in tutta Europa, Svizzera compresa.Si passa infatti da un cioccolato ottenuto faticosamente con lunghe lavorazioni manuali a un cioccolato raffinato morbido e piacevole, ottenuto dalla prolungata lavorazione meccanica, e con un processo controllato. La prima macchina per la lavorazione del cioccolato è stata inventata in Olanda nel 1828, anno che segna l’inizio della era moderna del cioccolato. A Torino queste macchine compaiono grazie all’intraprendenza dei pionieri del cioccolato, e la forza motrice per la lavorazione era data dall’acqua dei canali di Torino, primo fra tutti quello della Pellerina.Si abbandona quindi il “diablotin” per passare al “givu”, in dialetto “cicca, pezzetto” che diventano i capostipiti di tutti i cioccolatini a venire.

Cioccolatino cremino

CARATTERISTICHE DEL PRODOTTO E TECNICHE DI PRODUZIONE, CONSOLIDATE NEL TEMPO IN BASE AGLI USI LOCALI, UNIFORMI E COSTANTI: IL “Cremino” è un cioccolatino costituito da due strati di cioccolato gianduia inframmezzati da una pasta di cioccolato contenente nocciole, caffè o limone. Oltre le selezionatissime materie prime del cioccolato, si utilizzano pasta di nocciole del Piemonte (Tonda Gentile delle Langhe), pasta di caffè ed estratto di limone di Sicilia.
Il prodotto è incartato in alluminio ed avvolto con una fascetta di carta.

ZONA DI PRODUZIONE: Il “Cioccolatino Cremino” è prodotto in Piemonte.

MATERIALI ED ATTREZZATURE SPECIFICHE UTILIZZATI PER LA PREPARAZIONE E L’IMBALLAGGIO DEL PRODOTTO INDICATO NELLA
PRESENTE SCHEDA: Le linee di produzione sono di moderna concezione per soddisfare tutte le esigenze di igienicità, nel
rispetto delle tecnologie tradizionali consolidate.

DESCRIZIONE DEI LOCALI DI CONFEZIONAMENTO E/O DI CONSERVAZIONE: I locali di produzione e di stoccaggio sono concepiti nel pieno rispetto delle attuali norme igienicosanitarie e climatizzati alle opportune condizioni di temperatura e di umidità relativa.

DOCUMENTAZIONE ATTESTANTE CHE LE TECNICHE DI PRODUZIONE SONO CONSOLIDATE NEL TEMPO PER UN PERIODO NON INFERIORE AI
VENTICINQUE ANNI: Nel 1858, Ferdinando Baratti, che già nel 1853 lavorava come cameriere in uno dei più importanti
caffè di Ivrea ed era così svelto da essere soprannominato familiarmente dagli avventori “friciulin”, conobbe a Torino Edoardo Milano e, insieme, decisero di aprire una confetterie-liquoreria in Via Dora Grossa.
I due amici, grazie al patrimonio ricevuto da Edoardo Milano in dote dalla moglie, dopo aver acquistato macchinari più moderni ed aver studiato nuove ricette, iniziarono la produzione di prodotti che sarebbero stati legati alla storia del Piemonte, tra i quali si annoverano i “Cioccolatini Cremini”.
Sull’onda dei successi ottenuti, nel 1875 fu inaugurato a Torino, in Piazza Castello, il salone pubblico di gusto tardo liberty tutt’ora esistente.
I primi documenti ufficiali attestanti la produzione dei cremini risalgono, tuttavia, al 1934.

Bibliografia:
– Mario Marsero, Dolci Delizie Subalpine, Lindau, 1995.

FONTE: B.U.R. Piemonte, Supplemento al numero 23 – 6 giugno 2002

Giandujotto

Il giandujotto è un cioccolatino a forma di spicchio allungato o, secondo altra interpretazione, di barchetta rovesciata; sicuramente la forma è inconfondibile, e deriva da un antico metodo di lavorazione manuale.Il giandujotto è composto di cioccolato e di una parte rilevante di pasta di nocciole, il che lo rendeprofumatissimo.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione è allargata ormai a tutto il Piemonte, ma Torino e provincia comprendono almeno il 90% della produzione totale di giandujotti.

Cenni storici e curiositàIl vero inventore del cioccolato “gianduja” fu Michele Prochet, cioccolatiere a Torino, che già nel 1852 lo produceva. Solo nel 1865 sono stati prodotti e messi in commercio i primi giandujotti.La consacrazione del nome è avvenuta ufficialmente nel 1869 ad opera direttamente di Gianduja, re del carnevale torinese. La maschera, che durante il carnevale era investita di una specie di grottesca e benevola autorità di governo sulla città, dopo aver platealmente assaggiato i già famosi cioccolatini, rilasciò una “pergamena economica” a Monsù Caffarel Prochet Gay in cui si attesta “lippis et tonsoribus a sia notori che chiel a l’a ben merità a la nosta fera fantastica del 1869”.Il legame con la maschera torinese non si ferma qui: secondo un celebre burattinaio del tempo, la forma del giandujotto evocherebbe l’ala del tricorno di Gianduja, ma soprattutto colpì all’epoca il fatto che questo “moderno” cioccolatino fosse incartato, primo tra tutti i futuri epigoni, con regale carta dorata.

Panettone basso glassato alle nocciole

La forma del panettone basso glassato piemontese è quella di una cupola, circolare, contenuta in uncilindro di carta da forno bruna detta “pirottino”. Si serve a fette dopo aver tolto il pirottino, e si consuma tal quale accompagnato da un bicchiere di moscato dolce o da vino passito, o con zabaione, o panna montata, oppure, “passate le feste”, inzuppato nel latte della colazione. Prodotto versatile, quindi, ma rigorosamente abbinato alle feste natalizie. Infatti si può considerare il prodotto di ricorrenza più comune.La preparazione del panettone è disciplinata da norme specifiche, le quali consentono l’aggiunta della glassatura caratteristica del panettone piemontese.

Territorio interessato alla produzione: Si produce in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàNel 1876, nell’appendice al “Vocabolario Italiano Della Lingua Parlata” di Giuseppe Rigutini si definisce il panettone con la postilla”lo fanno bene a Milano”. La prima codifica di un impasto in tre fasi compare soltanto nel “Re Dei Cuochi” di Giovanni Nelli, 1868.Queste, ed altre possibili citazioni, ad attestare la antica origine del panettone, e soprattutto della sua origine lombarda.Il Piemonte è un interprete importante della produzione di questo dolce, e l’attitudine alla conservazione delle tradizioni contribuisce a mantenere, ancora oggi, la ricetta e la metodica produttiva nei canali della tradizionalità e dell’uso del lievito madre come ingrediente principale del prodotto.Ma l’origine del panettone basso glassato piemontese data al 1922, rivendicata della azienda Pinerolese Pietro Ferrua, che su involontario suggerimento di un amico artista, subito recepito dalla moglie Regina, lo chiama “galup”, che in piemontese significa “goloso”. Questo diventerà poi il nome della azienda di famiglia.

Pastiglie di zucchero

Le pastiglie di zucchero sono dolci di zucchero aromatizzato e colorato, dure ma friabili allamasticazione, e che si preferisce succhiare lentamente, lasciandole sciogliere in bocca, in modo cherilascino la componente aromatica lentamente.I gusti e le fogge in cui si trovano questi antichi dolci sono moltissimi, anche se meno vari di quelli delle caramelle.Si differenziano dalle caramelle perché il processo produttivo avviene a freddo, e il calore è usato solo per “asciugare” il prodotto finito nella fase finale.

Territorio interessato alla produzione: Le pastiglie di zucchero sono prodotte in Piemonte, soprattutto nel torinese e nell’alessandrino.

Cenni storici e curiositàGià nel “confetturiere piemontese”, stampato nel 1790, è presente una ricetta ancora attuale per produrre pastiglie, che in questo caso sono alla cannella.Le pastiglie di zucchero, così come le caramelle e i confetti, per tutto l’800 sono una prerogativa dei benestanti, della buona società e persino dei membri del Parlamento: le pastiglie gommose “Senateur”, al sapore di liquerizia, furono inventate da un pasticcere di Alba per i senatori del Regno, che ne facevano largo uso per sciogliere l’eloquio. Questo pasticcere si trasferì poi a Torino alla fine nel 1880, dove sorse la più famosa delle fabbriche di pastiglie; le fabbriche più antiche, e le intuizioni più geniali, punteggiano però tutto il Piemonte.

Bagna Càuda

La Bagna Càuda (Salsa Calda) è un condimento tradizionale piemontese. Per la preparazioneoccorrono (ingredienti per 4 persone): 40 g di burro, 250 g di olio extravergine di oliva, 200 g diaglio, 200 g di acciughe sotto sale.

Territorio interessato alla produzione: La Bagna Càuda è un condimento tradizionale del Piemonte.

Cenni storici e curiositàSi narra che, i vignaioli, nel tardo Medioevo, desiderassero un piatto insolito per festeggiare la spillatura del vino nuovo, che segnava la messa al sicuro del raccolto più travagliato, più faticato e più insidiato: il vino.Pare che si volesse anche, con una certa polemica sociale, adottare e valorizzare un piatto festivo rustico e popolare, saporito e forte, da contrapporre ai consueti, magri e snervati arrostini glassati di zucchero e profumati di essenza di rose e di viole dei signori.Fu scelto, così, di appaiare materie prime largamente diffuse e localmente disponibili: i buoni ortaggi piemontesi ed il prezioso aglio (prescritto dagli Statuti Medioevali e dai Bandi Campestri come coltura obbligatoria per ogni coltivatore proprietario), l’acciuga salata in barili, che cominciava ad arrivare capillarmente ad ogni borgo e ad ogni collina grazie agli Acciugai ambulanti occitani della Val Maira e l’olio di oliva, scarsamente prodotto in Piemonte (che pure a quel tempo prima delle grandi variazioni climatiche aveva ulivi) e, per la maggior parte, importato dalla vicina Liguria in cambio di grano, burro e formaggio.Così, la Bagna Càuda divenne un piatto della stagione fredda anche perché la temperatura rigida se non, addirittura, il gelo, era ed è un requisito necessario alla tenerezza perfetta delle verdure da intingere, specie dei cardi.

Burro di montagna

Il burro di montagna è un prodotto lattiero-caseario ottenuto dalla crema (o panna) del latte di vacca, separata per scrematura o affioramento del latte o per scrematura del siero di caseificazione. La particolarità del burro di montagna, è quella di essere ottenuto con crema di latte di vacche alimentate con pascolo alpino, ricco di molte essenze erbacee e floricole.

Territorio interessato alla produzione: L’intero arco alpino del Piemonte, relativamente alle aziende agricole con vendita diretta al consumatore.

Cenni storici e curiositàIl burro di montagna, da sempre, è stato considerato migliore rispetto al burro prodotto nelle cascine di pianura, tant’è che basta scorrere le lettere camerali piuttosto che l’elenco delle gabelle pagate sui prodotti commercializzati sui mercati piemontesi per averne la conferma. Vedasi per esempio la lettera della Camera Ducale pubblicata in Torino nel 1627 dove la tassa sul “Butirro delle Alpi di Lanzo e altre” era superiore rispetto a quella su altri tipi di burro perché il prezzo di mercato del burro era maggiore.

Vermut o Vermouth

Il vermut deve il suo nome all’assenzio (Artemisia Absinthium), che viene usato nella suapreparazione e dà a esso un’aroma ed uno speciale sapore amaro.

Territorio interessato alla produzione: Il vermut è prodotto in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa fama del vermut è indissolubilmente legata al Piemonte e a Torino, in particolare, dove, alla fine del 1700, era una vera e propria arte la preparazione di questo vino aromatico. E’ uno dei più interessanti e tipici vini aromatizzati italiani. La vecchia grafia del nome stesso era vermut (o Wermouth, o Wermuth). L’origine di questo nome non è sicura; generalmente si fa risalire al tedesco Wermuth “assenzio” (Artemisia absinthium). Si vuole che un vino di questo genere fosse già preparato nell’antichità dai Romani, sotto il nome di Absinthiatum (o Absinthianum) vinum. Il primo autore italiano che parla di questo vino è C. Villifranchi, nella sua Oenologia toscana (1773).Il primo produttore e negoziante di vermut fu Antonio Benedetto Carpano che, nel 1786, aveva il suo negozio nel cuore di Torino. Un altro famoso negozio era quello di Rovero che annoverava il re Carlo Alberto tra la sua clientela. Nel 1838, i primi a saggiare le vie dell’esportazione furono i fratelli Giuseppe e Luigi Cora. Il loro esperimento di vendita in America ebbe notevole successo, tanto che la Casa Cora si dovette ingrandire. Da questo momento, altri stabilimenti per la produzione di vermut sorsero nelle province viticole piemontesi. Molte importanti Case parteciparono del successo internazionale di questa bevanda: Bartolomeo Dettoni, Carlo Gancia, Alessandro Martini, Francesco Cinzano, Giuseppe Ballor.La presenza e la produzione di vermut nel torinese è stata documentata da studi storici locali.

Grappa con alambicco a bagnomaria piemontese

La grappa è l’unico distillato al mondo che si ottiene da una materia prima solida e palabile. Leimplicazioni che derivano da questo aspetto sono importantissime: essendo la vinaccia ciò cherimane dal processo di vinificazione (ci si riferisce alle vinificazioni in cui la vinaccia rimane acontatto con il vino); essa raduna e concentra tute le sostanze aromatiche presenti nel vino.

Territorio interessato alla produzione: La zona è il Piemonte.

Cenni storici e curiositàIl Piemonte dedica, da sempre, una grande attenzione alla distillazione della vinaccia: in tutte le epoche, nei castelli e nelle tenute agricole nobiliari ; emblematico il caso del Conte di Cavour che da Grinzane si faceva spedire i campioni della grappa prodotta per accertarne personalmente la qualità. All’epoca si chiamava “branda” e, ancora, oggi in dialetto, si fa fatica a pronunciare il neologismo giunto dall’Italia orientale.Gli alambicchi a bagnomaria sono coevi di quelli a fuoco diretto e simbolo dell’antica distillazione gentilizia; differiscono da quelli a fuoco diretto in quanto hanno una doppia caldaia dotata di un’intercapedine nella quale l’acqua, messa in ebollizione da un fuoco di legna o da una fiamma alimentata a gas o, in alternativa, del vapore prodotto da una centrale indipendente che fornisce un manto di calore che fa dolcemente evaporare gli umori della vinaccia. Questi confluiscono, poi, normalmente, in una colonna a piatti di piccole e medie dimensioni e, concentrati, vengono, quindi, liquefatti e trasformati in acquavite. Sono naturalmente alambicchi discontinui la cui cotta dura tra le due e le sei ore e, difficilmente, esistono caldaie che superano i dodici ettolitri di capacità. Da un’indagine effettuata, si è potuto evidenziare che almeno 40 alambicchi a bagnomaria hanno operato ancora in una delle ultime vendemmie, di questi 38 sono bagnomaria di stile trentino mentre due sono bagnomaria di stile piemontese.La differenza tra le due sottocategorie è data dalla diversa geometria della caldaia e nel modo in cui la vinaccia viene posta in essa: in quelli di stile trentino viene messa alla rinfusa insieme ad una certa quantità di acqua (sempre che non risulti grondante di vino ), mentre negli altri è disposta su cestelli forati, di rame, in caldaie troncoconiche di capacità generalmente non superiore ai 300 chili di materia prima.

Coste della Sesia DOC

Zona di produzione: nelle province di Biella e Vercelli

Vitigni:
Coste della Sesia Rosso (anche Novello) e Rosato: almeno 50% da Nebbiolo, Bonarda, Vespolina o Croatina. Possono concorrere alla produzione di detti vini altri vitigni a bacca rossa non aromatici delle province di Vercelli e Biella.
Bianco: esclusivamente dal vitigno Erbaluce.
Coste della Sesia Nebbiolo o Spanna, Vespolina, Bonarda o Uva rara e Croatina: da uve del vitigno omonimo per almeno l’85%; possono concorrere, per la restante parte, altri vitigni non aromatici delle province di Vercelli e Biella

Gradazione alcolica minima: 11 gradi (Bianco 10,5)

Tipologie: Bianco, Rosso (anche Novello), Rosato, Nebbiolo, Bonarda, Vespolina e Croatina.

Caratteristiche organolettiche:
Rosso: secco, rosso rubino, intenso, tendente all’aranciato se invecchiato; odore fine, caratteristico, intenso; sapore asciutto e armonico.
Bianco: secco di colore giallo paglierino piu’ o meno intenso, profumo fine, intenso, caratteristico, sapore secco, armonico, caratteristico.
Croatina: tranquillo, secco, di colore rosso vivo più o meno intenso, odore vinoso, caratteristico, intenso e sapore secco, equilibrato, di corpo.
Bonarda: secco con colore rosso rubino più o meno intenso, odore fine, intenso, persistente e sapore sapido, equilibrato, talvolta vivace.
Nebbiolo: secco, di colore granato, tendente all’aranciato se invecchiato, profumo intenso, caratteristico, sapore secco, di buon corpo, caratteristico.

Abbinamenti:
Coste della Sesia Rosso: arrosti e selvaggina, minestre e formaggi a pasta dura.
Rosato: antipasti misti, piatti a base di uova e verdura.
Bianco: trote in salsa e altri pesci di acqua dolce e antipasti magri.

Riferimenti normativi: Riconoscimento della Doc con DM 14.09.96 pubblicato sulla GU del 27.09.96, modificato dal DD 17.02.97 pubblicato sulla GU n.61 del 14.03.97

Piemonte DOC

Zona di produzione: 356 comuni in provincia di Asti, Cuneo e Alessandria. Aree più ristrette sono previste per le tipologie Piemonte Moscato, Piemonte Moscato passito e Piemonte Brachetto

Vitigni: I vini Piemonte versioni Barbera, Bonarda, Grignolino, Brachetto, Cortese e Chardonnay si ottengono da uve dei corrispondenti vitigni per almeno l’85%. Il Piemonte Moscato e il Piemonte Moscato passito si ottengono esclusivamente da uve Moscato bianco; il Piemonte Spumante si ottiene da uve di vitigni Chardonnay e/o Pinot bianco e/o Pinot grigio e/o Pinot nero. Le versioni Pinot bianco, Pinot grigio e Pinot nero si ottengono prevalentemente (almeno l’85%) dalle uve dei rispettivi vitigni

Gradazione alcolica minima: Piemonte Doc Spumante 10,5 gradi. Piemonte Doc Moscato 15,5 gradi. Piemonte Doc Brachetto 11 gradi

Caratteristiche organolettiche: Piemonte Doc Spumante: colore giallo paglierino, odore caratteristico e fruttato, sapore sapido e caratteristico. Piemonte Doc Moscato passito: colore giallo oro, tendente all’ambrato più o meno intenso, profumo intenso, complesso con sentore muschiato caratteristico dell’uva Moscato; il sapore è dolce, armonico, vellutato, aromatico. Piemonte Doc Brachetto: colore rosso rubino più o meno intenso, talvolta tendente al rosato. L’odore è caratteristico, con delicato aroma muschiato, il sapore delicato, più o meno dolce, talvolta frizzante.

Tipologie: Spumante, Pinot bianco, Pinot grigio, Pinot nero, Barbera, Bonarda, Grignolino, Cortese, Chardonnay, Brachetto, Moscato e Moscato passito

Abbinamenti: Brachetto, Spumante e Moscato passito si abbinano a dolci a pasta lievitata, abbastanza consistenti come pan di spagna con frutta rossa, macedonia di fragole e panna, pesche ripiene e dolci di pasta fritti.

Riferimenti normativi: La Doc Piemonte è stata riconosciuta con DM del 22.11.1994, pubblicato sulla GU 282 del 02.12.1994

Erbaluce di Caluso o Caluso DOCG

Zona di produzione: una ristretta zona viticola che comprende 33 comuni della provincia di Torino di cui Caluso e’ l’epicentro, e che si estende fino ai confini della provincia di Vercelli, di cui comprende alcuni comuni. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti ubicati in terreni di buona esposizione e di origine morenica.

Vitigni: Erbaluce.

Resa massima per ha: 120 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11%.

Acidita’ totale minima: 7 per mille.

Estratto secco netto minimo: 19 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore giallo paglierino, brillante; profumo fine, vinoso e caratteristico; sapore secco, fresco e caratteristico.

Qualificazioni: nessuna.

Abbinamenti :antipasti, minestre e risotti con salse a base di pesce; piatti di pesce di lago e di fiume.

Tipologie: Caluso passito, Caluso passito liquoroso, Caluso spumante

Bramaterra DOC

Zona di produzione: il territorio dei comuni di Massarano, Brusnengo, Curino, Roasio, Villa del Bosco, Sostegno e Lozzolo, nella provincia di Vercelli. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti di giacitura collinare con esposizione che consenta un lungo soleggiamento in ambiente adatto ed i cui terreni abbiano composizione fisico-chimica idonea.

Vitigni: Nebbiolo (Spanna) 50-70%, Croatina 20-30%, Bonarda e Vespolina, soli o insieme, fino al 20%.

Resa massima per ha: 75 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 12%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 23 per mille.

Invecchiamento obbligatorio: 2 anni, di cui almeno 18 mesi in botti di legno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso granato con riflessi aranciati, che si attenua con il tempo; profumo caratteristico, intenso, lievemente etereo, che si affina con l’invecchiamento; sapore pieno e asciutto, vellutato con gradevole sottofondo amarognolo; fine, di buon nerbo ed armonico.

Qualificazioni: qualora sia sottoposto ad un periodo di invecchiamento di 3 anni, di cui 2 in botti, puo’ portare la qualifica “Riserva”.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti :carni in umido, piatti importanti di selvaggina e cacciagione; in zona e’ accompagnato con la “paniscia”, un risotto con fagioli bianchi freschi, salame e verdure

Gattinara DOCG

Zona di produzione: il comune di Gattinara, provincia di Vercelli. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti posti sui dossi collinari, soleggiati, con esclusione di quelli di fondovalle e dei terreni pianeggianti o umidi.

Vitigni: Nebbiolo (Spanna) 90% e Bonarda di Gattinara fino al 10%.

Resa massima per ha: 90 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 12%.

Acidita’ totale minima: 5,5-8,5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 20-30 per mille.

Invecchiamento obbligatorio: 4 anni di cui almeno 2 in botti di rovere o di castagno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso granato tendente all’aranciato; profumo fine che ricorda quello della viola, specie se molto invecchiato; sapore asciutto, armonico con fondo amarognolo caratteristico.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: nessuna.

Abbinamenti : arrosti di carni rosse, pollame cacciagione e selvaggina

Mieli del Piemonte

Tra i tipi di miele prodotti in Piemonte possono essere ricordati, per le loro elevate caratteristichequalitative, varietà monoflorali come:

miele di acacia
miele di tiglio
miele di castagno
miele di tarassaco
miele di rododendro


Territorio interessato alla produzione: La produzione è diffusa in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa tradizionalità della produzione di mieli della Regione Piemonte è dimostrata da vecchi libri di apicoltura che attestano che la metodica di lavorazione è rimasta invariata nel tempo.

Piante officinali del Piemonte

Gli ambienti di fondovalle e montani delle valli piemontesi ospitano numerose specie spontanee epresentano una lunga tradizione nella raccolta e commercializzazione di piante officinali. Tali attività proseguirono con una certa intensità sino alla fine degli anni ’80.

Territorio interessato alla produzione: Le erbe officinali sono prodotte diffusamente in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLe vallate piemontesi ospitano numerose e abbondanti essenze spontanee, divenute poi nel tempo oggetto di coltivazione. Le piante officinali rappresentavano una interessante integrazione di reddito per molti agricoltori che, a cavallo tra la fine della primavera e l’estate, operavano in zona sia con l’allevamento bovino che con la pastorizia.Per quanto riguarda lo zafferano – denominato localmente Sofran – le prime esperienze di coltivazione risalgono al medioevo, nel territorio del marchesato di Saluzzo dove ricadevano i territori della Valle Grana e delle Valle Maira (Fedele Savio, Ferdinando Gabotto – Studi e documenti sul duomo di Saluzzo e altre chiese). La testimonianza più precisa è la premiazione – nell’ambito della “Prima esposizione agraria, industriale, artistica delle provincia di Cuneo” – del caragliese Delpuy Antonio per la coltivazione dello zafferano a Caraglio, nel 1870.Tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 dello scorso secolo, grazie anche all’attività del Centro Sperimentale per le piante Officinali promosso dalla CCIAA di Cuneo, furono messi a dimora i primi impianti produttivi di genepy, melissa, lavanda in alcuni areali alpini del Piemonte. Le attività del Centro presero in esame alcuni parametri agronomici delle colture e fornirono preziose linee guida ai produttori.In questi ultimi anni si è evidenziato un significativo incremento di interesse verso queste colture, in particolare per le situazioni montane gestite secondo i principi del Biologico. L’incremento della domanda ha creato crescente specializzazione tra gli operatori, oltre alla diffusione di pratiche innovative di trasformazione e lavorazione.

Fagiolo della Villata

Il Fagiolo della Villata è attualmente coltivato in una fascia pianeggiante di terreno fresco e fertile del comune di Villata.I produttori locali provvedono annualmente alla selezione della semente da riutilizzare per i nuoviimpianti individuando le piante migliori in campo ed i baccelli caratterizzato da un elevato numero di semi all’interno.

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione del Fagiolo della Villata coincide con il territorio del comune di Villata.

Cenni storici e curiositàVi è un antico legame tra il Fagiolo della Villata e il territorio vercellese.Nel falcone delle liti ritrovato presso il Comune di Villata riporta un menù del 700 di un pranzo di nozze e tra i piatti locali cita: salam d’la duia, cudighin e sanguinass; rani ‘n bagna; rani pin-i; rani frite; panisa cun i fasoi dla Vilata e salam vec; fritura ‘n nimal; videl e roba dulsa…Da documenti tratti dagli archivi del Comune di Villata emerge come nell’ottobre 1851 nella “la riceta dla panisa” venga citato, tra gli ingredienti il fagiolo locale.“per quat personi:50 grama ed lard, oli, sigula, mes salam antla grasa, dui etu ed fasò dla Vialata, 8 pung ad ris e mes cuciar et conserva…”

Zabaione

Lo zabaione, che in Piemonte è chiamato anche zabaglione, è una crema soffice, spumosa e leggera,preparata con vino, zucchero e rossi d’uovo.

Territorio interessato alla produzione: Lo zabaione si produce praticamente in tutte le cucine piemontesi. Alcune gastronomie lo propongono, così come moltissimi ristoranti.

Cenni storici e curiositàL’origine dello zabaione è antichissima, e in quanto tale si presta a versioni quasi leggendarie.Una di queste lo fa risalire al 1500, quando il capitano di ventura emiliano Giovanni Baglioni si accampò alle porte della città di Reggio Emilia; avendo pochi viveri con cui sfamare i suoi soldati, si arrangiò con uova, zucchero e vino trovati nelle fattorie della zona. Non sapendo come combinare questi ingredienti, non gli restò altro da fare che miscelarli, cuocerli e dare questo antesignano dello zabaione ai soldati, che ne furono entusiasti. Il popolo chiamava Giovanni Baglione ‘Zvàn Bajòun’ e la crema ne prese il nome diventando prima ‘zambajoun’, e poi zabaione.

Savoiardi

I savoiardi sono biscotti di forma allungata, morbidi e semplici, si presenta come un bastoncino dorato, quasi sempre cotto in uno stampo svasato che ne delimita il fondo. Hanno una struttura spugnosa e minutamente alveolata, sono leggerissimi; inconfondibili per le estremità arrotondate.La caratteristica saliente è la presenza, sulla superficie, di una specie di sottilissima pellicola data dalla presenza di una spolveratura di zucchero a velo prima della cottura.

Territorio interessato alla produzione: I savoiardi sono prodotti in tutto il Piemonte.

Cenni storici e curiositàLa loro origine, chiaramente espressa dal nome, si fa risalire in genere al XV secolo, in corrispondenza ad una visita del re di Francia ai duchi di Savoia. Sembra, però, che un dolce di medesima composizione, sotto forma di grande “gateaux” di pasta spugnosa, sia stato fatto preparare dal conte Amedeo VI nel 1348 per ingraziarsi Carlo di Lussemburgo, e questo abbia addirittura favorito il successivo sviluppo della dinastia.Sebbene questo incontro sia avvenuto a Chambery, nella Savoia francese, è innegabile l’origine di questo morbidissimo biscotto. La ricetta si diffuse in tutti i territori di influenza piemontese, e così si ritrovano con la medesima ricetta anche in Sardegna.Per dare una idea di quanto questi biscotti siano antichi, citiamo il pasticcere Giuseppe Ciocca, che nel suo Pasticcere e Confettiere Moderno, del 1907, afferma: “… così esistono ancora i biscotti detti savoiardi”.

Pesche ripiene

Le pesche ripiene, in piemontese “persi pien” sono un dolce non facilmente classificabile; si presentano come delle mezze pesche rovesciate con il taglio verso l’alto, al centro delle quali, in corrispondenza dell’incavo lasciato dal nocciolo, è stato posato il ripieno, scuro per la presenza di cacao. L’incavo centrale è di solito volutamente ampliato, asportando un po’ della polpa e utilizzandola per il ripieno stesso. Il tutto è servito dopo cottura in forno, e si consumano di preferenza tiepide.Le pesche ripiene sono un dolce povero, prodotto con ingredienti semplici e facilmente reperibili instagione opportuna.

Territorio interessato alla produzione: Le pesche ripiene si producono sull’intero territorio piemontese.

Cenni storici e curiositàLa ricetta delle pesche ripiene nella cucina italiana è vecchia quanto le pesche stesse. Questo piatto nasce quasi sicuramente dall’esigenza di consumare con un po’ di zucchero le abbondanti, ma aspre, pesche di vigna, e da sempre in Piemonte si usa il seme del nocciolo di pesca come amaricante per cucinare o per produrre liquori.Col tempo e con il cambiare delle disponibilità economiche il piatto si arricchisce di amaretti, cacao, burro e uova. Le codifiche del prodotto riguardano già l’Artusi, nel suo “la scienza in cucina” del 1891, senza la presenza degli amaretti.La presenza in Piemonte però data da anteriormente, almeno da quando il Vialardi, cuoco piemontese, nel 1854 ne dà una versione senza il cacao, ma con la cannella. Sono però già presenti gli amaretti.Da allora i ricettari hanno sempre riportato questa semplice ricetta, con variazioni e arricchimenti che non hanno mai snaturato l’idea originaria alla base del dolce.

Frittelle di Carnevale

Le “frittelle di Carnevale” sono piccoli dolci a forma di palline spugnose e leggere, fritte in olio ecosparse di zucchero o zucchero a velo, da mangiarsi da sole o accompagnate da una cioccolata calda.Sono diffuse in tutto il Piemonte con diversi nomi a seconda della zona di provenienza

Territorio interessato alla produzione: Le frittelle di Carnevale si producono in tutto il Piemonte nelle gastronomie o nelle panetterie, soprattutto in occasione del Carnevale sono preparate come fine pasto nei ristoranti.

Cenni storici e curiositàQuesto tipo di dolce è diffuso in tutta Italia, vuoi per quanto è gustoso, quanto per la sua facilità di realizzazione.Le origini della frittelle di Carnevale risalgono come minimo alla nascita della pasticceria in Europa; la prima ricetta simile, infatti, si trova su “Il cuoco piemontese” del 1766, ma la prima ricetta dei “beignet detti pets-de-nonne alla vainiglia” compare sul “Trattato di cucina” del Vialardi, nel 1854.Da allora non si contano le presenze di questi dolcetti nei ricettari regionali.

Bugie o chiacchiere

Le bugie di Carnevale, o meglio conosciute in altre regioni italiane come chiacchiere di Carnevale sono dolci sottili dal bordo quasi sempre frastagliato, a forma volutamente irregolare, rettangolare o di nastro, a volte addirittura annodato o arrotolato a rosone.Le bugie sono leggere e croccanti, sono fritte in olio e cosparse di zucchero a velo prima di essere servite.

Territorio interessato alla produzione: Le bugie si producono nelle pasticcerie o nelle panetterie di tutto il Piemonte in occasione del Carnevale.È frequente che alcuni ristoranti le propongano come omaggio di fine pasto.

Cenni storici e curiositàQuesto tipo di dolce è diffuso in tutta Italia, dove si chiama con nomi diversi, ma che quasi sempre richiamano la forma a nastro o a straccetto della pasta prima della cottura.Le origini delle bugie, o qualunque sia il nome regionale che prendano, risale già ai tempi degli antichi romani e alle loro “frictilia”, dolci di farina fritti nel grasso di maiale e conditi con il miele, vendute per la strada da donne anziane, con il capo cinto di edera, in occasione delle “Liberalia”. Le “Liberalia” erano celebrate il 17 Marzo ed erano dedicate agli dei della fecondità. Il periodo era dunque lo stesso dell’attuale Carnevale.