Grana Padano DOP

Materia prima: latte di due mungiture, di cui una scremata per affioramento o centrifugazione. Alimentazione: erba verde e mangimi in primavera-estate; insilati, fieno e mangimi in autunno-inverno.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a 32-35 gradi, aggiungendovi siero-innesto più caglio liquido. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata (a dimensione di chicco di mais) si aggiunge dello zafferano e si cuoce in due fasi: prima a 45 gradi, si spurga e poi si riscalda fino a 55 gradi. Dopo queste operazioni, la massa viene estratta con tele, previa eliminazione di gran parte del siero, e messa in mastelli di legno a spurgare per trenta minuti. Si deposita poi nelle fascere e si sottopone a pressione per 8-10 ore. La salatura si effettua a secco, ad intervalli di due giorni per 15 giorni, oppure in salamoia per 30-40 (tipo lombardo) o 15-20 giorni (tipo emiliano). Matura in circa 60 giorni, durante i quali le forme vengono periodicamente unte con olio di lino. Resa 7%. Additivi: formaldeide, nei limiti consentiti dalla legge.

Stagionatura: da 12 mesi fino a tre anni. Resa 6%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 16-20; diametro: cm 40-45; peso: Kg 35-40; forma: cilindrica; crosta: dura, spessa, di colore giallo scuro; pasta: granulosa, a volte umida e attaccaticcia, di colore giallo chiaro.

Area di produzione: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto, nelle provincie definite dal Decreto 30.10.1955 numero 1269.

Calendario di produzione: tutto l’anno, nelle sorti maggengo (primavera-estate) e invernengo (autunno-inverno).

Note: il Consorzio di tutela nasce il 18.6.1954. Da testimonianze del XIV secolo si deduce che la tecnica migliore per produrre il grana fosse appannaggio di Piacenza e dei piacentini. Benvenuto da Imola annotava che gli esperti mercanti, durante i loro lunghi viaggi per mare, si rifornivano di grana piacentino perché “più serbevole e resistente a tutte le malattie”. Il primo documento che parla di questo formaggio risale al 1184, mentre le prime fabbriche di formaggio detto “di grana” si localizzarono all’epoca del XII secolo nel quadrilatero compreso tra il Po, il Ticino, l’Adda e la latitudine di Milano. Dai ritagli delle forme del grana si ottiene il cosiddetto “tosello”, che consiste in fettuccine quasi gommose, di colore grigio paglierino tenue, dal gusto leggermente salato. I caseifici lo regalano, in quanto non ha mercato. Si consumava un tempo come “complimento” ammorbidito sulle fette di polenta abbrustolite sulle braci. Altro sottoprodotto del Grana è il “balon”, ossia formaggio grana mal riuscito, con sapore molto piccante provocato da particolari alterazioni fermentative. La maggior parte dei “balon” viene rilavorata per ottenere vari formaggi molli industriali o formaggi fusi. Va citato infine il “formaggio nisso”, costituito da Grana o formaggelle di montagna andate a male. In alcuni casi si accelerava il processo di fermentazione lasciandolo al sole spalmato di olio. E’ ricercato dai bevitori ed ha un gusto molto piccante. Nel Cremonese viene chiamato “tara”, ma è conosciuto, prodotto e consumato soprattutto in Emilia, nel Piacentino, in una quantità stimata di circa 50 quintali annui.

Provolone Valpadana DOP

Materia prima: latte intero.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo previa pastorizzazione a circa 37 gradi, aggiungendovi siero-fermento più caglio liquido di vitello o in pasta di capretto. Coagula in 15 minuti. Dopo la rottura della cagliata a dimensione di un chicco di mais o guscio di nocciola, si cuoce a 49-50 gradi (con vapore indiretto). Dopo queste operazioni, si attende giusta consistenza della massa, in seguito a fermentazione per 40 ore a 20-25 gradi. Si procede quindi alla filatura della pasta, versandovi acqua calda a 70 gradi. Segue la formatura ed il raffreddamento delle forme. La salatura si effettua per bagno in salamoia (18-20%) per 12-24 ore per ogni chilo di peso del formaggio. Matura in 20 giorni circa. Le forme vengono legate a coppie con funi e si pongono a cavallo di appositi sostegni. Possono essere affumicate.

Stagionatura: da 3 a 6 mesi, fino a oltre un anno circa, in ambiente a 12-18 gradi e umidità del 75-85%. Durante questo periodo, le forme vengono intinte in un bagno di paraffina prima della commercializzazione. Resa 9%.

Caratteristiche del prodotto finito: peso: Kg 1-6; forma: tronco-conica o a pera, a melone, a salame o a cilindro allungato; crosta: sottile, lucida, di colore giallo dorato, talvolta giallo bruno; pasta: compatta, priva di occhi, di colore dal bianco al paglierino. E’ tollerata una leggera occhiatura; grasso: 45%; sapore: dolce butirroso alla media stagionatura, pronunciato verso il piccante a stagionatura avanzata o quando si sia fatto uso di caglio di capretto.

Area di produzione: dalla capitale Cremona si irradia in tutta Italia, in particolare Lombardia e Veneto.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: il nome deriva dalla parola napoletana “prova” da cui provola dato a latticini di forma sferica e in origine prodotti con latte di bufala. L’origine è dunque meridionale ma l’impianto della prima impresa napoletana nelle campagne lombarde è di controversa data, forse collocabile già durante il dominio austriaco. Certo è che Jacini cita il fenomeno e che Germano Auricchio, capostipite di una ancor attualissima dinastia, si stabilisce nel 1891. La produzione è tutelata dal Dpr 30.10.1955 n. 1269 da cui è nato il Consorzio del formaggio tipico Provolone (D.m. 22.2.1978). La legge 10.4.1954 n. 125 consente l’uso della denominazione “Provolone tipico” contrassegnato dalla coccarda tricolore. È proposto il passaggio a produzione di origine controllata, all’interno di un’area che a grandi linee dovrebbe comprendere tutta l’alta Italia.

Monte (fresco)

Materia prima: latte in parte intero (circa 2/3) e in parte scremato (1/3) da razza Bruno-alpina e Pezzata nera. Alimentazione: erba fresca dei pascoli locali.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo, previo naturale raffreddamento a circa 33-35 gradi, aggiungendovi caglio in polvere sciolto in acqua tiepida. Coagula in 30-40 minuti. Dopo la rottura della cagliata riscaldata un po’ al fuoco (a dimensione di un chicco di riso), si cuoce a 40-43 gradi (di solito con fuoco a legna per circa 10 minuti). Dopo queste operazioni, la massa viene continuamente lavorata fino all’asciugatura voluta. Si opera quindi la sistemazione in fascera e la pressatura con pesi di 20-30Kg. Nei primi giorni si cambia spesso la tela (sciarina) finchè la crosta diventa giallina. Quindi si mette in ambiente tiepido per due giorni. La salatura si effettua per bagno in salamoia (14%) durante due giorni. Matura in due mesi, in cantina fresca umida, dove le forme vengono regolarmente rivoltate. Resa 9,6%.

Stagionatura: non si effettua.

Caratteristiche del prodotto finito: Peso: Kg.3-6; forma: variabile, di solito cilindrica; crosta: lucida, fine,gialla; pasta: compatta con occhiatura minutissima, colore bianco avorio o paglierino chiaro; sapore: dolce, talvolta leggermente acidulo.

Area di produzione: Monte Baldo, comune di Malcesine (VR).

Calendario di produzione: tutto l’anno escluso l’inverno.

Note: è il formaggio tipico del Monte Baldo, di cui sono rimasti oggi pochissimi produttori, tutti nel versante gardesano. Trattasi di agricoltori, a pieno e mezzo tempo, le cui strutture di supporto consistono in piccole casere, alquanto differenti dalle piccole malghe.

Monte (stagionato)

Materia prima: latte in parte scremato per affioramento (circa 2/3) e in parte intero appena munto (circa 1/3), da razza Bruno-alpina e Pezzata nera. Alimentazione: prevalentemente a fieno.

Tecnologia di lavorazione: come per il Monte (fresco), ma utilizzando il latte intero ancora tiepido. Matura in due mesi, in cantina fresca e umida, dove le forme vengono pulite giornalmente con uno straccio e girate. Si raschiano una volta.

Stagionatura: un anno circa. Durante questo periodo le forme vengono talvolta lavate con acqua tiepida e unte da una a quattro volte con olio di oliva bollente. Resa 9-9,3%.

Caratteristiche del prodotto finito: Peso: variabile; forma: solitamente cilindrica di dimensioni variabili; crosta: giallastra, sottile; pasta: consistente, occhiatura piccola e rada, colore paglierino; sapore: dolce aromatico.

Area di produzione: Monte Baldo, comune di Malcesine (VR).

Calendario di produzione: inverno e inizio primavera.

Note: vedi Monte (fresco). Trattandosi di un formaggio con cottura a bassa temperatura, se stagionato va incontro facilmente a fermentazioni indesiderate. Ciò viene contrastato attraverso l’alimentazione bovina, a prevalente base di fieno (foraggi essiccati) disponibile appunto in inverno, da cui si ottiene un latte leggermente più magro e a carica batterica più contenuta.

Monte veronese DOP

Materia prima: latte intero prevalentemente da razza Pezzata nera. Alimentazione: erba fresca e/o fieno della zona.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 33-34 gradi, aggiungendovi latte-innesto più caglio in polvere o liquido di vitello. Coagula in 20 minuti. Dopo la rottura della cagliata (a dimensione di mezzo guscio di noce), si cuoce a 43-46 gradi, per circa 10-15 minuti. Dopo queste operazioni, la massa viene estratta e messa nelle fascere. La salatura si effettua a secco sulle forme per un massimo di 10 giorni. Matura in 30 giorni, in ambiente a 15-18 gradi e umidità 80%, dove le forme vengono regolarmente rivoltate.

Stagionatura: fino a 2 mesi circa.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm. 10; diametro: cm. 30; peso: Kg. 8; forma: cilindrica; crosta: sottile, morbida, colore paglierino scuro; pasta: con occhiatura regolare, colore paglierino (se di produzione estiva) altrimenti bianco avorio; grasso: 44%; sapore: dolce.

Area di produzione: Monti Lessini (VR).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: è una produzione relativamente recente (prima esisteva solo il tipo “magro” ). Le provincie di Brescia e Bergamo assorbono la maggior parte della produzione.

Stracòn

Territorio interessato alla produzione: Comuni di: Malcesine, San Zeno di Montagna, Caprino, Ferrara di Monte Baldo, Brentino Belluno, Sant’Anna d’Alfaedo, Erbezzo, Bosco Chiesanuova, Cerro Veronese, Selva di Progno, Roverè Veronese, Badia Calavena, Vestenanova, San Giovanni Ilarione, Roncà. L’area è quella della montagna veronese e collina veronese, appartenenti alle Prealpi venete, comunemente indicate come area del Baldo e della Lessinia (dove esistono due Comunità montane, rispettivamente del Baldo e della La storia Lessinia), in provincia di Verona.Descrizione del prodotto: Il formaggio Stracon è prodotto nei periodi dell’alpeggio, a pasta semicotta, ottenuta da latte intero di vacca, da una mungitura, non pastorizzato, con acidità naturale od indotta, cagliatura a mezzo di caglio in polvere. La pasta ha un’occhiatura fitta, di colore giallo paglierino, dal sapore dolce e sapido che diventa intenso quando invecchiato, con una vena amarognola e leggermente aromatica e dal profumo gradevole. Ha forma cilindrica, diametro 20-25 cm, scalzo 7-9 cm, facce quasi piane con crosta asciutta e pulita, di colore giallo del peso di circa 6 kg.Processo di produzione: La lavorazione è a latte intero e crudo, con acidità naturale o indotta. La salatura è a secco o in salamoia. La coagulazione avviene con caglio in polvere. Durante la stagionatura le forme vengono periodicamente rivoltate per evitare che si producano rigonfiamenti sulla faccia esterna. Un tempo gli ambienti di lavorazione e stagionatura erano quelli della malga, ora sono normali caseifici di montagna. La stagionatura avviene in locali con temperatura fresca ed elevato tasso d’umidità.Reperibilità: È prodotto da giugno a settembre nella zona alta della Lessinia. Durante quel periodo è reperibile presso le malghe, le latterie e i rivenditori della zona.Usi: Date le sue caratteristiche fisico organolettiche, il formaggio stracon si presta a svariati usi culinari. Oltre che crudo è indicato per la preparazione di fondute o risotti.La storia:L’origine del nome “stracon” è da ricercare nella parlata dialettale veronese che significa “tanto stanco”, e veramente stanco doveva essere il latte che un tempo veniva utilizzato per la produzione di questo formaggio, perché proveniente da animali in transumanza. In una “Convenzione perpetua” datata due luglio 1793, relativa ad un pascolo in Campofontana, si trova scritto “Vivendo ab immemorabile in comune d’una pezza di terra pascoliva, boschiva sassosa…della quantità di campi ottocento circa…fu necessità di dover tal beneficio affittarlo per supplire a tante spese incontrate, riservandosi solo ad uso di pascolare comune alle nostre montagne …sia caricata di vacche…” Dove per “caricata da vacche” s’intende, in termini popolari, la pratica secolare della transumanza attuata nella provincia di Verona. Tra l’ultima decade di maggio, per le malghe più basse, e la prima decade di giugno, per quelle ad altitudine più elevata, si portava a compimento l’operazione di “carico” dei pascoli estivi. La monticazione, per consuetudine altrettanto secolare aveva termine il giorno di San Michele, trenta settembre. Originariamente il latte che se ne traeva durante il percorso dalla pianura verso i pascoli montani, e viceversa, veniva caseificato lungo il percorso e posto in sacchi o ceste di vimini, e lasciato a scolare il siero sul dorso di animali da somma. A questo formaggio veniva dato il nome di “stracon”. Successivamente, con tale termine, si è venuto ad indicare anche il formaggio prodotto nelle malghe con latte di vacche pasculanti negli alti pascoli, dove la scarsa presenza di cotica erbosa imponeva al bestiame di effettuare lunghi tragitti giornalieri. (da “Lessinia ieri oggi domani. Quaderni culturali”, dal 1978). Nell’Archivio di Stato di Verona si trovano documenti contabili dei monasteri che testimoniano come questa antica tipologia di formaggio venisse dato in pagamento per gli affitti “livelli” dei pascoli.

Formaggio Casato del Garda

Territorio interessato alla produzione: Parte settentrionale della provincia di Verona e comprende in tutto o in parte il territorio dei seguenti comuni: S.Bonifacio, Soave, Colognola ai Colli, Mezzana di Sotto, Monteforte d’Alpone, Illasi, Cazzano di Tramigna, Caldiero, Montecchia di Crosara, Roncà, Lavagno, S.Martino Buon Albergo, Verona, Bussolengo, Pescantina, San Pietro Incariano, Sona, Castelnuovo, Pastrengo, Peschiera del Garda, Lazise, Bardolino, Garda, Cavaion Veronese, Affi, San Giovanni Illarione, Tregnago, Badia Calavena, Vestenanuova, Selva di Progno, Velo Veronese, San Mauro di Saline, Grezzana, Cerro Veronese, Rovere Veronese, Bosco Chiesanuova, Erbezzo, S.Anna d’Alfaedo, Marano di Valpolicella, Negrar, Fumane, S.Ambrogio di Valpolicella, Dolcè, Rivoli, Costermano, Caprino Veronese, Ferrara di Monte Baldo, Brentino-Belluno Veronese, Malcesine, Brenzone, S.Zeno di Montagna, Torri del Benaco.

La storia: Il Casato Gardesano è un prodotto molto particolare la cui storia è legata alle tradizioni contadine della pedemontana Veronese che privilegiavano alimenti calorici, in grado di sopperire al fabbisogno energetico della vita contadina, ma anche in grado di esprimere la summa di sapori e odori tipici della zona. La tecnica di produzione del casato del Garda ha origini antiche e consiste nel porre il formaggio ad ammorbidire nell’olio, al fine d’ottenere un prodotto morbido nella masticazione e di sapore particolarmente delicato per effetto dell’unione degli aromi del formaggio e dell’olio. Anticamente utilizzato per occasioni particolari e tipico delle tavole contadine più “ricche”, è stato di recente riscoperto e riproposto da alcuni produttori di Monte Veronese DOP.

Descrizione del prodotto: Il casato del Garda è formato da cubetti di formaggio Monte Veronese d’Allevo DOP immersi in Olio delle Colline veronesi o del Garda, e introdotto in vasi di vetro di dimensioni variabili. Il formaggio presenta pasta di colore bianco o leggermente paglierino con occhiatura, sapore fragrante e leggermente piccante che si accompagna bene alla rotondità fruttata dell’olio extra vergine d’oliva.

Processo di produzione: Il formaggio Monte Verone d’Allevo DOP è un formaggio a pasta semicotta prodotto esclusivamente con latte di vacca parzialmente scremato, proveniente da una o due mungiture consecutive e stagionato per almeno 90 gg. Trascorso questo periodo di tempo il formaggio viene tagliato in dadi, posto in vasi di vetro e coperto con olio d’oliva prodotto nel Veronese. La macerazione si protrae per altri 3 mesi, al fine di favorire l’ammorbidimento della pasta.

Reperibilità: Prodotto solo saltuariamente da pochissimi caseifici del veronese, è un prodotto di nicchia di scarsa reperibilità.

Usi: Per la sua particolare lavorazione il Casato del Garda si adatta bene per la preparazione di antipasti o come ripieno per involtini, verdure o pesci.

Caciotta di latte caprino

Materia prima: latte vaccino intero mescolato con latte caprino; talvolta puro latte caprino, da razza Alpina, Camosciata e Saanen. Alimentazione caprina: al pascolo collinare, con vegetazione mista di bosco ceduo e prato cespugliato.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte previa pastorizzazione a circa 37 gradi, aggiungendovi fermenti lattici più caglio liquido e in pasta. Coagula in 20 minuti. Dopo la rottura della cagliata (a dimensione di grossi grani), si cuoce a 41-45 gradi. Dopo queste operazioni, la massa viene scaricata e sistemata negli stampi. Subisce poi una stufatura di 3-4 ore a 30-35 gradi. La salatura si effettua appena le forme si sono raffreddate, per bagno in salamoia (20%) con sale marino integrale durante 12 ore.

Stagionatura: 1 mese circa, in ambiente a temperatura di 8 gradi. Durante questo periodo, le forme vengono lavate prima di essere vendute. Resa 11% oppure 9% se pura capra.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza cm. 6; diametro cm. 15; peso: Kg.1,5; forma cilindrica; crosta tenera e chiara; pasta compatta, bianco canfora o giallina; grasso 50%; sapore dolce, leggermente acidulo, molto intenso se di puro latte caprino.

Area di produzione: comune di S. Ambrogio Valpolicella (VR).

Calendario di produzione: da marzo a settembre.

Note: È una produzione recente. I prezzi più alti vengono spuntati per il formaggio di puro latte caprino.

Caciotta di pecora

Materia prima: latte vaccino mescolato con latte ovino; tavolta si impiega puro latte ovino. Alimentazione: prevalentemente pascolo.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte previa pastorizzazione a circa 37 gradi, aggiungendovi fermenti lattici più caglio liquido e in pasta. Coagula in 20 minuti. Dopo la rottura della cagliata (a dimensione di grossi grani), si cuoce a 41-45 gradi. Dopo queste operazioni, la massa viene scaricata e messa negli stampi, che vengono portati in locale di stufatura, a 30-35 gradi ove permangono 3-4 ore. La salatura si effettua dopo il raffreddamento, per bagno in salamoia (20%) per 12 ore.

Stagionatura: fino a 1 mese circa, in ambiente a 8 gradi. Durante questo periodo, le forme vengono lavate, prima di essere vendute. Resa 12-15%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza cm. 6, diametro cm. 15; peso Kg. 1,5; forma cilindrica; crosta sottile; pasta compatta, colore giallo paglierino; grasso 56-60%; sapore particolare, sapido, dolce.

Area di produzione: comune di S. Ambrogio Valpolicella (VR).

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: i prezzi più alti vengono spuntati con la produzione di puro latte ovino (rappresenta meno di 1/5 del totale).

Caprino (tipo francese)

Materia prima: latte di pura capra, da razza Alpina, Camosciata e Saanen. Alimentazione: al pascolo collinare, con vegetazione mista di bosco ceduo e prato cespugliato.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte previa pastorizzazione a circa 25 gradi, aggiungendovi fermenti lattici più caglio liquido e mettendolo in un contenitore isolato. Coagula in 24 ore. Dopo queste operazioni, la massa viene avvolta in teli appositi, si lascia spurgare e quindi si dispone nelle forme. La salatura si effettua in pasta, a occhio. Matura in 24 ore in ambiente a temperatura naturale.

Stagionatura: al massimo fino a 15 giorni. Resa 15%.

Caratteristiche del prodotto finito: peso: Kg. 0,5; forma: cilindrica; crosta: assente; pasta: tenera, di consistenza simile alla ricotta, bianca; grasso: 41-42%, sapore aspro.

Area di produzione: S. Ambrogio di Valpolicella (VR) e Montegalda (VI).

Calendario di produzione: da marzo a settembre.

Note: è un formaggio nato in Francia, dove è prodotto con latte crudo. Si consuma condito con olio e aromi. Si produce in Veneto da una dozzina d’anni.

Salsiccia bianca

Tecnologia di preparazione: il guanciale viene macinato, condito e insaccato nel budello suino per salsicce. Si consuma sia fresca che stagionata.

Composizione:
a) Materia prima: guanciale suino.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, coriandolo, cannella in polvere, chiodi di garofano.
c) Additivi:

Maturazione: alcuni giorni in locali con stufa e ventilati.

Periodo di stagionatura: un mese circa in locali umidi e ventilati.

Area di produzione: tutto il Veneto; viene prodotta in quantità limitata, per soddisfare le richieste di un ristretto numero di consumatori buongustai.

Prosciutto Veneto Berico-Euganeo DOP

Tecnologia di preparazione: le cosce di suino devono essere rifilate e salate entro quarantotto ore dall’uccisione; vengono poi spazzolate e appese in appositi locali per circa due mesi. In seguito vengono lavate con acqua calda, asciugate nuovamente stuccate e messe a stagionare.

Composizione:
a) Materia prima: cosce di suino provenienti da allevamenti nazionali.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale e pepe.
c) Additivi:

Maturazione: oltre due mesi.

Periodo di stagionatura: oltre dieci mesi.

Area di produzione: una trentina di comuni nella provicia di Vicenza.

Zampone di Modena IGP

Tecnologia di preparazione: le carni suine magre derivanti dalla mondatura di altre preparazioni, le cotenne di pancia e di schiena, più il grasso di gola vengono triturate, salate, condite e insaccate nella zampa anteriore.

Composizione:
a) Materia prima: carni suine magre, cotenne e grasso corposo in proporzioni uguali.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, aromi naturali, spezie, concia in vino rosso corposo.
c) Additivi: sodio o potassio nitrato, polvere di latte, glutammato monosodio.

Maturazione: in cucina con stufa a legna accesa per tre-quattro giorni, nella produzione artigianale.

Periodo di stagionatura: gli zamponi prodotti artigianalmente vengono appesi in solaio per 30-40 giorni.

Area di produzione: la zona tipica rimane Modena e provincia, anche se l’industria lo produce un po’ dovunque. Proprio la grande produzione industriale ne ha fatto perdere quasi completamente la tipicità, per cui anche nel modenese si usa insaccare l’impasto dello zampone nel cresponetto, trattandolo come un cotechino.

Salame di Verona

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Verona.

La storia: Il salame è, in generale, il salume più tradizionale d’Italia e non solo. Alcune testimonianze storiche sul prodotto risalgono adirittura ai tempi degli egizi, poichè in una tomba sono stati ritrovate rappresentazioni di un insaccato riconducibile al salame. Anche nella provincia di Verona l’allevamento suino ha caratterizzato per secoli la civiltà contadina, e la produzione e il consumo di insaccati era fondamentale nell’alimentazione del tempo. Il salame di Verona ha nei processi di asciugatura e stagionatura caratteristici, perché il territorio veronese è localizzato alla confluenza tra il microclima mite e umido del lago e l’aria asciutta proveniente dai monti. La combinazione geografica di questa fattori fa si che l’ambiente veronese risulti particolarmente indicato per una perfetta stagionatura.

Descrizione del prodotto: La forma del prodotto è cilindrica con un diametro variabile tra 6 a 8 cm e una lunghezza dai 20 ai 30. Il peso del prodotto finito si aggira sui 600-700 grammi. Per quanto riguarda la sensazioni gustative, si presenta morbido, pieno e armonioso. Al taglio mostra un’omogenea distribuzione e proporzione di grasso e magro, un colore rosso intenso per la carne magra e bianco per il grasso, nonché un buona tenuta della fetta al taglio.

Processo di produzione: Una volta sezionato il maiale nelle varie parti, si procede al taglio a coltello delle pezzature che interessano alla produzione del salame e cioè spalla, pancetta e gola. La carne così sminuzzata passa quindi nel tritacarne insieme all’aglio, macinata con stampo a fori da 6-8 mm. Terminata la fase di triturazione, la carne è immessa nell’impastatrice, assieme alla “concia” composta da sale, pepe e conservanti a norma di legge. L’impastatrice provvede a mescolare la carne trita e gli ingredienti così da creare un impasto omogeneo. Una volta pronto l’impasto viene messo nell’insaccatrice e il budello naturale viene legato a mano, quindi appeso ad asciugare.

Reperibilità: Il salame di Verona si può trovare presso ristoranti, agriturismi, dettaglianti e supermercati in tutta la provincia scaligera.

Usi: Il salame è un insaccato da gustare crudo come stuzzichino o antipasto, ma è anche ottimo cotto alla brace e gustato con la polenta abbrustolita.

Soppressa di Verona

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Verona

La storia: La tecnica di produzione della soppressa è una tradizione della salumeria vicentina, trevigiana e veronese, che si differenzia non tanto nelle percentuali di carni magre e grasse degli impasti, ma nella sfumatura dei modi di lavorazione e dei fattori climatici delle diverse aree produttive. Senza entrare in particolari di bibliografia storica, peraltro abbondante e ricca di datazioni storiche, nel veronese sono presenti imprese artigiane ed industriali che hanno iniziato la loro attività nel XX secolo e che mantengono, da decenni, inalterata la tecnica produttiva della soppressa.

Descrizione del prodotto: La soppressa è un grosso salume con dimensioni variabili dovute alla variabilità delle budella del bovino in cui vengono insaccate. La forma è arcuata, il diametro và da 10 a 20 cm, il peso oscilla da 1,5 a 7 Kg. L’insaccato di puro suino è prodotto con carni scelte, macinate o sminuzzate, magre e grasse con 28-35% di massa grassa che poi vengono salate, pepate e insaccate. La stagionatura fa assumere esternamente alla soppressa il colore prima bianco-grigiastro della muffa di cui si ricopre. Al taglio, la carne appare di colore rosso-rosaceo, con la caratteristica irregolare marezzatura bianca dovuta alla componente di grasso.

Processo di produzione: Le carni fresche di suino, pancetta e polpa si macinano a temperatura ambiente. La carne magra, in una percentuale intorno al 70%, viene macinata a grana media (6-8 mm) con il grasso della pancetta e condita a secco utilizzando sale marino, pepe nero, aglio naturale o disidratato. Dopo aver impastato la miscela si procede all’insaccamento per il quale s’utilizza budello naturale, quindi si lega il salame con spago e successivamente lo si fora per far uscire l’aria ed i liquidi dal budello. A questo punto la soppressa passa in stagionatura, fase estremamente delicata del processo di produzione, in un ambiente con temperatura compresa tra i 16 ed i 20°C, con umidità relativa del 70-90%. Durante la stagionatura è necessaria una ventilazione dei locali. La stagionatura può durare da cinque mesi a quasi due anni. La conservazione artigianale viene fatta in cantine fresche, possibilmente sterrate. L’azione delle basse temperature favorisce la maturazione degli insaccati poiché il grasso trova le condizioni adatte per rapprendersi.

Reperibilità: La soppressa di Verona è reperibile durante tutto l’anno presso i mercati al dettaglio, gli agriturismi e i ristoranti della provincia scaligera.

Usi: La soppressa è un ottimo insaccato da consumare crudo, tagliato a fette o cotto alla griglia.

Vitellone padano

Territorio interessato alla produzione: Province di Verona, Padova, Vicenza, Venezia e Treviso.

La storia: La produzione del vitellone padano è realizzata nell’ampio arco territoriale che va dal basso Friuli al medio Veneto, alla bassa Lombardia, alla parte orientale del Piemonte ed alla pianeggiante Emilia Romagna. Nel Veneto la produzione è localizzata nelle aree pianeggianti: alluvionali con caratteristiche pedologico-ambientali adatte alla coltivazione intensiva di specie a destinazione foraggiera quali erba medica, prati polititi e monoliti, cereali foraggieri. L’allevamento del vitellone è una produzione tipica dell’area della Pianura Padana. Soprattutto nella seconda metà del secolo sono sorte numerose strutture cooperative tra allevatori aventi lo scopo di gestire direttamente una o più fasi produttive. Inoltre, l’evoluzione tecnologica avvenuta negli ultimi anni in questi allevamenti ha raggiunto livelli difficilmente riscontrabili in altri paesi, ponendo questo settore della zootecnia italiana ai primi posti in un’ipotetica graduatoria mondiale per quanto concerne la razionalità dei sistemi produttivi.

Descrizione del prodotto: La carne di vitellone padano deriva dalla macellazione di capi bovini adulti di sesso maschile, non castrati e di età inferiore ai 2 anni, o femminile di età inferiore ai 19 mesi, che hanno raggiunto un peso variabile da 400 a 600 kg. Le carni sono di colore rosso-rosa brillante, con una fibra sottile e poco grasso. È una carne molto saporita e apprezzata per l’elevata resa dei tagli magri e morbidi.

Processo di produzione: L’allevamento del vitellone padano avviene in strutture adeguatamente attrezzate alla densità degli animali, in grado di consentire sufficienti ricambio d’aria, distribuzione di acqua e alimenti e facilità di interventi sanitari e controlli. Per l’identificazione dei capi in allevamento si utilizzano marchi auricolari applicati agli animali. La materie prime utilizzate per l’alimentazione sono prevalentemente a base di farine di mais e orzo, crusca, farina di soia, eventualmente siero, se disponibile, e integrazioni vitaminico-minerali. Vanno esclusi dalla razione tutti gli elementi che incidono negativamente sulle caratteristiche del grasso o conferiscono odore sgradevole alla carne (pula di riso, oli e farina di pesce, fieno greco, ecc.). Le tecniche e i mezzi di trasferimento degli animali dalla stalla al macello hanno una forte influenza nella qualità, in particolare nella tenerezza della carne: è necessaria l’adozione di modalità di carico, scarico, trasporto e sosta al macello in grado di limitare al massimo lo stress del bestiame. Gli animali vengono trasportati in macelli che aderiscono al marchio e che hanno sottoscritto il “Disciplinare di Macellazione”. Per la commercializzazione, se il punto vendita non vende solo il vitellone padano, il prodotto deve essere debitamente separato da altri tipi di carne. Le carni vengono identificate apponendo sulle carcasse e sui tagli anatomici un marchio tramite striscia di carta o cartellino inamovibili o timbratura; sui prodotti confezionati l’apposizione del marchio avviene tramite prestampa sull’involucro, o, con etichetta inamovibile sull’involucro, o con cartellino all’interno dell’involucro.

Reperibilità: Presso i rivenditori al dettaglio specializzati in tutto il territorio regionale, il prodotto è reperibile durante tutto l’anno.

Usi: La carne del vitellone, magra e molto digeribile, è adatta a tutti i tipi di dieta. A seconda dei tagli trova in cucina differenti e numerosi utilizzi, sia cotta al forno, che alla brace, che in padella.

Vitellone ai cereali

Territorio interessato alla produzionetutta la Regione Veneto.Descrizione del prodottoLa specificità della carne del “vitellone ai cereali”, è legata all’utilizzo di animali della specie Bos taurus, esclusivamente appartenenti a razze da carne, a doppia attitudine e incroci fra tali razze, di età compresa fra 12 e 24 mesi, allevati tradizionalmente e alimentati prevalentemente a base di cereali.Si ottengono così animali maturi ad un’età più giovanile e, di conseguenza, caratterizzati da carni tenere di un colore chiaro e luminoso con buona attitudine alla conservazione.Processo di produzionePer ottenere le caratteristiche della carne tipiche del “vitellone ai cereali”, i vitelloni sono alimentati in modo da poter raggiungere la maturità ad un’età giovanile, attraverso l’utilizzo di diete ad alto livello energetico ed elevato indice di conversione, che promuovono un ottimale accrescimento giornaliero e permettono di ottenere una buona conformazione e una equilibrata costituzione e distribuzione del grasso di marezzatura e di quello di copertura.UsiLa carne di “vitellone ai cereali”, in base ai tagli, trova numerosi e differenti utilizzi in cucina, in particolare cotta al forno o alla brace.ReperibilitàÈ reperibile tutto l’anno presso la grande distribuzione moderna e tradizionale.La storiaIn passato il mais era usato prevalentemente per l’alimentazione umana mentre i sottoprodotti della sua lavorazione costituivano l’integrazione energetica nelle razioni dei bovini. A partire dagli anni ’50 del secolo scorso, con il miglioramento delle rese e l’evoluzione dell’alimentazione umana, quote elevate di cereali, in particolare di mais, sono entrate a far parte della razione alimentare dei bovini.La produzione veneta si è quindi specializzata, in particolar modo nel vitellone, in quanto l’utilizzo di tale cereale, ad elevato valore energetico, unito all’erba medica, ad alto valore proteico, permetteva di ottenere carni di maggior pregio da animali in età inferiore ai 24 mesi.Si sono così sviluppate delle filiere produttive dedicate al “vitellone ai cereali”, per la valorizzazione di questa peculiare tipologia di carne della pianura Padana.

Coniglio veneto

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Il coniglio domestico europeo deriva dal coniglio selvatico. Pochissimi sono i reperti archeologici su cui ci si può basare per la ricostruzione della diffusione del coniglio nella preistoria. Tuttavia è probabile che i conigli, o i loro predecessori, fossero migrati dall’ Asia all’Europa all’inizio dell’era terziaria. I primi ad allevarlo furono i Fenici attorno al 1100 a.C. e successivamente i Romani. Dopo la caduta dell’impero romano, il suo allevamento fu abbandonato e ripreso soltanto verso il 1700 nei monasteri, dove furono selezionate razze per la produzione di pelliccia e di carne. È soprattutto nella seconda metà del secolo scorso che si sviluppò la differenziazione di nuove razze. Oggi esistono 50 e più razze di coniglio allevate in tutto il mondo. In Italia se ne contano una quarantina, ma se ne utilizzano solo alcune per effettuare incroci da cui ottenere animali vigorosi, produttivi e adatti per l’allevamento. La diffusione dell’allevamento del coniglio ha trovato interesse principalmente in tre province: Padova, Treviso e Venezia.

Descrizione del prodotto: La carne di coniglio per la sue proprietà alimentari e organolettiche ha mantenuto negli anni un’immagine salutista confermata tutt’oggi da studi dietologici. E’ una carne di colore rosa chiaro, gustosa, particolarmente magra e molto delicata. Il coniglio viene allevato fino ad una età di 84/90 giorni, al raggiungimento di 2,5kg di peso e prima della maturazione sessuale per evitare che la carne assuma un odore forte e caratteristico non apprezzato dai consumatori. Il coniglio, dopo la sua macellazione, può essere lasciato intero oppure porzionato in tre tagli caratteristici: spalle, carrè o lombo e cosce.

Processo di produzione: Le particolari tecniche di allevamento e soprattutto l’alimentazione dell’animale basata su materie prime di elevata qualità, garantiscono le buone caratteristiche della carne. L’alimentazione del coniglio si basa prevalentemente su erba medica ed è integrata con frumento, orzo, crusche, soia e girasole. L’animale è molto sensibile alla presenza di micotossine negli alimenti, per cui tutte queste materie prime devono essere di buona qualità e conservate con grande attenzione. La carne di coniglio è un prodotto che viene lavorato e commercializzato fresco entro cinque giorni dalla macellazione al fine di conservare inalterate le proprie caratteristiche. Trattandosi di prodotto fresco, la carne non subisce manipolazioni se non nella fase di confezionamento per la quale si utilizza materiale atossico per uso alimentare.

Reperibilità: La carne di coniglio è facilmente reperibile presso i produttori o presso qualsiasi rivenditore al dettaglio.

Usi: La carne del coniglio è molto ricca di vitamine e sali minerali (fosforo, magnesio, potassio) ad alto contenuto di acidi grassi polinsaturi con bassissimo contenuto di colesterolo e sodio. È molto digeribile e quindi indicata nell’alimentazione della primissima età, nello svezzamento e per gli anziani.

Anatra Germana veneta

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: L’anatra Germanata Veneta discende direttamente dal germano reale che è un’anatra selvatica. Essendo una specie rustica e poco esigente, si è adattata con facilità all’addomesticamento mantenendo intatta solo la colorazione, in quanto la selezione operata in cattività l’ha portata, a modificare le dimensioni originarie. Non sembrano esistere indicazioni bibliografiche specifiche riguardo a questa razza, tuttavia è certa la sua origine locale ed è probabilmente l’unica razza autoctona ancora presente sul territorio che gode di una buona diffusione. Questa razza fa parte del “Progetto di conservazione razze avicole con particolare riguardo verso quelle a rischio di estinzione”. Dal 1998 questo progetto è gestito da Veneto Agricoltura per conto della Regione Veneto, precedentemente, dal 1981 era controllato dal Consorzio per lo sviluppo avicunicolo e della selvaggina del Veneto di Rovigo e ancor prima (1917) dalla Stazione Sperimentale di Pollicoltura di Rovigo.

Descrizione del prodotto: L’anatra Germanata Veneta presenta un tronco leggermente cadente e carnoso, il collo lungo a forma di “S”, (leggermente più corto nella femmina), il becco forte di color verde chiaro, petto ampio, ali ben aderenti al corpo e zampe di media lunghezza di color arancio. Nel maschio il piumaggio è grigio, con sfumature marrone di varie tonalità su dorso, ali e coda, mentre testa e collo sono di color verde. Le femmine invece presentano colorazione marrone su tutto il corpo. I maschi adulti raggiungono il peso di 3-3,2kg, mentre le femmine sono leggermente più piccole pesando circa 2,6-2,8kg.

Processo di produzione: E’ un animale rustico che si adatta molto bene all’allevamento all’aperto. Le femmine possono essere impiegate nell’incrocio con maschi di anatra Muta (Barberia) per la riproduzione di Mulard, utilizzati per la produzione di fegato grasso. Questi animali sono ottimi pascolatori in grado di cibarsi anche di erbe che crescono sulle sponde o sui fondali dei canali di limitata profondità. I paperi dopo la schiusa vengono allevati per poche settimane in ambienti chiusi per poi essere liberati al pascolo. Per la loro alimentazione possono essere impiegate erbe e verdure di scarto. Nell’allevamento all’ingrasso non è necessaria la presenza di stagni o canali, ma l’acqua è necessaria nell’allevamento dei riproduttori che manifestano una maggiore fecondità se gli accoppiamenti avvengono nell’acqua. Sono animali rustici e facili da allevare, infatti a parte i primi giorni di vita, richiedono pochissime cure, specialmente se il loro allevamento è praticato vicino a corsi d’acqua. La maturità commerciale viene raggiunta a 4-5 mesi e le carni sono molto saporite.

Reperibilità: Diffusa in tutto il territorio regionale, è reperibile facilmente direttamente presso le aziende agricole o presso i canali di distribuzione al dettaglio.

Usi: La carne di anatra è molto utilizzata per la preparazione di arrosti.

Anatra mignon

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: L’anatra Mingon è una razza presente nel nord est d’Italia, allevata prevalentemente nelle aree lagunari dell’alto Adriatico. Le prime notizie ufficiali su quest’anatra, tuttavia, si hanno nel 1962 quando i soggetti di razza Mignon sono stati esposti ad una manifestazione avicola ad Ascoli Piceno. Selezionata definitivamente e migliorata durante gli anni ottanta, alla stazione Sperimentale di Pollicoltura di Rovigo, è stata inclusa nell’elenco “delle razze avicole italiane in pericolo di estinzione”: progetto realizzato nel 1985 su incarico del ministero dell’Agricoltura ed oggi gestito dall’Azienda Regionale Veneto Agricoltura, per conto della Regione Veneto.

Descrizione del prodotto: È un’anatra di taglia ridotta, di aspetto grazioso. Ha portamento orizzontale, cioè col dorso parallelo al terreno. Le zampe sono palmate, la pelle ed il becco di colore giallo. Il piumaggio si presenta bianco candido negli adulti, mentre gli anatroccoli, mostrano un folto piumino giallo. Il peso degli adulti, sia maschi che femmine, si aggira attorno agli 800g. Può venire confusa col germano reale bianco da cui si differenzia principalmente per la colorazione delle uova. Le uova della Mignon si presentano di colore bianco e di peso di circa 40-50 g, mentre quelle del germano sono verdi e leggermente più grandi.

Processo di produzione: Sono animali rustici e facili da allevare, infatti a parte i primi giorni di vita, richiedono pochissime cure, specialmente se il loro allevamento è praticato vicino a corsi d’acqua. La Mignon è una razza a lento accrescimento, che per dare i migliori risultati deve essere allevata con metodo estensivo all’aperto. Gli anatroccoli sono allevati al chiuso fino all’età di 40/60 giorni. Queste anatre devono poter disporre di pascolo per almeno 10 mq/capo. La presenza di acqua in stagno o pozze è importante ai fini dell’allevamento, soprattutto per i riproduttori, in quanto l’accoppiamento è facilitato e si ottiene un maggior numero di uova feconde. Viste le caratteristiche di rusticità, questa razza può essere allevata anche con metodo biologico. Le carni sono molto apprezzate perché saporite. La macellazione avviene solitamente dopo 12-13 settimane di vita, al raggiungimento di un peso medio di 750-800 g.

Reperibilità: Presso aziende agricole, agriturismi e rivendite al dettaglio specializzati, dislocati in gran parte del territorio regionale. Il prodotto è reperibile durante tutto l’anno.

Usi: L’Anatra Mignon viene utilizzata cotta arrosta o allo spiedo.

Faraona camosciata

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: La faraona domestica discende dalla faraona africana, ancora presente allo stato selvatico nella zona occidentale dell’Africa e della quale mantiene identica morfologia. I primi ad addomesticarla, nonostante le sue origini africane, furono i Greci, mentre in Italia arrivò grazie ai Romani. Tuttavia, con la caduta dell’Impero questa razza non venne più allevata e si ridusse drasticamente di numero; fu solo nel basso Medioevo (XVII secolo d. C.) che essa riapparve in Europa, grazie ai Portoghesi che riportarono nel continente alcuni esemplari africani. La razza camosciata fu selezionata a partire da un esiguo gruppo di soggetti presentati erroneamente come faraone bianche alla Esposizione Avicola di Parigi. Il Ghigi, osservando la pelle di questi soggetti, si rese conto di trovarsi di fronte ad una nuova mutazione e dopo aver acquistato gli animali visti a Parigi cominciò nel 1922 la selezione di questa nuova razza di faraone.

Descrizione del prodotto: Il corpo della faraona Camosciata ha un profilo curvilineo ricoperto da penne che presentano la caratteristica “perlatura”, ovvero il disegno formato da piccole e regolari macchie rotonde di colore bianco, che spiccano sulla colorazione delle penne. La pelle è pigmentata, presentandosi nerastra nella zona della gola e del collo. Le penne hanno una tinta fortemente bianca sfumata leggermente di gialliccio, sulla quale spiccano in modo evidente le macchie a perla. La testa e il collo sono nudi, con bargigli maggiormente sviluppati nel maschio. Il portamento nella femmina è quasi orizzontale, mentre nel maschio è più eretto. I pulcini di questa razza sono facilmente riconoscibili poichè sono di un tenue colore giallastro, e presentano sottili strisce dorsali di color camoscio. Le femmine, raggiungendo anche i 2 kg di peso, sono leggermente più grandi dei maschi che arrivano in media a 1,8kg. Depongono uova di colore rossastro e del peso medio di 45 g.

Processo di produzione: Le faraone Camosciate sono animali rustici, di indole gregaria e ottimi pascolatori, che per la produzione di carni di qualità si prestano all’allevamento estensivo all’aperto a lento accrescimento. I pulcini vengono allevati al chiuso fino all’età di 40/60 giorni, poi, una volta impiumati, vengono allevati in arche per l’allevamento all’aperto. Gli animali devono poter disporre di pascolo per almeno 10 mq/capo. Viste le caratteristiche di rusticità della razza può essere allevata anche con metodo biologico.

Reperibilità: Allevata da aziende agricole specializzate, la faraona camosciata è reperibile presso le aziende stesse o presso dettaglianti in tutto il territorio regionale.

Usi: La carne di faraona, gustosa e molto apprezzata, è usata prevalentemente cotta arrostita.

Galletto nano di corte padovana – Pepoa

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: I progenitori degli attuali polli domestici (Gallus gallus) abitavano la zona meridionale e centrale dell’India; furono portati in Cina verso il 1400-1500 e successivamente in Europa. In quasi tutte le civiltà antiche, i polli sono stati usati dapprima come animali da combattimento, poi hanno assunto significato religioso, infine, sono diventati una risorsa alimentare; da qui la storia del pollo è soprattutto storia di cucina e di ricette, ad iniziare dagli antichi Romani, che lo consideravano un piatto prelibato. Sino all’ottocento l’allevamento del pollo fu confinato nell’ambito dell’attività domestica, di competenza delle donne. Le razze si sono via via diversificate per morfologia, colorazione e zona geografico-climatica di “colonizzazione”. La razza “pepoi” è di origine Veneta, molto diffusa nella zona nord orientale del Veneto e del Friuli, ed è l’unica razza nana rurale da reddito attualmente disponibile sul mercato.

Descrizione del prodotto: I pulcini alla nascita hanno una colorazione marron chiaro con striature più scure sul dorso e sul capo. La colorazione del piumaggio degli adulti è “tipo dorato” con piccole differenze tra i sessi. Nel gallo, ad esempio, il petto deve essere scuro (nero) mentre nella gallina tende al dorato (salmone). La pelle e i tarsi sono di colore giallo. Gli animali adulti raggiungono pesi di 1,3-1,5 kg il maschio e 1-1,1 kg nella femmina. Le galline producono uova a guscio colorato di dimensioni abbastanza piccole (40-45 gr) con la particolarità di avere una percentuale di tuorlo superiore alle uova di altre galline. Hanno masse muscolari del petto molto sviluppate che ben si adattano alla preparazione allo spiedo o alla griglia e forniscono carni molto saporite.

Processo di produzione: Questa razza, rustica, a lento accrescimento e di dimensioni ridotte, si presta bene all’allevamento estensivo all’aperto. I pulcini devono essere allevati al chiuso per 40-60 giorni e successivamente all’aperto, in arche appositamente preparate, fino al momento della macellazione. L’alimentazione deve integrare, con apposite farine di cereali, gli alimenti che gli animali raccolgono razzolando. Le galline di questa razza, oltre a essere ottime produttrici di uova, possono anche essere utilizzate per la cova e l’allevamento naturale. I “pepoi” possono essere utilizzati per il consumo fresco già all’età di 4-5 mesi, e sono impiegati per la produzione del cosiddetto pollo/porzione al raggiungimento del peso di circa 600-700 gr. Nel passato gli esemplari maschi venivano frequentemente castrati per ottenere il “capponino”, utilizzato dalle massaie come balia al posto della chioccia e macellato in occasione delle feste natalizie.

Reperibilità: Questi polli sono reperibili presso le aziende agricole che li allevano o presso i rivenditori al dettaglio, in tutto il territorio regionale durante tutto l’anno.

Usi: Le carni magre e saporite di questa razza di polli sono molto apprezzate dai consumatori, utilizzate cotte allo spiedo o arrosto.

Gallina ermellinata di Rovigo

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: L’avicoltura italiana, negli anni Cinquanta del secolo scorso, avviò uno sviluppo teso a produrre carni sane e di qualità. Era però necessario selezionare una linea femminile in grado di trasmettere buone caratteristiche produttive senza “coprire” le tipicità delle linee maschili con le quali veniva accoppiata. A questo scopo presso la Stazione Sperimentale di Pollicoltura di Rovigo iniziò un lungo lavoro di selezione che terminò nel 1957 con la nascita di una nuova razza, l’Ermellinata di Rovigo, alla cui formazione hanno concorso le razze Sussex e Rhode Island. Verso gli anni 60 e 70 del secolo scorso questa razza fu diffusa in tutto il Veneto, e in altre regioni, dai Consorzi Agrari. Anche questa razza è inserita nella lista di razze avicole che fanno parte del “Progetto di conservazione razze avicole con particolare riguardo verso quelle a rischio di estinzione”, che, partito nel 1985 per volontà del Ministero dell’Agricoltura, è oggi gestito dall’Azienda Regionale Veneto Agricoltura.

Descrizione del prodotto: I pulcini alla nascita hanno un piumino giallo e soffice. Da adulti sia il maschio che la femmina portano il tipico piumaggio con disegno ermellinato, ossia mantello fondamentalmente bianco con mantellina, timoniere e remiganti macchiate di nero e coda perfettamente nera. I maschi si distinguono facilmente dalle femmine a partire dall’ottava settimana di vita, perchè più grandi e con postura più eretta. La pelle e i tarsi sono di colore giallo, produce uova con guscio di color roseo/bruno. Il peso dei galli adulti si aggira attorno ai 3-3,5 kg, mentre le femmine raggiungono un peso di 2,2-2,6 kg. Le uova pesano mediamente 55-60 grammi. Se i galletti vengono castrati si ottengono i capponi, ottimi per la produzione di carne da brodo.

Processo di produzione: L’Ermellinata di Rovigo è una razza rustica con buone attitudine al pascolo e in grado di adattarsi ai diversi ambienti agrari. Si presta bene sia per l’allevamento estensivo all’aperto, che per l’allevamento con metodo biologico. I pulcini vengono allevati al chiuso fino all’età di 40/60 giorni, poi, una volta impiumati, vengono allevati in arche per l’allevamento all’aperto. È una tipica “linea femminile” da utilizzarsi, per produzioni di nicchia e di qualità, in incroci di prima generazione con razze da carne leggere o pesanti. Incrociando, per esempio, un gallo di razza Livornese dorato con galline di razza Ermellinata di Rovigo si ottengono galletti (piumaggio ermellinato argentato) con un peso medio di 1,250 Kg per la produzione del pollo novello, mentre le pollastre presentano un piumaggio rosso dorato e sono delle ottime ovaiole medio – leggere (peso a 12 mesi 1,90-2,30 Kg.) eccellenti produttrici di uova a guscio avorio rosato. Per ottenere produzioni più pesanti si realizza l’incrocio tra gallo New Hampshire e gallina Ermellinata di Rovigo, ottenendo soggetti maschi ermellinati (che a 10 settimane raggiungono il peso medio di 1,350 Kg.) e femmine rosse ovaiole medio pesanti.

Reperibilità: Abbastanza diffusa in tutto il territorio veneto, e specialmente nella zona del Delta del Po, gli esemplari di questa razza sono reperibili presso aziende agricole e rivenditori specializzati.

Usi: I polli vengono consumati cotti alla brace o arrosto. I capponi vengono utilizzati per il brodo o per l’arrosto mentre la carne di gallina viene bollita e utilizzata per il brodo. Sono consumate e apprezzate anche le uova prodotte da questa razza.

Tacchino comune bronzato

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Il tacchino comune bronzato è una razza veneta assai diffusa in ambito locale. “Attualmente alcune aziende venete, orientatesi verso la produzione di pollame biologico, commercializzano questo tipo di animale durante le festività natalizie ottenendo un certo riscontro. Il tacchino Bronzato Comune conserva una buona attitudine materna e una discreta deposizione, potendo quindi essere utilizzato nella cova di razze meno propense all’allevamento naturale.” (M. Arduin). Il tacchino Bronzato dei Colli Euganei si differenzia dal Bronzato Comune per un piumaggio più ricco di riflessi bronzati.

Descrizione del prodotto: Il tacchino Bronzato appartiene ad una razza di tacchini “leggeri”; i maschi raggiungono il peso di 6-7 kg, mentre le femmine pesano circa 3-3,5 kg. Presentano piumaggio di colore nero brillante, con riflessi bronzei intensi. Le penne della coda sono molto larghe, di colore bruno nero con fasce nere. Testa e collo sono privi di piumaggio e sono ricoperti da escrezioni carnose (caruncole) di colore rosso acceso; la pelle invece e di color biancastro o a volte giallastra. Le femmine producono uova di color rosato del peso di 70-85 g e sono in grado di portare a buon fine anche 4 o 5 covate consecutivamente, rimanendo nel nido complessivamente per più di 100 giorni. Possono covare uova anche di altre specie come pollo, faraona, fagiano e anatra, funzionando da “incubatrice” naturale. Il tacchino Comune Bronzato è utile anche per l’allevamento destinato all’autoconsumo in quanto la piccola mole degli animali è adeguata per soddisfare le esigenze di una famiglia poco numerosa. La carne del tacchino è molto apprezzata perchè saporita e soda, simile a quella del pollo.

Processo di produzione: Animali rustici, a lento accrescimento, i tacchini Bronzati sono ottimi pascolatori e cacciatori di insetti, cavallette e serpi. Sono allevati con sistema intensivo all’aperto, ma possono anche essere allevati con metodo biologico. Non necessitano di particolari cure e vengono alimentati con mangimi e lasciati liberi di integrare la loro dieta con quanto recuperano pascolando. La macellazione deve avvenire non prima dei 140 giorni di vita.

Reperibilità: Presso le aziende agricole che li allevano, ma anche presso i rivenditori al dettaglio in tutto il territorio regionale, il prodotto è reperibile durante tutto l’anno.

Usi: La carne del tacchino è abbastanza magra, tenera, facilmente digeribile e contiene una buona quantità di ferro. Ottima cotta arrosto può anche essere lavorata per ottenere salami e petti affumicati. Piatto tipico e particolare è il “tacchino in onto”: la carne dell’animale viene tagliata a pezzi, introdotta in contenitori, ricoperta da grasso fuso di maiale o di oca e utilizzata dopo alcuni mesi per la preparazione di zuppe o di secondi piatti.

Tacchino ermellinato di Rovigo

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Il tacchino è originario del continente americano, dal quale fu importato in Europa nel XVI secolo. Presso la Stazione Sperimentale di Pollicoltura di Rovigo, nel 1958 per migliorare le prestazioni del tacchino Comune Bronzato, si iniziò l’introduzione di sangue della razza americana “Narra Gansett”, ottenendo soggetti con piumaggio grigio e tarsi color bruno rossastri. Nel gruppo, per mutazione, comparvero alcuni soggetti con piumaggio ermellinato e tarsi color carnicino. La selezione di questi animali portò alla formazione di una nuova razza denominata Tacchino Ermellinato di Rovigo, di taglia media, precoce e a rapido impennamento. Anche questa razza avicola è inserita nell’elenco delle razze a rischio di estinzione ed è tutelata da uno specifico Progetto di Conservazione portato avanti dall’Azienda Regionale Veneto Agricoltura.

Descrizione del prodotto: Il tacchino è il più grosso gallinaceo da cortile, ha testa e collo nudi con pelle ricoperta da escrescenze rosse ed è provvisto di un bergiglio sottogolare. È caratterizzato da un piumaggio bianco con striature nere; le piume della coda terminano con una fascia nera e striature bronzate; la pelle invece è bianca. I pulcini presentano piumaggio completamente giallo. Gli animali adulti raggiungono pesi di 10-12 kg il maschio e 4-6 kg nella femmina. Le tacchine producono uova di 70/80g con guscio leggermente rosato. Ha carni saporite e sode, molto apprezzate dai consumatori.

Processo di produzione: I tacchini ermellinati sono animali rustici, a lento accrescimento, ottimi pascolatori e cacciatori di insetti, cavallette e serpi. Si prestano bene per l’allevamento all’aperto o con metodi biologici. Inoltre si adatta molto bene anche negli allevamenti ad alte quote. I pulcini vengono svezzati al chiuso per i primi 40-60 giorni di vita e successivamente sono allevati in arche all’aperto. Gli animali devono poter disporre di pascolo per almeno 10-15 mq/capo. L’alimentazione deve contemplare sia gli alimenti che gli animali si procurano razzolando che miscele di mangimi cereali. Dopo 140 giorni di vita è possibile procedere alla macellazione degli animali.

Reperibilità: Il prodotto è reperibile presso le aziende produttrici e presso i rivenditori al dettaglio in tutto il territorio regionale.

Usi: Dall’allevamento del tacchino si ottengono sia ottime carni per il consumo fresco, sia prodotti stagionati da consumarsi nel tempo. Anche le uova possono essere utilizzate per l’alimentazione umana.

Bogoni di Badia Calavena

Territorio interessato alla produzione: L’area in cui si allevano queste lumache comprende il territorio situato nei comuni di Badia Calavena e Selva di Progno in Alta Valle d’Illasi, Vestenanova nell’alta Val d’Alpone.

La storia: La tradizione alla quale si lega il consumo di lumache in Veneto deriva da usanze tramandate dai Cimbri, antica popolazione di origine germanica che ha disceso le Alpi attorno all’anno mille. Sant’Andrea di Badia Calavena, distesa sulle “terrazze” alluvionali del torrente Progno nell’alta Val d’Illasi, è considerata da sempre terra di lumache. Documenti risalenti al 1160 testimoniano l’esistenza in questa zona di una fiera con bestiame, granaglie e derrate alimentari, durante la quale venivano commercializzate anche le lumache, ma solamente nelle prime ore del giorno perché considerate cibo per poveri. Molte cose sono cambiate, ma ogni anno ritorna l’aria di quei tempi e di quei luoghi durante la “Fiera dei bogoni” che si tiene in dicembre nell’estremità settentrionale della borgata, durante la quale si possono degustare piatti preparati con le lumache, al ricordo del vecchio ritornello: “bogon, bogon, tira fora i corni”. La manifestazione racchiude anche un momento di studio e di divulgazione attraverso una serie di conferenze e convegni all’interno del programma fieristico. Nel paese è stato anche eretto, nel 1996, un monumento di ferro battuto della lunghezza di 2 metri che rappresenta una lumaca: “el bogon”.

Descrizione del prodotto: La lumaca del veronese appartiene alla stessa specie di quella caratteristica dell’arco alpino, l’Helix pomatia, dalla quale non si differenzia molto. Il corpo è un mollusco molle ed è costituito dalla testa, con una bocca e quattro tentacoli, e dal piede, che è formato da numerosi tubercoli irregolari e determina lo spostamento dell’animale. Il colore del guscio di ogni singolo animale può essere molto vario in quanto dipende dall’alimentazione e dal tipo di ambiente circostante, sicché, anche a distanza di poche decine di metri, possiamo rinvenire lumache con sfumature molto differenti fra loro. Le dimensioni sono variabili dai 25 mm a oltre i 36 mm di diametro boccale; il peso va da 17 g a oltre 25 g.

Processo di produzione: L’allevamento dei bogoni avviene all’aperto, in particolari recinti chiamati “corgnolare”, delimitati da lamiere zincate e suddivisi in settori più piccoli da reti metalliche. In questi recinti viene preparato un letto di sabbia 30-40 cm di spessore, in cui vengono sistemate le chiocciole alimentate con erba fresca, zucca e altri vegetali. In tale recinto si crea l’ambientamento che precede il letargo che avviene con l’interramento della chiocciola. La densità ottimale è di 250 soggetti per metro quadrato. La raccolta è consentita solo nel periodo estivo ed è fatta generalmente a mano o con l’aiuto di un attrezzo per prelevare le chiocciole interrate.

Reperibilità: Gli allevamenti hanno il principale obiettivo di integrare i redditi familiari e la produzione viene assorbita sia dalla ristorazione che dal consumo diretto. Dal tardo autunno a dicembre il prodotto è reperibile nella zona di produzione e in quelle limitrofe.

Usi: Dei bogoni, in cucina, si utilizza solo il mollusco, che viene estratto dalla conchiglia dopo essere stato bollito. La carne viene quindi condita ed è apprezzata soprattutto in abbinamento alla polenta.

Bovolo

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, sale, lievito naturale e di birra.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: la farina viene impastata a lungo con il lievito e l’acqua tiepida nell’impastatrice. Quando l’impasto ha raggiunto una giusta consistenza si divide in grossi pezzi che si lasciano lievitare a lungo in appositi contenitori. Successivamente si reimpastano e si formano tante pagnottelle del peso di 150 gr. a cui viene data la forma di chiocciola. Pane oblungo con le due estremità circolari. Si inforna e si cuoce.

Area di produzione: tutto il Veneto.

Note: il nome deriva dalla forma di chiocciole – lumache – che in dialetto veneto si chiamano bovoli. La caratteristica della pasta dura è quella di avere una bassa percentuale di umidità, quindi impastare la farina diventa cosa molto faticosa, tant’è che in passato, prima dell’impastatrice elettrica, si utilizzava una macchina di legno girata a mano. Dove anche la macchina era un lusso, nelle case contadine più povere e in quelle operaie, la farina si impastava con i piedi utilizzando un paio di zoccoli fatti apposta per questa operazione. Si segnala che anticamente anche a Roma c’era un panino che assomigliava al bovolo chiamato “ciumachella”, piccola chiocciola, che oggi non c è più.

Rosette

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, strutto, acqua, olio, chiara d’uovo, lievito acido e di birra, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici: pizzico di zucchero.
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: alla farina viene aggiunto il lievito acido, di birra sciolto in acqua, lo strutto, l’olio, un pizzico di zucchero. L’impasto viene lavorato fino a quando l’elaborato non risulti omogeneo ed elastico. Si lascia lievitare per qualche ora fino a che non raddoppia di volume. Si taglia poi in tanti pezzi ai quali viene data, tramite abili manipolazioni, la forma di rosetta. Si lascia alzare per altro tempo e si cuoce in forno caldo.

Area di produzione: le rosette, tipiche in tutto il Veneto, sono fatte manualmente solo nella zona di Venezia.

Note: rispetto alle rosette industriali, quelle veneziane artigianali hanno l’interno pieno. Questi panini o piccoli pani, fatti con burro o strutto, hanno origine nelle regioni settentrionali dell’Italia romana. Secondo Plinio (N.H., XVIII, 105) essi potevano essere fatti solo da gente pacifica, che aveva molto tempo da perdere e non doveva più pensare alla guerra. Nella cucina romana il burro, che Plinio chiama “cibum lautissimum barbarorum”, cibo molto nutriente dei barbari, era infatti assente, così come non si conosceva l’uso dello strutto nella panificazione. Lo stesso manufatto a Firenze prende il nome di “Semelle”.

Zoccoletti

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, lievito naturale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: è la stessa lavorazione della ciabatta (vedi scheda). Cambia solo la forma, che è quella di un piccolo panino irregolare, dal peso di 120 gr., dall’interno quasi cavo, croccante.

Area di produzione: in tutto il Veneto e altre parti d’Italia, dove viene fatta anche la “ciabatta Italia”.

Note: fruisce della stessa tecnologia della ciabatta. Essendo più piccolo della ciabatta, viene detto “zoccoletto”, termine usato in passato per indicare un tipo di scarpa. Questa terminologia oggi è quasi in disuso.

Pan biscotto veneto

Territorio interessato alla produzione: E’ un prodotto è tradizionale per quasi tutto il territorio del Veneto, ma è ancora oggi particolarmente prodotto e consumato nel Basso Vicentino e nel Polesine.

La storia: Nel Polesine il pan biscotto era tradizionalmente preparato nelle “casade” (fattorie) di campagna, dove vi era un forno a legna che veniva adoperato dai salariati. Mediamente si faceva il pane per la famiglia ogni 15 giorni, ed era quindi necessario ottenere un prodotto facilmente conservabile. Nel Basso Vicentino il pan biscotto viene fatto da molte generazioni in tutti i panifici proprio dove si trovano antichi mulini ad acqua.

Descrizione del prodotto: Pane di pasta molto dura, ottenuto da farine di media forza. Gli ingredienti caratteristici sono i seguenti: lievito di birra, una volta e in qualche esempio ancora oggi, si conservava dal precedente impasto un 10% di pasta da aggiungere al nuovo perché contribuiva alla lievitazione (detta bìga), sale fino, acqua, farina, olio extravergine d’oliva o strutto, utilizzato soprattutto un tempo.

Processo di produzione: Si ottiene un impasto molto consistente, duro, del peso di 30-40 kg. Dopo la lunga lievitazione, della durata di 4-5 ore, le forme di pane vengono messe su tavole La procedura di lavorazione inizia con l’impasto di tutti gli ingredienti, effettuato a mano una volta e nell’impastatrice, oggi, per circa 20-30 minuti. Nel Polesine è tipico l’impiego dl lievito dei giorni precedenti (lievito madre), rinfrescato di giorno in giorno.

Reperibilità: In tutti i panifici del Veneto lungo tutto il corso dell’anno.

Usi: Il pan biscotto viene consumato solitamente inzuppato nel caffelatte o nelle zuppe, ma anche per accompagnare gli affettati e i salumi.

Pane di mais

Composizione:
a. Materia prima: farina di mais e frumento, lievito naturale, sale, zucchero.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: le farine di mais e di frumento, unitamente al lievito stemperato in acqua e ad un pizzico di sale e zucchero, vengono impastate a lungo. Si lascia lievitare per diverse ore. L’impasto viene ripreso e lavorato ancora sulla spianatoia infarinata, dividendolo poi in tante parti uguali, alle quali viene data sia la forma rotonda che quella allungata del filone. Dopo breve riposo vengono infarinate e cotte.

Area di produzione: tutto il Veneto.

Note: nell’Italia settentrionale, soprattutto in Lombardia e nel Veneto, dove il consumo di polenta è stato più marcato; non in tutte le località, sia di pianura che di montagna, il pane era alimento abituale. Solo negli ultimi decenni, con la progressiva modernizzazione dello stile di vita, c’è stata una sua maggiore diffusione. Un tempo nei piccoli paesi di montagna della regione il pane, quello bianco e più ambito, si faceva arrivare da grossi centri e le rare volte che i montanari facevano il pane, lo facevano con il mais. Forse è per una questione di nostalgia o di affezione se in questa regione il pane di mais trova tanti estimatori. In verità, trattandosi di una miscela, sarebbe più corretto chiamarlo pane al mais. Ma l’uso è quello accolto nella denominazione della scheda.

Zaeti

Composizione:
a. Materia prima: farina di mais, pinoli, uvetta, burro, uova, acqua.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: la farina di mais viene impastata con tutti gli ingredienti. Quando l’impasto è ben amalgamato si formano manualmente dei cilindri che vengono tagliati in tanti pezzi di circa 4/5 cm. che a loro volta vengono appiattiti con le mani lasciando le estremità a punta. Si cuoce a temperatura superiore a quella richiesta per la farina di cereali.

Area di produzione: zona di Bassano del Grappa, e in tutto il Veneto centrale.

Note: “Zaeti” in dialetto significa gialletti, dal colore della farina di mais.

Casunziei

CASUNZIEI; RAVIOLI CON RADICCHIO ROSSO DI VERONA

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Belluno, Vicenza, Verona.

La storia: I casunziei sono un prodotto che in passato veniva fatto in casa con i prodotti che la terra offriva. Per questo motivo le ricette più antiche ed originali sono quelle dei “casunziei rossi” fatte con la barbabietola rossa, le patate e la rapa gialla ed i “casunziei verdi” fatta con gli spinaci ma soprattutto l’erba cipollina raccolta nei prati in primavera. Era un piatto che si cucinava nelle occasioni importanti, come le festività natalizie o pasquali o di domenica. La tradizione del raviolo ripieno di radicchio rosso di Verona si lega alla presenza e utilizzo nella zona del veronese ed del basso vicentino dello stesso radicchio rosso di Verona, che da decenni è coltivato in queste zone.

Descrizione del prodotto

Casunziei: sono dei ravioli. La sfoglia è fatta con farina, uova ed acqua; il ripieno, nella tipologia dei “casunziei rossi”, comprende barbabietole rosse, patate, rape gialle e semi di papavero (questi ultimi non sempre presenti); nel caso dei “casunziei verdi”, il ripieno è composto da spinaci, ricotta, burro, erba cipollina e formaggio. Altre varianti sono i “casunziei con la zucca o con il radicchio”.

Ravioli con radicchio rosso di Verona: pasta realizzata con un impasto all’uovo (farina di grano tenero, semola e uova) e con un ripieno di radicchio rosso di Verona cotto con olio d’oliva, ricotta, uova, sale, pepe e pane grattugiato. Si tratta di ravioli con lato 3,5×3,5cm.

Processo di produzione: La sfoglia è prodotta amalgamando a mano farina, uova ed acqua. Il ripieno, invece, viene preparato cuocendo assieme i vari ingredienti e una volta pronto è adagiato tra due sfoglie e il tutto viene ritagliato nella forma desiderata.

Reperibilità: Laboratori artigianali di lavorazione della pasta fresca o ristoranti.

Usi: Nella tradizione agordina la notte di Natale, a Cencenighe, i casunziei venivano conditi con semi di papavero pestati e miele, mentre in altre parti venivano conditi col burro. I ravioli al radicchio rosso, invece, una volta cotti vengono conditi con burro e salvia o con una salsa al radicchio spolverati con formaggio grana.

Ravioli con radicchio rosso di Verona

CASUNZIEI; RAVIOLI CON RADICCHIO ROSSO DI VERONA

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Belluno, Vicenza, Verona.

La storia: I casunziei sono un prodotto che in passato veniva fatto in casa con i prodotti che la terra offriva. Per questo motivo le ricette più antiche ed originali sono quelle dei “casunziei rossi” fatte con la barbabietola rossa, le patate e la rapa gialla ed i “casunziei verdi” fatta con gli spinaci ma soprattutto l’erba cipollina raccolta nei prati in primavera. Era un piatto che si cucinava nelle occasioni importanti, come le festività natalizie o pasquali o di domenica. La tradizione del raviolo ripieno di radicchio rosso di Verona si lega alla presenza e utilizzo nella zona del veronese ed del basso vicentino dello stesso radicchio rosso di Verona, che da decenni è coltivato in queste zone.

Descrizione del prodotto

Casunziei: sono dei ravioli. La sfoglia è fatta con farina, uova ed acqua; il ripieno, nella tipologia dei “casunziei rossi”, comprende barbabietole rosse, patate, rape gialle e semi di papavero (questi ultimi non sempre presenti); nel caso dei “casunziei verdi”, il ripieno è composto da spinaci, ricotta, burro, erba cipollina e formaggio. Altre varianti sono i “casunziei con la zucca o con il radicchio”.

Ravioli con radicchio rosso di Verona: pasta realizzata con un impasto all’uovo (farina di grano tenero, semola e uova) e con un ripieno di radicchio rosso di Verona cotto con olio d’oliva, ricotta, uova, sale, pepe e pane grattugiato. Si tratta di ravioli con lato 3,5×3,5cm.

Processo di produzione: La sfoglia è prodotta amalgamando a mano farina, uova ed acqua. Il ripieno, invece, viene preparato cuocendo assieme i vari ingredienti e una volta pronto è adagiato tra due sfoglie e il tutto viene ritagliato nella forma desiderata.

Reperibilità: Laboratori artigianali di lavorazione della pasta fresca o ristoranti.

Usi: Nella tradizione agordina la notte di Natale, a Cencenighe, i casunziei venivano conditi con semi di papavero pestati e miele, mentre in altre parti venivano conditi col burro. I ravioli al radicchio rosso, invece, una volta cotti vengono conditi con burro e salvia o con una salsa al radicchio spolverati con formaggio grana.

Tortellini di Valeggio sul Mincio

Territorio interessato alla produzione: Comune di Valeggio sul Mincio in provincia di VeronaLa storia: Prodotto tipico tradizionale della zona di Valeggio sul Mincio. La ricetta si tramanda di madre in figlia da molte generazioni. Il tortellino nasce come piatto per le feste di Natale, Pasqua, battesimi, comunioni o compleanni. Nel tempo il prodotto si è sempre più apprezzato sino a divenire vero e proprio motivo di richiamo commerciale per tutto il comune. A Valeggio sul Mincio la nascita del tortellino si rifà ad un’antica leggenda del Trecento chiamata “Il nodo d’Amore”: “Alle fine del Trecento, nel corso di numerose guerre che segnarono l’Italia settentrionale, il signore di Milano Giangaleazzo Visconti, detto Conte di Virtù, raggiunge le sponde del Mincio e vi stabilisce una testa di ponte per lo sviluppo d’un piano militare contro i suoi nemici. Nell’accampamento delle truppe viscontee, il buffone Gonnella, intrattiene i soldati alla luce dei falò raccontando un’antica leggenda: questa vuole che nelle acque le Mincio siano popolate da bellissime ninfe, che talvolta escono dal fiume per danzare in prossimità delle rive…” Fra il capitano delle guardie del Conte, Malco, ed una delle ninfe delle acque, Silvia, nasce l’amore. Malco, per seguire Silvia abbandona il proprio mondo per quello di Silvia, lasciando sulle rive del Mincio un “fazzoletto di seta dorata, simbolicamente annodato da due amanti per ricordare il loro eterno amore. Ancora oggi si racconta che le donne e le ragazze di quel tempo, nei giorni di festa, avessero voluto ricordare la storia dei due innamorati tirando una pasta sottile come la seta, tagliata ed annodata come il fazzoletto d’oro, e arricchita d’un delicato ripieno: il tortellino di Valeggio”. Ogni anno, il secondo martedì di giugno, a Valeggio si tiene la “Festa del Tortellino” e nella vicina località di Borghetto, sull’antico ponte visconte si tiene una lunghissima tavolata, cui partecipano migliaia di persone, dove il menù è rigorosamente “Tortellino di Valeggio”.Descrizione del prodotto:Per la sfoglia – farina e uovaPer il ripieno – carne di manzo, maiale, pollo, aromi naturali (cipolla, carote, sedano e rosmarino), pane grattugiato, e vino (Bardolino)Processo di produzione:Per la sfoglia, mescolare le uova con la farina sino ad ottenere un impasto morbido ed elastico. Tirare la sfoglia molto sottile e tagliarla a piccoli quadratini. Per il ripieno, fare rosolare in poco olio le verdure tagliate a pezzi (cipolla, carote, sedano e rosmarino). Aggiungere i pezzi di carne e spruzzare del vino (Bardolino). Fare cuocere il tutto come per il brasato. A fine cottura macinare il tutto, amalgamare con un po’ pane grattugiato fino ad ottenere un impasto morbido ed omogeneo. Posizionare, al centro dei quadratini di sfoglia, il ripieno di carne quindi, a mano, vengono chiusi i tortellini.Reperibilità: In tutti i pastfici o nei menù dei ristoranti della zona.Usi: Ottimi se accompagnati con un “Lugana doc”.

Gnocco Smalzao

Territorio interessato alla produzione: Area pedemontana e montana della Lessinia Veronese, area del Baldo e relative colline moreniche. (Verona)

La storia: L’origine del nome, gnocchi smalzai, deriva dal cimbro smalz (burro) e questo indica la loro antica origine; infatti, i Cimbri comparvero nella Lessinia veronese il 5 febbraio 1287 con il Vescovo di Verona Bartolomeo della Scala e Ulderico di Altissimo, capo tribù cimbro.

Descrizione del prodotto: 600 gr di farina; 1 l di latte; 20 gr di sale; 4 cucchiaini di lievito; condimento a piacere.

Processo di produzione: In una terrina si dispone la farina a fontana, si aggiunge il sale e si versa lentamente il latte. Si amalgamano perfettamente gli ingredienti mediante un cucchiaio di legno, fino ad ottenere un impasto piuttosto consistente. Frattanto si fa bollire in una pentola una quantità d’acqua sufficiente, si aggiunge il sale e, mediante un cucchiaio, si versano delle piccole porzioni dell’impasto precedentemente ottenuto. Questa operazione richiede una certa abilità in quanto dovrà essere eseguita il più rapidamente possibile per ottenere una cottura omogenea. Quando gli gnocchi affiorano in superficie, bisogna prenderli con una schiumarola, avendo cura di scolarli adeguatamente.

Usi: Ottimi se conditi con burro fuso, accompagnato da ricotta affumicata o formaggio di malga grattugiati.

Gnocco di Verona

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Verona

La storia: La “cabala del gnoco”, di Berto Barbarani, è un inno al gnocco, anticamente piatto tipico del periodo carnevalesco. Il poeta ha dedicato agli gnocchi delle bellissime rime, nelle quali svela anche la ricetta del piatto che ha l’onore, sia pure per qualche giorno, di avere anche un re: “el papà del Gnoco”, maschera scanzonata attorno alla quale ruotano tutti i rioni di Verona. “El papà del Gnoco, con la sua corte gnocolara”, è la figura dell’abbondanza, con lo scopo più nobile della beneficenza. Ma la data della creazione del gnoco per alcuni coincide con l’idea e il lascito del dottor Tommaso da Vico, per altri che la tradizione ha avuto inizio quando Verona, qualche anno addietro, venne conquistata da Venezia e unita così alla Serenissima. Gli gnocchi dell’epoca, rispettando la storia degli ingredienti, erano fatti dell’impasto di sola farina e acqua, visto che le patate non erano ancora state “inventate”. Comunque sia, con le patate o con la farina, i Veronesi vantano 400 anni di esperienza nell’esecuzione dei tradizionali gnocchi. Negli anni Trenta tutti i venerdì i primi gnocchi che venivano a galla conditi con burro e formaggio erano per il Berto veronese, il quale riceveva gli ospiti, con in testa la papalina dei letterati, nella sua grande cucina in vicolo Pozzo San Marco. Al Venerdì Gnocolar, giorno di festa popolare, tutti accorrono sul sagrato di San Zeno, patria dei gnocchi veronesi, a ricevere il loro piatto tradizionale. Gli gnocchi nuotano in enormi paioli e , quando galleggiano, ciclopici mestoloni forati li traggono in salvo per essere irrorati di burro e asciugati con parmigiano stravecchio.

Descrizione del prodotto: 4 kg di patate a pasta farinosa; 300 gr di farina; uova; condimento a piacere.

Processo di produzione: Le patate, precedentemente lavate, vengono lessate in acqua verificando con una forchetta la perfetta cottura. Dopo aver levato la buccia, vengono passate al setaccio e impastate con la farina, alla quale è stata aggiunta l’uovo e il sale. L’impasto viene lavorato accuratamente fino ad essere soffice, con l’accortezza di spruzzare con un po’ di farina la superficie di lavorazione per evitare che la pasta vi aderisca. Vengono formati dei piccoli filoncini di pasta alti un dito grosso, tagliati in tanti pezzetti della lunghezza di circa 3 cm, che con veloce movimento della mano vanno fatti scivolare sulla grattugia dal basso verso l’alto premendo leggermente: lo gnocco acquisterà così la caratteristica lavorazione utile a far aderire nel modo migliore il sugo alla superficie. Si versano in una casseruola di acqua con sale in ebollizione e pescati con un colino appena salgono in superficie.

Reperibilità: Si trovano in vendita presso pastifici.

Usi: Il condimento è a piacere: burro fuso e parmigiano, pomodoro e parmigiano, gorgonzola fuso, o il saporito sugo di carne di cavallo macerara lungamente nel vino, la cosiddetta pastissada de caval

Riso Vialone Nano Veronese IGP

Zona di produzione: numerosi comuni della zona sud della provincia di Verona

Tipologia: Cereale ottenuto da semi della specie Japonica, della varietà Vialone Nano

Descrizione: Il Riso Vialone Nano ha un ciclo vegetativo semiprecoce, una taglia medio-alta e una granella fine, mutica e perlata

Note: La varietà di riso ‘Vialone Nano’ ottenuta dalla Stazione sperimentale di risicoltura di Vercelli per incrocio del ‘Nano’ con il ‘Vialone’ è coltivata dal 1937 ed è stata introdotta nella provincia di Verona nel 1945. Delle oltre 24 varietà di riso coltivate in Italia costituisce in ordine di tempo la seconda per anzianità di coltivazione, preceduta soltanto dal Balilla. Il riso Vialone Nano ha trovato nei terreni del veronese il suo habitat più idoneo anche per la dolcezza e purezza delle acque di fontanile, tipiche di questo territorio: in queste zone, infatti, il riso viene coltivato in avvicendamento colturale, riducendo considerevolmente l’utilizzo di concimazioni chimiche.

Riferimenti normativi: Prodotto IGP, Registrazione europea con regolamento CE n. 1263/96 pubblicato sulla GUCE L163/96 del 2 luglio 1996

Trota affumicata

Materia prima: trote.

Tecnologia di lavorazione: le trote vanno eviscerate e lavate in acqua e aceto o acqua e limone. Metterle in salamoia aromatizzata con pepe, alloro, coriandolo, seme di finocchio, ecc. e lasciarle per 3-5 giorni, a seconda della grandezza, riguardandole almeno una volta al giorno. Tolte dalla salamoia, vanno appese all’aria per qualche giorno. Successivamente vengono affumicate esponendole al fumo per 3-4 giorni, ad intervalli di 4-5 ore. Conservare all’asciutto in luogo fresco.

Maturazione: 10-15 giorni.

Area di produzione: Trentino Alto Adige, Piemonte, Lombardia, Veneto,
Marche, Umbria.

Calendario di produzione: primavera, inizio estate, fine estate, inizio autunno.

Note: é un prodotto che si conserva bene per qualche tempo in zone non molto umide. Diversamente é meglio tenerlo in frigorifero. Si consuma in insalata, o sulle tartine come antipasto. La specie di trota più indicata per questo tipo di preparazione é quella salmonata.

Asparago di Arcole

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Verona nei comuni di Arcole, S.Bonifacio, Veronella e Albaredo d’Adige.

La storia: La coltivazione dell’asparago di Arcole era, sino alla fine degli anni Sessanta, particolarmente abbondante nella vallata dell’Alpone; poi, fu soppiantata in favore dei vigneti adatti a produrre il vino Bianco di Soave DOC. Di conseguenza la coltura dell’asparago venne a diffondersi pochi chilometri più a Sud, nel Comune d’Arcole, trovando terreni ideali, in quanto sabbiosi, profondi e freschi. Qui la maggior parte della popolazione era ancora dedita all’agricoltura, con colture tradizionali. L’industrializzazione era però alle porte, il territorio d’Arcole subì notevoli trasformazioni e mutarono anche le colture. Da questa situazione l’asparago, ha tratto notevoli vantaggi raggiungendo risultati impensabili e consensi da parte dei produttori. Questa coltura ha giovato anche all’equilibrio sociale e lavorativo della zona, contrastando il fenomeno dell’abbandono della coltivazione della terra e offrendo di integrare il reddito familiare gestendo l’asparagiaia anche a tempo parziale.

Descrizione del prodotto: I turioni dell’Asparago di Arcole sono bianchi e con apice ben serrato. Hanno una lunghezza media di 18-22 cm e un diametro medio al centro di 10 mm. Viene praticata una sezione alla base che deve essere il più possibile netta e perpendicolare all’asse longitudinale. Inoltre i turioni alla commercializzazione si devono presentare interi, sani, privi di danni, ammaccature, odore o sapore estranei.

Processo di produzione: La coltura dell’asparago si sviluppa in più anni, seminandoli all’aperto in appositi semenzai. I rizomi (fusti sotterranei) detti “zampe” vengono trapiantati dopo 8-20 mesi nel terreno preparato a “motte” (cumuli di terra). Per permettere la formazione di turioni completamente bianchi, le “zampe” piantate sono sottoposte a pacciamatura con l’utilizzo di un film plastico nero che impedisce alla luce di filtrare. Il raccolto avviene nei mesi di aprile maggio dopo tre o quattro anni. La raccolta è l’operazione più delicata e richiede un elevato grado di specializzazione e molta esperienza. I turioni, infatti, sono completamente interrati e dal terreno fa capolino solo un accenno di apice vegetativo. Il raccoglitore penetra il terreno con uno strumento apposito e delicatamente taglia alla base il turione che si può così estrarre dalla motta. È una operazione che si esegue “tutta alla cieca”, con il rischio concreto di danneggiare il turione o addirittura la “zampa” e quindi anche la produzione futura. I turioni raccolti sono confezionati in mazzi omogenei di circa 1 kg.

Reperibilità: La produzione degli Asparagi di Arcole è prevalentemente destinata ai vicini mercati all’ingrosso di Verona e provincia, al dettaglio tradizionale della zona, alla vendita diretta in azienda.

Usi: Gli asparagi hanno molteplici usi culinari e sono diuretici e lassativi. Possono venire consumati crudi in insalate miste ma è consigliabile cucinarli a vapore in modo da ridurre al minimo il rischio di perdita dei valori nutritivi, e per conservarne intatto il sapore. Possono inoltre essere saltati al burro, o usati come condimento in minestre, zuppe e creme e sono ottimi per i risotti.

Asparago di Rivoli

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Verona, nei comuni di Rivoli e Cavaion.

La storia: In provincia di Verona una zona in cui si sviluppa con successo la coltivazione dell’asparago, grazie soprattutto alle particolari condizioni geomorfologiche del terreno, è quella di Rivoli veronese. L’asparago di Rivoli vanta una storia che si accompagna agli eventi della campagna d’Italia di Bonaparte nel 1779 che con la sua armata, ha introdotto anche delle zampe di asparago ibridandole con gli asparagi selvatici del prospiciente Monte Pastello di Rivoli, dando così origine a questo particolare ecotipo. Si dice, inoltre, che durante la Prima Guerra Mondiale gli ufficiali superiori in servizio presso la linea di Fronte fossero soliti pasteggiare, quando si trovavano nella vicina località di Chiusa, al confine con la provincia di Trento, con gli asparagi di Rivoli. La cultura gastronomica della zona trova nell’asparago di Rivoli il prodotto tipico primaverile e annualmente si tiene a Rivoli la tradizionale Festa dell’asparago.

Descrizione del prodotto: L’asparago è una pianta erbacea, dotata di rizoma sotterraneo chiamato “zampa”, che si ramifica nel terreno con sviluppo orizzontale e da cui spuntano ogni anno a primavera dei germogli, chiamati turioni, che sono la parte commestibile della pianta. I turioni dell’Asparago di Rivoli sono completamente bianchi e presentano un apice appuntito e uniforme. Devono presentare un diametro medio al centro di circa 10 mm e una lunghezza compresa tra 18 e 22 cm.

Processo di produzione: Dopo un periodo di semina in appositi semenzai variabile da 8 a 20 mesi, le “zampe” (fusti sottteranei), vengono trapiantate nel terreno preparato a “motte”, dove si formeranno i turioni (gemme), raccoglibili entro tre-quattro anni. Perché l’ortaggio si presenti completamente bianco le motte sono sottoposte a pacciamatura con l’utilizzo di un film plastico nero. L’operazione più delicata è la raccolta dei turioni, che avviene manualmente, penetrando il terreno con un apposito coltello ricurvo, e richiede grande specializzazione per evitare di danneggiare la “zampa” e di compromettere le successive produzioni. Una volta raccolti, i turioni sono confezionati in mazzi omogenei del peso di circa 1 kg.

Reperibilità: Gli Asparagi di Rivoli hanno una produzione prevalentemente destinata ai vicini mercati all’ingrosso di Verona e provincia, al dettaglio tradizionale della zona e alla vendita diretta in azienda.

Usi: L’asparago è un prodotto ottimo da gustare in svariati modi, diuretico e stimolatore dell’appetito. È consigliabile cucinarli a vapore, così da ridurre il rischio di perdita dei valori nutritivi. In cucina sono molto versatili in quanto conferiscono un sapore particolare anche ai piatti più semplici.

Patata dorata dei terreni rossi del Guà

Territorio interessato alla produzione: Il territorio situato tra le province di Padova, Vicenza e Verona e localizzato nei comuni di Montagnana, Saletto, Megliadino San Fidenzio, Ospedaletto Euganeo, Cologna Veneta, Pressana, Roveredo di Guà, Lonigo, Noventa Vicentina e Poiana Maggiore.

La storia: Nel 1894 il Sindacato Agrario di Padova intraprese una campagna di propaganda a favore della patata, mentre uno scambio epistolare tra il Vice Prefetto di Este e il Podestà di Montagnana, datato 1915, evidenzia come fosse ancora difficile introdurre la solenacea in quelle campagna. Fu solo in tempi successivi che venne individuato come vocato a tale coltivazione un bacino costituito dai terreni alluvionali lungo i fiumi Adige e il Guà (noto nel suo tratto vicentino come Agno e in quello padovano come Frassine o Fratta). Da una testimonianza diretta del dr. Gianfranco Cantarella, laureato in scienze agrarie e agricoltore Colognese, si desume che la coltivazione della patata nella zona del Colognese si diffuse rapidamente negli anni ‘50, inizialmente come coltura alternativa dopo periodi di forti grandinate, successivamente come coltura da reddito. Quanto prima gli agricoltori si accorsero che le produzioni più rilevanti si avevano proprio nei terreni argillosi rossi, in cui si poteva ottenere una qualità particolarmente apprezzata sia per le caratteristiche organolettiche che per una particolare colorazione e lucentezza della buccia. In quell’epoca si andava diffondendo la “Cipolla dorata di Parma” e da tale fatto gli operatori della zona ebbero l’idea di chiamare “Patata dorata” quel particolare tipo di patata prodotta in zona. A Roveredo di Guà si tiene, ad inizio luglio, la tradizionale “Festa della patata dorata del Guà”.

Descrizione del prodotto: Con la denominazione “Patata dorata dei terreni rossi del Guà” si comprendono diverse varietà coltivate: Primura, quella più diffusa, Agata, Vivaldi, Cicero, Monalisa, Liseta e Alba. Comune a tutte è la forma ovale e ovale-lunga; pezzatura uniforme nella quale le differenze di calibro non superino i 15 mm; buccia gialla, sottile, priva di screpolature, intatta; gemme (occhi) superficiali; pasta giallochiara. Il prodotto è distinto in 3 tipologie:
– tipo A: patata da insalata; pasta soda, che non sfiorisce, non farinosa, piuttosto umida, a grana molto fine, con sapore molto delicato e basso contenuto di sostanza secca (18-19%);
– tipo B: patata per tutti gli usi; pasta piuttosto soda, che sfiorisce leggermente, si apre poco alla cottura, ha consistenza media, debolmente farinosa, leggermente asciutta, con sapore delicato e medio contenuto di sostanza secca (19-22%);
– tipo C: patata per puree; pasta tenera, farinosa, grana piuttosto grossolana che sfiorisce dopo la cottura, sapore piuttosto forte, contenuto di sostanza secca medio-alto.

Processo di produzione: La Patata dorata si coltiva nei terreni alluvionali, argillosi, profondi e di colore rosso formati in tempi remoti dal divagare dell’Adige. Il tratto che interessa la patata è quello mediano del fiume: soprattutto qui, infatti, alla base sabbiosa, si sono aggiunte le argille ricche di ferro, di origine vulcanica, che gli conferiscono l’aspetto di “terre rosse” e ne fanno un ottimo suolo da ortaggi. Gli accorgimenti utilizzati dagli operatori per ottenere un prodotto di qualità sono la concimazione con letame bovino, l’unico a non influenzare il sapore del prodotto e la lavorazione del terreno. Il prodotto dopo la raccolta, che viene effettuata a mano, è insaccato in sacchi di iuta o nylon con pesature da 1, 2.5 o 5 kg e inviato alla commercializzazione.

Reperibilità: La patata dorata del Guà si trova in vendita in confezioni da 1, 2.5 e 5 chili presso i magazzini di alcune catene di grande distribuzione del Nord Italia. A questi canali va aggiunta la vendita diretta presso lo stabilimento di raccolta e confezionamento dell’Associazione Produttori Patate a Montagnana

Usi: Le patate possono essere utilizzate in cucina per la preparazione di numerosissimi piatti. A seconda delle varietà vengono cotte al forno, fritte o utilizzate nella preparazione di gnocchi, minestre e purea. Inoltre sono utilizzate a livello industriale per l’estrazione di alcool, fecola o come base per foraggio.

Sedano-rapa di Ronco all’Adige

Territorio interessato alla produzione: Intero territorio di Ronco all’Adige (VR)

La storia: Questo particolare ortaggio, conosciuto e coltivato solo in alcune zone dell’Italia settentrionale, è ritenuto un ortaggio di importanza secondaria, essendo considerato un prodotto di nicchia. D’altra parte, il sedano rapa è ben conosciuto nel nord Europa, dove le coltivazioni si estendono su aree molto vaste e dove esiste un mercato consolidato sia del prodotto fresco che trasformato. Nel veronese, e in special modo nella zona di Ronco all’Adige, è presente come coltivazione dagli anni trenta. È doveroso ricordare questo prodotto con quanto riportato dal celebre poeta dialettale veronese Berto Barbarani (1872 – 1945), che ha scritto una ricetta su come impiegare il sedano rapa, prodotto nel veronese: “Si prende una testa di sedano-rapa piuttosto grossa. Si monda bene e si taglia a fette dello spessore di uno scudo di vecchio conio. Per ogni due di queste s’insinua una fetta di prosciutto cotto e si salda con filo. Così preparate si adagiano nel tegame su di un soffritto di burro e cipolla che abbia già preso il biondore, e dopo averle ben rosolate si unisce sugo di pomodoro, mezzo bicchiere di Marsala vecchio, mezzo cucchiaio di farina. Giunto il tutto a lenta condensazione e cottura, si serve caldo con buon parmigiano abbondante”. Anche il noto Chef Giorgio Gioco ricorda in “La Verona in cucina” il sedano rapa, come piatto tradizionale “Sedano di Verona con maionese…3 sedani rapa, 5 cucchiai di salsa maionese, il succo di un limone, sale…” (Verona 1988).

Descrizione del prodotto: Il sedano rapa è una varietà di sedano appartenente alla famiglia botanica delle ombrellifere, classificata come Apiumgraveolens rapaceum. Ha la parte iniziale della radice molto ingrossata, al punto da formare un globo compatto di circa 15-20 cm di diametro.questa porzione di radice si presenta, all’interno, biancastra, tenera e croccante, con aroma simile a quello del sedano da coste. Questa specie di rapa può pesare anche un chilogrammo ed ha buccia grinzosa e grigiastra. La parte fogliare è poco sviluppata e viene anche ridotta durante la coltivazione per favorire l’ingrossamento della radice.

Processo di produzione: Il sedano predilige terreni di medio impasto, abbastanza sabbiosi, con una buona presenza di sostanza organica. Va seminato in semenzaio, nel periodo gennaio-febbraio, in luoghi riparati e riscaldati. Quando le piantine avranno raggiunto i 10-15 cm d’altezza si potranno trapiantare in piena terra ad una distanza di 25-35 cm sulla fila e 60-80 tra le file. Dopo il trapianto la piantina necessita di una concimazione di base e successivamente è importante annaffiare abbondantemente. Durante la coltivazione è necessario intervenire con delle sarchiature per tenere pulito il terreno da eventuali piante infestanti. Il sedano rapa viene raccolto manualmente da ottobre a novembre, ma lo si può trovare in commercio anche nei mesi successivi perchè, se il terreno non gela, viene lasciato in campo, coperto con paglia, per venire raccolto in un secondo momento.

Reperibilità: Data l’esigiutà della produzione, il sedano di Verona è reperibile solo in prossimità della zona di produzione da ottobre all’inizio dell’inverno.

Usi: Sono molteplici gli usi culinari di questo ortaggio: crudo si presta per squisite insalate, cotto può essere fatto ai ferri, o semplicemente bollito, ma anche per creare ottime minestre o puree.

Patata di Bolca

Territorio interessato alla produzioneComune di Vestenanova, frazione di Bolca e piccole zone limitrofe, provincia di Verona.Descrizione del prodottoTubero appartenente alla famiglia delle Solanacee, si presenta di forma tondeggiante o allungata, liscia o solcata e buccia di colore variabile dal giallognolo al rossastro-violaceo. Le principali varietà coltivate sono: Bintje, medio tardiva, pasta gialla, per tutti gli usi; Majestic, semi-tardiva, pasta bianca, per tutti gli usi; Spunta, medio precoce, pasta gialla, per tutti gli usi; Monalisa, medio precoce, pasta gialla, per tutti gli usi; Désirée, tardiva, pasta gialla, per fritti e arrosti; Kennebec, tardiva, pasta bianca, per gnocchi e purè.Le patate sono vendute in sacchi di diverso peso (da 1-2–5-10-20-25 kg).Processo di produzioneLa produzione della “patata di Bolca” trova nelle caratteristiche del terreno del territorio comunale di Vestenanova i primari elementi di caratterizzazione, che sono: un pH leggermente acido e un contenuto basaltico d’origine vulcanica. Si semina nel mese di aprile a mano o macchina, impiegando l’intero tubero oppure le patate sono tagliate a pezzi e ogni porzione ha almeno una gemma; le tecniche agronomiche utilizzate sono le tradizionali operazioni quali arature, concimazioni organiche (letame) o minerali, eventuali trattamenti antiparassitari.Durante la stagione estiva, le temperature medie si attestano sui 19-20 °C, con media piovosità, mentre piacevoli brezze scendono e salgono nelle valli e nelle dorsali, tutte condizioni ideali per la coltura. La raccolta è manuale o meccanica e si effettua tra fine agosto e tutto settembre. I tuberi cerniti e confezionati a mano, sono venduti immediatamente o conservati in luoghi freschi, presenti nelle aziende, come cantine o magazzini per tuttol’inverno. I tuberi sono venduti senza subire nessun lavaggio.La storiaBolca, da sempre, è stato un territorio silvo-pastorale. Dal Rinascimento, sono iniziate le coltivazioni di cereali mentre, come tradizione, la patata è entrata nella cultura gastronomica locale agli inizi dell’Ottocento.Qui la patata ha trovato un ambiente di coltivazione particolarmente favorevole, sia per le dotazioni dei terreni, d’origine vulcanica con detriti basaltici, sia per l’altitudine e le caratteristiche ambientali.Il regio Prefetto Luigi Sormani Moretti, nella sua monumentale opera “Monografia della Provincia di Verona” (Firenze 1904) indicava l’areale di Vestenanova particolarmente adatto alla coltivazione della patata.Nel corso del Novecento sono state introdotte nuove varietà e i risultati si sono mostrati soddisfacenti, tanto che le “patate di Bolca” erano ricercate e richieste anche lontano dall’area di produzione.Negli anni ’70, per varie motivazioni, non ultima la concorrenza straniera, l’attività colturale è quasi cessata. La produzione di patate è ora effettuata in limitati appezzamenti, con un alto livello qualitativo.UsiLa “patata di Bolca” prodotta nell’areale di Vestenanova con le diverse varietà coltivate trova impiego in cucina, con l’utilizzo di ricette che prediligono i tuberi secondo la consistenza, la forma, la grandezza e la caratteristica della polpa.ReperibilitàLa vendita viene effettuata subito dopo la cernita e durante tutto il periodo invernale nell’area di produzione.

Verza moretta di Veronella

Sinonimi e termini dialettaliVerza moretta, cavolo verza nera di Veronella. Territorio interessato alla produzioneComune di Veronella e comuni limitrofi : Zimella, Cologna Veneta, Pressana, Roveredo di Guà, Arcole, San Bonifacio, Albaredo d’Adige, Minerbe, Bonavigo, Legnago, in provincia di Verona; il comune di Montagnana in provincia di Padova.Descrizione del prodottoLa “verza moretta” (Brassicum oleracea) è un prodotto ortofrutticolo caratterizzato da un colore viola intenso all’esterno e una parte interna di colore bianco-giallo. Le foglie sono corpose e con un aspetto riccio e finemente bolloso. Il peso può variare da 700 g fino ad un massimo di 1,2 kg. Ha sapore piacevolmente dolciastro e si presta a vari usi in cucina.Processo di produzioneFin dalle origini la coltivazione della “verza moretta”,dalla selezione del seme alla raccolta, veniva effettuata a mano coinvolgendo l’intera famiglia.La selezione del seme inizia con la raccolta, si procede alla selezione delle piante individuando i cespi che presentano caratteristiche più marcate (maturazione omogenea, colorazione intensa, disposizione delle foglie del cespo, resistenza alle malattie) in modo da mantenere il più possibile la rusticità del prodotto. Le piante scelte vengono trapiantate vicine tra loro in modo che, nel periodo della fioritura, il polline venga facilmente trasportato dal vento e dagli insetti da una pianta all’altra. I semi vengono raccolti a fine primavera.La semina avviene a giugno e il trapianto delle piantine a luglio. Le tecniche colturali prevedono solo interventi agronomici, in particolare soffici lavorazioni meccaniche per la gestione del suolo.Il periodo per la raccolta, rigorosamente manuale, inizia a novembre e termina a febbraio. La lavorazioneviene effettuata direttamente sul campo. La “verza moretta” non si presta alla stagionatura ma ad una conservazione di breve-medio termine, fino ad un massimo di 30 giorni in cassa di legno nella quale vengono collocati 8-10 pezzi, in un luogo fresco e leggermente umido.UsiIl prodotto è ottimo se consumato fresco ma si presta a vari usi in cucina: zuppe, risotti, insalate, contorni, involtini, sformati, ed altro ancora.ReperibilitàTutt’oggi la “verza moretta” è un prodotto di nicchia, apprezzato e molto richiesto, è reperibile nella zona presso ristoranti e alcuni dettaglianti specializzati in prodotti tipici, nel periodo invernale.La storiaIl professor Maccagnan Guerrino, storico di Veronella, evidenzia nel libro dedicato a “Ottavia Fontana. Maestra e Sindaco di Veronella”, pubblicato nel 2010, la presenza nel territorio veronellese di una diffusa coltivazione della “verza moretta” già nell’Ottocento. Lo scrittore descrive così il contesto storico-sociale di quel periodo: “Il lavoroagricolo era senz’altro l’occupazione più diffusa, incentrata soprattutto sulla produzione cerealicola e sulla pratica della bachicoltura, della viticoltura, della frutticoltura e della tabacchicoltura. (…) Nel contesto produttivo si collocavano anche i mercati, tra cui godeva una certa rinomanza quello delle verze (morette veronesi) di Veronella, da dove partivano per essere esportate nelle città del Veneto e perfino in Val d’Aosta”.Fino al 1920 le verze morette venivano trasportate in mazzi da 5 pezzi (cd. “sacàre”). Il torsolo delle verze veniva tenuto lungo in fase di raccolta, si praticava un foro nella parte più dura in modo da passare uno spago all’interno del torsolo stesso e poter legare più verze assieme. In tal modo la “verza moretta” era facilmente trasportabile. A partire dal dopoguerra venivano trasportate con camion caricate alla rinfusa per essere vendute in Val d’Aosta e in Germania.

Asparago di Mambrotta

Territorio interessato alla produzioneFrazione Mambrotta del comune di S. Martino Buon Albergo, in provincia di VeronaDescrizione del prodottoL’asparago di Mambrotta appartiene alla famiglia delle Liliacee (Asparagus officinalis); si distingue per i turioni ben formati e con apice serrato. Gli asparagi possono essere sia bianchi, con apice e turioni leggermente color rosa, sia verdi, con colorazione verde sull’80% della loro lunghezza.Processo di produzioneLa coltura dell’asparago si effettua con le “zampe”, originatesi da seme, che vengono trapiantate in campo l’anno successivo e solo dopo il terzo anno si ottiene il primo raccolto. Per la coltivazione, nella messa a dimora delle zampe, si rispettano le seguenti distanze: 2-2,40 metri tra la fi la e 25-30 cm. sulla fila.La raccolta dell’asparago inizia generalmente il 1° aprile e termina alla fine di maggio. Il taglio dei turioni dovrà essere netto. Il condizionamento è generalmente eseguito manualmente asportando le parti non idonee, operando la pulizia del prodotto ed il confezionamento, utilizzando imballaggio di legno o plastica. L’asparago di Mambrotta viene confezionato in mazzi omogenei sui quali viene apposta un’etichetta che riproduce il logo dell’“Asparago di Mambrotta” oltre alle informazioni di legge.La conservazione post-raccolta avviene per il periodo minimo necessario, in normali magazzini nei quali il prodotto viene condizionato per poter essere immesso sul mercato. Una volta terminata la raccolta vengono aperti i “bauli” (i cumuli di terra che ricoprivano le piante) e si lasciano sviluppare i turioni che sono il fusto della pianta. Le tecniche colturali sono orientate ad accentuare la qualità della produzione tipica e il grado di ecocompatibilità della coltivazione.UsiL’asparago di Mambrotta è un prodotto fresco da consumarsi immediatamente dopo la raccolta che trova molteplici usi in cucina. Può essere consumato crudo in insalata, oppure cotto al vapore. I turioni (gli asparagi) si possono saltare al burro, cuocere in minestre, zuppe e creme e sono ottimi per risotti, inoltre destinati come condimento saporito e raffinato per la pasta, frittate e saporiti sfornati.ReperibilitàLa produzione degli asparagi di Mambrotta è destinata al dettaglio tradizionale della zona e alla vendita diretta in azienda.La storiaL’asparago a Mambrotta era presente già dalla fine del 1800, anche se una certa importanza da un punto di vista colturale cominciò ad assumerla negli anni ‘50 del secolo scorso. È proprio in quegli anni che alcuni agricoltori pionieri decisero di sfruttare questo pregiato ortaggio, non solo come prodotto da autoconsumo, ma anche come coltura da reddito mettendo in atto le prime vere coltivazioni di asparago. Così, lungo la sponda dell’Adige,in località “Giaron” e “Gazzivi”, nacquero le prime “asparagiaie”. Le particolari caratteristiche dei terreni situati lungo questa sponda del fiume Adige, hanno fatto sì che questa coltura in pochi anni si diffondesse nelle aziende agricole della zona. Si è compreso che, grazie alla particolarità del terreno (formatosi con le piene ricorrenti dell’Adige che hanno depositato limo rendendo il substrato particolarmente indicato per le coltivazioni orticole) e alle tecniche di coltivazione più avvedute, si è in presenza di un prodotto che non teme più confronti con altri più conosciuti.

Broccoletto di Custoza

Territorio interessato alla produzioneLa zona di produzione del “broccoletto di Custoza” è ristretta al solo territorio della frazione di Custoza, sita nel Comune di Sommacampagna, in provincia di Verona.Descrizione del prodottoQuesto ortaggio presenta un fusto breve o addirittura sub-nullo, foglie poco numerose, situate a livello del suolo, avvolgenti lassamente l’inflorescenza che ha rami brevi ed ingrossati. Il fiore è a quattro petali disposti a croce; il frutto secco, detto siliqua, si apre in due valve e contiene più semi attaccati ad un setto mediano. L’apparato radicale è di tipo fascicolare. Il “broccoletto di Custoza” ha dimensioni ridotte che vanno da 40 fi no a 60 cm; il suo colore è verde intenso, ma all’arrivo delle prime gelate le foglie più esposte tendono a colorarsi di riflessi rossastri. La particolarità di questa coltura è il fatto di essere messa in commercio priva di inflorescenza (comunemente chiamato cuore).Processo di produzioneLa semina del “broccoletto di Custoza” deve essere effettuata nel periodo che va dalla fine del mese di giugno ai primi di luglio e avviene esclusivamente con tecniche manuali. Il seme germinato produce una piantina che viene trapiantata, in linea di massima, nel periodo compreso tra la fine di agosto all’inizio di settembre. Infine, la raccolta avviene esclusivamente a mano da novembre a febbraio.Il prodotto non subisce né lavorazioni né preparazioni particolari. L’ortaggio viene tagliato a mano e confezionato con una semplice legatura con spago in mazzi di circa 3 kg.UsiSi consuma bollito o comunque cotto in varie forme; il piatto tradizionale è costituito da broccoletto lessato, uova sode accompagnati da un filo d’olio d’oliva, polenta e soppressa. Si può abbinare a salame e formaggio o cuocere con riso e pasta (salame).Le foglie bollite e tritate possono essere la base di dolci e gelati.ReperibilitàL’area di produzione limitata alla frazione Custoza rende il “broccoletto di Custoza” molto ricercato come prodotto di nicchia. È reperibile nel periodo di raccolta direttamente presso i produttori o sul mercato locale.La storiaIl “broccoletto di Custoza” conserva un legame antico con l’ambiente geografico in cui è inserito; questo legame è motivato da fattori pedoclimatici e umani. L’impronta pedoclimatica contribuisce in qualità e sostanza nella coltivazione di questo ortaggio, che trova nel territorio di Custoza, caratterizzato dalla presenza di terreni di origine morenica, l’habitat perfetto per lo sviluppo e il mantenimento di una lunga tradizione. La capacità, affinata con gli anni, e trasmessa “da padre in figlio”, ha permesso di poter lavorare ancora oggi un prodotto genuino che mantiene le proprie tipicità e storicità. Ad oggi, abbiamo testimonianze di produttori che coltivano questo ortaggio da più di 50 anni.

Cavolo dell’Adige

VarietàCavolo dell’Adige, nelle tipologie: cavolfiore, cavolo broccolo, cavolo cappuccio, cavolo verza.Territorio interessato alla produzionePer la provincia di Verona:Legnago, Salizzole, Nogara, Concamarise, Sanguinetto, Cerea, Casaleone, Minerbe, Roveredo di Guà, Cologna Veneta, Veronella, Arcole, Zimella, Isola della Scala, Bovolone, Bevilacqua, S. Pietro di Morubio, Roverchiara,Gazzo Veronese, Sorgà, Erbè, Oppeano, Isola Rizza, Albaredo d’Adige, Pressana, Villa Bartolomea, Castagnaro, Terrazzo, Boschi S. Anna, Angiari, Bonavigo.Per la provincia di Rovigo:Badia Polesine, Lendinara, Lusia.Per la provincia di Padova:Montagnana, Urbana, Merlara, Casale di Scodosia, Castelbaldo, Masi, Piacenza d’Adige, S. Margherita d’Adige, Saletto, S. Urbano, Carceri, Barbona, Vescovana, Boara Pisani e Ponso.Descrizione del prodottoIl “cavolo dell’Adige” è ottenuto da piante appartenenti alla famiglia Brassicacee o Crocifere, specie Brassica oleracea. Esso può essere di tipo precoce oppure tardivo. Con il nome di cavolo si identificano diverse tipologie di piante della stessa specie: Il “cavolfiore”, presenta una infiorescenza compatta di colore bianco, diametro superiore a 13 cm e peso superiore a 1 kg.Il “cavolo broccolo” presenta un’infiorescenza compatta costituita da un ammasso di boccioli fiorali completamente differenziati di colore blu-violaceo o verde scuro, più o meno omogeneo, forma a cupola e grana fine.Il “cavolo cappuccio” si distingue per i seguenti caratteri: foglie sessili, intere, lisce, di colore verde. Le foglie addossandosi le une alle altre conferiscono al cespo la forma di tipico grumolo compatto (testa o cappuccio). Le teste sono compatte, di forma tondo-ovale od ovale, di colore verde con corona nelle varietà precoci e bianco o rosso cupo nelle cultivar invernali.Il “cavolo verza” ha foglie bollose e di colore verde con costola centrale e nervature marcate, si presentano embricate e formano una specie di palla o testa compatta di colore verde scuro e rosso cupo, di forma tondo-ovale.
Processo di produzioneL’impianto della coltura del “cavolo dell’Adige” si effettua ricorrendo al trapianto di piantine allevate in semenzaio inserito in rotazioni colturali almeno biennali.La raccolta viene effettuata quando le infiorescenze sono compatte. Il condizionamento e il confezionamento in imballaggi di legno o plastica vengono generalmente eseguiti manualmente.UsiLe virtù terapeutiche del cavolo sono così vaste da essere considerato una pianta medicinale sia per i valori energetici sia per il contenuto in vitamine e sali minerali. I cavoli cotti sono preziosi nelle diete ipocaloriche ma le migliori virtù si riscontrano sul prodotto crudo in quanto mantiene inalterato il suo contenuto vitaminico. Unico aspetto che può disturbare è l’odore che si origina durante la cottura causato dall’alto contenuto di zolfo. Inconveniente che si può risolvere ricorrendo alla pentola a pressione oppure aggiungendo aceto o limone nell’acqua di cottura.ReperibilitàReperibile nel periodo autunno-inverno.La storiaLe origini di questa brassicacea, ampiamente diffusa in tutta la penisola, sono antichissime. Per questo il cavolo è entrato nei proverbi radicati nella cultura locale e nazionale.Testimonianze storiche citano l’importanza di questa verdura nella antica cultura romana usata prima dei banchetti per aiutare l’organismo ad assorbire l’alcool, per il suo potere di scacciare la malinconia e la tristezza e rafforzare lo stato complessivo di salute. Nella zona di produzione dell’Adige il cavolo ha trovato un’organizzazione produttiva particolarmente significativa intorno agli anni ’70 del secolo scorso.

Fagiolo gnoco Borlotto

Sinonimi e termini dialettaliFagiolo gnoco borlotto, fasolo gnoco, lingua di fuoco.Territorio interessato alla produzioneProvincia di Verona, in particolare le frazioni di Spinimbecco e Carpi nel comune di Villa Bartolomea.Descrizione del prodottoII prodotto è un fagiolo borlotto rampicante con le seguenti caratteristiche: baccello color rosso carnato contente 6/7 grani con polpa soda; grano leggermente lungo di colore rosso screziato su fondo biancastro; pianta mediamente vigorosa, con produzione abbondante concentrata nella parte basale.Processo di produzioneIl fagiolo è coltivato con metodiche tradizionali: semina manuale a postarella con 5/6 semi (seme autoprodottoin azienda); la distanza sulla fila è di 30 cm e tra le file di 90 cm; le piante sono sostenute da paletti in legno di salice o da canne palustri. Il prodotto fresco è raccolto manualmente o in parte trebbiato, con battitura meccanica per il secco.I fagioli sono immessi nel mercato del fresco e commercializzati su apposite casse; i fagioli secchi vengono fatti essiccare direttamente in pianta e commercializzati in appositi contenitori.UsiViene consumato fresco e parte viene fatto essiccare ed immagazzinato. Una volta rigenerati in acqua si prestano per molteplici usi culinari in particolare per zuppe.ReperibilitàReperibile nel periodo, in particolare a giugno – luglio se freschi o essiccati anche nei mesi successivi, direttamente dal produttore.La storiaIl “fagiolo gnoco borlotto, lingua di fuoco” di Spinimbecco, frazione di Villa Bartolomea, veniva coltivato già prima degli anni ’30, anche se su superfici limitate e per lo più per il consumo famigliare. Solamente una piccola parte della produzione veniva commercializzata al mercato di Legnago (VR) o porta a porta.Successivamente alla Seconda Guerra Mondiale la coltivazione di tale prodotto conobbe nuovo impulso, con un notevole aumento delle superfici e una produzione stimata intorno ai 2.100 t. Dopo gli anni ’50 cominciarono a sorgere centri privati di raccolta nella frazione di Carpi e a Villa Bartolomea e all’inizio degli anni ’60 sorsero cooperative nate espressamente per la raccolta del pregiato fagiolo.A tale prodotto, così importante per l’economia della zona, vennero dedicate molte mostre settembrine, di cui si trova testimonianza in molti giornali locali e regionali. Negli anni ’70 e ’80 si assistette ad un progressivo ridimensionamento dell’area di produzione del fagiolo, che però continuava ad essere intensamente coltivato dalle aziende presenti a Spinimbecco e Carpi di Villa Bartolomea. Attualmente si assiste ad un rinnovato interesse verso questo prodotto, così legato alle vita economica di queste zone. Infatti la necessità di realizzare un’attività agricola più sostenibile e legata alle tradizioni ha portato ad un aumento delle produzioni e alla volontà di far conoscere questo pregiato fagiolo.

Conserva di granoturco

Materia prima: pannocchie di granoturco allo stadio di maturazione cerosa, intere o
sgranate.

Iecnologia di lavorazione si fa cuocere il mais per non piu di 5 minuti. Si lascia
raffreddareeonservando neivasi divetro in soluzionesaiina, atemperatura non
superiore ai 14-15øC.

Maturazione

Area diprodazione: tutta la Padania.

Calendario di produzione: agosto-settembrc.

Note: ii prodotto si consuma saltato in padella fino all’apertura dei chicco. 13 mollo
gradito alle nuove generazioni, tanto che la produzione industriale e in costante

espansione.

Carline sott’olio

Materia prima: carlina (acaulis).

Tecnologia di preparazione: i ricettacoli dei capolini delle carline vengono mondati
e fatti bollire in acqua e aceto per alcuni minuti, si fanno asciugare per alcune ore, si
aromatizzano con aglio, pepe, sale, foglie di alloro o chiodi di garofano e invasettati
si ricoprono di olio chiudendo ermeticamente.

Maturazione: circa due mesi.

Area di produzione: nelle zone montane del paese.

Calendario di produzione: fine estate-autunno.

Note: la carlina che, secondo leggende popolari, fu indicata da un angelo a Carlo
Magno (da cui il nome) come rimedio contro la peste, è una pianta erbacea tipica
dei pascoli montani e delle radure dei boschi di castagno e dei terreni di brughiera.

Peperoni sott’aceto

Materia prima: peperone, della varieta “piacentino” verde da orto.

Tecnologia di lavorazione: i peperoni, previa lavatura e pulitura, sono bolliti in
aceto per 2 o 3 minuti, insieme al sale e alle spezie, che ogni famiglia sceglie sulla
base del proprio gusto. Una volta bolliti e raffreddati vengono sistemati in
damigiane a bocca larga coperti di aceto e un filo d’olio. In superficie viene
sistemato un pezzo di marmo (non poroso), che tiene pressati i peperoni evitando
il contatto con l’aria.

Maturazione: 10-15 giorni.

Area di produzione: tutta la Padania, ma con altre varietà in tutta Italia.

Calendario di produzione: agosto-settembre.

Note: il consumo viene fatto durante il periodo invernale e accompagna i lessi misti
e i piatti grassi come cotechino, zampone, lingua di vitello, ecc. Nell’alto Sannio ottengono il caratteristico nome di “pipauri”.

Tartufo della montagna veronese

Territorio interessato alla produzione: Comunità del Baldo e della Lessinia (VR)

La storia: Il tartufo e’ un frutto della terra conosciuto dai tempi piu’ antichi. Si hanno testimonianze della sua presenza nella dieta del popolo dei sumeri ed al tempo del patriarca Giacobbe intorno al 1700 – 1600 a.C. In ogni epoca li troviamo altamente apprezzati dai buon gustai a partire dagli antichi Greci, sino ai raffinati golosi contemporanei. I Romani ne furono ghiottissimi ed Apicio e Giovenale ne cantarono gli elogi e ne dettarono anche metodi per cucinarli. Tra i moderni l’uso di questa prelibata vivanda crebbe sempre in più in onore. Ne andavano ghiotti Rossini e papa Gregorio IV. Sembra che anche Napoleone, nella sua campagna militare a Verona, prima della battaglia d’Arcole, si sia interessato ai tartufi della Lessinia. Anche il Regio Prefetto conte Luigi Sormano Moretti nella sua “Monografia della provincia di Verona” (Firenze 1904) nomina i tartufi del veronese.

Descrizione del prodotto: Il tartufo e’ un fungo che vive sottoterra, a forma di tubero costituito da una massa carnosa,detta “gleba”, rivestita da una sorta di corteccia chiamata “peridio” Tartufo nero di Verona proviene da tartufaie naturali, ha tubercolo a superficie nera, tondeggiante con irregolarità di forma verrucosa, emana un forte odore ben conosciuto, ed ha sapore squisito. In alcuni casi quando è maturo la polpa di coloro nero può tendere al nero violaceo o rosso molto cupo. Il tartufo nero pregiato ha profumo gradevole ed intenso e dimensioni variabili tra quelle di una noce e quelle di una mela e un aspetto tuberiforme; in genere matura da novembre a marzo. Di minor pregio ma alquanto diffusi sono il tartufo nero d’estate o scorzone e la trifola nera.

Processo di produzione: Per il Tartufo della montagna veronese l’operazione principale è la raccolta. Prima di procedere a questa operazione è indispensabile rendersi conto del giusto grado di maturazione, sia per assecondare le esigenze commerciali, il tartufo acquista sempre maggior profumo man mano che avanza la sua maturazione, sia per non pregiudicare la produttività della tartufaia. La maturazione avviene fra novembre e marzo. La raccolta è in tartufaie naturali, che sono spazi di terreno di forma presso a poco circolare, che s’incontrano nei boschi, o nei limiti di essi, oppure vicino a piante isolate, ove i tartufi crescono spontaneamente. La raccolta avviene con l’ausilio di cani. Per la raccolta ci si avvale d’una zappetta a manico corto per scavare il terreno con delicatezza nel punto segnato dal cane, fino a scoprire il tartufo, ricoprendo successivamente la buca dopo la raccolta. Una volta raccolto, il prodotto viene subito commercializzato.

Reperibilità: Il tartufo veronese è reperibile in genere da novembre a marzo presso i ristoranti e alcuni rivenditori della zona di raccolta. Anche d’estate è possibile trovarlo ma nelle qualità meno pregiate.

Usi: L’uso culinario dei tartufi è conosciuto e apprezzato da sempre. Viene utilizzato per insaporire i piatti e va usato con moderazione per non rischiare di coprire gli altri gusti. I tartufi più pregiati si mangiano crudi, tagliati con il tagliatartufi al momento di servirli direttamente sulla vivanda pronta posta nel piatto. Qualità meno pregiate trovano un ottimo utilizzo come guarnizione o nella preparazione delle salse, questi ultimi vanno prima tagliati a pezzetti e messi a insaporire in padella con olio, aglio, acciuga e timo, quindi cosparsi sulla vivanda pronta posta nel piatto.

Tartufo in salamoia

Materia prima: tartufo sia bianco che nero.

Tecnologia di preparazione: i tartufi vengono selezionati a mano, ripuliti
dalla terra con uno spuzzolino uno per uno, lavati, messi in barattoli. Si
aggiunge la salamoia e si sterilizza in autoclave. Si conservano in lungo
fresco e buio.

Maturazione:

Area di produzione: Piemonte, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo.

Calendario di produzione: autunno, inizio inverno.

Note: oltre al tartufo hianco (Tuber magnatum pico) e a quello nero (Tuber
melanosporum) anche il tartufo estivo scorzone (Tuber aestivum) è oggetto
di trasformazione. Di colore blu-nerastro con cuticola verrucosa, si
distingue dal più pregiato tartufo nero di Norcia per la carne più chiara
tendente al bianco nocciola marmorizzato. Il melanosporurm è invece nero.
Un altro (Tuber mesentericum) è molto diffuso nella zona di Ariano Irpino
oltrechè nel Lazio, in Toscana e nel sud delle Marche e dell’Umbria, dove
viene consumato insieme a formaggi freschi di capra in insalata.

Ciliegia delle Colline Veronesi

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Verona

La storia: La provincia di Verona è la prima nel Veneto e la terza in Italia per la produzione di ciliegie, la cui qualità si distingue per consistenza, colore e gusto dai prodotti di altre località. La presenza rilevante della coltura del ciliegio nel veronese è testimoniata da riferimenti bibliografici datati 1503 (“Fioretto de le antiche croniche di Verona e de tutti i soi confini e de le reliquie che se trovano dentro in ditta citade” di Francesco Corna da Soncino) che evidenziano, fra le specificità di Verona, il fatto di poter trovare le ciliegie da aprile fino a settembre. Nell’ottocento, negli “Atti della Giunta per la Inchiesta Agraria” (vol. V, tomo I, 1882), si sottolinea la rilevanza delle ciliegie veronesi che “vengono ora coi vagoni refrigeranti trasportate in Germania e persino in Russia”. Nella monografia “La provincia di Verona” (1904), curata da L. Sormani-Moretti, è posta in risalto l’importanza quantitativa e la diversificazione qualitativa della produzione cerasicola veronese alla fine del XIX secolo. E’ inoltre interessante segnalare come il prof. I. E. Tonelli, nel suo articolo “La frutticoltura e l’orticoltura nel Veronese” (in “L’Arena” del 10.11.1929), rilevi la forte vocazione produttiva della fascia collinare che delimita a nord di Verona la Pianura Padana, dove il ciliegio “da sempre trova nell’altezza del corso medio e mediosuperiore delle valli succedentesi dall’Adige all’Alpone” il suo areale di coltivazione. Feste delle ciliegie si svolgono in giugno a Cazzano di Tramigna, a Montecchia di Crosara, a San Giovanni Ilarione, a Brognoligo (frazione di Monteforte d’Alpone) e a Gargagnago di Sant’Ambrogio di Valpolicella.

Descrizione del prodotto: La denominazione “Ciliegia delle Colline Veronesi” è riferita alle ciliegie dolci appartenenti alla specie Prunus avium: Mora di Cazzano (sin. Mora di Verona o Durone di Verona), Mora dalla punta, Durone nostrano (sin. Duron), Giorgia, Ferrovia. La “Ciliegia delle Colline Veronesi” ha forma sferoidale, con un’epidermide particolarmente brillante, una buccia notevolmente resistente ed una polpa succosa e di elevatissima consistenza e conservabilità. Il calibro dei frutti non deve essere inferiore a 24 mm.

Processo di produzione: Occorrono in media 4 o 5 anni prima che le piante entrino in piena produzione, che consente di produrre di media dai 15 o 35 kg di frutta. Le operazioni di raccolta e confezionamento vengono eseguite a mano. Il periodo di conservazione delle ciliegie e’ limitato e vanno tenute in un luogo fresco e poco umido, mai in un sacchetto di plastica. Per una migliore conservazione debbono essere raccolte ad avvenuta maturazione e in condizioni ottimali, particolarmente dal punto di vista sanitario. I frutti vengono protetti dalla alte temperature e posti in celle frigorifere entro 4 ore dalla raccolta.

Reperibilità: Le ciliegie sono disponibili, come prodotto fresco, solo in un breve periodo dell’anno: da giugno a fine luglio presso tutti i mercati al dettaglio.

Usi: Oltre ad essere consumate fresche, le ciliegie sono utilizzate per produrre marmellate, sciroppi, succhi, canditi e sorbetti.

Fragola di Verona

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Bevilacqua, Bonavigo, Boschi S. Anna, Bovolone, Buttapietra, Castel d’Azzano, Erbè, Isola della Scala, Isola Rizza, Minerbe, Nogara, Oppeano, Palù, Povegliano Veronese, Salizzole, S. Giovanni Lupatoto, S. Martino Buonalbergo, S. Pietro di Morubio, Sorgà, Terrazzo, Verona, Vigasio, Villafranca di Verona, Zevio, Mozzecane, Nogarole Rocca, Trevenzuolo, Caldiero, Belfiore, Ronco all’Adige, Veronella, Albaredo d’Adige, Roverchiara, Angiari e parte dei comuni di Legnago, Lavagno, Colognola ai Colli, Gazzo Veronese, Sommacampagna e Valeggio sul Mincio.

La storia: La fragola era conosciuta e apprezzata fin da tempi antichissimi. Sembra che in Italia crescesse spontanea già due secoli prima Cristo. Secondo testimonianze depositate presso l’Archivio di Stato di Verona, datate 1796, la fragola era presente negli orti cittadini veronesi ancor prima del XVII secolo. La tradizione produttiva e il successo sui mercati locali della fragola è ben descritta da A. Balladoro nel suo volume sul “Folklore Veronese” del 1897. Anche Sormani-Moretti nella monografia “La provincia di Verona” del 1904 (vol. II, p. 46), ricorda che le fragole “cominciansi a cogliere in fin di maggio e di cui, oltre alle piccole montanine (…) diverse più grosse e pregiate specie se ne coltiva negli orti e nei fragoleti delle ville prossime alla città dove trapiantansi dal marzo alla fine di aprile oppure è meglio forse, dal settembre all’ottobre, riuscendo dovunque, ma di preferenza nelle terre sciolte e profonde”. Dati statistici su questa coltura indicano che nel 1929 la superficie ammontava a 300 ha e la produzione complessiva a 5.500 q. Nuove cultivar vengono continuamente prodotte al fine di migliorare le dimensioni e la resistenza alle malattie.

Descrizione del prodotto: La fragola è un frutto acidulo della famiglia delle Rosaceae. È caratterizzato da forma conica, globulosa o cuoriforme e cosparsa superficialmente da numerosi acheni. La Fragola di Verona appartiene alla specie Fragaria x Ananassa Duch ed è adatta sia alla produzione autunnale (settembre – primi di dicembre) che a quella primaverile (aprile – giugno). È di dimensioni piuttosto grosse in quanto il calibro minimo dei frutti non deve essere inferiore a 22 mm, e presenta eccellenti e tipiche caratteristiche di aroma, sapore e colore. Risulta inoltre essere molto consistente e di conservazione piuttosto durevole.

Processo di produzione: Le fragole sono coltivate in tutta la provincia di Verona, ma in particolare nella zona della Bassa e dell’Est veronese. Il loro normale periodo di maturazione va da aprile a giugno. La fragola coltivata è una pianta che ama i climi temperati e i terreni a medio impasto leggero, piuttosto acidi e ricchi di materie organiche, ben lavorati, soffici e freschi. Richiede continuamente azoto e potassio, tanto da esigere forti concimazioni all’impianto e ripetute somministrazioni durante l’autunno. A primavera, nel periodo precedente la fruttificazione, necessitano anche di concimazioni fogliari. Inoltre abbisognano di acqua in quantità moderate ma costanti durante tutto il ciclo colturale. Vanno raccolte manualmente quando sono mature, preferibilmente di sera, evitando di farle marcire sulla pianta.

Reperibilità: Reperibile nel periodo di produzione fra aprile e giugno, e fra settembre e novembre.

Usi: La fragola è un frutto ricco di vitamina C. Può essere gustata fresca, tagliata a pezzi con l’aggiunta di succo di limone e zucchero o con un po’ di vino, oppure può essere trasformata in marmellata o usata nella preparazione di dolci e gelati.

Mela del Medio Adige

Territorio interessato alla produzione: L’area di produzione si estende in direzione nord-sud quasi parallelamente all’attuale corso del fiume Adige, comprendendo nella provincia di Padova i territori dei Comuni di Castelbaldo, Masi, Piacenza d’Adige, Merlara, Urbana, Casale di Scordosia, Montagnana, Vighizzolo d’Este, nella provincia di Verona il territorio del Comune di Sanguinetto e in quella di Rovigo il Comune di Lendina.

La storia: Notizie riguardo al primo tentativo di introdurre la coltivazione del melo nella zona del medio Adige risalgono ai primi del Novecento, quando un certo Clemente De Togni, che aveva frequentato dei corsi di frutticoltura in Svizzera, dopo aver fatto controllare da esperti la qualità del terreno, iniziò nel Castelbadese la coltivazione delle mele della qualità detta “la bella del parco di Beldford”, oggi chiamata semplicemente “Beldford”. Alla fine del secondo conflitto, dopo anni di crisi che hanno visto il predominio delle colture cerealicole, si è registrata una concreta ripresa nella coltivazione della pomacea quando, oltre alla Belford, vengono introdotte altre varietà come la Morgenduft, la Delicious e la Jonathan. A partire dagli anni Sessanta, fino alla metà degli anni Ottanta, la melicoltura ha avuto una rapida espansione, grazie a innovazioni tecniche, specializzazioni produttive e all’introduzione di nuove varietà. Il comune di Castelbaldo vide l’impianto di molti meleti, tanto che si guadagnò l’appellativo di “Paese delle mele”.

Descrizione del prodotto: Nella zona del medio Adige sono coltivate le varietà: Golden, Royal Gala, Stark Delicious, Granny Smith, Dellago, Imperatore, Red Chief, Fuji. La mela ottenuta denota sviluppo e colorazione tipici della varietà coltivata, presentando una polpa turgida, carnosa, bianca, particolarmente gradita ai consumatori. Sono le condizioni pedo-climatiche locali che permettono di esaltare le peculiarità organolettiche (aroma, sapore e consistenza), nutrizionali e sanitarie del frutto. La buccia, dai colori più tenui, presenta una rugginosità più accentuata nelle Golden Delicius che non pregiudica l’aspetto generale del frutto ma lo differenzia da quello prodotto in altre zone e per questo è molto apprezzata sui mercati dell’Italia Centro-Meridionale. In realtà, tale rugginosità, ostacolando la traspirazione dei frutti, fa si che la polpa si mantenga croccante più a lungo soprattutto nel caso in cui la mela non venga consumata subito.

Processo di produzione: La coltura della mela ha bisogno di suoli argillosi e ben soleggiati; per questo ha trovato nella zona del Medio Adige un luogo ideale per svilupparsi. Gli alberi non hanno bisogno di particolari trattamenti antiparassitari e concimazioni. I frutti vanno raccolti manualmente, a maturazione avvenuta, e vengono avviati alla commercializzazione o mantenuti alcuni giorni in celle frigorifere.

Reperibilità: La mela è reperibile durante tutto l’anno presso qualsiasi mercato al dettaglio. Per quanto riguarda la Mela di Verona non ci sono problemi di reperimento del frutto, data la notevole quantità prodotta.

Usi: La mela è un frutto ricco di zuccheri e vitamine; ha proprietà rinfrescanti, digestive e diuretiche. Va consumata cruda, ma trova impiego anche cotta al forno, bollita, grattugiata, in succo come bevanda e come base per la preparazione di dolci e liquori.

Mela di Verona

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Albaredo d’Adige, Angiari, Belfiore, Bevilacqua, Bonavigo, Boschi S. Anna, Caldiero, Castagnaro, Legnago, Minerbe, Oppeano, Palù, Ronco all’Adige, Roverchiara, S. Bonifacio, S. Giovanni Lupatoto, S. Martino Buonalbergo, Terrazzo, Verona, Villa Bartolomea, Zevio, Villafranca di Verona, Povegliano, Castel d’Azzano, Vigasio, Buttapietra, Isola della Scala, Erbè, Sorgà, Bovolone, S. Pietro di Morubio, Cerea, Isola Rizza, Pressana, Roveredo di Guà, Sommacampagna, Bussolengo, Sona, Pescantina, Valeggio sul Mincio e parte dei comuni di Colognola ai Colli, Lazise, Lavagno, Trevenzuolo, Mozzecane, Nogarole Rocca, Concamarise, Salizzole, Castelnuovo del Garda, Veronella e Pastrengo.

La storia: La diffusione della mela nel territorio veronese ha origini molto antiche. In epoca romana, era segnalata la presenza di mele veronesi dalle caratteristiche specifiche (le cosiddette mele lanate, che erano ricoperte da una leggera lanugine). In documenti del XIV e XV sec. è riportata l’esistenza di una produzione in grandi quantità di “frutti saporosi d’ogni stagione e d’ogni tipo”, tra i quali anche i “pomi”. Tali documenti fanno riferimento, in particolare, a sistemi di produzione familiari, effettuati per lo più negli “orti e broli” dei grandi possidenti dell’alta pianura veronese e della fascia pede-collinare, cui va ricondotta gran parte dell’orto-frutticoltura veronese di quel periodo. Dettagliate citazioni sulla melicoltura veronese di fine ‘800 si ritrovano nella monografia, datata 1904, del Regio Prefetto L. Sormani-Moretti “La provincia di Verona” in cui si fa un’ampia disanima delle varietà coltivate in quel periodo. La “Relazione Economico-Statistica sulla Provincia di Verona”, del 1931, evidenzia l’importanza assunta dalla coltura del melo e richiama l’attenzione sulle “mele rinomatissime” di questa provincia. Originali documenti fotografici del 1912 riproducono la cernita delle mele nelle corti rurali di Zevio, testimoniando sia la rilevanza quantitativa, che la centralità economica ed occupazionale di questa coltura. Proprio a Zevio nel mese di ottobre, ormai da oltre cinquant’anni, il comune organizza una rassegna tesa a promuovere e diffondere sempre di più nei mercati il prodotto tipico.

Descrizione del prodotto: La denominazione “Mela di Verona” è riservata alle mele dei seguenti gruppi appartenenti alla specie Malus communis: Golden Delicious, Red Delicious, Gala, Morgenduft, Granny Smith, Fuji e Braeburn. La “Mela di Verona” si distingue per elevata croccantezza, bassa acidità, aroma spiccato ed ottimo equilibrio gustativo fin dall’epoca di raccolta. Il colore di fondo della buccia, pur essendo diverso a seconda dei vari gruppi varietali, si presenta ben caratterizzato, mentre il sovracolore, nei gruppi Red Delicious, Gala e Morgenduft, è vivace e brillante. In particolare, la Golden Delicious può presentare sull’epidermide la tipica retatura dorata. Il calibro dei frutti non deve essere inferiore a 70 mm.

Processo di produzione: Le metodiche di lavorazione sono quelle tipiche della coltura della mela, con coltivazione su suoli argillosi e ben soleggiati, in assenza di trattamenti antiparassitari. Dopo la raccolta, che avviene a mano, il prodotto non è soggetto a trasformazioni poiché è destinato al consumo allo stato fresco, tuttavia può essere conservato alcuni giorni nelle celle frigorifere.

Reperibilità: Per quanto riguarda la Mela di Verona non ci sono problemi di reperimento del frutto, data la notevole quantità prodotta.

Usi: La mela è un frutto ricco di zuccheri e vitamine. Oltre che consumata cruda, trova ottimo impiego anche cotta al forno, bollita, grattugiata, in succo come bevanda e come base per dolci e liquori.

Melone precoce veronese

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Castel d’Azzano, Povegliano Veronese, Vigasio, Nogarole Rocca, Erbè, Sorgà, Nogara, Gazzo Veronese, Casaleone, Isola della Scala, Bovolone, Oppeano, Palù, Zevio, Ronco all’Adige, Angiari, Bonavigo, Minerbe, Boschi S. Anna, Pressana, Buttapietra, S. Giovanni Lupatoto, Trevenzuolo, Isola Rizza, Salizzole, Cerea, Roverchiara, S. Pietro di Morubio, Sanguinetto, Concamarise, Legnago e parte dei comuni di Verona, Villafranca di Verona, S. Martino Buonalbergo e Mozzecane.

La storia: Le prime notizie sul melone veronese risalgono al XVI secolo; infatti, nel volume “Le bellezze di Verona” del 1584, A. Valerini sostiene che “i meloni della provincia di Verona non sono inferiori a quelli di Mantua o di Faenza”. S. Iacini, nell’Inchiesta Agraria della Provincia di Verona del 1882, osserva che “i meloni si coltivano in proporzioni abbastanza rilevanti nelle campagne e in appezzamenti abbastanza estesi” chiamati “melonare” e “facilmente accessibili ai ruotabili”. Questi appezzamenti devono essere “dei migliori per qualità della terra e venire abbondantemente concimati”. Il Melone Precoce di Verona, costituisce una delle principali produzioni frutticole della Bassa e dell’Est veronese e ha conosciuto uno sviluppo qualitativo e quantitativo di tutto rispetto. Attraversando la campagna veronese si incontrano infatti distese di coltivazione di melone sotto serra. È un prodotto molto apprezzato, radicato al territorio del quale è una particolare espressione.

Descrizione del prodotto: La denominazione “Melone Precoce Veronese” è riservata alla produzione ottenuta in coltura protetta. Ha forma ovoidale con circonferenza compresa tra 36 e 47 cm; peso compreso tra 900 e 2000 gr; aspetto esterno tipico del “reticulatus” con retatura ben marcata in colore verde e uniforme su tutta la superficie esterna che invece si presenta di colore giallo; polpa di colore arancio salmone, succulenta, di buona consistenza, di sapore dolce, leggermente acidulo e con retrogusto pepato, tipico aroma delicato che si intensifica con il taglio.

Processo di produzione: Il melone è una pianta annua, erbacea, rampicante. Ha un apparato radicale molto espanso e profondo con elevata capacità estrattiva che rende la pianta molto resistente alla siccità. Richiede terreno fertile e ben lavorato e temperature piuttosto elevate. Le caratteristiche peculiari del Melone Precoce di Verona sono determinate dalla coltivazione su terreni altamente permeabili e dalla tecnica di produzione in tunnel che produce ottimali condizioni di temperatura e umidità. I frutti dopo la raccolta, devono sostare in luoghi freschi ed ombreggiati; il trasporto ed il condizionamento e le eventuali operazioni di selezione e lavaggio devono essere effettauate con cura per non danneggiare il prodotto.

Reperibilità: Il melone precoce veronese è reperibile da fine maggio ai primi di luglio nei mercati del veronese e di quasi tutto il Veneto.

Usi: Ricchissimo di acqua e povero di zuccheri il melone è particolarmente ricco di vitamine. È utilizzato come semplice frutto oppure in gelateria, ma anche in abbinamento con carne e pesce (il più classico è melone e prosciutto crudo).

Nettarina di Verona

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Bussolengo, Castel d’Azzano, Mozzecane, Pastrengo, Pescantina, S. Giovanni Lupatoto, Sommacampagna, Sona, Valeggio sul Mincio, Villafranca di Verona, Povegliano, Vigasio, Isola della Scala, Oppeano, Palù, Ronco all’Adige, Bovolone, Isola Rizza, Roverchiara, Albaredo d’Adige, Bonavigo, Angiari, Minerbe, Boschi S. Anna, Bevilacqua e Terrazzo e parte dei comuni di Castelnuovo del Garda, Lazise, S. Ambrogio di Valpolicella, S. Pietro Incariano, S. Martino Buonalbergo, Verona, Zevio e Legnago.

La storia: Le prime tracce della presenza della coltivazione del pesco nella pianura veronese dell’Adige risalgono all’VIII sec. d.C., poco dopo la sua introduzione in Italia dall’Oriente. Nel XVIII sec. le pesche veronesi (delle quali le nettarine erano considerate una varietà) erano già ritenute prodotti dalle caratteristiche eccellenti. Alla fine del ‘700 Benedetto del Bene, in uno dei suoi diari conservati nell’Archivio di Stato di Verona, annota la propagazione di pesche noci nel suo “brolo” di Verona. La diffusione di pescheti si estende alla fine del XIX secolo ed è confermata negli “Atti della Giunta per l’Inchiesta Agraria” del 1882, coordinati da S. Iacini, dove viene indicata la cultivar detta “della Regina” come la più importante delle pesche noci della seconda metà del XIX secolo. Alla fine degli anni 20 del Novecento nacquero le prime forme associative locali di produttori, che esportavano all’estero, verso Svezia, Gran Bretagna, Francia, Germania e persino Alessandria d’Egitto. Lo sviluppo più importante della coltivazione si è avuto tuttavia solo all’inizio degli anni 70 del ‘900, quando sono state introdotte delle varietà a frutto grosso selezionate negli Stati Uniti.

Descrizione del prodotto: La denominazione “Nettarina di Verona” è riservata ai frutti a polpa bianca e a polpa gialla delle varietà a maturazione precoce, media e tardiva appartenenti alla specie Persica laevis, DC. La “Nettarina di Verona” si distingue per il colore dell’epidermide dei frutti, più intenso e brillante rispetto a quello che contraddistingue di norma ciascuna cultivar. Inoltre la polpa è consistente, succosa, di sapore caratteristico. Il calibro minimo dei frutti, per le varietà precoci, è pari a 61 mm mentre per le quelle medie e tardive è di 67 mm.

Processo di produzione: La coltura delle Nettarine di Verona ha trovato nel territorio della provincia scaligera una zona ideale per svilupparsi. La presenza del Lago di Garda che mitiga il clima e i terreni di origine alluvionale creati dal corso dell’Adige, hanno permesso una specializzazione della coltura che è riuscita a produrre frutta di grande qualità. Le tecniche colturali, le concimazioni e i trattamenti antiparassitari utilizzati, sono rispettosi dell’ambiente ed effettuati con i sistemi propri della “difesa integrata”. La raccolta del prodotto avviene a mano e successivamente si provvede alla calibrature e al confezionamento. Il prodotto viene subito avviato alla commercializzazione oppure può essere conservato per qualche giorno in celle frigorifere.

Reperibilità: Le Nettarine sono reperibili da giugno a settembre presso qualsiasi mercato al dettaglio.

Usi: Le nettarine vanno per lo più consumate fresche e sono molto utilizzate in pasticceria per la preparazione di canditi e come guarnizione dei dolci.

Pesca di Verona IGP

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Bussolengo, Castel d’Azzano, Mozzecane, Pastrengo, Pescantina, S. Giovanni Lupatoto, Sommacampagna, Sona, Valeggio sul Mincio, Villafranca di Verona, Povegliano, Vigasio, Isola della Scala, Oppeano, Palù, Ronco all’Adige, Isola Rizza, Roverchiara, Albaredo d’Adige, Bonavigo, Angiari, Minerbe, Boschi S. Anna, Bevilacqua e Terrazzo e parte dei comuni di Castelnuovo del Garda, Lazise, S. Ambrogio di Valpolicella, S. Pietro Incariano, S. Martino Buonalbergo, Verona, Zevio e Legnago.

La storia: Le testimonianze documentali sulla tradizione della coltura del pesco sono numerose. Si citano quelle contenute nel volume di A. Valerini “Le bellezze di Verona” del 1584, e nel “Gioco della Cucagna” che descrive i costumi del XVII secolo le “principali prerogative delle città d’Italia circa le robbe mangiative”, vengono segnalate le “persiche di Verona”. C. Tonini nelle sue “Osservazioni agrarie della Provincia di Verona per l’anno 1877” sottolinea, oltre lo straordinario impulso ricevuto dalla coltivazione del pesco, l’esportazione delle “belle voluminose” pesche “spiccatoie e poscia duracine” verso le mense più esigenti di Germania e Russia per un quantitativo superiore a 10.000 t. Anche Stefano Iacini, negli “Atti della Giunta per la Inchiesta Agraria” del 1882 sottolinea che “la coltivazione dei peschi è molto intensiva nella provincia di Verona fin dai tempi remotissimi”. Inoltre Sormani-Moretti nella monografia “La provincia di Verona”, del 1904, a proposito del pesco ricorda che trattasi “di un sistema di coltura invalso da secoli (…) con esso si mantiene ognora prospera, proficua e vantata la coltivazione del prezioso frutto.

Descrizione del prodotto: La denominazione “Pesca di Verona” è riservata ai frutti a polpa bianca e a polpa gialla delle varietà a maturazione precoce, media e tardiva appartenenti alla specie Persica vulgaris, Mill. La “Pesca di Verona” si distingue per il colore dell’epidermide dei frutti, più esteso e intenso rispetto a quello che contraddistingue di norma ciascuna cultivar. Inoltre la polpa è consistente, succosa, di sapore caratteristico. È caratterizzata da forma rotondeggiante e divisa da un solco longitudinale. La polpa, acidula e succulenta, racchiude un nocciolo con mandorla intera. Il calibro minimo dei frutti, per le varietà precoci, è pari a 61 mm mentre per quelle medie e tardive è di 67 mm.

Processo di produzione: La zona di produzione è caratterizzata dal clima temperato dalla vicinanza del Lago di Garda e da terreni di origine fluvio-glaciale che contraddistinguono l’alta pianura veronese e le colline sulla sponda sud-orientale del lago. Le tecniche colturali adottate sono rispettose dell’ambiente e la difesa dalle malattie è svolta con i sistemi propri della “difesa integrata”, secondo le norme del Piano nazionale e regionale. A mano o per mezzo di una macchina calibratrice, i frutti vengono confezionati e avviati alla commercializzazione o verso le celle frigorifere che li possono conservare per alcuni giorni.

Reperibilità: Da giugno a settembre sono reperibili presso qualsiasi mercato al dettaglio.

Usi: Oltre che consumate fresche, le pesche sono utilizzate nella preparazione di confetture, marmellate e succhi.

Ciliegie durone di Cazzano

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Verona, comune di Cazzano di Tramigna

La storia: Le origini del ciliegio nel territorio veronese risalgono ad epoche antiche, anche se notizie di un certo interesse si ritrovano a partire dall’inizio del XIX secolo. A fine Ottocento il Regio Prefetto conte Luigi Sormano Moretti, nella sua Monografia della provincia di Verona fornisce notizie dettagliate sulle varietà coltivate: “Frutta.- […]Di ciliegi ve n’ha buona quantità specialmente quelli a frutto rosso cupo e le varietà più conosciute distinguosi, giusto l’ordine di loro maturazione qui in: …more piccole o pegolotte; more o pertegaize”. La coltivazione del ciliegio era tuttavia attuata soprattutto per il consumo locale, con piante sparse nei broli familiari o demandata a segnare i “termini” (confini) fra proprietà. La prima vera diffusione del ciliegio, nell’area collinare veronese, si attua dopo la prima Guerra mondiale e ancor più dopo la seconda Guerra mondiale. Tuttavia sono ancora rari i ciliegeti specializzati e solo con l’introduzione della legislazione per la D.O.C. dei vini in cui s’impone l’assoluta specializzazione del vigneto, il ciliegio esce dai filari e si perfeziona l’assortimento con varietà d’origine locale Mora di Cazzano. A Cazzano di Tramigna, nella prima settimana di giugno, si tiene da oltre sessant’anni un’importante Mostra Provinciale delle Ciliegie, dove la “Mora di Cazzano”, rappresenta la principale attrazione.

Descrizione del prodotto: La Ciliegia di Cazzano appartiene alla specie Prunus avium U. Ha forma rotondeggiante, di pezzatura medio-grossa e colore rosso brillante, mediamente resistente alle spaccature da pioggia. Il sapore è ottimo, caratterizzato da una particolare consistenza e croccantezza. La resistenza alle manipolazioni risulta molto elevata.

Processo di produzione: La specializzazione dei Ceraseti si ha nella zona orientale della provincia di Verona, dove i terreni sono magri, poco profondi e spesso siccitosi. L’albero è molto vigoroso con portamento mediamente espanso,caratterizzato da una lenta messa a frutto e da una produttività media, talvolta scarsa e comunque fortemente condizionata dalle condizioni climatiche durante la fioritura. La raccolta, che deve avvenire a giusta maturazione, e il confezionamento della Durona di Cazzano sono effettuati rigorosamente a mano. Devono essere tenute in un luogo fresco e poco umido, in considerazione del fatto che sono altamente deperibili e vanno consumate entro pochi giorni dalla raccolta.

Reperibilità: La produzione della Mora di Cazzano viene stimata intorno ai 2.500 quintali, avviati al dettaglio attraverso il mercato veronese di Montecchia di Crosara.

Usi: Le ciliegie contengono vitamine, proteine, zucchero, sali minerali e posseggono principi disintossicanti e depurativi. Hanno inoltre un’azione diuretica, antiurica e sono moderatamente lassative. Vengono normalmente consumate fresche ma sono anche utilizzate per la produzione di marmellate, sciroppi, succhi e canditi.

Kiwi di Verona

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Garda, Bardolino, Lazise, Peschiera, Castelnuovo del Garda, Valeggio sul Mincio, Cavaion Veronese, Costermano, Affi, Rivoli Veronese, Bussolengo, Pescantina, Sona, Sommacampagna, Villafranca di Verona, Povegliano Veronese, Castel d’Azzano, Buttapietra, San Giovanni Lupatoto, Zevio, Mozzecane, Verona, San Martino Buon Albergo, Pastrengo, Caldiero, Belfiore, Ronco all’Adige, Palù, Oppeano, Bovolone, Isola della Scala, Isola Rizza, Vigasio, Erbè e parte del territorio dei comuni di Sant’Ambrogio di Valpolicella, Dolcè, Brentino Belluno, Caprino Veronese, Sorgà e Trevenzuolo.

La storia: Il kiwi è un frutto originario della Cina di cui si è avuta notizia dalla metà del XIX secolo, importato nel 1973, ed in pochi anni la sua coltivazione si è estesa a tal punto da far divenire il Paese il primo produttore mondiale. Il Veneto è uno dei principali produttori di questo frutto e la zona del Lago di Garda, grazie alla mitezza del clima, si è dimostrata particolarmente vocata perché la pianta ha trovato delle condizioni climatiche molto simili a quelle originarie (Nuova Zelanda), fornendo un prodotto di tipica caratterizzazione organolettica.

Descrizione del prodotto: La pianta del kiwi presenta fiori giallo arancio e foglie tomentose sulla pagina inferiore dovuta ai peli stellati. I frutti presentano una forma cilindrica regolare con buccia di colore bruno su fondo verde, tomentata, con peli di colore bruno lunghi 2-3 mm che si staccano con facilità alla spazzolatura. La polpa, di colore verde brillante, è ricca di piccoli semi neri disposti al centro del frutto ed è contraddistinta da scarsa consistenza dell’asse centrale del frutto (columella) quando è pronto per il consumo. Il peso dei frutti è superiore a 90 grammi, mentre il sapore agrodolce presenta tipici aromi che richiamano fragola, uva e ananas.

Processo di produzione: Il kiwi viene coltivato in campo aperto e in filari simili a vigneti. La coltura viene coperta con reti anti grandine al fine di preservare la qualità del prodotto. Il frutto maturo è molto delicato e va maneggiato con cura per evitare di rovinarlo. Dopo la raccolta, che avviene manualmente, il prodotto viene confezionato in padella con uno strato ad alveoli singoli per proteggerlo. Una volta imballato può essere avviato subito alla commercializzazione o venire conservato in celle frigorifere per qualche giorno.

Reperibilità: Il frutto è reperibile presso qualsiasi mercato al dettaglio in quasi tutto il territorio regionale da ottobre a gennaio.

Usi: Il kiwi è un frutto ricco di fosforo e calcio e ricchissimo di vitamina C, tanto che un solo frutto può coprire l’intero fabbisogno giornaliero di un adulto di questa vitamina. Viene consumato crudo, tagliato a fettine sottili ed è molto usato in pasticceria per guarnire dolci e gelati. Può essere utilizzato anche in abbinamenti per secondi piattio a base di prosciutto o di pesci affumicati.

Pere del Veronese

Territorio interessato alla produzione: Comuni di: Verona, Zevio, Palù, Belfiore d’Adige, Ronco all’Adige, Albaredo d’Adige, Bonavigo, Minerbe, Bevilacqua, Boschi Sant’Anna,Terrazzo, Legnago, Roverchiara, Oppeano, Angiari.

La storia: La presenza di piante di pero nella provincia veronese è ampiamente riportata nella “Monografia della provincia di Verona” del Regio Prefetto conte Luigi Sormano Moretti (Firenze 1904) in cui si fa un’ampia disamina delle varietà coltivate in quel periodo, sottolineando il carattere promiscuo della coltivazione. Subito dopo la Seconda guerra mondiale, nel 1947, la situazione degli impianti di pero nel veronese era limitata a 258 ettari a coltura specializzata, con una produzione di 23.940 quintali e 790 ettari a coltura promiscua, con una produzione di 55.240 quintali. Dieci anni dopo , 1956, la coltura specializzata saliva a 252 ettari e quella promiscua a 1.040 (Bargioni G. Istituto di Frutticoltura di Verona, 1959). “E’ interessante far notare che la coltura promiscua di pero nel veronese era costituita da impianti con filari regolari, più o meno distanziati in modo da poter effettuare fra essi, abbastanza agevolmente, anche coltivazioni erbacee. S’otteneva così una coltivazione non specializzata, ma che pur rappresentava un’importante coltura per l’azienda. […].” (25 Anni di agricoltura veronese 1946- 1970 – Associazione provinciale dottori in scienze agrarie- Verona 21 novembre 1971) “Il pero occupa a Verona il terzo posto fra le specie da frutto, […] il pero nel Veronese non ha mai avuto una diffusione particolarmente ampia; pur avendo cominciato la sua evoluzione agli inizi degli anni Cinquanta. […]” (“L’agricoltura veronese un settore dinamico verso il futuro” C.C.I.A.A. e Banca Popolare di Verona – Verona 1988). La superficie investita a pero nel veronese è di ettari 6.265 con una produzione di 2.486.250 quintali (“Relazione sulla situazione economica del Veneto nel 1999”, Unioncamere).

Descrizione del prodotto: La denominazione “Pere di Verona” è riservata alle pere appartenenti alla specie Pyrus communis, delle seguenti tipologie: Kaiser Alexander, William, Conference, Abate Fétel, Decana del Comizio, William Rosso, Passa Crassana, Dr. Jules Guyot. Pur appartenendo a varietà differenti, i frutti si distinguono per elevata croccantezza, aroma delicato, ottimo equilibrio gustativo e devono presentare la forma, lo sviluppo e la colorazione tipici della varietà e conservare il peduncolo intatto. Il calibro dei frutti non deve essere inferiore ai 55 mm.

Processo di produzione: Nella coltivazione del pero i migliori risultati si hanno in terreni a medio impasto, profondi, non troppo calcarei, umidi o sabbiosi. Le varietà coltivate oggi in Italia, e anche nel veronese, si possono classificare in estive, con maturazione da luglio ad inizio settembre o autunno/vernine, con maturazione da settembre a oltre dicembre. La raccolta dei frutti si fa a mano e generalmente con un certo anticipo rispetto alla maturazione. La pere vengono poi conservate in magazzini e celle frigorifere prima di essere avviate alla vendita.

Reperibilità: Data la presenza di differenti varietà coltivate, la pera è reperibile in tutti i mercati al dettaglio, durante tutto l’anno.

Usi: La pera, disponibile per gran parte dell’anno, si consuma al naturale o cotta in sciroppo di zucchero e si utilizza nelle macedonie di frutta. Viene largamente utilizzata da parte dell’industria alimentare per la produzione di succhi e sciroppati.

Marrone di San Mauro

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione del “Marrone di San Mauro dei Monti Lessini Veronesi” comprende l’intero territorio dei comuni di San Mauro di Saline, Badia Calavena, Tregnago e parte del territorio dei comuni di Roverè Veronese, Selva di Progno e Mezzane di Sotto.

La storia: Riferimenti specifici alle castagne veronesi sono datati 1584 quando Adriano Valerini in “Le bellezze di Verona”, sottolineandone le rilevanti dimensioni del frutto, parla di “castagne che vengono tanto grosse”. Ma è verso la fine dell’800 che si comincia a distinguere sistematicamente la castagna dal marrone, identificando quest’ultima per i frutti di maggiori dimensioni e migliore qualità. Precisi riferimenti circa la localizzazione dei castagneti si trovano nella monografia “La provincia di Verona”, scritta all’inizio del secolo dal Prefetto Sormani-Moretti che, nel computo della produzione riferita al triennio 1891-93, rileva il notevole contributo del territorio dei Monti Lessini alla produzione di castagne. Egli inoltre sottolinea la diffusa presenza in Lessinia della varietà domestica “la quale produce marroni” che si distingue dalla varietà selvatica che invece “dà propriamente castagne”. Il ruolo significativo del castagno anche nella cultura delle genti dei Monti Lessini, emerge nella bibliografia sulla tradizione popolare veneta; il noto studioso Dino Coltro nel suo volume “Santi e contadini. Lunario della tradizione orale veneta” (1994) cita l’antica esistenza, in Lessinia, di gruppi di giovani (i butari) che prestavano la loro opera ai proprietari dei castagneti utilizzando, per la battitura, pertiche di varia misura (la simarola, la medana, la longa in ordine crescente di lunghezza) e, quando necessario, una particolare scala a pioli detta silon. Ogni anno si tiene a San Mauro la tradizionale Festa dei Marroni.

Descrizione del prodotto: La denominazione “Marrone di San Mauro dei Monti Lessini Veronesi” è riferita ai frutti prodotti da castagni appartenenti alla specie Castanea Sativa Mill.; si tratta di un biotipo che si è selezionato naturalmente sotto l’influenza dell’ambiente pedoclimatico della Lessinia Veronese. La forma è ovoidale, quasi ellittica, con apice poco rilevato, interessato da una leggera pelosità terminante con residui stilari (torcia); la buccia è sottile, di colore marrone-rossiccio, brillante, marcato con striature più scure; la polpa di colore biancastro, consistente, croccante e di sapore dolce è ricoperta da una pellicina di colore nocciola, che si stacca facilmente. La pezzatura è medio grossa essendo presenti circa 90 frutti per chilogrammo di prodotto. Il frutto si trova all’interno di un riccio ricoperto di aculei nel quale si possono trovare 2 o 3 marroni.

Processo di produzione: La castanicoltura si attua senza effettuare trattamenti chimici o antiparassitari. La raccolta dei frutti avviene secondo metodi tradizionali, bacchiando attraverso pertiche di canna i rami degli alberi per provocarne la caduta. Successivamente i ricci vengono recuperati e messi a conservare in ricciaia, a terra. I frutti, prima della immissione al consumo, possono andare soggetti a trattamenti di cura e sterilizzazione da effettuarsi solo con tecniche fisiche, senza l’uso di additivi di sintesi e tali da preservare e migliorare i caratteri di tipicità.

Reperibilità: Da settembre a dicembre inoltrato, il prodotto è facilmente reperibile sia nella zona di produzione che presso i mercati al dettaglio di tutto il Veneto centro occidentale.

Usi: Il marrone è un ingrediente perfetto per la preparazione di dolci e confetture (nel 1933 la marronata, confettura di marroni, fu elaborata dalla famiglia Vivaldi, sulle rive del Garda veneto, ma con i marroni di San Zeno), ma può anche essere utilizzato come ingrediente in molti altri tipi di piatti, dalla preparazione di ottime zuppe e salse a quella di deliziosi secondi.

Marrone di San Zeno DOP

Zona di produzione: La zona di produzione e trasformazione del Marrone di San Zeno è situata fra m 250 e m 900 slm., appartenente al territorio del Monte Baldo, che è compreso tra il Lago di Garda e la valle del Fiume Adige. Comprende parti dei seguenti comuni: Brentino-Belluno, Brenzone, Caprino Veronese, Costermano, Ferrara di Monte Baldo e San Zeno di Montagna, tutti compresi nella zona omogenea della Comunità Montana del Monte Baldo

Tipologia: Frutta secca della varietà locale Marrone appartenente ad una serie di ecotipi della specie Castanea Sativa Mill

Descrizione: I marroni di San Zeno hanno pezzatura variabile, sono di forma elissoidale con apice poco rilevato, facce laterali in prevalenza convesse anche se caratterizzate da un diverso grado di convessità; la base o cicatrice ilare ha una forma tendente al rettangolo e presenta un colore più chiaro della buccia o pericarpo. Quest’ultimo è sottile, lucido, di colore marrone chiaro con striature più scure, evidenziate in senso mediano. Il seme è di colore tendente al giallo paglierino ed è lievemente corrugato.

Usi: Arrostiti nei padelloni bucati (le appetitose caldarroste), lessati nell’acqua o impiegati per le preparazione di gustosissimi dolci come il castagnaccio, i marroni sono l’emblema dell’autunno, i frutti che meglio racchiudono l’essenza dei sapori e dei colori di questa stagione. Nelle zone di montagna hanno rappresentato per secoli uno dei principali alimenti: con la farina si preparavano infatti anche il pane, la pasta e la polenta. Il marrone, ricco di amido, di calorie (un etto di prodotto fresco corrisponde a 200 calorie, secco arriva a 300), di proteine, sali minerali e vitamine, è infatti estremamente nutriente ed energetico, sano e facilmente digeribile. Sia la diregibilità che l’apporto calorico variano a seconda dello stato e del tipo di cottura. A “crudo” la digeribilità è piuttosto scarsa mentre l’apporto calorico si assesta intorno alle 150 calorie per etto. La bollitura ne aumenta la digeribilità e riduce l’apporto calorico a circa 120 calorie per etto, mentre l’arrostitura lo riporta intorno alle 200 calorie.

Sagre: I primi riferimenti storici sulla coltivazione del castagno risalgono, infatti, al Medioevo mentre, a partire dagli anni ’20, prese il via nel Comune di San Zeno di Montagna la tradizionale sagra del marrone, tramandata fino ai giorni nostri con il nome di ‘Mostra Mercato del Marrone’

Riferimenti normativi: Prodotto IGP, Regolamento (CE) n. 1979/2003 della Commissione, dell’11 novembre 2003 pubblicato sulla GUCE n. L 294 del 12/11/2003

Castagne del Baldo

Territorio interessato alla produzione: Intero territorio del comune di San Zeno di Montagna (VR)

La storia: La presenza del castagno nel veronese, in particolare nella zona d’interesse delle “Castagne del Baldo” è antica e lo testimoniano sia la documentazione storica sia la presenza di alberi secolari. Nel 1566 Francesco Calzolari, studioso ed erborista, nel suo Viaggio di Monte Baldo della magnifica città di Verona scriveva: “…delle antiche et frondute selve di faggi, elce e quercie, alcune di castagne sole, altre di pini ed abeti”. Giuseppe Solitro, a fine dell’Ottocento, riportava nel suo volumetto Benaco (Salò 1897): “col noce confuso, e più alto ancora, sulla cima già ardua, cresce gigante il castagno, col nocchiuto pedale e le tortuose radici che lo tengono saldamente confitto a terra. Nei prati verdeggianti si leva solitario o a gruppi, e protegge dalla pioggia repentina e dal cocente raggio del mezzodì il pastore e la mandria che gli chiedono ricovero e ristoro”. Interessante è anche ciò che afferma Luigi Sormano Moretti (Firenze 1904) nella sua monumentale opera Monografia della provincia di Verona: “ Se non che tra i boschi a latifoglie devonsi qui specialmente distinguere i castagneti, dei quali, livellandosi ad altitudini che oscillano tra 830 ed 850 metri per discendere giù sino circa ai metri 250, hannovene, in Provincia, non pochi….Tali boschi, dei quali ve n’ha dunque anche fuori la zona di stretta vigilanza forestale, sono vantaggiosi dando diversi e buoni profitti. Hanno castagni di varietà o selvatica che di propriamente castagne o domestica le quali produce marroni e prosperano entrambe nelle località al riparo dai venti settentrionali.” L’introduzione di altre specie arboree, il turismo e l’industrializzazione hanno provocato un abbandono della coltura dal dopoguerra agli anni ’70. Dall’inizio degli anni ’80 si è rinnovato un certo interesse verso il castagno. A San Zeno di Montagna, da oltre un trentennio, nella seconda domenica di novembre si tiene la “Sagra delle Castagne”, che richiama dal veronese numerosissimi visitatori.

Descrizione del prodotto: La Castagna del Baldo è un frutto amidaceo di forma rotondeggiante con pasta farinosa di color bianco e rivestita da una sottile pellicola bruna e grinzosa. Racchiusa in una buccia marrone, con apice appuntito, è protetta da un riccio ricoperto di aculei nel quale si possono trovare 2 o 3 frutti.

Processo di produzione: La castanicoltura si attua con metodi assolutamente naturali e biologici, senza effettuare trattamenti antiparassitari e chimici sulle piante, cosicché i frutti risultano essere assolutamente genuini. A maturazione avvenuta, i ricci che contengono le castagne vengono bacchiettate, secondo metodi tradizionali, con lunghe pertiche di canna e, una volta caduti a terra, sono raccolti, accumulati e conservati in ricciaia, a terra. La conservazione si attua per un periodo molto limitato, in quanto la castagna è un prodotto da consumare fresco, e pertanto va avviata alla commercializzazione entro pochi giorni.

Reperibilità: Il prodotto è reperibile da metà settembre a metà dicembre, presso tutti i mercati della zona di produzione.

Usi: Le castagne sono prodotti dal sapore intenso, adatto ad un consumo fresco, previa cottura (in forno, lessate) ma che si sposa perfettamente con altri sapori, conferendo a vari piatti un gusto agrodolce.

Agresto

Materia prima: uva non matura raccolta nel mese di luglio (lugliatica).

Tecnologia di lavorazione: i grappoli di uva acerba vengono mostati in un piccolo tino e il succo raccolto va messo in una botticella ed esposto al sole per un certo tempo. Un altro metodo consiste nel far bollire il mosto fino a ridurlo di due terzi. Oppure si passava il mosto al setaccio versandolo poi in piccoli recipienti esposti al sole per tre o quattro giorni. Il prodotto che ne risultava era denso e si conservava in vasi. Al momento dell’uso se ne stemperava una piccola quantità in acqua o brodo per dare carattere ai cibi o anche per preparare bibite rinfrescanti.

Maturazione:

Area di produzione: Area della Padania (solo a livello amatoriale).

Calendario di produzione: estate.

Note: nel Medio Evo era il condimento per eccellenza, sempre presente sia sulla mensa dei ricchi che su quella dei poveri. Dal gusto piacevolmente acidulo ma non aggressivo come l’aceto, è stato fino alla fine del secolo scorso il condimento più usato. Nel Nord Europa lo preparavano con le mele acerbe. Aveva anche proprietà terapeutiche e veniva indicato negli stati febbrili, nelle angine e nelle stomatiti. Il suo declino coincide con la diffusione della coltura del pomodoro, la cui salsa venne usata proprio sui piatti precedentemente insaporiti con l’agresto.

Sapore d’uva

Materia prima: mosto, acini d’uva, senape, aceto.

Tecnologia di lavorazione: al mosto si aggiungono gli acini d’uva. Si porta ad ebollizione e si lascia raffreddare. Si passa al setaccio, si invasa aggiungendo senape ed aceto. Viene usato per insaporire le vivande e per la preparazione di dolci.

Maturazione:

Area di produzione: area della Padania.

Calendario di produzione: autunno.

Note: molte erano le preparazioni a base di mosto, uva e spezie varie. Servivano per dare tono a piatti per lo più semplici e dal sapore monotono, quando ancora non c’erano dadi concentrati, salse di pomodoro e agrumi a buon mercato.

Conserva di rose

Materia prima: petali di rosa canina.

Tecnologia di lavorazione: le rose vengono sfogliate e ad ogni petalo si recide la “unghia”, ossia quella parte del petalo attaccata alla corolla, perché di sapore amarognolo. I petali così tagliati si mettono in una terrina aggiungedovi una pari quantità di zucchero e del limone spremuto. Strofinarli bene con le mani per favorire la rottura delle fibre e la fuor uscita degli umori. Si lascia macerare il tutto per qualche tempo, si incorpora dello sciroppo di zucchero preparato a parte lasciando bollire fino al raggiungimento della giusta consistenza. Si mette nei barattoli e si chiudono ermeticamente conservandoli al buio.

Maturazione:

Area di produzione: tradizionale in Piemonte, Veneto e Toscana.

Calendario di produzione: maggio e giugno.

Note: La conserva di rose, tradizionale in Piemonte, viene fatta anche nel convento dell’isola di S.Lazzaro, ad opera dei fratelli armeni, ma solo per uso interno. Le conserve di rosa che si trovano in commercio sono quasi tutte importate dai paesi dell’Est europeo, soprattutto dalla Bulgaria.

Savor

Materia prima: mosto d’uva, mele cotogne, pere, fichi e zucca.

Tecnologia di lavorazione: al mosto si aggiungono le mele cotogne, i fichi, la zucca, le pere, talvolta anche le scorze d’arancio, senza aggiungere zucchero. Si lascia bollire fino a completa evaporazione dell’acqua, si conserva per anni nei vasi di vetro riposti al riparo dalla luce in luogo fresco.

Maturazione:

Area di produzione: Emilia Romagna, Veneto, Friuli e altre parti d’Italia con diverse varietà di frutta e di gusti. A Bologna e in altre aree emiliane ne esiste una versione semplificata senza scorze d’arancio, senza fichi e persino senza zucca.

Calendario di produzione: tutto l’autunno, periodo della vendemmia.

Note: il “savor” é la base dei tortelli di castagne e delle crostate familiari del modenese. Un tempo la conserva veniva fatta essiccare, al pari della cotognata, e conservata in scatole di latta. Si racconta che per neutralizzare i sali di rame provenienti dal recipiente di cottura – di solito il paiuolo di rame – le massaie ci mettessero una noce. Al gesto gli antropologi attribuiscono un valore apotropaico. Tradizionalmente il savor veniva utilizzato per accompagnare ogni tipo di bollito compresi cotechino e zamponi. Nelle altre regioni d’Italia era (ed é) ingrediente fondamentale di alcune preparazioni dolciarie.

Fugassa veneta

FUGASSA PADOVANA (Padova e provincia);
FUGASSA VENETA (prodotto in gran parte della regione Veneto ed in particolare nelle province di Padova e Venezia).

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Dolce tipico di cucina casalinga, prodotto in tutta le province del Veneto da tempo immemorabile, codificato nella raccolta di ricette di cucina tipica di Giovanni Bianco Menegotti (1967), raffigurata anche nei disegni dei mosaici di Erode nella Basilica di San Marco.

Descrizione del prodotto:

Fugassa padovana: prodotto con farina, lievito, latte, uova, zucchero, burro, buccia di limone e sale.

Focaccia: farina, burro, zucchero, uova, ricoperto di marzapane, mandorle e granella di zucchero.

Sono entrambe di forma rotonda con un diametro variabile di circa 25-30 cm e un colorito giallo-dorato.

Processo di produzione: Prodotto artigianalmente nell’impasto e nella lavorazione: gli ingredienti vengono amalgamati, lasciati a riposo e cotti in forno. Per una buona riuscita della focaccia è necessario ripetere l’impasto più volte prima della lievitazione finale. La conservazione del prodotto imballato può durare anche per 9 – 12 mesi.

Reperibilità: Il prodotto si può trovare presso alcune pasticcerie o nei menù di alcuni ristoranti.

Usi: Inizialmente dolce poverissimo della cucina popolare, oggi è diventato tipico della festività di Capodanno, arricchita con le mandorle e lo zucchero. Ottimo se accompagnato con vino dolce.

Pandoro di Verona

NADALIN; PANDORO DI VERONA

Territorio interessato alla produzione: Verona e provincia

La storia: Le origini del pandoro si legano al pan de oro un dolce conico della Serenissima, riservato ai nobili, che veniva ricoperto da sottili foglie d’oro zecchino. Tuttavia la morbidezza dell’impasto fu importata da Vienna dove pasticceri italiani producevano brioche per la Casa Reale Asburgica. Questo dolce diventò nel 1260 una specialità natalizia veronese detta nadalin con base a forma di stella a otto punte non molto alto. Il nadalin fu creato per festeggiare il primo Natale dopo l’investitura dei nobili Della Scala a Signori di Verona. Solo nell’ottocento il dolce cambiò forma: venne alzato, le punte ridotte a cinque e chiamato pandoro. Questo si diversificava dal nadalin per la morbidezza dell’impasto e per la mancanza della glassa. Ben presto il pandoro divenne il simbolo di Verona che, riprodotto con latterizi, veniva utilizzato come decoro delle colonne nelle abitazioni dei nobili.

Descrizione del prodotto: Il pandoro di Verona è composto da: lievito madre (succo di mela, farina, acqua), tuorlo d’uovo, zucchero, farina, burro di cacao, burro, bacche di vaniglia, sale.

Processo di produzione: Ha una lavorazione lunga e laboriosa che dura quattro giorni. Si prepara il lievito madre, lo si rimpasta almeno 3 volte con aggiunta di acqua tiepida e farina; si aggiunge il tuorlo d’uovo, lo zucchero, il sale, la vaniglia e la farina. Con il burro, il burro di cacao e il tuorlo d’uovo si fa un’emulsione che si aggiunge all’impasto. Si lascia riposare l’impasto per 30 minuti in cella; poi si esegue la pezzatura dell’impasto nei formati richiesti quindi, il tutto ritorna in cella per riposare altre 12 ore al termine delle quali il prodotto viene infornato e quindi lasciato raffreddare negli stampi. Quando il prodotto è freddo si può levarlo dagli stampi per il confezionamento.

Reperibilità: Durante il periodo natalizio il prodotto è reperibile presso pasticcerie e negozi alimentari.

Usi: Abbinato molto spesso con il vino Recioto della Valpolicella

Pasta frolla della Lessinia

Territorio interessato alla produzione: Monti Lessini (VR)

La storia: Le origini di questa ricetta risalgono a metà dell’ottocento. Fu creata a Roverè Veronese, località montana a 900 metri d’altitudine.

Descrizione del prodotto: Torta molto fraibile a base di farina, burro e zucchero. Ingredienti: zucchero, tuorli d’uovo, burro veronese, strutto, farina, sale, vaniglia, buccia di limoni grattuggiata, lievito in polvere.

Processo di produzione: Si impasta zucchero, burro e strutto quindi si unisce la vaniglia e la buccia di limone grattugiata. Nella seconda fase si miscelano uova, sale e acqua a velocità elevata; poi si aggiungono, amalgamandoli a bassa velocità, la farina e il lievito in polvere. L’impasto così formato viene scaricato su di un nastro che lo porta allo sgranatore per essere sbriciolato. Attraverso altri nastri il prodotto arriva ad un rullo che stampa la forma. Le frolle formate passano sotto lo zuccheratore che le ricopre con un velo di zucchero semolato. Il prodotto passa attraverso il forno a tunnel ciclotermico suddiviso in cinque zone di cottura dove, complessivamente, il prodotto rimane per circa 15 minuti.

Reperibilità: Si trovano in commercio presso pasticcerie e negozi alimentari della provincia veronese.

Usi: Ottima con vino da dessert.

Carfogn

CARFOGN: Val Biois, comuni di Falcade, Vallada Agordina, Canale D’Agordo, Cencenighe Agordino, S. Tomaso Agordino;
FRITTELLE VENEZIANE: provincia di Venezia;
FRITTELLE DI VERONA: provincia di Verona.

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Sono tipici dolci di carnevale prima solo per clienti danarosi, poi entrati a far parte della cucina popolare. Le frittelle sono il dolce delle feste carnevalesche fin dal Rinascimento. La ricetta originale fu definita da Bartolomeo Scappi cuoco di Papa V. Per la sua grande popolarità e diffusione questo dolce fu definito nel ‘700 “Dolce Nazionale dello Stato Veneto” e per lungo tempo fu prodotto e venduto lungo le calli veneziane in apposite baracche di legno. Come allora anche oggi le “fritole” mantengono inalterata la loro popolarità continuando ad essere preparate, oltre che in pasticceria, nelle case di molte famiglie venete. Anche Carlo Goldoni le nomina nella Commedia “Il Campiello” del 1756. Conosciute sin dal 1500 d.C. sono un prodotto tipico del Carnevale Veronese, che si ricorda come uno dei più vecchi d’Italia.

Descrizione del prodotto:

Carfogn: pasta sfoglia a base di farina di grano, uova e zucchero con ripieno di papavero macinato, zucchero, miele, grappa, biscotti e altri ingredienti che variano da villaggio a villaggio. Tipiche delle zone ladine.

Frittella veneziana: farina bianca 00, uvetta sultanina, zucchero, uova, latte, lievito di birra, zucchero vanigliato, sale, olio di semi (o strutto) per la frittura, aromi (buccia di limone o arancio). Le frittelle erano, un tempo, preparate dai “fritoleri” che cucinavano per le strade, all’aperto o in piccole baracche di legno.

Frittelle di Verona: mele, uva passa macerata nel Marsala, scorze di arancia, canditi pestati, scorza di limone grattugiata, panna, uova, farina, lievito in polvere, latte, sale, vaniglia e zucchero.

Processo di produzione: Si mescolano in una terrina la farina, uova e zucchero facendone un impasto abbastanza tenero. Si aggiunge un pizzico di sale, un po’ di lievito e quindi gli ingredienti che caratterizzano i diversi tipi di frittelle. Si lascia riposare l’impasto per circa 30 minuti e nel contempo si porta a temperatura (170°) l’olio di oliva. Si formano, con il cucchiaio, delle palline che vengono gettate nell’olio bollente; quando l’impasto si rapprende si volta con una schiumarola e si lascia cuocere fino a che assume un colorito marroncino, vengono quindi tolte e posate su di una carta assorbente. Per servirle vengono coperte da un velo di zucchero vanigliato.

Reperibilità: Laboratori di pasticceria

Usi: Ottime con vino dolce

Frittelle di Verona

CARFOGN: Val Biois, comuni di Falcade, Vallada Agordina, Canale D’Agordo, Cencenighe Agordino, S. Tomaso Agordino;
FRITTELLE VENEZIANE: provincia di Venezia;
FRITTELLE DI VERONA: provincia di Verona.

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Sono tipici dolci di carnevale prima solo per clienti danarosi, poi entrati a far parte della cucina popolare. Le frittelle sono il dolce delle feste carnevalesche fin dal Rinascimento. La ricetta originale fu definita da Bartolomeo Scappi cuoco di Papa V. Per la sua grande popolarità e diffusione questo dolce fu definito nel ‘700 “Dolce Nazionale dello Stato Veneto” e per lungo tempo fu prodotto e venduto lungo le calli veneziane in apposite baracche di legno. Come allora anche oggi le “fritole” mantengono inalterata la loro popolarità continuando ad essere preparate, oltre che in pasticceria, nelle case di molte famiglie venete. Anche Carlo Goldoni le nomina nella Commedia “Il Campiello” del 1756. Conosciute sin dal 1500 d.C. sono un prodotto tipico del Carnevale Veronese, che si ricorda come uno dei più vecchi d’Italia.

Descrizione del prodotto:

Carfogn: pasta sfoglia a base di farina di grano, uova e zucchero con ripieno di papavero macinato, zucchero, miele, grappa, biscotti e altri ingredienti che variano da villaggio a villaggio. Tipiche delle zone ladine.

Frittella veneziana: farina bianca 00, uvetta sultanina, zucchero, uova, latte, lievito di birra, zucchero vanigliato, sale, olio di semi (o strutto) per la frittura, aromi (buccia di limone o arancio). Le frittelle erano, un tempo, preparate dai “fritoleri” che cucinavano per le strade, all’aperto o in piccole baracche di legno.

Frittelle di Verona: mele, uva passa macerata nel Marsala, scorze di arancia, canditi pestati, scorza di limone grattugiata, panna, uova, farina, lievito in polvere, latte, sale, vaniglia e zucchero.

Processo di produzione: Si mescolano in una terrina la farina, uova e zucchero facendone un impasto abbastanza tenero. Si aggiunge un pizzico di sale, un po’ di lievito e quindi gli ingredienti che caratterizzano i diversi tipi di frittelle. Si lascia riposare l’impasto per circa 30 minuti e nel contempo si porta a temperatura (170°) l’olio di oliva. Si formano, con il cucchiaio, delle palline che vengono gettate nell’olio bollente; quando l’impasto si rapprende si volta con una schiumarola e si lascia cuocere fino a che assume un colorito marroncino, vengono quindi tolte e posate su di una carta assorbente. Per servirle vengono coperte da un velo di zucchero vanigliato.

Reperibilità: Laboratori di pasticceria

Usi: Ottime con vino dolce

Galani e crostoli

Territorio interessato alla produzione: L’intera provincia di Venezia ma è diffuso anche in tutto il territorio regionale.

La storia: La ricetta viene riportata come ricetta tipica nel libro “Il Veneto in cucina” di Ranieri Da Mosto anno 1978.

Descrizione del prodotto: Tipico dolce del carnevale saporito e leggero, fragilissimo e vaporoso, con forme bizzarre. Ingredienti: farina, zucchero a velo, burro, zucchero, grappa, uova, latte, sale, vino bianco, olio di semi, buccia d’arancio e di limone.

Processo di produzione: Prendere la farina, impastarla con qualche uovo, un po’ di latte, un po’ di zucchero in polvere, burro, un cucchiaio di grappa, vino bianco ed un pizzico di sale (condimento necessario). La pasta va fatta molto soda lavorata su una tavola di legno o su una lastra di marmo. La si fa riposare un po’ senza farla seccare, poi la si stende con un mattarello fino a ridurla allo spessore di una moneta, con un coltello o una rotellina si taglia la pasta a strisce di 4-5 cm di larghezza e 20 cm di lunghezza, infine nel mezzo di ciascun “galano” si fanno altre incisioni che favoriscono la crescita della sfoglia durante la frittura. I galani vanno cotti in padella con molto olio; quando non sono più caldi, li si spolvera di zucchero a velo e si mettono nei vassoi a catasta, cioè a strati disposti per diritto e traverso, facendo attenzione a non romperli, perché i “galani” sono fragilissimi.

Reperibilità: Nei mesi di gennaio e febbraio il prodotto è reperibile presso pasticcerie, forni e negozi alimentari.

Usi: Tipico dolce del carnevale veneto.

Savoiardi di Verona

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Verona.

La storia: Varie aziende in provincia di Verona producono i savoiardi in alcuni casi come attività strettamente artigianale e familiare, in altri con produzione più ampia di livello industriale. Bisogna considerare che i savoiardi erano già presenti a Verona nel 1894. In un incontro culturale dell’epoca vennero serviti “vino passito e dolcetti savoiardi” (dal quotidiano veronese “L’Arena”).

Descrizione del prodotto: Prodotto da forno a base di farina, zucchero (minimo 40%), uova (minimo 23%) e privo di additivi conservanti.

Processo di produzione: La lavorazione prevede diverse fasi. La prima prevede l’impasto delle materie prime: farina, zucchero, uovo pastorizzato. Nella seconda fase l’impasto, allo stato fluido, viene colato negli stampi delle teglie. Le teglie vengono successivamente zuccherate per poter procedere alla velatura dei savoiardi; in questa fase inizia la lievitazione. Nella terza fase il prodotto viene posto nel forno, con tempi di permanenza e temperature di cottura prestabilite. Segue il raffreddamento.

Reperibilità: Presso i rivenditori alimentari il prodotto è reperibile in tutta Italia e anche all’estero durante tutto l’anno.

Usi: Ottimi se inzuppati o “tociai” nel vino, o usati per la lavorazione di dolci.

Sfogliatine di Villafranca

Territorio interessato alla produzione: Il Comune di Villafranca, in provincia di Verona.

La storia: Nella seconda metà dell’800 a Villafranca la Pasticceria Fantoni (1870) inizia la produzione di un dolce particolarmente friabile e delicato, che fin da subito conquista il gusto degli abitanti dei paesi vicini. Da Verona, le famiglie abbienti ordinavano, per le ricorrenze, i battesimi ed i matrimoni, le sfogliatine di Villafranca. A tutti i personaggi famosi che arrivano in visita a Villafranca vengono offerte le sfogliatine di Fantoni.

Descrizione del prodotto: Gli ingredienti principali sono farina, uova e zucchero, oltre a burro e una mano sapiente per tirare la sfoglia.

Processo di produzione: Dopo aver preparato l’impasto, unendo farina, uova e zucchero, eventualmente un po’ d’acqua, la sfoglia viene lavorata secondo il seguente procedimento che viene ripetuto più volte: spinatura della pasta fino ad ottenere uno strato sottile; stesura sulla superficie di parte del burro; piegatura della sfoglia su se stessa più volte. Tale procedura viene ripetuta sulla pasta per più volte a seconda di quante sfoglie si vogliono ottenere sulla pasta.

Reperibilità: Si trovano presso le pasticcerie della zona di produzione.

Usi: Ottime con vino da dessert

Rufiolo di Costeggiola

Territorio interessato alla produzioneIl paese di Costeggiola, frazione del comune di Soave, in provincia di Verona.Descrizione del prodottoIl “rufiolo di Costeggiola” è una sorta di raviolo dolce disegnato su una mezzaluna di pasta, ha dunque la forma del sole nascente (o come la cresta di un gallo) ed è composto da un ripieno avvolto dalla pasta liscia e sottile. Per il ripieno si utilizzano: amaretti, uva appassita, pane grattugiato, brodo di carne, cedrini, mandorle, zucchero, uova, pinoli, rhum, noce moscata, formaggio grana; gli ingredienti della pasta sono farina, uova, latte, sale.Processo di produzioneIl prodotto viene lavorato in tre fasi. Inizialmente si prepara il ripieno del “rufiolo”, che viene lavorato miscelando i vari ingredienti e lasciato riposare per 24 ore. La seconda fase consiste nel preparare la sfoglia di pasta e stenderla, poi si deposita la dose di ripieno richiudendolo sovrapponendo la pasta tagliandola con l’apposito stampo artigianale a forma di “rufiolo di Costeggiola”. A questo punto il dolce viene fritto in abbondante olio di semi.La conservazione deve avvenire in un luogo fresco ed asciutto e al riparo da fonti luminose e deve essere consumato preferibilmente entro 30 giorni dalla data di produzione.UsiIl “rufiolo di Costeggiola” è un dolce particolare, che andrebbe degustato accompagnandolo con vino dolce.ReperibilitàIl prodotto si può gustare durante la festa di S. Antonio del 17 gennaio. In alternativa è reperibile nella zona, presso i rivenditori e i produttori, durante tutto l’anno.La storiaIl “rufiolo di Costeggiola” è un prodotto nato nelle case contadine con ingredienti di recupero, in origine veniva cotto nel brodo e solo successivamente è stato realizzato esclusivamente come dolce.Subito dopo la seconda guerra mondiale, il 17 gennaio, in occasione di Sant’Antonio abate protettore degli animali e patrono del paese di Costeggiola, gli abitanti iniziarono a festeggiare in piazza. Le osterie del paese che erano aperte in quella data portavano sui tavoli, piatti di “rufioi” di Costeggiola, accompagnati da un buon bicchiere di vino. Nel 1949 è iniziata la prima sagra paesana, chiamata appunto dei “rufioi”, che nel corso degli anni si è sviluppata sempre più.

Dolce Nadalin

NADALIN; PANDORO DI VERONA

Territorio interessato alla produzione: Verona e provincia

La storia: Le origini del pandoro si legano al pan de oro un dolce conico della Serenissima, riservato ai nobili, che veniva ricoperto da sottili foglie d’oro zecchino. Tuttavia la morbidezza dell’impasto fu importata da Vienna dove pasticceri italiani producevano brioche per la Casa Reale Asburgica. Questo dolce diventò nel 1260 una specialità natalizia veronese detta nadalin con base a forma di stella a otto punte non molto alto. Il nadalin fu creato per festeggiare il primo Natale dopo l’investitura dei nobili Della Scala a Signori di Verona. Solo nell’ottocento il dolce cambiò forma: venne alzato, le punte ridotte a cinque e chiamato pandoro. Questo si diversificava dal nadalin per la morbidezza dell’impasto e per la mancanza della glassa. Ben presto il pandoro divenne il simbolo di Verona che, riprodotto con latterizi, veniva utilizzato come decoro delle colonne nelle abitazioni dei nobili.

Descrizione del prodotto: Il pandoro di Verona è composto da: lievito madre (succo di mela, farina, acqua), tuorlo d’uovo, zucchero, farina, burro di cacao, burro, bacche di vaniglia, sale.

Processo di produzione: Ha una lavorazione lunga e laboriosa che dura quattro giorni. Si prepara il lievito madre, lo si rimpasta almeno 3 volte con aggiunta di acqua tiepida e farina; si aggiunge il tuorlo d’uovo, lo zucchero, il sale, la vaniglia e la farina. Con il burro, il burro di cacao e il tuorlo d’uovo si fa un’emulsione che si aggiunge all’impasto. Si lascia riposare l’impasto per 30 minuti in cella; poi si esegue la pezzatura dell’impasto nei formati richiesti quindi, il tutto ritorna in cella per riposare altre 12 ore al termine delle quali il prodotto viene infornato e quindi lasciato raffreddare negli stampi. Quando il prodotto è freddo si può levarlo dagli stampi per il confezionamento.

Reperibilità: Durante il periodo natalizio il prodotto è reperibile presso pasticcerie e negozi alimentari.

Usi: Abbinato molto spesso con il vino Recioto della Valpolicella

capezzoli di venere

Territorio interessato alla produzione: Legnago (Verona).

La storia: La ricetta per la preparazione dei “Capezzoli di Venere” trova fondamento nella tradizione pasticcera della cittadina di Legnago, nel veronese, e veniva utilizzata nella preparazione delle feste di compleanni e dei matrimoni. Questo prodotto fu riscoperto quando tornò alla ribalta il musicista legnaghese Antonio Salieri (1750 – 1825) con il pezzo teatrale “Amadeus” di Pether Shaffer (1979) e l’omonimo film diretto da Milos Forman (1984). Salieri da compositore ed autore musicale entrò sin da giovane nella corte di Vienna (1766) e nelle grazie dell’Imperatore Giuseppe II. Ogni volta che il Salieri partiva però dalla sua Legnago era solito portare in dono alla corte viennese dei dolci molto apprezzati, con particolare riguardo a questi “Capezzoli di Venere”, infatti Ignaz von Mosel (1772 – 1844) che nel 1827 scrisse “Sulla vita e le opere del Salieri”: “Salieri era più di corporatura piccola che robusta…beveva solo acqua, ma amava molto pasticcini e dolci…”.

Descrizione del prodotto: Il prodotto dolciario Capezzoli di Venere è un bon bon liquoroso, da consumo fresco, a forma di noce umbonata per dare la forma di “capezzolo”, di colore cacao. Le materie prime impiegate sono: pasta di marroni, zucchero, cacao magro, liquore a base di Rum.

Processo di produzione: Gli ingredienti vengono esclusivamente impastati a mano immettendo in giuste quantità i componenti. La predisposizione di ogni singolo pezzo e pure eseguita manualmente senza alcun ausilio d’attrezzatura per miscelare o per lo stampaggio. E’ un prodotto fresco quindi non abbisogna di cottura o raffreddamento. Il confezionamento è fatto in vassoi e non viene eseguito l’incartamento. Il prodotto, da consumare entro breve tempo, si conserva naturalmente senza aggiunta di conservanti e/o additivi.

Reperibilità: In laboratori artigianali di pasticceria.

Usi: Ottimo se accompagnato con un Recioto di Soave.

Mandorlato di Cologna Veneta

Territorio interessato alla produzione: Il Comune di Cologna Veneta, in provincia di Verona.

La storia: Il Mandorlato era già presente nell’area colognese fin dal Settecento ma, solo alla fine dell’Ottocento ha assunto un prestigio ed una rinomanza particolari al di fuori dell’area veneta. La ricetta, custodita gelosamente dalla ditta produttrice, sembra sia stata elaborata dallo speziale della farmacia comunale dell’epoca. Agli inizi degli anni 60 sorsero le prime attività artigianali, limitate inizialmente alla produzione di mandorlato nel periodo natalizio; dagli anni 90 tale produzione riveste una certa continuità durante tutto l’anno.

Descrizione del prodotto: Il torrone si presenta di colore bianco e di consistenza molto duro. Gli ingredienti sono: zucchero, miele, sciroppo di glucosio, ostie, mandorle o nocciole o arachidi, gelatina alimentare, aromi.

Processo di produzione: Si portano a temperatura le caldaie e si mesce assieme zucchero, miele e sciroppo di glucosio. E si tostano a parte le mandorle (o nocciole o arachidi). Si amalgamano le materie prime e si scioglie la gelatina in acqua tiepida quindi, la si aggiunge al prodotto in cottura. Per la cottura del torrone si usano caldaie in rame. Per la modellatura del prodotto e raffreddamento possono venir utilizzati stampi in legno, rivestiti con ostie.

Reperibilità: In pasticcerie

Usi: Viene consumato nel periodo invernale.

Pastina de Bortolin

Territorio interessato alla produzioneComune di Villafranca, in provincia di Verona.Descrizione del prodottoLa “pastina de Bortolin” è un caratteristico dolce da forno prodotto fin dalla fine dell’800 a Villafranca di Verona dal gelataio “Bortolo” e prodotta tuttora con la stessa ricetta.Processo di produzionePer realizzare la “pastina de Bortolin” è necessario preparare settimanalmente pasta sfoglia e pan di Spagna e, giornalmente, una crema.Il pan di Spagna viene realizzato dosando sapientemente farina di grano tenero tipo “0”, zucchero, ammonio bicarbonato, lievito, bicarbonato, strutto, sale, latte fresco intero e panna liquida. Questi ingredienti vengono miscelati in un’impastatrice per circa 30 minuti, l’impasto viene poi lavorato con una sfogliatrice impostata l’altezza di 2 mm e subito cotto in forno alla temperatura di 230 °C per circa 7 minuti.La preparazione della pasta sfoglia, avviene in due fasi: nella prima fase si miscela farina di grano tenero tipo “0” con l’acqua e il sale per circa 20 minuti, poi il composto viene suddiviso in due parti che vengono stese a foglio sul bancone con il matterello; nella seconda fase si aggiungono margarina vegetale e ancora farina di grano tenero tipo “0”, impastandoli per circa 20 minuti. Al termine l’impasto viene diviso in due parti sagomate alla dimensione voluta, per poi inserire l’impasto prodotto nella prima fase e chiudere il tutto a libro; il prodottorealizzato viene posizionato sulla sfogliatrice per ottenere 15 pieghe. A questo punto l’impasto viene ridotto a sfoglia di 2 mm; segue cottura in forno a 280 °C per circa 6-7 minuti.La preparazione della crema prevede di riscaldare il latte con panna e zucchero, fino alla temperatura di circa 45-50 °C, per stemperare i fiocchi di vaniglia con la farina. Al composto si aggiunge ancora del latte mescolato a mano tramite schiumarola fino alla bollitura. Tutti gli ingredienti vanno dosati opportunamente.La “pastina de Bortolin” viene assemblata posizionando la sfoglia, uno strato di crema, il pan di Spagna, inzuppato con crema marsala all’uovo, un altro strato di crema e infine la pasta sfoglia cosparsa di zucchero a velo. Il preparato viene poi tagliato, utilizzando uno strumento in acciaio che permette di dare l’idonea grandezza al prodotto e di operare il taglio, secondo la tradizionale misura completato con uno strato di crema per il perimetro della banda di pastine. Il prodotto deve essere consumato fresco.UsiOttima a fine pasto come prodotto dolciario; può essere accompagnata a caffè e cappuccino in una breve pausa trascorsa in pasticceria.ReperibilitàLa “pastina de Bortolin”si degusta presso le pasticcerie di Villafranca e della provincia di Verona.La storiaLe origini di questa ricetta risalgono alla fine dell’Ottocento. Fu creata a Villafranca di Verona da Bortolo Dainese che, nella sua gelateria denominata “Bortolin”, inventò una particolare pastina che prese il nome di “pastina de Bortolin”; questa ricetta fu poi copiata da altri pasticceri e la troviamo tuttora nelle pasticcerie con il nome di “pasta italiana” o “pasta diplomatica” che differiscono però dall’originale nell’altezza, negli ingredienti e nellacrema. La produzione di questa pastina si è via via consolidata, tramandata di padre in figlio con gli stessi tradizionali e genuini sapori di un tempo.

Rofioi di Sanguinetto

Territorio interessato alla produzioneIl comune di Sanguinetto, in provincia di Verona.Descrizione del prodottoI “rofioi di Sanguinetto”, sono dei dolci con ripieno composto da amaretti, cedrini, mandorle, biscotti secchi, zucchero, cacao amaro, latte e liquori, la cui sfoglia viene piegata assumendo così la forma di un “raviolo” e questa è l’etimologia più naturale del nome.Processo di produzioneInizialmente si prepara il ripieno tritando amaretti, cedrini (tritati rigorosamente a mano per conservarne tutto il sapore), mandorle, biscotti secchi, miscelando poi il tutto con zucchero, cacao amaro, latte e liquori. Risulta così un impasto compatto ed omogeneo che viene lasciato riposare. Nel frattempo si prepara la sfoglia, parte più delicata della preparazione di questo dolce, che deve risultare sottile e friabile al palato. La sfoglia viene stesa sul ripiano di lavoro, tagliata in quadrati al centro dei quali si pone il ripieno; le singole porzioni sono chiuse ai bordi rigorosamente a mano. In seguito i “rofioi” vengono fritti in abbondante olio di palma e spolverizzati con zucchero a velo.La conservazione avviene in un luogo fresco e per meglio apprezzarne la qualità, consumati entro sette giorni dal momento della preparazione.UsiI “rofioi di Sanguinetto” sono dei dolci particolari, che andrebbero degustati accompagnandoli con vino dolce.ReperibilitàIl prodotto si può gustare durante la manifestazione “Antica Sagra dei Rofioi”, che si svolge a settembre, ma può essere apprezzato nella zona, presso forni e pasticcerie, durante tutto l’anno.La storiaLa storia dei “rofioi” risale dalla seconda metà dell’800 ed è nata a sud del paese e precisamente al “Cao de Soto”, una delle 4 contrade di Sanguinetto. Si dice che un tempo, in occasione del 12 settembre, ricorrenza del S. Nome di Maria, la contrada “Cao de Soto” di fronte alla chiesetta della Rotonda, si animasse a festa con banchetti di dolciumi e che nell’antistante locanda ”alla Posta” i proprietari ospitassero momenti di allegria con balli.Le donne di Sanguinetto venivano chiamate alla locanda per tirare a mano la pasta, poi il gestore siappartava per inserire un ripieno segretissimo, la cui antica ricetta era conservata gelosamente.Si narra che, una volta preparati, venivano appesi alle “saraie”, ovvero alle recinzioni, creando, al mattino della festa, una deliziosa sorpresa per i bambini della contrada.Attualmente chi produce i “rofioi”, si rifà ad una ricetta del 1931. A Sanguinetto, ogni anno a settembre si svolge la manifestazione “Un Castello di Sapori”, che dal 2009 ha preso il nome di “Antica Sagra dei Rofioi”, con l’intento di valorizzare al meglio questa tradizione.

Olio Veneto – Valpolicella DOP

Area di produzione: La denominazione di origine protetta comprende tre zone: “Veneto Valpolicella”, “Veneto Euganei e Berici”, “Veneto del Grappa”
Veneto Valpolicella:
in provincia di Verona, l’intero territorio amministrativo dei seguenti comuni: Brentino Belluno, Dolcè, S. Ambrogio di Valpolicella, Fumane, S. Pietro in Cariano, S. Anna d’Alfaedo, Marano di Valpolicella, Negrar, Cerro Veronese, Grezzana, Verona, S. Martino Buonalbergo, S. Mauro di Saline, Mezzane di Sotto, Lavagno, Badia Calavena, Tregnago, Illasi, Colognola ai Colli, Caldiero, Cazzano di Tramigna, Soave, Vestenanova, S. Giovanni Ilarione, Montecchia di Crosara, Roncà, Monteforte d’Alpone, S. Bonifacio

Materia prima:
Veneto Valpolicella: riservata all’olio extravergine di oliva ottenuto dalle seguenti varietà di olivo presenti, da sole o congiuntamente, negli oliveti: Grignano o Favaro per almeno il 50%; Leccino, Casaliva o Frantoio, Maurino, Pendolino, Leccio del Corno, Trep o Drop in misura non superiore al 50%.

Caratteristiche:
Acidità massima: 0,5%
colore: giallo con lieve tonalità di verde per gli oli freschi
odore: di fruttato leggero
sapore: fruttato con leggera sensazione di amaro e retrogusto muschiato

Abbinamenti: grigliate di pesce, verdure bollite, legumi

Note: La coltivazione dell’olivo è stata introdotta in Veneto dai coloni romani, ma le prime testimonianze storiche risalgono al IX secolo. L’olivicoltura nella regione ha alternato periodi di forte sviluppo a momenti di crisi dovute a motivi economici e climatici, ma ha vissuto una marcata ripresa dopo la prima guerra mondiale, anche grazie al sostegno economico degli enti locali. La qualità dell’olio del Veneto e le sue proprietà organolettiche sono riportate in opere letterarie del secolo scorso, mentre la tipicità del prodotto è ribadita già dal 1500.

Riferimenti normativi: Prodotto DOP, Registrazione europea con regolamento CE 2036/01 del 17.10.01

Olio Garda – Orientale DOP

Area di produzione: Il disciplinare di produzione della Dop “Garda” prevede l’uso di tre menzioni geografiche aggiuntive: “Garda Bresciano”, “Garda Orientale”, “Garda Trentino”.
Garda “Bresciano”: è prodotto in 27 comuni della provincia di Brescia;
Garda “Orientale”: in 6 comuni della provincia di Mantova;
Garda “Trentino”: in 11 comuni della provincia di Trento.

Materia prima:
Olio Garda “Bresciano”: deve essere ottenuto per almeno il 55% dalle varietà di olivo Casaliva, Frantoio e Leccino, presenti da sole o congiuntamente;
olio Garda “Orientale”: deve essere ottenuto per almeno il 50% dalle varietà di olivo Casaliva o Drizzar, ma possono essere anche utilizzate le varietà Lezzo, Favarol, Rossanel, Razza, Fort, Morcai, Trepp, Pendolino, presenti da sole o congiuntamente;
olio Garda “Trentino”: deve essere ottenuto per almeno l’80% dalle varietà di olivo Casaliva, Frantoio, Pendolino e Leccino, presenti da sole o congiuntamente

Tecnologia di lavorazione: Le olive sane vengono raccolte ancora verdi (nel periodo che va dai primi di novembre fino a gennaio inoltrato) con le tecnica della brucatura a mano, o con mezzi meccanici, dopo un’attenta selezione. Per quanto riguarda l’operazione successiva è ancora diffuso tra i produttori locali la molitura e frangitura delle olive, che viene effettuata a freddo, con il metodo tradizionale a macine. Il Disciplinare indica alcune indicazioni tecniche cui gli olivicoltori devono attenersi per la produzione; la raccolta non deve protrarsi oltre il 15 gennaio di ogni anno, ed il conferimento delle olive al frantoio deve avvenire entro e non oltre 5 giorni dalla raccolta stessa, per impedire lo sviluppo di fenomeni fermentativi anomali nel prodotto

Caratteristiche del prodotto: Il suo colore va dal verde al giallo di varia intensità con riflessi dorati; l’odore è fruttato leggero con lieve sensazione di erbaceo mentre il sapore è fruttato con una percezione di amaro piccante e un retrogusto di mandorla dolce. L’olio per fregiarsi della Denominazione d’Origine Protetta deve rispettare certi parametri fissati dal disciplinare di produzione: – gli oliveti devono essere coltivati in terreni collocati entro la zona di produzione; – le olive debbono essere raccolte alla giusta maturazione e frantumate entro i cinque giorni che seguono; – l’olio che ne deriva viene sottoposto ad una attenta e rigorosa valutazione mediante un’analisi chimico-fisica e organolettica da parte di un panel test ufficiale. La raccolta e la molitura delle olive eseguita tempestivamente permettono di ottenere un olio dall’acidità bassa (0,2% – 0,3%) rispetto al parametro fissato dal disciplinare (0,6%)

Cenni storici: La coltivazione dell’olio di oliva in Lombardia è antica; la sua diffusione si è avuta con la civiltà greca, presente su tutta l’area del Mediterraneo e sul territorio lombardo. Pochi anni orsono l’olivicoltura lombarda sembrò definitivamente compromessa dalla violenta gelata del 1985. L’amore per questa coltura e la crescita professionale dei produttori hanno invece consentito negli anni successivi di sviluppare un approccio critico ed imprenditoriale il cui risultato è stata l’introduzione di una olivicoltura specializzata rivolata lla produzione di olio extravergine di qualità

Riferimenti normativi: Prodotto DOP, Registrazione europea con regolamento CE n. 2325/97 pubblicato sulla GUCE L.322/97 del 25 novembre 1997; riconoscimento nazionale con DM 17 settembre 1998 pubblicato sulla GURI n. 234 del 7 ottobre 1998

Indirizzi utili: Associazione Produttori Olivicoli Lombardi (AIPOL)Consorzio di Tutela dell’Olio Extra Vergine di Oliva GARDA D.O.P. – Palazzo dell’Agricoltura – Via Locatelli,1 – 37122 Verona – tel. 0458678260 – fax 0458012898

Acqua di Melissa

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Verona

La storia: Le proprietà curative della Melissa, comunemente chiamata anche cedronella, sono note fin dalle antiche civiltà. Il nome, della stessa radice di ‘miele’, veniva usato dai Greci anche per l’Ape, e l’appellativo Melissa veniva dato alle donne considerate particolarmente sagge e ricche di virtù; anche le Sacerdotesse dei misteri di Eleusi e di Efeso venivano chiamate Melisse. La usarono anche Romani ed Arabi, ed ebbe un periodo di grande fama come erba medicinale durante il Medioevo. Carlo Magno ne ordinò la coltivazione nei giardini medicinali del regno, in modo da averne sempre in abbondanza e l’Acqua di Melissa delle Carmelitane francesi era rinomata per la sua efficacia contro un vasto numero di disturbi, sia fisici, sia nervosi.
Le virtù medicinali della melissa sono contenute nelle sommità fiorite, oppure nelle foglie dove scorre uno speciale olio essenziale, che dà alla pianta un grato odore ed un gustoso sapore di limone. La melissa è sempre stata consigliata nei postumi delle paralisi, nelle debolezze muscolari, nei tremori dei vecchi, nei languori fisici e morali susseguenti a lunghi patimenti. E’ molto indicata nelle convulsioni, nelle nevrosi, nell’isterismo ed in ogni forma patologica afferente il sistema nervoso. Stimola l’appetito, rinforza lo stomaco in caso di indigestioni, aiuta ad espellere gli eccessivi e noiosi gas intestinali.

Descrizione del prodotto: L’Acqua di Melissa è un alcool a 80° aromatizzato con essenze in sospensione di Mellica Turca/Moldavica, cedro, garofano, cannella e acqua distillata. Si presenta con un profumo forte, alcolico, con flessioni speziate, mentre il gusto è ricco e intenso.

Processo di produzione: La melissa fresca o secca va fatta bollire in acqua assieme a buccia di limone grattuggiata, cannella, chiodi di garofano, polvere di noce moscata, radice di angelica e coriandolo. A bollitura avvenuta si aggiunge della grappa in quantità pari a quella dell’acqua e l’infusione va mantenuta per almeno 6 mesi, mescolando periodicamente, prima che il prodotto venga imbottigliato e messo in commercio. L’acqua di melissa dei Carmelitani scalzi, tutt’oggi prodotta a Venezia, si prepara con 150 grammi di melissa fresca o 60 di secca, 30 grammi di buccia di limone grattugiata, 15 grammi di cannella, 15 di chiodi di garofano, 15 di polvere di nocimoscate, 5 grammi di radice di angelica e 5 di coriandoli. Il tutto viene bollito per cinque minuti in mezzo litro di acqua, vi si aggiunge mezzo litro di grappa e si espone al sole in un vaso ermeticamente chiuso per circa tre settimane. Alla fine si filtra e si conserva il liquido così ottenuto in bottiglie ben chiuse.

Reperibilità: Presso alcuni rivenditori del veronese e del Veneto centro meridionale il prodotto è reperibile durante tutto l’anno.

Usi: l’Acqua di Melissa si prende nella misura di un cucchiaino di caffè diluito in un po’ d’acqua prima dei pasti principali. L’acqua di melissa dà gli stessi risultati se presa nella misura di trenta o quaranta gocce su di una zolla di zucchero. E’ un ottimo calmante, facilita le digestioni difficili, combatte le nausee ed il vomito, ridà colore alla faccia nei frequenti mal d’auto o di mare.

Liquore all’uovo

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Il prodotto crema marsala figurava già negli anni ‘30 tra i liquori commercializzati. La validità della sua composizione si conferma immutata negli anni, grazie all’impiego di materie prime semplici e naturali.

Descrizione del prodotto: Il liquore all’uovo viene preparato usando torlo d’uovo fresco sbattuto, zucchero, aromi naturali e marsala fine DOC. Si presenta con uno spiccato aroma di crema, un gusto dolce e delicato; ha una gradazione alcolica moderata (16° VOL) e assume un colorito giallognolo.

Processo di produzione: I tuorli delle uova fresche spaccate a mano vengono sbattuti in alcol buongusto puro e zucchero. La crema così ottenuta viene refrigerata e filtrata; si ottiene un liquido limpido a 75° circa, a cui viene aggiunto il marsala, gli aromi naturali e altro zucchero per ottenere il prodotto finito. Il grado finale del prodotto viene controllato ed eventualmente corretto con piccole aggiunte di marsala o di alcol buongusto. Il prodotto viene stagionato in apposite cisterne per un periodo medio di 9 mesi o comunque mai inferiore ai tre. Solitamente viene filtrato 2-3 mesi dopo la preparazione, preferibilmente nei mesi freddi dell’anno. Dopo il periodo di stagionatura, il prodotto viene imbottigliato.

Reperibilità: Ampiamente diffuso in tutto il Veneto, il prodotto si trova facilmente presso qualsiasi rivendita al dettaglio.

Usi: Data la gradazione alcolica contenuta di questo liquore e la carica energetica dovuta all’uovo, si adatta bene ad essere consumato come rigenerante e riscaldante dopo la pratica di sport invernali.

Bianco di Custoza o Custoza DOC

Zona di produzione: i territori dei comuni di Sommacampagna, Villafranca di Verona, Valeggio sul Mincio, Peschiera del Garda, Lazise, Castelnuovo Veronese, Pastrengo, Bussolengo, Sona, in provincia di Verona. Sono da considerarsi idonei unicamente i vigneti collinari e pedecollinari, esposti prevalentemente a sud, sud-ovest e posti in terreni morenici di natura prevalentemente calcarea, argilloso-calcarea, ghiaioso-calcarea o ghiaioso-sabbiosa con esclusione dei terreni umidi.
Vitigni: Trebbiano toscano (denominato localmente Castelli romani) 20-45%, Garganega 20-40%, Tocai friulano (denominato localmente Trebbianello) 5-30%, Cortese (denominato localmente Bianca Fernanda), Riesling italico, Pinot bianco, Chardonnay e Malvasia toscana 20-30%.

Resa massima per ha: 150 qli.

Resa massima di uva in vino: 65%.

Gradazione alcolica minima: 11%.

Acidita’ totale minima: 4,5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 16,5 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore giallo paglierino; profumo vinoso, molto spiccato, leggermente aromatico; sapore sapido, morbido, delicato, di giusto corpo, leggermente amarognolo.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: viene prodotto anche il tipo “Spumante”.

Abbinamenti :antipasti di mare delicati, minestre, zuppe di pesce,

Merlara DOC

Zona di produzione: nell’intero territorio dei comuni di Masi, Castelbaldo, Merlara, Urbana e Casale di Scodosia, in parte di quello di Montagnana, in provincia di Padova e in quello di Terrazzo, Bevilacqua e Boschi Sant’Anna, in provincia di Verona

Vitigni: Merlara Bianco: uve Tocai friulano per una percentuale variabile dal 50 al 70%. Possono concorrere fino a un massimo del 50% le uve a bacca bianca non aromatiche raccomandate e/o autorizzate per le province di Padova e Verona. Il Rosso si ottiene da uve Merlot dal 50 al 70% e da Cabernet Franc, Sauvignon, Carmenere e Marzemino (da sole o congiuntamente) fino a un massimo del 50%. Possono concorrere (ma per non oltre il 15%) le uve a bacca rossa non aromatiche raccomandate e/o autorizzate per le province di Padova e Verona. Tocai, Malvasia, Merlot, Cabernet Sauvignon e Marzemino devono essere ottenuti dalle uve dell’omonimo vitigno per almeno l’85%. Per il residuo possono concorrere le uve a bacca di colore analogo non aromatiche raccomandate e/o autorizzate per le province di Padova e Verona. Per il Cabernet possono concorrere, congiuntamente o disgiuntamente, le uve di Cabernet Franc e Cabernet Sauvignon per almeno l’85%; per un massimo del 15% le uve a bacca di colore analogo non aromatiche raccomandate e/o autorizzate per le province di Padova e Verona.

Gradazione alcolica minima: 11 gradi (11,5 per il Merlot)

Caratteristiche organolettiche: Merlara Bianco: colore giallo paglierino, a volte tendente al verdognolo; odore vinoso, con caratteristico profumo intenso e delicato; sapore asciutto, di medio corpo, armonico e leggermente amarognolo. Il Merlara Rosso ha colore rosso rubino, odore vinoso, intenso e delicato; sapore asciutto, di medio corpo e armonico. Il Merlara Doc Merlot ha colore rosso rubino se giovane, tendente al granato se invecchiato; odore vinoso, piuttosto intenso, gradevole, caratteristico; sapore asciutto, talvolta morbido, armonico, caratteristico.

Tipologie: Bianco, Rosso, Malvasia, Tocai, Cabernet, Cabernet Sauvignon, Marzemino frizzante e Merlot

Abbinamenti: il Merlata Bianco si abbina al riso con anguilla, asparagi e cozze. Il Merlara Doc Rosso e il Merlot si abbinano all’Asiago e al Piave, ma anche al formaggio ubriaco, pasta e fagioli, polenta e osei.

Riferimenti normativi: La Doc Merlara è stata riconosciuta con DM del 13.07.2000, pubblicato sulla GU 178 del 01.08.2000

Arcole DOC

Zona di produzione: diversi comuni in provincia di Verona, fra cui Arcole, e in provincia di Vicenza: Lonigo, Sarego, Monte, Orgiano e Sossano.

Vitigni: Bianco: uve Garganega per almeno il 50% e Pinot Bianco e/o Pinot Grigio e/o Chardonnay fino a un massimo del 50%; i monovitigni bianchi Garganega, Pinot Bianco, Pinot Grigio, Chardonnay si ottengono dalle omonime uve per almeno l’85%; il Rosso e il Novello si ottengono da uve Merlot per almeno il 50% e da Cabernet Franc e/o Cabernet Sauvignon e/o Carmenère fino a un massimo del 50%; i monovitigni rossi derivano da uve Cabernet (Franc e/o Sauvignon e/o Carmenère), Cabernet Sauvignon, Merlot

Gradazione alcolica minima: bianco 10,5 gradi, rosso 11 gradi, merlot 11,5 gradi

Caratteristiche organolettiche: Arcole Bianco Doc: colore giallo paglierino, a volte tendente al verdognolo; odore vinoso, con caratteristico profumo intenso e delicato; sapore asciutto, di medio corpo, armonico e leggermente amarognolo. Arcole Rosso: colore rosso rubino, odore vinoso, intenso e delicato; sapore asciutto, di medio corpo e armonico. Arcole Merlot Doc: colore rosso rubino se giovane, tendente al granato se invecchiato; odore vinoso, piuttosto intenso, gradevole, caratteristico; sapore asciutto, leggermente amarognolo.

Qualificazioni: nessuna

Tipologie: Bianco, Rosso, Chardonnay, Garganega, Pinot bianco, Pinot grigio, Cabernet, Cabernet Sauvignon e Merlot

Abbinamenti: Arcole Doc Bianco: con formaggi come il Piave fresco, prosciutto veneto, insalata con gamberi, risotto al nero di seppia e baccalà alla vicentina. Arcole Doc Rosso e Merlot: prosciutto veneto, soppressa, Asiago, Piave, risotto con le quaglie, piccione allo spiedo

Riferimenti normativi: La Doc Arcole è stata riconosciuta con DM del 04.09.2000, pubblicato sulla GU 214 del 04.09.2000

Recioto di Soave DOCG

Zona di produzione: parte dei territori dei comuni di Soave, Monteforte d’Alpone, San Martino Buon Albergo, Mezzane di Sotto, Roncà, Montecchia di Crosara, San Giovanni Ilarione, Cazzano di Tramigna, Colognola ai Colli, Illasi e Lavagno, in provincia di Verona

Vitigni: Garganega, con l’aggiunta, da soli o congiuntamente, di Pinot bianco, Chardonnay e Trebbiano di Soave fino a un massimo del 30%

Gradazione alcolica minima: 14 gradi

Caratteristiche organolettiche: Recioto di Soave Docg: colore giallo dorato piu’ o meno intenso; odore gradevole, intenso e fruttato (l’aroma tipico del Recioto di Soave deriva dalla particolare muffa che si forma quando le uve sono a riposo); sapore amabile o dolce, vellutato, armonico. Spumante: spuma fine e persistente; colore giallo dorato più o meno intenso, odore gradevole, intenso e fruttato; sapore abboccato o dolce, vellutato, armonico e di corpo

Tipologie: bianco (da fine pasto) e Spumante

Abbinamenti: pasticceria secca da fine pasto, crostate alla frutta gialla e torte di mele, pandoro di Verona

Riferimenti normativi: La Docg Recioto di Soave è stata riconosciuta con Decreto del 07.05.1998, pubblicato sulla GU 110 del 14.05.1998

Monti Lessini DOC

Zona di produzione: diversi comuni alle pendici dei Monti Lessini, in provincia di Verona e Vicenza

Vitigni: da uve del vitigno Durello per almeno l’85%. Possono concorrere, da sole o congiuntamente, le uve delle varietà Garganega, Trebbiano di Soave, Pinot bianco, Pinot nero e Chardonnay fino a un massimo del 15%

Gradazione alcolica minima: Monti Lessini Doc 10 gradi. Monti Lessini Doc Spumante 11 gradi

Caratteristiche organolettiche: Monti Lessini Doc: colore giallo paglierino più o meno carico, odore vinoso, profumo delicato e caratteristico. Il sapore è asciutto, acidulo, di corpo, talvolta leggermente tannico. Monti Lessini Doc Spumante: spuma fine e persistente, colore giallo paglierino tenue con riflessi verdognoli, odore vinoso, profumo delicato e caratteristico, lievemente fruttato. Il sapore è acidulo, fresco, caratteristico.

Tipologie: bianco e spumante

Abbinamenti: cocktail di scampi, gamberi fritti, verdure fritte. La versione Spumante va servita con dolci da cucchiaio e torte paradiso.

Riferimenti normativi: Riferimenti normativi La Doc Monti Lessini è stata riconosciuta con DPR del 25.06.1987, pubblicato sulla GU n. 6 del 09.01.1988

Lugana DOC

Zona di produzione: la zona che dal versante meridionale del lago di Garda, nella provincia di Brescia, arriva fino alla provincia di Verona. Sono da considerare idonei unicamente i vigneti situati in terreni con giacitura prevalentemente pianeggiante, di natura argilloso-calcarea.

Vitigni: Trebbiano di Lugana (Veronese); e’ ammessa l’aggiunta, fino ad un massimo del 10%, di vitigni a frutto bianco, purch‚ non aromatici.

Resa massima per ha: 125 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 17 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore bianco paglierino o verdolino, tendente al giallo leggermente dorato con l’invecchiamento; profumo delicato, gradevole, caratteristico; sapore fresco, morbido, armonico, particolarmente delicato.

Qualificazioni: nessuna.

Tipologie: si produce il tipo “Spumante”, con una gradazione alcolica minima del 12% e un’acidita’ totale non inferiore al 6 per mille.

Abbinamenti :antipasti di pesce, risotti marinari, pesce azzurro e di lago fritto o arrosto, frittate e torte di verdura.

Soave DOC

Zona di produzione: i territori dei comuni di Soave, Monteforte, San Martino, Mezzane, Ronca’, Montecchia, San Giovanni Ilarione, San Bonifacio, Cazzano, Colognola, Caldiero, Illasi, Lavagno, in provincia di Verona.

Vitigni: Garganega. e’ ammessa la presenza dei vitigni Trebbiano di Soave (nostrano) e/o Trebbiano toscano fino ad un massimo del 30%.

Resa massima per ha: 140 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 10,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 15 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore giallo paglierino a volte tendente al verdognolo; profumo vinoso, intenso e delicato; sapore asciutto, di medio corpo, armonico, leggermente amarognolo.

Qualificazioni: con un invecchiamento di 8 mesi ed una gradazione alcolica minima dell’11,5%, puo’ portare la qualifica “Superiore”. Se le uve provengono dalla zona di u
produzione piu’ antica puo’ portare la specificazione “Classico”.

Tipologie: viene prodotto anche nel tipo “Spumante”.

Abbinamenti :antipasti magri, minestre e piatti a base di uova e di pesce, pesci bolliti accompagnati da salse delicate.

Tipologie: Recioto di Soave

Bardolino DOC

Zona di produzione: la zona sud-orientale del lago di Garda, comprendente tutto o parte dei territori comunali di Bardolino, Garda, Lazise, Affi, Costermano, Cavaion, Torri Benaco, Caprino, Pastrengo, Bussolengo, Sona, Sommacampagna, Castelnuovo, Peschiera, Valeggio, in provincia di Verona.

Vitigni: Corvina veronese (Cruina o Corvina) 35-65%, Rondinella 10-40%, Molinara (Rossana, Rossanella) 10-20%, Negrara (Negrara trentina) 10%, Rossignola (Rossetta), Barbera, Sangiovese e Garganega fino ad un massimo del 15%.

Resa massima per ha: 130 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 10,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 17 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino chiaro tendente a volte al cerasuolo, che si trasforma in granato con l’invecchiamento; profumo vinoso, con leggero aroma delicato; sapore asciutto, sapido, leggermente amarognolo, armonico, sottile, talvolta leggermente frizzante.

Qualificazioni: con un invecchiamento di un anno ed una gradazione alcolica minima dell’11,5% puo’ portare la qualifica “Superiore”. Qualora il vino provenga dalla zona d’origine piu’ antica, che comprende i comuni di Bardolino, Garda, Lazise, Affi, Costermano e Cavaion, puo’ portare la qualifica “Classico”. Qualora le uve vengano vinificate parzialmente in bianco ed il colore tenda cosi’ al cerasuolo, puo’ portare la specificazione “Chiaretto” , che viene prodotto anche nella versione spumante. Il “Bardolino Chiaretto Spumante” ed il “Bardolino Classico Chiaretto Spumante” all’immissione al consumo devono avere le seguenti caratteristiche: spuma sottile con grana fine e persistente; profumo vinoso con aroma delicato; sapore secco, sapido, leggermente amarognolo; gradazione alcolica complessiva minima 11,5%; acidita’ totale minima 6 per mille; estratto secco netto minimo 17 per mille. Il Bardolino imbottigliato entro il 31 dicembre dell’annata di produzione delle uve puo’ essere designato in etichetta con il termine “Novello” e all’atto dell’immissione al consumo deve avere le seguenti caratteristiche: colore rosso rubino chiaro; profumo vinoso, intenso e fruttato; sapore asciutto, sapido, leggermente acidulo, talvolta leggermente frizzante; gradazione alcolica complessiva minima 10,5; acidita’ totale minima 5,5 per mille; estratto secco netto minimo 17 per mille.Il vino “Bardolino” designato con una delle sopra citate qualificazioni deve obbligatoriamente indicare in etichetta l’annata di produzione delle uve.

Tipologie: rosso.

Abbinamenti : primi piatti a base di sughi di carne, polenta, arrosti e stufati di carni bianche, pollame.

Valpolicella DOC

Zona di produzione: i territori dei comuni di Marano, Fumane, Negrar, S. Ambrogio, S. Pietro in Cariano, Dolce’, Verona, S. Martino Bonalbergo, Lavagno, Mezane, Tregnago, Illasi, Colognola ai Colli, Cazzano di Tramigna, Grezzana, Pescantina, Cerro Veronese, S. Mauro di Saline, Montecchia di Crosara, in provincia di Verona.

Vitigni: Corvina veronese (Cruina o Corvina) 40-70%, Rondinella 20-40%, Molinara 5-25%, con eventuali aggiunte di Rossignola, Negrara trentina, Barbera e San-giovese fino ad un massimo del 15%.

Resa massima per ha: 120 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 11%, con massimo lo 0,3% da svolgere.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 18 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino di media intensita’ tendente al granato con l’invecchiamento;
profumo vinoso, gradevole, delicato, caratteristico, che ricorda talvolta le mandorle amare; sapore asciutto o vellutato, di corpo, amarognolo, sapido ed armonico.

Qualificazioni: con un invecchiamento di un anno ed una gradazione alcolica minima del 12%, puo’ portare la qualifica “Superiore”. Se le uve provengono dalla zona di produzione piu’ antica puo’ portare la specificazione “Classico”. Se le uve provengono dalla zona di produzione della Valpantena, puo’ portare la specificazione geografica “Valpantena”.

Abbinamenti :carni alla griglia, pollame e pollame nobile al forno o in casseruola, paste al forno con sughi di carne, formaggi stagionati non troppo piccanti.

Tipologie: Recioto della Valpolicella

Bardolino Superiore DOCG

Zona di produzione: una quindicina di comuni, fra cui Bardolino, tutti in provincia di Verona. Si può aggiungere la menzione Classico alla denominazione Bardolino Superiore se è prodotto nella zona di produzione più antica

Vitigni: Corvino veronese per almeno il 35-65% Rondinella per il 10-40%, e Molinara e/o Rossignola, e/o Barbera, e/o Sangiovese, e/o Marzemino, e/o Merlot, e/o Cabernet Sauvignon per un massimo del 20%

Gradazione alcolica minima: 12 gradi

Invecchiamento obbligatorio: periodo di affinamento minimo di un anno, a decorrere dal 1° novembre dell’annata di produzione

Caratteristiche organolettiche: colore rosso rubino, tendente al granato con l’invecchiamento. Ha odore caratteristico con profumo delicato, il sapore è asciutto, sapido, leggermente amarognolo, armonico, a volte caratterizzato da leggero sentore di legno

Qualificazioni: Classico se prodotto nella zona più antica di produzione

Tipologie: Rosso

Abbinamenti: Prosciutto veneto, soppressa vicentina, formaggi Asiago e Piave, tacchinella al melograno

Riferimenti normativi: La Docg Bardolino Superiore è stata riconosciuta con DM 1.08.2001, pubblicato sulla GU 190 del 17.08.2001

Soave Superiore DOCG

Zona di produzione: numerosi comuni della provincia di Verona

Vitigni: minimo del 70% di uve del vitigno Garganega; per la restante parte si impiegano le uve dei vitigni Trebbiano, Soave, Pinot bianco e Chardonnay. Possono concorrere per un massimo del 5% altri vitigni a bacca bianca, non aromatici, autorizzati e raccomandati per la provincia di Verona

Gradazione alcolica minima: 12 gradi

Caratteristiche organolettiche: colore giallo paglierino a volte intenso con riflessi verde oro, odore ampio e caratteristico floreale, sapore pieno e delicatamente amarognolo.

Qualificazioni: Classico e Riserva

Tipologie: bianco

Abbinamenti: antipasti magri, minestre e piatti a base di uova e di pesce, pesci bolliti accompagnati da salse delicate, risotti di verdure e carni bianche

Riferimenti normativi: Il riconoscimento della Docg “Soave Superiore” è avvenuto con DM del 29.10.01 pubblicato sulla GU n. 265 del 14.11.01

Miele della collina e pianura veronese

Territorio interessato alla produzione: Aree delle colline e della pianura di Verona soprattutto quelle interessate da coltivazioni frutticole.

La storia: L’apicoltura nel veronese ha origini relativamente recenti, ma ha avuto un notevole sviluppo nell’ultimo secolo, tanto da porre la provincia ai primi posti nelle graduatorie nazionali per quantità annue prodotte. Nel 1930 si tenne a Verona una Conferenza su “Apicoltura e Agricoltura”, durante la quale il relatore prof. E. Perucci riportava questi dati: “Misi in evidenza che nel veronese, così ricco di frutteti, richiedeva una maggiore diffusione degli alveari apistici, limitati in quell’epoca (1930) a circa 5000 alveari…”. A dimostrazione dell’interesse che andava via via assumendo l’apicoltura, nel 1947 il prof. Ghigi scriveva: “ gli apicoltori non si stanchino di proclamare che il prodotto del miele e della cera, che le api forniscono loro, è poca cosa di fronte al dono della frutta e delle sementi da prato che le api forniscono agli agricoltori”. Successivamente, nel 1971, il dr. Bonfante riportava ne “L’Apicoltura”, edito dall’Istituto Sperimentale per la Frutticoltura di Verona: “In provincia di Verona, l’apicoltura è esercitata da agricoltori, spesso frutticoltori, da amatori, come attività marginale di svariate professioni, oppure da professionisti apicoltori, come vera attività industriale. La produzione di miele che si aggira sui 2-3 mila quintali annui, di cera, 40-60 quintali, e, in pochi casi, di gelatina reale e polline, sono gli scopi principali, ma non esclusi dell’allevamento delle api. Chi vi si dedica è sostenuto dall’indescrivibile fascino destato dall’insetto, celebrato da sempre come il più utile che si conosca. Negli ultimi 25 anni la nostra apicoltura ha subito alterne vicende… nell’arco di tempo considerato … si è verificata una ripresa…negli ultimi tempi si sono trasformati od allestiti migliaia d’alveari ogni anno”. Nel 1988 Severino Fraccaroli e Mario Bettini scrivevano: “L’apicoltura interagisce come fattore economico sulle produzioni animali e vegetali veronesi… L’apicoltura è esercitata da agricoltori, spesso frutticoltori, da amatori…dotati di parecchie centinaia di arnie”.

Descrizione del prodotto: Il miele veronese, esso è caratterizzato da un colore biondo intenso, da un sapore dolce, gradevole e dal profumo delicato e persistente. La provenienza è costituita dal polline di diverse piante sia erbacee che legnose.

Processo di produzione: Il miele si ottiene dalla trasformazione del nettare dei fiori o della melata (i succhi zuccherini presenti in certe foglie o in determinati alberi) ad opera delle api. L’estrazione del miele viene effettuata con gli “smelatori”, delle centrifughe, che lo fanno colare dai favi dopo che questi vengono raccolti e depercolati. La raccolta avviene in appositi contenitori e, successivamente, a mano o mediante l’ausilio di dosatori meccanici, posto in confezioni di vetro chiuse, avvitando un coperchio metallico.

Reperibilità: In tutto il territorio della provincia di Verona il prodotto è reperibile durante tutto l’anno presso produttori e dettaglianti.

Usi: Composto in gran parte da zuccheri semplici prontamente assimilabili, il miele contiene tantissime sostanze utilissime per la salute.E’ molto indicato nella dieta dei bambini perché favorisce la fissazione dei sali minerali. Usato esternamente favorisce la cicatrizzazione di bruciature e ferite e attenua le irritazioni della gola. Viene molto utilizzato per usi culinari e in particolar modo in pasticceria, per la preparazione di dolci e dolciumi.

Miele della montagna veronese

Territorio interessato alla produzione: Intero territorio di pertinenza delle comunità Montane della Lessinia e del monte Baldo (VR)

La storia: Durante l’ottocento nell’area montana veronese la produzione di miele trovava collocazione nell’autoconsumo familiare. L’apicoltura veronese è strettamente connessa con la vocazione frutticola dell’area, con il certosino lavoro di impollinazione da parte delle api e all’incremento produttivo della cerasicoltura. Nel 1964 il dr. G. Bargioni affermava durante il I Convegno Nazionale del Ciliegio “L’apicoltura sta diventando più utile al frutticoltore che non produttore di miele…. A nulla varrebbe l’adozione di adatti impollinatori se venisse a mancare, o fosse comunque scarsa, la presenza d’insetti pronubi …”. A considerare con maggior incisività la produzione del miele anche in vista d’un miglioramento qualitativo fu E. Perucci in “Le api fanno anche il miele” in Atti dell’Accademia di Scienze e Lettere di Verona 1960-1961. Nel 1976 sorgeva a Verona l’Associazione Provinciale apicoltori che ha sviluppato un validissimo supporto per il miglioramento della professionalità dell’apicoltore di montagna. Da oltre un ventennio a Boscochiesanuova, nel cuore della Lessinia, è stata istituita un’importante manifestazione per qualificare il Miele della Montagna Veronese, che unitamente a quella di Lazise (1984) imprime un notevole impulso al settore.

Descrizione del prodotto: A seconda della provenienza del nettare, stagionalità delle sostanze zuccherine succhiate, il miele si presenta con tonalità di colore diverse: giallognolo, semi trasparente, vischioso, che col tempo tende a diventare opaco e granuloso, se proveniente da più specie di piante (legnose od erbacee); marrone chiaro se assunto dai fiori dei castagni; biondo trasparente perché proveniente dalle fioriture dei ciliegi. Per il miele di prato il colore è biondo intenso. L’odore è comunemente gradevole con sapore ed aroma speciale. Il miele di castagno presenta un marcato con retrogusto di piacevole amaro. Per il “Miele della montagna veronese” concorre il particolare ambiente montano che fornisce gli aromi di prato, di bosco, d’acacia, di castagna, di conifere, di quercia, di faggio.

Processo di produzione: Il miele viene prodotto dalle api e s’ottiene per colamento naturale dai favi o per estrazione mediante centrifughe. La raccolta avviene in appositi contenitori e, successivamente, a mano o mediante l’ausilio di dosatori meccanici, posto in confezioni di vetro chiuse, avvitando un coperchio metallico, in cui viene conservato e avviato alla vendita.

Reperibilità: Il miele della montagna veronese è reperibile durante tutto l’anno presso i produttori e i rivenditori nella zona di produzione.

Usi: Il Miele è una sostanza facilmente assimilabile. È molto usato in pasticceria per la preparazione di dolci e dolciumi.