Grana Padano DOP

Materia prima: latte di due mungiture, di cui una scremata per affioramento o centrifugazione. Alimentazione: erba verde e mangimi in primavera-estate; insilati, fieno e mangimi in autunno-inverno.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a 32-35 gradi, aggiungendovi siero-innesto più caglio liquido. Dopo la coagulazione e la rottura della cagliata (a dimensione di chicco di mais) si aggiunge dello zafferano e si cuoce in due fasi: prima a 45 gradi, si spurga e poi si riscalda fino a 55 gradi. Dopo queste operazioni, la massa viene estratta con tele, previa eliminazione di gran parte del siero, e messa in mastelli di legno a spurgare per trenta minuti. Si deposita poi nelle fascere e si sottopone a pressione per 8-10 ore. La salatura si effettua a secco, ad intervalli di due giorni per 15 giorni, oppure in salamoia per 30-40 (tipo lombardo) o 15-20 giorni (tipo emiliano). Matura in circa 60 giorni, durante i quali le forme vengono periodicamente unte con olio di lino. Resa 7%. Additivi: formaldeide, nei limiti consentiti dalla legge.

Stagionatura: da 12 mesi fino a tre anni. Resa 6%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm 16-20; diametro: cm 40-45; peso: Kg 35-40; forma: cilindrica; crosta: dura, spessa, di colore giallo scuro; pasta: granulosa, a volte umida e attaccaticcia, di colore giallo chiaro.

Area di produzione: Lombardia, Piemonte, Emilia Romagna, Veneto, nelle provincie definite dal Decreto 30.10.1955 numero 1269.

Calendario di produzione: tutto l’anno, nelle sorti maggengo (primavera-estate) e invernengo (autunno-inverno).

Note: il Consorzio di tutela nasce il 18.6.1954. Da testimonianze del XIV secolo si deduce che la tecnica migliore per produrre il grana fosse appannaggio di Piacenza e dei piacentini. Benvenuto da Imola annotava che gli esperti mercanti, durante i loro lunghi viaggi per mare, si rifornivano di grana piacentino perché “più serbevole e resistente a tutte le malattie”. Il primo documento che parla di questo formaggio risale al 1184, mentre le prime fabbriche di formaggio detto “di grana” si localizzarono all’epoca del XII secolo nel quadrilatero compreso tra il Po, il Ticino, l’Adda e la latitudine di Milano. Dai ritagli delle forme del grana si ottiene il cosiddetto “tosello”, che consiste in fettuccine quasi gommose, di colore grigio paglierino tenue, dal gusto leggermente salato. I caseifici lo regalano, in quanto non ha mercato. Si consumava un tempo come “complimento” ammorbidito sulle fette di polenta abbrustolite sulle braci. Altro sottoprodotto del Grana è il “balon”, ossia formaggio grana mal riuscito, con sapore molto piccante provocato da particolari alterazioni fermentative. La maggior parte dei “balon” viene rilavorata per ottenere vari formaggi molli industriali o formaggi fusi. Va citato infine il “formaggio nisso”, costituito da Grana o formaggelle di montagna andate a male. In alcuni casi si accelerava il processo di fermentazione lasciandolo al sole spalmato di olio. E’ ricercato dai bevitori ed ha un gusto molto piccante. Nel Cremonese viene chiamato “tara”, ma è conosciuto, prodotto e consumato soprattutto in Emilia, nel Piacentino, in una quantità stimata di circa 50 quintali annui.

Provolone Valpadana DOP

Materia prima: latte intero.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo previa pastorizzazione a circa 37 gradi, aggiungendovi siero-fermento più caglio liquido di vitello o in pasta di capretto. Coagula in 15 minuti. Dopo la rottura della cagliata a dimensione di un chicco di mais o guscio di nocciola, si cuoce a 49-50 gradi (con vapore indiretto). Dopo queste operazioni, si attende giusta consistenza della massa, in seguito a fermentazione per 40 ore a 20-25 gradi. Si procede quindi alla filatura della pasta, versandovi acqua calda a 70 gradi. Segue la formatura ed il raffreddamento delle forme. La salatura si effettua per bagno in salamoia (18-20%) per 12-24 ore per ogni chilo di peso del formaggio. Matura in 20 giorni circa. Le forme vengono legate a coppie con funi e si pongono a cavallo di appositi sostegni. Possono essere affumicate.

Stagionatura: da 3 a 6 mesi, fino a oltre un anno circa, in ambiente a 12-18 gradi e umidità del 75-85%. Durante questo periodo, le forme vengono intinte in un bagno di paraffina prima della commercializzazione. Resa 9%.

Caratteristiche del prodotto finito: peso: Kg 1-6; forma: tronco-conica o a pera, a melone, a salame o a cilindro allungato; crosta: sottile, lucida, di colore giallo dorato, talvolta giallo bruno; pasta: compatta, priva di occhi, di colore dal bianco al paglierino. E’ tollerata una leggera occhiatura; grasso: 45%; sapore: dolce butirroso alla media stagionatura, pronunciato verso il piccante a stagionatura avanzata o quando si sia fatto uso di caglio di capretto.

Area di produzione: dalla capitale Cremona si irradia in tutta Italia, in particolare Lombardia e Veneto.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: il nome deriva dalla parola napoletana “prova” da cui provola dato a latticini di forma sferica e in origine prodotti con latte di bufala. L’origine è dunque meridionale ma l’impianto della prima impresa napoletana nelle campagne lombarde è di controversa data, forse collocabile già durante il dominio austriaco. Certo è che Jacini cita il fenomeno e che Germano Auricchio, capostipite di una ancor attualissima dinastia, si stabilisce nel 1891. La produzione è tutelata dal Dpr 30.10.1955 n. 1269 da cui è nato il Consorzio del formaggio tipico Provolone (D.m. 22.2.1978). La legge 10.4.1954 n. 125 consente l’uso della denominazione “Provolone tipico” contrassegnato dalla coccarda tricolore. È proposto il passaggio a produzione di origine controllata, all’interno di un’area che a grandi linee dovrebbe comprendere tutta l’alta Italia.

Asiago DOP

Materia prima: latte ottenuto da due mungiture, di cui una scremata per affioramento, da razza Pezzata nera (60%) e Bruno-alpina (40%).

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte crudo a circa 35 gradi, aggiungendovi caglio in polvere o liquido previa addizione, se necessario, di innesto-fermento. Coagula in 20-30 minuti. Dopo la rottura della cagliata effettuata con lo “spino” o con la “lira” (a dimensione di un chicco di riso o di frumento) si cuoce in due fasi: una prima a 40 gradi e una seconda arrivando fino a 47 gradi. Dopo queste operazioni, la massa viene lasciata riposare nel siero e quindi estratta e posta in fascere di legno, sostituite poi con altre in plastica per imprimere il marchio Doc. La salatura si effettua a secco sulle forme o per bagno in salamoia per alcuni giorni. Matura in 90 giorni, in ambiente a 17 gradi circa e 80% di umidità, dove le forme vengono girate ogni 3-4 giorni, unte con appositi oli una volta a settimana, spazzollate una volta al mese.

Stagionatura: 6-12 mesi fino a 2 anni circa. Resa 7-7,5%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm. 9-12; diametro: cm. 30-36; peso: Kg. 8-12; forma: cilindrica; crosta: appena 3-4 mm., liscia e regolare; pasta: compatta, con occhiatura di piccola e media grandezza, colore leggermente paglierino; granulosa, a spaccatura concoide e colore paglierino, se la stagionatura ha superato l’anno. Sapore: leggermente piccante se ben stagionato. Grasso: 34% minimo.

Area di produzione: provincia di Vicenza, due zone del padovano (i comuni adiacenti alla provincia di Vicenza e fra Carmignano di Brenta e Rovolon) e del Trevigiano (la fascia collinare e sud-collinare fra il Piave ed il Vicentino). Comprende anche la provincia di Trento.

Calendario di produzione: tutto l’anno.

Note: si hanno notizie risalenti al Medioevo, circa la produzione casearia sull’Altipiano di Asiago. Il formaggio quivi ottenuto, fino al XIX secolo, era chiamato “pecorino” (“pegorin” ). La fabbricazione dell’Asiago (prevalente, alla fine del secolo scorso, sull’altopiano omonimo) a poco a poco si estese sulla parte pedemontana, nelle zone di pianura ed anche nelle vicine malghe trentine. E’ detto “di allevo” perché la stagionatura ne costituisce un vero e proprio allevamento. E’ detto “mezzano” o “Asiago mezzano” quando è di almeno 6 mesi; è “Asiago vecchio” quando ha superato l’anno di età; è “Asiago stravecchio” verso i due anni di età. Riconosciuto Doc con Dpr del 21.12.1978.

Dolcezza d’Asiago

Materia prima: latte intero (a bassa acidità).

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte previa pastorizzazione a circa 36 gradi, aggiungendovi fermenti lattici specifici più caglio liquido. Coagula in 25 minuti. Dopo la rottura della cagliata (a dimensione di chicco di riso), si cuoce a 40 gradi con acqua calda. Dopo queste operazioni, la massa viene lasciata spurgare, quindi travasata, tagliata, messa nelle fascere e pressata; dopodiché si lascia riposare fino al giorno successivo. La salatura si effettua per bagno in salamoia (20-22%) durante un giorno. Matura in 20 giorni, in ambiente a temperatura di 8-10 gradi, poi è pronto per il consumo.

Stagionatura: non si effettua.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm. 8; diametro: cm. 30-35; peso: Kg. 7,5; forma: cilindrica; crosta: sottile e morbida; pasta: compatta, occhiatura lieve o assente, colore paglierino. Sapore: dolce.

Area di produzione: Asiago (VI).

Calendario di produzione: tutto l’anno, a seconda della richiesta di mercato.

Note: è una produzione nuova (due anni). Si chiama così per le sue doti di dolcezza e delicatezza ancora più spiccate rispetto all'”Asiago pressato”.

Morlâc (o Morlacco)

Materia prima: latte intero e/o parzialmente scremato. Alimentazione: al pascolo, se di produzione estiva.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte previa pastorizzazione o crudo (in malga) a circa 37-38 gradi, aggiungendovi fermenti termofili (se pastorizzato) e/o caglio liquido o in polvere. Coagula in 25-30 minuti. Dopo la rottura della cagliata (a dimensione di guscio di noce o mezza noce), si cuoce a 39 gradi, oppure si continua semplicemente a lavorare la cagliata, con varie soste di 10 minuti cadauna. Dopo queste operazioni, la massa viene lasciata riposare, effettuando poi l’estrazione in canestri in vimini (oggi quasi del tutto sostituiti con analoghi contenitori in plastica). La salatura si effettua in salamoia (18%) o a secco sulle forme, in tre riprese per 4 giorni. Matura in 20 giorni, in ambiente con meno di 10 gradi e umidità 90-95%, dove le forme vengono spesso rivoltate.

Stagionatura: fino a 2 mesi circa, in ambiente leggermente meno umido. Durante questo periodo, le forme vengono periodicamente bagnate con acqua salata. Resa 11-12%.

Caratteristiche del prodotto finito: altezza: cm. 6-9; diametro: cm. 30-32; peso: Kg. 6-7,5; forma: cilindrica; crosta: striata, tenera, colore paglierino; pasta: molto occhiata (specie se si è usato latte crudo), bianca. Sapore salato, di solito non piccante.

Area di produzione: area pedemontana del Grappa e Massiccio del Grappa.

Calendario di produzione: tutto l’anno, prevalentemente in estate, durante gli alpeggi.

Note: la denominazione deriva dal nome degli abitanti della Morlacchia (aree montuose dell’Istria e della Dalmazia). Componenti di quelle popolazioni si insediarono, svariati secoli addietro, sul massiccio del Grappa, portandosi la propria tradizione casearia. Ancora oggi qualcuno usa stagionare il prodotto nel letame maturo.

Formaggio caciotta di Asiago

Territorio interessato alla produzione: Altopiano di Asiago, in provincia di Vicenza

La storia: La caciotta è un prodotto tipico delle malghe dell’altopiano di Asiago, confezionato da secoli dai malgari della zona. Grazie a semplici operazioni di caseificazione si ottiene un formaggio gustoso, di conservazione semplice, anche se non prolungata, che fa parte della tradizione alimentare della zona per la sua praticità e facilità di consumo.

Descrizione del prodotto: La caciotta fresca di malga è un formaggio fresco prodotto con latte vaccino intero o parzialmente scremato crudo. È un formaggio prodotto in malga, fresco a pasta molle, va consumato entro 1 mese dal suo ottenimento, semicotto perché dopo la coagulazione della cagliata si raggiungono temperature di 33 °C. Si presenta di forma cilindrica, del diametro di circa 14 cm, scalzo di 7-8 cm e peso di circa 0,8-1,2 kg, dal sapore delicato e gradevole con la crosta sottile, liscia e di colore paglierino e pasta bianca.

Processo di produzione: Il latte munto e filtrato viene messo nella caldaia a scaldare e, raggiunta la temperatura di 30 °C, si addiziona il caglio in polvere sciolto in un po’ di latte o di acqua. Si lascia riposare fino a coagulazione della cagliata e quindi si effettua una rottura grossolana della stessa, con la lira o lo spino, per favorire lo spurgo del siero; si riaccende il fuoco e agitando continuamente con la “battarella”, si raggiunge la temperatura di 33-34 °C. Si toglie dal fuoco e si continua a mescolare finché il formaggio “non asciuga” (significa che spurga ulteriormente e la cagliata diventa coesiva). Si raccoglie la cagliata dal fondo e i pezzi vengono subito messi in cestelli di plastica, posti su vasche di acciaio, per favorire un rapido spurgo del siero. Dopo 15-20 minuti si tolgono le forme dai cestini, si rivoltano, si rimettono nei cestini e si lasciano riposare per 2 ore. Trascorso il tempo di riposo si immergono in una vasca contenente sale disciolto in una soluzione al 14% di acidità e si lasciano per 4-5 ore in salamoia. Successivamente si mettono a scolare su una vasca di acciaio, si portano in un locale fresco o in frigorifero fino a commercializzazione del prodotto.

Reperibilità: Presso le malghe dell’altopiano e i caseifici della zona il prodotto è reperibile durante tutto l’anno.

Usi: La caciotta è un formaggio da tavola che si presta bene anche per la preparazione di antipasti o per insaporire insalate fresche e come condimento di primi piatti al forno.

Formaggio Malga dell’Altopiano dei Sette Comuni

Territorio interessato alla produzione: Sette Comuni dell’altopiano di Asiago

La storia: Dalle “Ipitome di notizie storiche ed economiche dei 7 comuni vicentini” di Giuseppe Nalli, edito nel 1895, si apprende che sin dal 912, epoca di dominio dei vescovi e feudatari di Padova, tra le attività economiche locali prevalevano l’allevamento del bestiame e la conseguente lavorazione del latte. Quella dell’Allevo è una produzione antica e tramandata di generazione in generazione fino ai giorni nostri, che si effettua ancora secondo metodi tradizionali che conferiscono al formaggio un sapore e un gusto particolare e molto apprezzato.

Descrizione del prodotto: L’Allevo di malga è un formaggio prodotto con latte vaccino crudo, parzialmente scremato e semigrasso perché ottenuto da due munte, della sera e della mattina, che vengono miscelate assieme. Può essere semistagionato, se pronto per essere consumato dopo 6 mesi (allevo mezzano), o stagionato pronto per essere consumato dopo 1 anno (allevo vecchio) o 1 anno e mezzo – 2 anni (allevo stravecchio). La pasta è dura, con occhiatura piccola e sparsa detta ad occhio di pernice che tende a ridursi mano a mano che la stagionatura procede e la forma perde fino ad un quarto del proprio peso. La crosta si presenta liscia e regolare di colore paglierino che scurisce con la maturazione. Le dimensioni variano in altezza dai 9 ai 12 cm e in peso dai 7 ai 9 kg; il diametro varia dai 30 ai 36 cm. Al tatto la pasta si presenta compatta e leggermente untuosa, all’olfatto si ha un’intensa sensazione di fiori amari, spezie, timo e fieno secco.

Processo di produzione: Il latte munto della sera viene filtrato, lasciato riposare tutte la notte in vasche di acciaio e al mattino successivo la panna formatasi viene tolta. Il latte così scremato viene messo nella caldaia assieme a quello intero della munta della mattina. Si porta a temperatura di 35 °C mescolando e si aggiunge il caglio in polvere. Si lascia riposare fino a coagulazione della cagliata e si effettua allora la rottura della cagliata ottenendo dei granuli delle dimensioni di un granello di riso; si riaccende il fuoco agitando continuamente con la “battarella” fino a raggiungere la temperatura di 46 °C. Si toglie dal fuoco e si continua a mescolare finché il formaggio “non asciuga”. Si raccoglie quindi la massa solida dal fondo della caldaia e si deposita su tavoli d’acciaio dove viene tagliata in pezzi delle dimensioni di una forma. Viene subito messa in stampi di legno dove rimane a riposare per 8-9 giorni; si tolgono quindi dagli stampi e si mettono nelle fascere. Successivamente vengono portate nel “reparto frescura”, dove resteranno 4-6 giorni. Durante questo periodo le forme verranno tenute nelle fascere solo durante la notte e lasciate libere, ad asciugare, durante il dì, rivoltandole ogni 24 ore. Trascorso il periodo di frescura le forme ritornano al locale di salatura dove vengono lavate, spazzolate e bagnate all’occorrenza con acqua o siero distribuendo sopra del sale a secco. Rivoltate per 6-7 giorni, le forme si portano nel reparto poi di stagionatura dove rimangono per un anno o due.

Reperibilità: Nelle malghe dell’Altopiano dove è prodotto, e presso i rivenditori della zona, il prodotto è reperibile durante tutto l’anno.

Usi: L’Allevo di malga viene utilizzato solitamente come formaggio di fine pasto e usualmente si accompagna con la polenta, morbida o abbrustolita.

Formaggio al latte crudo di Posina

Territorio interessato alla produzione: Posina, Arsiero, Laghi (VI)

La storia: Il formaggio di Posina è il tipico formaggio a latte crudo che si ottiene in tutte le zone prealpine del vicentino. Si produce da decenni nella zona, con metodi tramandati di generazione in generazione. È detto “di allevo” perchè la stagionatura ne costituisce un vero e proprio “allevamento” condotto con particolare cura in appositi locali.

Descrizione del prodotto: Il formaggio di Posina è prodotto con latte intero crudo vaccino, salato a secco, con una stagionatura che varia da 1 a 6 mesi. Le forme sono alte circa 9-12 cm, di diametro di 30-36 cm e di peso di circa 8 kg. La forma è cilindrica a scalzo diritto o quasi, crosta appena 3-4 mm, liscia e regolare di colore paglierino, la pasta è compatta, con una occhiatura sparsa di piccola media grandezza, colore leggermente paglierino. Ha un gusto amarognolo (la pastorizzazione del latte tende ad addolcire il formaggio).

Processo di produzione: Il latte crudo vaccino viene portato ad una temperatura di 27-28°C all’interno della calièra, poi viene tolto dalla fonte di calore e si aggiunge caglio liquido previa addizione, se necessario, di innestofermento. Coagula in circa 20 minuti. Dopo la rottura della cagliata, prima con il trìso e poi sminuzzando con la lira, si cuoce in due fasi: dopo aver mescolato per una quindicina di minuti dopo la rottura della cagliata mantenendo la temperatura a 27-28°C, si ridà vapore fino a raggiungere 32°C, dopo di che si lascia per 5 minuti, per poi dare vapore una seconda volta per portare il tutto a 37°C, questa volta molto lentamente, circa in 15-20 minuti (in modo da permettere che il formaggio si asciughi e butti fuori tutto il siero) continuando a mescolare affinché i grumi cuociano saldandosi insieme. Dopo queste operazioni, la massa viene lasciata riposare nel siero (circa 10 minuti), lasciata depositare sul fondo in un unico blocco spugnoso e quindi estratta previa rottura in pezzi di circa 10 kg. Tolta con le mani, viene riposta nelle fasciere di legno (fassère). Per 6-7 ore le forme vengono lasciate in una vasca d’acciaio leggermente inclinata di modo che scolino e, alla sera, riposte sui ripiani di legno. Poi, direttamente a contatto con il legno, vengono rivoltate e salate sulla superficie per tre volte in tre giorni. Rimangono nelle fasciere ancora per 3-4 giorni in modo che assorbano tutto il sale. Dopo una settimana, formata la crosta, si può lavare la forma, anche più volte, per pulirla dallo scolo residuo. Rimangono a stagionare per minimo 60 giorni in un ambiente condizionato ad una temperatura di circa 17°C e con un 80% di umidità. Dura fino ad un massimo di 6 mesi, dopo di che comincia a diventare troppo piccante.

Reperibilità: Nella zona di produzione si può trovare presso il caseificio o le rivendite alimentari. Saltuariamente è reperibile anche nella provincia e nella città di Vicenza.

Usi: Questo prodotto è un ottimo formaggio da pasto, ma può essere utilizzato anche come ingrediente per sughi o ripieni.

Formaggio Bastardo del Grappa

Territorio interessato alla produzione: Area del Massiccio del Grappa nell’intero territorio dei comuni di: Borso del Grappa, Crespano del Grappa, Paderno del Grappa, Possagno, Cavaso del Tomba (in provincia di Treviso), Alano di Piave, Quero, Feltre, Seren del Grappa, Arsiè (in provincia di Belluno), Cismon del Grappa, San Nazario, Solagna, Pove, Romano d’Ezzelino (in provincia di Vicenza).

La storia: Il formaggio “bastardo” è un formaggio la cui produzione risale all’800, periodo in cui era prodotto nelle malghe venete. Chiamato così perché è un ibrido di lavorazione tra Asiago pressato e l’Asiago d’allevo. È un prodotto tradizionale degli alpeggi del Grappa. Sembra probabile che la diffusione di tale tipologia casearia abbia preso sviluppo, dopo il secondo dopoguerra, con l’affermarsi di condizioni economiche e sociali meno precarie. La notevole diversità di ambienti presenti nel Grappa assicura foraggi con flora assai ricca e varia. Ciò permette di apportare una maggiore ricchezza di aromi e sapori al latte.

Descrizione del prodotto: È un formaggio prodotto con latte vaccino semigrasso, cagliatura presamica, a pasta semicotta. Ottenuto in malga da latte crudo, parzialmente scremato per affioramento, oppure in stabilimenti a valle, sottoposto a trattamento termico. Ha forma cilindrica, di peso variabile da 2,5 a 5 kg, diametro 20-35 cm, scalzo diritto alto 5-8 cm, facce piane, crosta asciutta e pulita. La pasta è morbida, paglierina, con occhiature piccole, colore più pronunciato da maturo. La stagionatura apporta variazioni anche alla consistenza della pasta che diventa progressivamente più granulosa ma assolutamente compatta. Sapore dolce, sapido, che si fa più intenso da invecchiato, profumo gradevole si accentua da maturo.

Processo di produzione: In malga, il latte della mungitura serale viene posto in vasche di affioramento in locale ventilato chiamato “Cason dell’Aria”, e lasciato lì fino al mattino successivo. Viene quindi separato dalla materia grassa, posto in caldera di rame e mescolato al latte della mungitura del mattino, per essere riscaldato ad una temperatura compresa tra i 38° e i 42° C, aggiungendo il caglio. La cagliata viene lasciata riposare per 25-30 minuti, quindi rotta finemente e nuovamente riscaldata fino a 48° – 50° C. La si divide in porzioni di adeguata grandezza, che vengono estratte mediante tele e quindi poste in fascere forate per permettere lo spurgo del siero, quindi in fascere di legno e sottoposte a lieve pressatura. La forma si lascia riposare, in “cason del fogo” per 2-3 giorni, fin quando la pasta assume una consinstenza morbida. La salatura dura per 4-5 giorni. La maturazione avviene in un locale adatto chiamato “casarin”, per almeno 25 giorni. L’invecchiamento può superare l’anno. Durante questa permanenza il formaggio viene rivoltato frequentemente per favorire l’asciugatura e sottoposto a raschiatura ed oliatura per eliminare le muffe eventuali presenti.

Reperibilità: Il formaggio “bastardo” è reperibile nelle malghe del Grappa e nelle latterie della zona da giugno a ottobre.

Usi: Il formaggio Bastardo del Grappa va consumato crudo in antipasto o come secondo piatto ma può essere anche fritto o cotto alla griglia.

Formaggio misto pecora fresco dei Berici

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Mossano e Montegalda (VI)

La storia: Il formaggio misto pecora fresco è presente nel territorio da molto tempo perchè nelle case contadine vi era sempre l’allevamento promiscuo di ovini e bovini. C’era quindi una maggior convenienza nel miscelare i latti delle due specie con una maggiore quantità di latte vaccino. Sulla produzione di questo formaggio ed in generale sulla tradizione dell’allevamento ovino nel vicentino si segnala il libro “L’allevamento ovi-caprino nel Veneto” a cura di Emilio Pastore e Luigi Fabbris (1999).

Descrizione del prodotto: Il formaggio misto pecora è prodotto con latte intero pecorino e vaccino, che vengono lievemente pastorizzati a 60°C per 3 minuti. La salatura avviene a secco. La pasta è morbida ed elastica, dal colore bianco paglierino, senza occhiatura. La crosta si presenta sottile ed elastica. La forma è cilindrica, ci altezza 6-7 cm e diametro 14-18 cm, mentre il peso varia dai 250 g ai 2 kg. Il sapore è dolce e delicato.

Processo di produzione: Per la produzione del formaggio misto pecora, si miscelano il 20% di latte di pecora e l’80% di latte vaccino. Questa miscela viene riscaldata nella calièra fino ad una temperatura di 30-35°C (più bassa la temperatura più si conserva molle la pasta), e si aggiunge il caglio, càjo (per il latte di pecora o di capra si usava anche l’erba caglio, il Gallium verum L.). Quando il latte coagula (dopo circa 12 minuti), la massa viene rotta e sminuzzata, prima in maniera grossolana e poi fino a raggiungere pezzetti della dimensione voluta: per il formaggio tenero fresco i pezzi devono raggiungere la grandezza di una noce, per lo stagionato come un chicco di riso (perché spurghi meglio l’acqua). La calièra va quindi riportata sul fuoco, rialzando la temperatura a 33°C, per 5-6 minuti in modo che i grumi, rimescolati con un mèscolo o con la rissòla, cuociano saldandosi assieme. Dopo aver ravvivato il fuoco, si stacca nuovamente la calièra e si lascia riposare per 10 minuti, per favorirne l’agglomerazione in un unico blocco. La cajà è cotta e, recuperata con le mani dal fondo del recipiente, viene posta nelle fassàre, effettuando una pressatura sulla superficie. Dal siero restante si può ricavare una particolare ricotta di misto pecora. La salatura delle forme avviene a secco su entrambe le superfici, lasciandole sotto sale per circa 12 ore (il c.d. covèrcio de sale) e tolto dalle fassàre dopo 48. Si lascia quindi maturare, con l’accortezza di rivoltare le forme per i primi 15 giorni. Dopo una settimana forma la gròsta, dopo di che si può lavare la forma, anche più volte, per pulirla dallo scolo residuo. Le stanze di maturazione e conservazione del pecorino fresco debbono essere fresche (10-12°C) e garantire un’umidità relativa intorno al 70-80 %: ciò consente che non si verifichino rotture nella crosta. Il misto pecora fresco sarà pronto in 60 giorni.

Reperibilità: Il prodotto è reperibile presso le latterie, le malghe, gli agriturismi e la piccola distribuzione in tutto il territorio del vicentino e delle zone limitrofe.

Usi: Il misto pecora è un formaggio utilizzato solitamente come formaggio di fine pasto o per la preparazione di stuzzichini o antipasti.

Formaggio pecorino dei Berici

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Mossano e Montegalda (VI)

La storia: “Sino agli inizi dell’800 nel Veneto venivano allevate diverse razze o popolazioni autoctone […] con dei caratteri morfologici e genetici ben definiti, che consentivano di identificarne anche i diversi indirizzi produttivi. Vi erano, infatti pecore […] a triplice attitudine (lana, carne e latte). […] “dopo l’allevamento degli agnelli, le pecore venivano munte per circa quattro mesi, con una produzione di 150-200 litri di latte. Il latte era impiegato per uso domestico o trasformato in formaggio che, essendo molto ricercato dai consumatori veneti, veniva venduto ai piccoli commercianti del luogo.” (Emilio Pastore, “L’allevamento ovi-caprino nel Veneto” 1999).

Descrizione del prodotto: Il pecorino è un formaggio prodotto con latte intero di pecora, a salatura a secco. La pasta è morbida ed elastica, dal colore bianco paglierino, senza occhiatura, la crosta è sottile. La forma è cilindrica, di altezza 6-7 cm e diametro 14-18 cm, mentre il peso varia dai 250 g ai 2 kg. Il sapore è dolce e delicato e risulta più o meno piccante a seconda dello stadio di maturazione.

Processo di produzione: Il latte va riscaldato nella calièra fino ad una temperatura di 30-35°C e poi vi si aggiunge il caglio, càjo (per il latte di pecora o di capra si usava anche l’erba caglio, il Gallium verum L.). In circa 12 minuti il latte coagula e la massa viene rotta prima in maniera grossolana e successivamente ripresa fino a raggiungere pezzetti della dimensione voluta. Dopo aver rimesso la calièra sul fuoco si fanno raggiungere i 33°C, per 5-6 minuti in modo che i grumi, adeguatamente mescolati, cuociano saldandosi assieme. A questo punto si stacca la calièra dal fuoco e si lascia riposare per 10 minuti, per favorirne l’agglomerazione in un unico blocco spugnoso in fondo al recipiente, che recuperato, viene posto negli stampi (fassàre). Si procede dunque alla salatura delle forme: su entrambe le superfici viene cosparso il sale. Il formaggio viene lasciato sotto sale per circa 12 ore (il c.d. covèrcio de sale) e tolto dalle fassàre dopo 48. Si lascia quindi maturare con l’accortezza di rivoltare le forme per i primi 15 giorni. Dopo una settimana forma la gròsta, e si può lavare la forma, anche più volte, per pulirla dallo scolo residuo. Il pecorino fresco sarà pronto in 60 giorni. Risulta più o meno piccante a seconda dello stadio di maturazione e può continuare la sua maturazione anche fino a tre mesi, dopo di che viene considerato “stagionato” (perdendo la qualifica di “fresco”); può conservarsi a lungo, fino anche a 12 mesi. Il pecorino del Basso Vicentino tende a rimanere più dolce di quello di montagna; l’alimentazione a secco (fieno, mangime), che si pratica per gli allevamenti stanziali attuali della zona del Basso Vicentino, comporta formaggi pecorini più leggeri e molto dolci per il minor apporto di acidi grassi, normalmente presenti nell’erba fresca. Pur presentandosi tipicamente dolce, il pecorino risulta saporito, ad alto valore nutritivo e biologico.

Reperibilità: Il prodotto è reperibile presso le latterie, le malghe, gli agriturismi e la piccola distribuzione
in tutto il territorio del vicentino e delle zone limitrofe.

Usi: Il pecorino dei Berici è un formaggio utilizzato solitamente come formaggio di fine pasto o per la preparazione di stuzzichini o antipasti.

Formaggio pecorino fresco di malga

Territorio interessato alla produzione: Comuni dell’Altopiano di Asiago, in particolare Roana e Lusitana, in provincia di Vicenza.

La storia: Il pecorino è uno dei formaggi più diffusi in Italia, prodotto con latte ovino secondo ricette tramandate da generazioni e differenti da zona a zona. Nelle malghe vicentine questo prodotto assume caratteristiche peculiari grazie all’alimentazione degli animali che può contare in un amplissimo numero di specie vegetali e permette di produrre un formaggio molto apprezzato. Da ricerche storiche e bibliografiche e dalle dichiarazioni dei produttori è possibile attestare che il pecorino fresco di malga viene prodotto con un metodo di lavorazione tradizionale e omogeneo da decenni. Inoltre una testimonianza interessante si trova nel libro Allevamento della pecora, di N. Tortorelli (1984).

Descrizione del prodotto: Prodotto con latte di pura pecora, ha forma cilindrica con un’altezza di circa 8cm ed un diametro di 22 cm. Il peso varia dai 2 ai 2,5 kg. Presenta crosta sottile e pasta compatta di colore bianco paglierino; il sapore è dolce non piccante.

Processo di produzione: Il latte munto manualmente, dopo essere stato filtrato con dei panni di lino, viene versato in un’apposita caldaia di rame stagnata internamente (per evitare riscaldamenti troppo rapidi). Viene lavorato fino a temperatura di 38,5 °C e successivamente aggiunto il caglio in polvere stemperato in un po’ d’acqua. Il latte viene agitato fortemente con un bastone di legno per 1-2 minuti e lasciato riposare finché avviene la coagulazione del latte (il momento ottimale corrisponde al tempo in cui spontaneamente la massa semisolida si distacca dalle pareti della caldaia). Si effettua dunque la rottura della cagliata ottenendo frammenti delle dimensioni di una lenticchia, per favorirne lo spurgo; si riaccende il fuoco agitando in continuazione e si riporta a 41 °C, si immergono le braccia nel liquido per favorire l’unione dei grumi sul fondo e controllare che non si formino ammassi duri che potrebbero causare il successivo deperimento della forma. Con il coltello si taglia la cagliata in pezzi da forma che vengono messi a scolare dal siero residuo in stampi di plastica. L’operazione deve essere fatta quando la cagliata è ancora calda altrimenti il coagulo si stacca. Segue la lavorazione tipica della pasta: la spremitura con le mani e/o la“frugatura” con la punta di un coltello. Queste operazioni vengono effettuate tutte manualmente operando uno sbriciolamento della cagliata con le dita alternato ad azioni di pressione, sempre con le dita, per favorirne lo scolo del siero ancora presente. Il costipamento dei “bricioli” di cagliata può essere facilitato ponendo sopra ogni stampo dei pesi (viene messo un coperchio di legno o di sughero con un peso di piombo) o più forme. Si ottiene così la forma di formaggio che dopo 12 ore viene tolta dallo stampo di plastica e salata mediante salamoia. La soluzione deve contenere 18% di acidità e ogni singola forma deve restare immersa per almeno 24 ore. Importante è ottenere la superficie esterna della forma liscia, priva di rugosità, altrimenti la forma tende a rompersi o a fessurarsi. Le forme possono esser smerciate in breve tempo avvolte in carta oleata.

Reperibilità: Il pecorino fresco di malga viene prodotto nelle malghe vicentine durante il periodo dell’alpeggio ed è reperibile presso le strutture che lo producono durante i mesi estivi.

Usi: Il pecorino fresco è un ottimo formaggio da fine pasto o da utilizzare per stuzzichini e antipasti.

Caprino (tipo francese)

Materia prima: latte di pura capra, da razza Alpina, Camosciata e Saanen. Alimentazione: al pascolo collinare, con vegetazione mista di bosco ceduo e prato cespugliato.

Tecnologia di lavorazione: si porta il latte previa pastorizzazione a circa 25 gradi, aggiungendovi fermenti lattici più caglio liquido e mettendolo in un contenitore isolato. Coagula in 24 ore. Dopo queste operazioni, la massa viene avvolta in teli appositi, si lascia spurgare e quindi si dispone nelle forme. La salatura si effettua in pasta, a occhio. Matura in 24 ore in ambiente a temperatura naturale.

Stagionatura: al massimo fino a 15 giorni. Resa 15%.

Caratteristiche del prodotto finito: peso: Kg. 0,5; forma: cilindrica; crosta: assente; pasta: tenera, di consistenza simile alla ricotta, bianca; grasso: 41-42%, sapore aspro.

Area di produzione: S. Ambrogio di Valpolicella (VR) e Montegalda (VI).

Calendario di produzione: da marzo a settembre.

Note: è un formaggio nato in Francia, dove è prodotto con latte crudo. Si consuma condito con olio e aromi. Si produce in Veneto da una dozzina d’anni.

Formaggio acidino – Fior di capra con o senza erbette

Territorio interessato alla produzione: Comuni dell’Altopiano di Asiago, in particolare nel Comune di Lusiana in provincia di Vicenza.

La storia: L’acidino fior di capra è uno dei tanti prodotti caseari tipici dell’Altopiano dei Sette Comuni. Ottenuto dal latte caprino, avvalendosi di una metodologia semplice, è un prodotto apprezzato per il gusto particolare e la facile digeribilità. Secondo le testimonianze orali che si possono raccoglie nella zona, il metodo di produzione appartiene alla tradizione casearia locale e consente di realizzare un formaggio semplice ma molto apprezzato.

Descrizione del prodotto: L’acidino fior di capra è un formaggio molle derivato dal latte caprino, a pasta fresca e a brevissima conservazione. Il latte intero pastorizzato subisce un processo di acidificazione naturale, al quale vengono aggiunte erbette aromatiche di montagna e sale. Si presenta in formine di piccole dimensioni, simili a salsicce o di forma tronco conica, con pasta di colore bianco e la presenza eventuale delle erbette. Il sapore è delicato e leggermente acidulo, ma gradevole.

Processo di produzione: Il latte munto viene filtrato con dei coli di plastica e dei filtri di carta e successivamente pastorizzato a temperatura di 72°C. Segue un processo di termizzazione per portare rapidamente la temperatura del latte a 20°C. Si lascia riposare per 15-20 ore in modo da favorire un’acidificazione naturale del latte fino al 18%. Si aggiunge poco caglio per favorire la coagulazione della cagliata; si agita fortemente con un bastone e si lascia riposare 5 minuti. La cagliata si deposita sul fondo e viene tagliata in pezzi delle dimensioni di 40 x 40 cm e raccolta con delle tele, appoggiata su un piano d’acciaio e messa a scolare in cassette bucate di materiale plastico per alimenti. Rimane a scolare una notte intera. Il giorno successivo si lavora la pasta con le mani facendo delle formine simili a salsicce, a cui si aggiungono, a seconda della stagione, erbette fresche e aromatiche come cumino, timo, erba cipollina, crescione e sale. Le formine così ottenute vengono avvolte in pellicole di plastica e messe in frigorifero per essere brevemente commercializzate.

Reperibilità: Presso le latterie, i caseifici e i rivenditori al dettaglio della zona, l’acidino è reperibile abbastanza facilmente durante tutto l’anno.

Usi: Questo particolare formaggio è consigliato nella primissima infanzia, ai bambini che presentano intolleranze al latte vaccino, e alle persone anziane, date anche le caratteristiche di morbidezza della pasta.

Caciocapra

Territorio interessato alla produzione: Comuni dell’Altopiano di Asiago, in particolare Lusiana (VI)

La storia: Il formaggio di capra è uno dei tanti prodotti caseari che offre la provincia di Vicenza. La produzione appartiene dunque alla tradizione locale di allevamento delle capre, tipica soprattutto della zona dell’Altopiano di Asiago. Ancora oggi, presso gli allevatori caprini, si tramanda la produzione di caciocapra con regole tramandate oralmente tra i casari, che consentono di ottenere un formaggio particolare e molto apprezzato dagli estimatori. Il prodotto è citato nel volume “Il formaggio veneto. Itinerari per il palato”, AAVV, Piazzola sul Brenta, 1999.

Descrizione del prodotto: Il caciocapra è un formaggio prodotto con latte di capra intero termizzato proveniente da due mungiture, a pasta semicotta, dura. La coagulazione avviene per acidità naturale con l’aggiunta di caglio vegetale in polvere. È un formaggio di brevemedia stagionatura (da due a quattro mesi). Si presenta con forme cilindriche del peso variabile da 0,5 a 2 kg. Non presenta necessariamente pasta bianco-candida in quanto a mano a mano che invecchia, tende ad assumere colorazione più scura.

Processo di produzione: Il latte viene filtrato accuratamente con coli di plastica e filtri di carta per ottenere latte sano, esente da microrganismi che si possono sviluppare durante le fasi di stagionatura. Il latte della sera viene lasciato riposare tutta la notte e successivamente messo nella caldaia di rame assieme al latte della mungitura della mattina per la termizzazione a 65-67 ° C. Quindi si spegne il fuoco e lo si lascia riposare per 10-17 minuti a seconda delle condizioni climatiche e successivamente si immerge nel latte una serpentina all’interno della quale passa dell’acqua fredda che abbassa in breve tempo la temperatura del latte a 37°C. Si aggiunge, quindi, caglio secco diluito in un po’ d’acqua, si miscela con il latte e si lascia riposare per 15-20 minuti. Avvenute la coagulazione si rompe la cagliata ottenendo frammenti delle dimensioni di una nocciola e si lascia riposare per 1 minuto per ottenere lo spurgo del siero. Si lascia riposare altri 2 minuti, si riaccende il fuoco e si raggiungono i 45°C. Si spegne il fuoco, si lascia deporre la cagliata sul fondo e, con la “tela del casaro”, si estrae il formaggio dalla caldaia. Viene quindi messo nelle formelle di plastica per favorire lo scolo degli ultimi residui di siero. Le forme e si lasciano riposare tutta la notte e il giorno successivo si salano le facce e si mettono in una salamoia per un tempo variabile a seconda delle dimensioni, quindi si mettono nel locale maturazione e conservazione dove rimangono dai 2 ai 4 mesi.

Reperibilità: Il prodotto è reperibile presso alcune malghe o le aziende agricole in cui vengono allevate le capre e lavorato il latte prodotto dagli animali. Alcuni rivenditori della zona e della città di Vicenza propongono il prodotto direttamente ai consumatori.

Usi: Il cacio di capra è un formaggio da pasto, dal gusto particolare, saporito, gustoso e leggermente piccante se stagionato. Può venire utilizzato come ingrediente per salse o ripieni e se stagionato, viene grattuggiato.

Ricotta affumicata della Val Leogra

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: RICOTTA AFFUMICATA; RICOTTA AFFUMICATA DELLA VAL LEOGRA

Territorio interessato alla produzione: Provincie di Vicenza e Belluno

La storia: Nelle malghe delle montagne venete esiste da sempre l’usanza di appendere sul camino la ricotta in modo da farla affumicare lentamente e permetterle di assumere i profumi delle specie legnose bruciate di faggio, rovere e conifere. Dall’agordino all’Altopiano del Cansiglio, al Grappa, le diverse tecniche di affumicazione, con essenze di ginepro o con fieno ed erbe aromatiche e l’odore penetrante di fumo misto a quello del latte, riportano al profumo intenso dei boschi e dei pascoli. La tecnica di affumicatura inoltre era utilizzata per permettere una maggiore conservabilità del prodotto, che in tal modo poteva essere consumato anche a distanza di alcuni mesi dal momento della produzione. Testimonianze della sua “tradizionalità” sono reperibili in alcuni testi fra i quali: “Civiltà agricola agordina” di Rossi Giovanni Battista, Appunti etnografico – linguistici, Nuovi sentieri Editore, Belluno 1982 e il Dizionario dei dialetti ladini e ladino-veneti dell’Agordino, Istituto Bellunese di ricerche sociali e culturali – serie dizionari n.5 – G. B. Rossi, 1992. Nella zona della Val Leogra la ricotta viene tradizionalmente affumicata usando bacche di ginepro, che conferiscono al prodotto un sapore inconfondibile. Testimonianze della sua tradizionalità sono riportate nel libro: “Bachi da seta, maiale, pane, latte, pesca nella tradizione vicentin”, edito dall’Accademia Olimpica di Vicenza nel 1999.

Descrizione del prodotto: La ricotta, solitamente prodotta in forme tronco coniche di piccole dimensioni (circa 50 g), assume grazie all’affumicatura un colore esterno marrone-brunito, mentre internamente diventa giallo paglierino. Il sapore è intenso e aromatico, il profumo è caratteristico e gradevole.

Processo di produzione: La ricotta è l’ultimo prodotto che si può ottenere dal latte dopo la produzione del formaggio. Si ottiene dopo aver messo a sgocciolare nelle fascere la cagliata; il siero rimasto viene ulteriormente riscaldato ad una temperatura di circa 80° C fino al raggiungimento di questo particolare formaggio. Per ottenere il prodotto affumicato, la ricotta fresca viene disposta su rastrelliere in legno sulla cappa dei focolari per alcuni giorni e successivamente conservato in locali freschi e asciutti.

Reperibilità: Il prodotto viene solitamente preparato per l’autoconsumo familiare. Tuttavia si può trovare in commercio presso alcuni caseifici e rivenditori nelle zone di produzione.

Usi: La ricotta affumicata è utilizzata come ingrediente per la preparazione di paste o insalate miste, grattugiata o tagliata a pezzetti.

Ricotta da sacchetto della Val Leogra

Territorio interessato alla produzione: VAL LEOGRA, in provincia di Vicenza

La storia: La ricotta è uno dei prodotti tipici legato alla produzione casearia. Nella zona della Val Leogra, la particolarità di questo alimento, è legata all’utilizzo, per produrla, di sacchetti di canapa per far scolare il liquido di risulta. Un tempo l’acidificazione del siero avveniva mettendo nel siero della farina gialla e a volte un po’ di aceto e delle erbe aromatiche, e il sacchetto veniva appeso alla “Cavra par la puina”, cioè un tavolo provvisto di un reticolo. Testimonianze della sua tradizionalità sono riportate nel libro: “Bachi da seta, maiale, pane, latte, pesca nella tradizione vicentina”, edito dall’Accademia Olimpica di Vicenza nel 1999.

Descrizione del prodotto: La ricotta da sacheto della Val Leogra è una ricotta molto compatta, con grana sottile, dal sapore salato, profumo delicato, colore bianco tendente al grigio.

Processo di produzione: La ricotta è il prodotto che si ottiene dal riscaldamento e l’acidificazione (con siero acido o con altri acidi) del siero di risulta dopo l’estrazione della cagliata per la produzione del formaggio. Per ottenere la ricotta da sacheto, infatti, si riscalda il siero restante dalla lavorazione del formaggio nella caliera, fino a più di 60° C e si versa il sale canale (solfato di magnesio). A circa 80°, prima della bollitura, in superficie affiora una specie di panna leggermente granulosa e bianca che viene scremata con la spanarola (grossa mestola piatta). Questa viene versata in sacchettini di canapa dopo averla salata, e qui essa si rassoda poiché perde tutto il liquido. Può essere consumata fresca dopo due giorni, va conservata in luogo fresco.

Reperibilità: Nella zona di produzione questo prodotto è reperibile presso alcuni produttori, anche se l’uso di sacchetti di canapa per la produzione si sta perdendo.

Usi: La ricotta può essere utilizzata consumata direttamente o come ingrediente di salse o ripieni, ma anche per la preparazione di dolci e dessert se unita allo zucchero.

Ricotta fioretta delle vallate vicentine

Territorio interessato alla produzione: Val Leogra in provincia di Vicenza

La storia: La ricotta è uno dei prodotti tradizionali legati alla lavorazione del latte. Nella zona della Val Leogra si produce una particolare ricotta chiamata fioreta, liquida e da consumare subito. È chiamata così perchè prodotta con i primi “fiori” che si addensano col riscaldamento del siero dopo la produzione di formaggio. Da qualche anno a settembre si tiene a Recoaro Terme (VI), la Festa dei gnocchi con fioreta.

Descrizione del prodotto: La fioreta è un particolare tipo di ricotta, semiliquida e fresca, che può essere bevuta e ha un sapore neutro ma gradevole.

Processo di produzione: “Ottenuto il formaggio, si scaldano nuovamente a più di 60 °C gli scòri (siero) mettendo del sale canàle (solfato di magnesio) o dell’agra (siero molto acido perchè invecchiato). Prima della bollitura si condensa in superficie la puìna (ricotta), una panna leggermente granulosa e bianca che viene scremata con la spanaròla.” (cfr. Civiltà rurale di una valle veneta: la Val Leogra, Accademia Olimpica di Vicenza) La prima ricotta che viene prodotta produce la fioreta, che è liquida e viene consumata fresca, senza venire sgocciolata.

Reperibilità: Prodotta soprattutto per l’autoconsumo, è comunque reperibile nella zona direttamente presso i caseifici, i rivenditori e alcuni ristoranti che propongono piatti di tradizione locale.

Usi: La fioreta può risultare lassativa e si consuma fresca o come elemento principale del piatto tipico “gnocchi con la fioreta”.

Ricotta pecorina dei berici

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: RICOTTA PECORINA DEI BERICI; RICOTTA PECORINA STUFATA DEI BERICI

Territorio interessato alla produzione: Basso vicentino

La storia: L’allevamento ovino era un tempo molto diffuso e dove vi era produzione di formaggio pecorino, si faceva anche la relativa ricotta. Nel Basso Vicentino un sistema per conservare per qualche tempo le ricotte era quello di metterle nel siero ottenuto dalla cottura del formaggio aggiungendovi sale, aceto e latte fresco. Ancora oggi la tradizione di confezionare questo prodotto viene portata avanti da alcuni allevatori e produttori. Inoltre il metodo di essiccazione di questo prodotto è tradizionale e consente di conservare il prodotto più a lungo rispetto ai normali tempi di conservazione e di avere un alimento con un gusto particolare e che si adatta a diversi usi.

Descrizione del prodotto: La ricotta pecorina viene prodotta col siero del latte di pecora che resta dopo la produzione di formaggio. Si presenta con una pasta di colore bianchissimo, con struttura fondente quasi lattiginosa che tuttavia non dà latte. Risulta dolce e particolarmente leggera e può durare 5-6 giorni se conservata correttamente. La ricotta stufata presenta esternamente una pellicola bruna, più o meno scura a seconda del tempo di essiccazione, mentre all’interno mantiene un colorito bianco, e al palato risulta dolce, con un leggero retrogusto amarognolo.

Processo di produzione: Il siero (detto anche scolo) viene corretto inizialmente con una quantità di sale variabile e successivamente, viene riscaldato nella calièra ad una temperatura variabile tra gli 80 e i 90°C (elevata se si vogliono impedire contaminazioni); un tempo nelle famiglie si cercava di mantenere il siero a fior di battitura bagnando i bordi con dell’acqua fredda. Quindi avviene l’affioramento in superficie di grani molto fini e bianchi, la puìna. Per favore il processo, ed in particolare la coagulazione in fiocchi, si può aggiungere il sale amaro. Si raccoglie la ricotta con un particolare colabrodo, molto lentamente e delicatamente per non romperla. La resa del siero di pecora è pari al 7-9%, rispetto al siero vaccino che raggiunge solo il 2-3%. Terminato lo scolo, si mette in stampini di piccole dimensioni oppure in sacchettini di tela sottile, affinché la ricotta possa ancora scolare, rivoltandoli; il prodotto è pronto nel giro di poche ore. La variante stufata è prodotta attraverso un processo di cottura ed essiccazione, che avviene ponendo le forme vicino ad una fonte di calore. Un tempo questo processo avveniva all’interno dei forni delle case contadine, solitamente alimentati a legna; oggigiorno invece avviene in forni elettrici.

Reperibilità: Nella zona di produzione si possono reperire presso i caseifici e alcune rivendite alimentari, anche se la variante stufata è prodotta soprattutto per l’autoconsumo familiare.

Usi: La ricotta di pecora si accompagna tradizionalmente ad un contorno di erbe di campo cotte. Le ricotte stufate vengono usate come saporito ma leggero formaggio da grattugiare in molte ricette tipiche, ma possono essere anche mangiate intere.

Ricotta pecorina stufata dei berici

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: RICOTTA PECORINA DEI BERICI; RICOTTA PECORINA STUFATA DEI BERICI

Territorio interessato alla produzione: Basso vicentino

La storia: L’allevamento ovino era un tempo molto diffuso e dove vi era produzione di formaggio pecorino, si faceva anche la relativa ricotta. Nel Basso Vicentino un sistema per conservare per qualche tempo le ricotte era quello di metterle nel siero ottenuto dalla cottura del formaggio aggiungendovi sale, aceto e latte fresco. Ancora oggi la tradizione di confezionare questo prodotto viene portata avanti da alcuni allevatori e produttori. Inoltre il metodo di essiccazione di questo prodotto è tradizionale e consente di conservare il prodotto più a lungo rispetto ai normali tempi di conservazione e di avere un alimento con un gusto particolare e che si adatta a diversi usi.

Descrizione del prodotto: La ricotta pecorina viene prodotta col siero del latte di pecora che resta dopo la produzione di formaggio. Si presenta con una pasta di colore bianchissimo, con struttura fondente quasi lattiginosa che tuttavia non dà latte. Risulta dolce e particolarmente leggera e può durare 5-6 giorni se conservata correttamente. La ricotta stufata presenta esternamente una pellicola bruna, più o meno scura a seconda del tempo di essiccazione, mentre all’interno mantiene un colorito bianco, e al palato risulta dolce, con un leggero retrogusto amarognolo.

Processo di produzione: Il siero (detto anche scolo) viene corretto inizialmente con una quantità di sale variabile e successivamente, viene riscaldato nella calièra ad una temperatura variabile tra gli 80 e i 90°C (elevata se si vogliono impedire contaminazioni); un tempo nelle famiglie si cercava di mantenere il siero a fior di battitura bagnando i bordi con dell’acqua fredda. Quindi avviene l’affioramento in superficie di grani molto fini e bianchi, la puìna. Per favore il processo, ed in particolare la coagulazione in fiocchi, si può aggiungere il sale amaro. Si raccoglie la ricotta con un particolare colabrodo, molto lentamente e delicatamente per non romperla. La resa del siero di pecora è pari al 7-9%, rispetto al siero vaccino che raggiunge solo il 2-3%. Terminato lo scolo, si mette in stampini di piccole dimensioni oppure in sacchettini di tela sottile, affinché la ricotta possa ancora scolare, rivoltandoli; il prodotto è pronto nel giro di poche ore. La variante stufata è prodotta attraverso un processo di cottura ed essiccazione, che avviene ponendo le forme vicino ad una fonte di calore. Un tempo questo processo avveniva all’interno dei forni delle case contadine, solitamente alimentati a legna; oggigiorno invece avviene in forni elettrici.

Reperibilità: Nella zona di produzione si possono reperire presso i caseifici e alcune rivendite alimentari, anche se la variante stufata è prodotta soprattutto per l’autoconsumo familiare.

Usi: La ricotta di pecora si accompagna tradizionalmente ad un contorno di erbe di campo cotte. Le ricotte stufate vengono usate come saporito ma leggero formaggio da grattugiare in molte ricette tipiche, ma possono essere anche mangiate intere.

Morette o Barbusti della Val Leogra

Tecnologia di preparazione: trattasi di una salsiccia del peso di 130 gr. circa di carne di maiale con frattaglia da mangiare cotta ai ferri ovvero con crauti e polenta. Poichè tra le frattaglie figura il polmone, questo andrà macinato due volte per evitare ogni presenza di aria nell’impasto.

Composizione:
a) Materia prima: parti non pregiate della carne di maiale 50%, pancetta 25%, fegato, cuore e polmoni per il restante 25%.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale e pepe.
c) Additivi:

Maturazione: nessuna; la salsiccia va mangiata subito oppure congelata.

Periodo di stagionatura:

Area di produzione: Altopiano di Asiago.

Salsiccia bianca

Tecnologia di preparazione: il guanciale viene macinato, condito e insaccato nel budello suino per salsicce. Si consuma sia fresca che stagionata.

Composizione:
a) Materia prima: guanciale suino.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale, pepe, coriandolo, cannella in polvere, chiodi di garofano.
c) Additivi:

Maturazione: alcuni giorni in locali con stufa e ventilati.

Periodo di stagionatura: un mese circa in locali umidi e ventilati.

Area di produzione: tutto il Veneto; viene prodotta in quantità limitata, per soddisfare le richieste di un ristretto numero di consumatori buongustai.

Soprèssa delle valli del Pasubio

Tecnologia di preparazione: tutte le carni del suino, compreso prosciutto, spalla, capocollo, vengono macinate a grana media, condite e insaccate a mano nel budello gentile bovino. La sopressa viene quindi messa in una bacinella con acqua calda e massaggiata finché non si ottiene un aspetto uniforme e compatto; l’eventuale presenza di aria si elimina punzecchiando il budello con un punteruolo a più denti. La sopressa viene poi legata e messa ad asciugare.

Composizione:
a) Materia prima: carni di suino di allevamenti locali.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale e pepe spezzato.
c) Additivi:

Maturazione: cinque o sei giorni in cucina.

Periodo di stagionatura: da cinque mesi a due anni in cantina; non si consuma mai prima di aprile, ma da maggio in poi, dopo che si è ricoperta di muffa grigia. Se la cantina è buona, fatto ormai raro, si può mantenere anche due anni.

Area di produzione: valli del Pasubio, in provincia di Vicenza. Salumi analoghi vengono prodotti però in tutto il Veneto.

Prosciutto Veneto Berico-Euganeo DOP

Tecnologia di preparazione: le cosce di suino devono essere rifilate e salate entro quarantotto ore dall’uccisione; vengono poi spazzolate e appese in appositi locali per circa due mesi. In seguito vengono lavate con acqua calda, asciugate nuovamente stuccate e messe a stagionare.

Composizione:
a) Materia prima: cosce di suino provenienti da allevamenti nazionali.
b) Coadiuvanti tecnologici: sale e pepe.
c) Additivi:

Maturazione: oltre due mesi.

Periodo di stagionatura: oltre dieci mesi.

Area di produzione: una trentina di comuni nella provicia di Vicenza.

Bondiola di Castelgomberto

Prodotti simili: BONDIOLA COL LENGUAL DEL PADOVANO (Montagnana, Ospedaletto Euganeo, Saletto, Urbana, Megliadino San Fidenzio, Megliadino San Vitale, Casale di Scodosia, Merlara, Castelbaldo, Masi, Piacenza d’Adige, S. Urbano, Vighizzolo d’Este, Santa Margherita d’Adige, Carceri); BONDIOLA DI CASTELGOMBERTO BONDIOLA CON LA LINGUA, (Castelgomberto, Valdagno in provincia di Vicenza); BONDOLA DELLA VAL LEOGRA (Val Leogra in provincia di Vicenza)

La storia: Le bondiole sono insaccati tipici che si producono con la carne di maiale. Hanno una forma contenuta e tondeggiante che permette all’impasto di conservarsi più fresco rispetto a quello dei Cotechini. Creata per utilizzare anche gli avanzi del budello utilizzato per altri insaccati. La bondiola appartiene da secoli alla tradizione alimentare patavina e vicentina. La variante “con la lingua” contiene la lingua salmistrata del maiale e tradizionalmente si mangia il giorno de l’Assènsa (dell’Ascensione). Questo prodotto è citato da Giuseppe Maffioli nella raccolta di ricette di cucina tipica padovana, ma testimonianze della sua tradizionalità sono presenti anche nel testo “Civiltà rurale di una valle veneta. La Valle Leogra”, edito dall’Accademia Olimpica di Vicenza.

Descrizione del prodotto: La bondiola è un insaccato di carne di maiale realizzata con lo stesso impasto del cotechino (carni, cotica, parti muscolari più dure, eventualmente lardo) a cui vengono aggiunti sale e pepe, cannella e chiodi di garofano. Il tutto viene insaccato in ritagli avanzati di budello di vacca o in vesciche di vitello, o nella vescica del maiale stesso. Il prodotto assume una forma tondeggiante, del peso medio di 800g e presenta un sapore simile a quello dei cotechini, speziato e leggermente piccante. La variante con la lingua assume un sapore più marcato.

Processo di produzione: Le carni e le cotiche, nelle proporzioni codificate dalla tradizione contadina, vengono macinate singolarmente, impastate, rimacinate assieme ed insaccate a mano, o mediante apposita attrezzatura. La lingua, qualora venga inserita, viene spellata, ripulita e salmistrata, mantenendola per qualche ora sotto sale e spezie e viene poi inserita all’interno dell’insaccato, ponendo attenzione nell’evitare che restino all’interno bolle d’aria che potrebbero compromettere la riuscita del prodotto. Quindi si lega a forma di sacchetto. Il prodotto va asciugato in stanze fresche (temperature tra i 18 e i 12° C) e con ricircolo naturale d’aria, con finestre protette da reticelle e da esche contro mosche e roditori, per alcuni giorni. La conservazione avviene, come sempre per gli insaccati, in luoghi freschi e umidi, ma il prodotto va comunque consumato entro una trentina di giorni.

Reperibilità: La bondiola si può trovare presso i produttori o alcuni rivenditori durante il periodo invernale. La variante con la lingua, prodotta in quantità ridotta, ha ovviamente una reperibilità inferiore, tuttavia si può trovare presso alcuni produttori, rivenditori o nei menù di alcuni ristoranti durante il periodo invernale.

Usi: La bondiola si consuma come un cotechino, dopo una cottura in acqua si accompagna col cren, col radicchio o con delle verdure bollite.

Ciccioli della Val Leogra

Territorio interessato alla produzione: Val Leogra, in provincia di Vicenza

La storia: I ciccioli (o sossoli) sono il prodotto che si ottiene a seguito della preparazione dello strutto. Sono la testimonianza di una tradizione alimentare che prevedeva la lavorazione di tutte le parti del maiale, per rendere l’alimentazione varia, ricca e caratteristica. Il grande valore energetico era molto utile per integrare la dieta ipocalorica dei lunghi inverni prealpini. Testimonianza della presenza di questo prodotti nella tradizione locale si ha nel libro “Civiltà rurale di una valle veneta. La Valle Leogra”, edito dall’Accademia Olimpica di Vicenza.

Descrizione del prodotto: I sossoli o ciccioli sono frammenti cotti di tessuto carnoso che sostengono la parte grassa del maiale. Sono dei piccoli cubetti di colore rosato che con la cottura diventano scuri e croccanti, molto saporiti e calorici.

Processo di produzione: Il grasso sottocutaneo del maiale viene scotennato e tagliato a cubetti che vengono messi a cuocere, con sale e foglie d’alloro, in un calderone a fuoco basso. Cuocendo iniziano a rilasciare il proprio grasso (che diventa strutto) e l’acqua di costituzione. Liberando il grasso diminuiscono di volume e, ad un certo punto, iniziano a galleggiare. Vengono tolti dal calderone con la “schiumarola” e riposti in un recipiente di coccio. La conservazione, che non può durare a lungo, avviene in un ambiente fresco e buio, o in frigorifero.

Reperibilità: I ciccioli sono reperibili solo nel periodo invernale direttamente presso i produttori o presso alcuni rivenditori della zona di produzione.

Usi: I sossoli vengono utilizzati come condimento delle verdure da far cotte, come succedaneo della pancetta o nell’impasto per fare il pane, il cosiddetto “pane con i sossoli”.

Coessin (Cotechino) co la lengua del Basso Vicentino

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: COESSÌN DEL BASSO VICENTINO; COESSÌN CO LA LÈNGUA DEL BASSO VICENTINO; COESSÌN IN ÒNTO DEL BASSO VICENTINO; COESSIN DELLA VAL LEOGRA; COESSIN CO LO SGRUGNO

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Vicenza

La storia: La produzione del cotechino è tipica dei comuni del Basso Vicentino dove si realizza con numerosi varianti. Cospicue testimonianze provengono da quei comuni di pianura, protesi verso il Veronese, caratterizzati da una storia di povertà, isolamento e famiglie particolarmente numerose. È proprio in quest’ambito che si inserisce la cultura familiare del far sù el màs-cio: tecniche, tramandate di padre in figlio, di lavorazione e conservazione di tutte le parti del maiale, (perchè nulla andasse sprecato), nell’arco di tutto l’anno, tra l’uccisione del vecchio e il màs-cio novo. Eugenio Candiago nel suo “Itinerari Gastronomici Vicentini” nomina il cotechino musèto come piatto particolarmente prelibato da degustare in quel di Costozza, ma intendendone la tipicità del basso vicentino. Il coessin co la lengua è una variante del normale cotechino creata per utilizzare la lingua del maiale, ma è anche legato a credenze religioso-popolari. Infatti la cultura popolare dettava l’obbligo di mangiare il coessìn co la lèngua nel giorno dell’Ascensione (Assènza): si credeva che ciò avesse il potere di far ammazzare un altro maiale entro l’anno, di preservare dal morso di bisce, (bìsse), oltre ad esorcizzare le malelingue. La conservazione del cotechino nell’unto di maiale è invece una variante rispetto al tradizionale metodo di conservazione di questi insaccati e si rifà ad una antica tradizione che utilizza il grasso animale fuso per conservare gli alimenti più a lungo. Infine il coessin co lo sgrugno è una variante del cotechino, creata per utilizzare le parti dal muso del maiale in una maniera differente rispetto alle normali utilizzazioni.

Descrizione del prodotto: Il cotechino è un insaccato di maiale fatto con cotica (coessa), parti muscolari più dure (orecchie, pezzi di tendini), polpa nervosa e lardo; il tutto viene impastato con sale grosso, con la concia (cónza) fatta con cannella, pepe, chiodi di garofano (eventualmente altri sapori a seconda delle usanze d’ogni famiglia) e aglio tritato o a spicchi; insaccato in budello di vacca o cavallo. Il prodotto finito ha una forma cilindrica, lunghezza di circa 20 cm e peso medio di 500g. Il coessin co la lèngua è un insaccato a forma cilindrica, ma più corto, pesante e grosso rispetto ai normali cotechini e al taglio presenta ben visibile la lingua, non inserita distesa bensì a forma di “u”. Nella variante con lo sgrugno il muso di maiale viene inserito intero o sezionato in due parti per farne due cotechini.

Processo di produzione: La preparazione dell’impasto del cotechino avviene macinando assieme le parti di carne appositamente selezionate, e aggiungendovi il lardo, il sale e le spezie. La lingua o il muso del maiale, se utilizzati, vengono messi a salare su di un ripiano mobile di legno di castagno, leggermente inclinato per farlo sgocciolare. Tolto il sale residuo non assorbito con un canovaccio, la lingua viene ricomposta per essere inserita all’interno dell’insaccato in modo che la sezione trasversale risulti concava, a forma di “u”. Il budello viene punzecchiato con la c.d. sponciròla per far uscire il liquido (e grasso) e l’aria, che impedirebbero alle componenti di aderire. L’asciugatura in locali adatti e la conservazione in luoghi umidi e bui segue la procedura normalmente utilizzata per questi insaccati. La tradizionale modalità di conservazione sotto ònto consiste invece nel riporre i cotechini in olle (pegnàte) di terracotta o in bocce di vetro scuro con del lardo fuso versato all’interno.

Reperibilità: La produzione di cotechini è diffusa sul territorio e la produzione è consistente. Nella variante con la lingua o con lo sgrugno però la reperibilità è scarsa perchè le produzioni sono ridotte. Infine la conservazione sotto onto è ormai una rarità che solo poche famiglie continuano a fare.

Usi: I cotechini si cuociono in acqua e vengono ripetutamente punti con uno stuzzicadente perché la pelle non si laceri e lessati a fuoco lento per 3 ore e più.

Coessin (Cotechino) del Basso Vicentino

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: COESSÌN DEL BASSO VICENTINO; COESSÌN CO LA LÈNGUA DEL BASSO VICENTINO; COESSÌN IN ÒNTO DEL BASSO VICENTINO; COESSIN DELLA VAL LEOGRA; COESSIN CO LO SGRUGNO

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Vicenza

La storia: La produzione del cotechino è tipica dei comuni del Basso Vicentino dove si realizza con numerosi varianti. Cospicue testimonianze provengono da quei comuni di pianura, protesi verso il Veronese, caratterizzati da una storia di povertà, isolamento e famiglie particolarmente numerose. È proprio in quest’ambito che si inserisce la cultura familiare del far sù el màs-cio: tecniche, tramandate di padre in figlio, di lavorazione e conservazione di tutte le parti del maiale, (perchè nulla andasse sprecato), nell’arco di tutto l’anno, tra l’uccisione del vecchio e il màs-cio novo. Eugenio Candiago nel suo “Itinerari Gastronomici Vicentini” nomina il cotechino musèto come piatto particolarmente prelibato da degustare in quel di Costozza, ma intendendone la tipicità del basso vicentino. Il coessin co la lengua è una variante del normale cotechino creata per utilizzare la lingua del maiale, ma è anche legato a credenze religioso-popolari. Infatti la cultura popolare dettava l’obbligo di mangiare il coessìn co la lèngua nel giorno dell’Ascensione (Assènza): si credeva che ciò avesse il potere di far ammazzare un altro maiale entro l’anno, di preservare dal morso di bisce, (bìsse), oltre ad esorcizzare le malelingue. La conservazione del cotechino nell’unto di maiale è invece una variante rispetto al tradizionale metodo di conservazione di questi insaccati e si rifà ad una antica tradizione che utilizza il grasso animale fuso per conservare gli alimenti più a lungo. Infine il coessin co lo sgrugno è una variante del cotechino, creata per utilizzare le parti dal muso del maiale in una maniera differente rispetto alle normali utilizzazioni.

Descrizione del prodotto: Il cotechino è un insaccato di maiale fatto con cotica (coessa), parti muscolari più dure (orecchie, pezzi di tendini), polpa nervosa e lardo; il tutto viene impastato con sale grosso, con la concia (cónza) fatta con cannella, pepe, chiodi di garofano (eventualmente altri sapori a seconda delle usanze d’ogni famiglia) e aglio tritato o a spicchi; insaccato in budello di vacca o cavallo. Il prodotto finito ha una forma cilindrica, lunghezza di circa 20 cm e peso medio di 500g. Il coessin co la lèngua è un insaccato a forma cilindrica, ma più corto, pesante e grosso rispetto ai normali cotechini e al taglio presenta ben visibile la lingua, non inserita distesa bensì a forma di “u”. Nella variante con lo sgrugno il muso di maiale viene inserito intero o sezionato in due parti per farne due cotechini.

Processo di produzione: La preparazione dell’impasto del cotechino avviene macinando assieme le parti di carne appositamente selezionate, e aggiungendovi il lardo, il sale e le spezie. La lingua o il muso del maiale, se utilizzati, vengono messi a salare su di un ripiano mobile di legno di castagno, leggermente inclinato per farlo sgocciolare. Tolto il sale residuo non assorbito con un canovaccio, la lingua viene ricomposta per essere inserita all’interno dell’insaccato in modo che la sezione trasversale risulti concava, a forma di “u”. Il budello viene punzecchiato con la c.d. sponciròla per far uscire il liquido (e grasso) e l’aria, che impedirebbero alle componenti di aderire. L’asciugatura in locali adatti e la conservazione in luoghi umidi e bui segue la procedura normalmente utilizzata per questi insaccati. La tradizionale modalità di conservazione sotto ònto consiste invece nel riporre i cotechini in olle (pegnàte) di terracotta o in bocce di vetro scuro con del lardo fuso versato all’interno.

Reperibilità: La produzione di cotechini è diffusa sul territorio e la produzione è consistente. Nella variante con la lingua o con lo sgrugno però la reperibilità è scarsa perchè le produzioni sono ridotte. Infine la conservazione sotto onto è ormai una rarità che solo poche famiglie continuano a fare.

Usi: I cotechini si cuociono in acqua e vengono ripetutamente punti con uno stuzzicadente perché la pelle non si laceri e lessati a fuoco lento per 3 ore e più.

Coessin (Cotechino) della Val Leogra

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: COESSÌN DEL BASSO VICENTINO; COESSÌN CO LA LÈNGUA DEL BASSO VICENTINO; COESSÌN IN ÒNTO DEL BASSO VICENTINO; COESSIN DELLA VAL LEOGRA; COESSIN CO LO SGRUGNO

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Vicenza

La storia: La produzione del cotechino è tipica dei comuni del Basso Vicentino dove si realizza con numerosi varianti. Cospicue testimonianze provengono da quei comuni di pianura, protesi verso il Veronese, caratterizzati da una storia di povertà, isolamento e famiglie particolarmente numerose. È proprio in quest’ambito che si inserisce la cultura familiare del far sù el màs-cio: tecniche, tramandate di padre in figlio, di lavorazione e conservazione di tutte le parti del maiale, (perchè nulla andasse sprecato), nell’arco di tutto l’anno, tra l’uccisione del vecchio e il màs-cio novo. Eugenio Candiago nel suo “Itinerari Gastronomici Vicentini” nomina il cotechino musèto come piatto particolarmente prelibato da degustare in quel di Costozza, ma intendendone la tipicità del basso vicentino. Il coessin co la lengua è una variante del normale cotechino creata per utilizzare la lingua del maiale, ma è anche legato a credenze religioso-popolari. Infatti la cultura popolare dettava l’obbligo di mangiare il coessìn co la lèngua nel giorno dell’Ascensione (Assènza): si credeva che ciò avesse il potere di far ammazzare un altro maiale entro l’anno, di preservare dal morso di bisce, (bìsse), oltre ad esorcizzare le malelingue. La conservazione del cotechino nell’unto di maiale è invece una variante rispetto al tradizionale metodo di conservazione di questi insaccati e si rifà ad una antica tradizione che utilizza il grasso animale fuso per conservare gli alimenti più a lungo. Infine il coessin co lo sgrugno è una variante del cotechino, creata per utilizzare le parti dal muso del maiale in una maniera differente rispetto alle normali utilizzazioni.

Descrizione del prodotto: Il cotechino è un insaccato di maiale fatto con cotica (coessa), parti muscolari più dure (orecchie, pezzi di tendini), polpa nervosa e lardo; il tutto viene impastato con sale grosso, con la concia (cónza) fatta con cannella, pepe, chiodi di garofano (eventualmente altri sapori a seconda delle usanze d’ogni famiglia) e aglio tritato o a spicchi; insaccato in budello di vacca o cavallo. Il prodotto finito ha una forma cilindrica, lunghezza di circa 20 cm e peso medio di 500g. Il coessin co la lèngua è un insaccato a forma cilindrica, ma più corto, pesante e grosso rispetto ai normali cotechini e al taglio presenta ben visibile la lingua, non inserita distesa bensì a forma di “u”. Nella variante con lo sgrugno il muso di maiale viene inserito intero o sezionato in due parti per farne due cotechini.

Processo di produzione: La preparazione dell’impasto del cotechino avviene macinando assieme le parti di carne appositamente selezionate, e aggiungendovi il lardo, il sale e le spezie. La lingua o il muso del maiale, se utilizzati, vengono messi a salare su di un ripiano mobile di legno di castagno, leggermente inclinato per farlo sgocciolare. Tolto il sale residuo non assorbito con un canovaccio, la lingua viene ricomposta per essere inserita all’interno dell’insaccato in modo che la sezione trasversale risulti concava, a forma di “u”. Il budello viene punzecchiato con la c.d. sponciròla per far uscire il liquido (e grasso) e l’aria, che impedirebbero alle componenti di aderire. L’asciugatura in locali adatti e la conservazione in luoghi umidi e bui segue la procedura normalmente utilizzata per questi insaccati. La tradizionale modalità di conservazione sotto ònto consiste invece nel riporre i cotechini in olle (pegnàte) di terracotta o in bocce di vetro scuro con del lardo fuso versato all’interno.

Reperibilità: La produzione di cotechini è diffusa sul territorio e la produzione è consistente. Nella variante con la lingua o con lo sgrugno però la reperibilità è scarsa perchè le produzioni sono ridotte. Infine la conservazione sotto onto è ormai una rarità che solo poche famiglie continuano a fare.

Usi: I cotechini si cuociono in acqua e vengono ripetutamente punti con uno stuzzicadente perché la pelle non si laceri e lessati a fuoco lento per 3 ore e più.

Coessin (Cotechino) in onto del Basso Vicentino

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: COESSÌN DEL BASSO VICENTINO; COESSÌN CO LA LÈNGUA DEL BASSO VICENTINO; COESSÌN IN ÒNTO DEL BASSO VICENTINO; COESSIN DELLA VAL LEOGRA; COESSIN CO LO SGRUGNO

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Vicenza

La storia: La produzione del cotechino è tipica dei comuni del Basso Vicentino dove si realizza con numerosi varianti. Cospicue testimonianze provengono da quei comuni di pianura, protesi verso il Veronese, caratterizzati da una storia di povertà, isolamento e famiglie particolarmente numerose. È proprio in quest’ambito che si inserisce la cultura familiare del far sù el màs-cio: tecniche, tramandate di padre in figlio, di lavorazione e conservazione di tutte le parti del maiale, (perchè nulla andasse sprecato), nell’arco di tutto l’anno, tra l’uccisione del vecchio e il màs-cio novo. Eugenio Candiago nel suo “Itinerari Gastronomici Vicentini” nomina il cotechino musèto come piatto particolarmente prelibato da degustare in quel di Costozza, ma intendendone la tipicità del basso vicentino. Il coessin co la lengua è una variante del normale cotechino creata per utilizzare la lingua del maiale, ma è anche legato a credenze religioso-popolari. Infatti la cultura popolare dettava l’obbligo di mangiare il coessìn co la lèngua nel giorno dell’Ascensione (Assènza): si credeva che ciò avesse il potere di far ammazzare un altro maiale entro l’anno, di preservare dal morso di bisce, (bìsse), oltre ad esorcizzare le malelingue. La conservazione del cotechino nell’unto di maiale è invece una variante rispetto al tradizionale metodo di conservazione di questi insaccati e si rifà ad una antica tradizione che utilizza il grasso animale fuso per conservare gli alimenti più a lungo. Infine il coessin co lo sgrugno è una variante del cotechino, creata per utilizzare le parti dal muso del maiale in una maniera differente rispetto alle normali utilizzazioni.

Descrizione del prodotto: Il cotechino è un insaccato di maiale fatto con cotica (coessa), parti muscolari più dure (orecchie, pezzi di tendini), polpa nervosa e lardo; il tutto viene impastato con sale grosso, con la concia (cónza) fatta con cannella, pepe, chiodi di garofano (eventualmente altri sapori a seconda delle usanze d’ogni famiglia) e aglio tritato o a spicchi; insaccato in budello di vacca o cavallo. Il prodotto finito ha una forma cilindrica, lunghezza di circa 20 cm e peso medio di 500g. Il coessin co la lèngua è un insaccato a forma cilindrica, ma più corto, pesante e grosso rispetto ai normali cotechini e al taglio presenta ben visibile la lingua, non inserita distesa bensì a forma di “u”. Nella variante con lo sgrugno il muso di maiale viene inserito intero o sezionato in due parti per farne due cotechini.

Processo di produzione: La preparazione dell’impasto del cotechino avviene macinando assieme le parti di carne appositamente selezionate, e aggiungendovi il lardo, il sale e le spezie. La lingua o il muso del maiale, se utilizzati, vengono messi a salare su di un ripiano mobile di legno di castagno, leggermente inclinato per farlo sgocciolare. Tolto il sale residuo non assorbito con un canovaccio, la lingua viene ricomposta per essere inserita all’interno dell’insaccato in modo che la sezione trasversale risulti concava, a forma di “u”. Il budello viene punzecchiato con la c.d. sponciròla per far uscire il liquido (e grasso) e l’aria, che impedirebbero alle componenti di aderire. L’asciugatura in locali adatti e la conservazione in luoghi umidi e bui segue la procedura normalmente utilizzata per questi insaccati. La tradizionale modalità di conservazione sotto ònto consiste invece nel riporre i cotechini in olle (pegnàte) di terracotta o in bocce di vetro scuro con del lardo fuso versato all’interno.

Reperibilità: La produzione di cotechini è diffusa sul territorio e la produzione è consistente. Nella variante con la lingua o con lo sgrugno però la reperibilità è scarsa perchè le produzioni sono ridotte. Infine la conservazione sotto onto è ormai una rarità che solo poche famiglie continuano a fare.

Usi: I cotechini si cuociono in acqua e vengono ripetutamente punti con uno stuzzicadente perché la pelle non si laceri e lessati a fuoco lento per 3 ore e più.

Coessin co lo sgrugno

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: COESSÌN DEL BASSO VICENTINO; COESSÌN CO LA LÈNGUA DEL BASSO VICENTINO; COESSÌN IN ÒNTO DEL BASSO VICENTINO; COESSIN DELLA VAL LEOGRA; COESSIN CO LO SGRUGNO

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Vicenza

La storia: La produzione del cotechino è tipica dei comuni del Basso Vicentino dove si realizza con numerosi varianti. Cospicue testimonianze provengono da quei comuni di pianura, protesi verso il Veronese, caratterizzati da una storia di povertà, isolamento e famiglie particolarmente numerose. È proprio in quest’ambito che si inserisce la cultura familiare del far sù el màs-cio: tecniche, tramandate di padre in figlio, di lavorazione e conservazione di tutte le parti del maiale, (perchè nulla andasse sprecato), nell’arco di tutto l’anno, tra l’uccisione del vecchio e il màs-cio novo. Eugenio Candiago nel suo “Itinerari Gastronomici Vicentini” nomina il cotechino musèto come piatto particolarmente prelibato da degustare in quel di Costozza, ma intendendone la tipicità del basso vicentino. Il coessin co la lengua è una variante del normale cotechino creata per utilizzare la lingua del maiale, ma è anche legato a credenze religioso-popolari. Infatti la cultura popolare dettava l’obbligo di mangiare il coessìn co la lèngua nel giorno dell’Ascensione (Assènza): si credeva che ciò avesse il potere di far ammazzare un altro maiale entro l’anno, di preservare dal morso di bisce, (bìsse), oltre ad esorcizzare le malelingue. La conservazione del cotechino nell’unto di maiale è invece una variante rispetto al tradizionale metodo di conservazione di questi insaccati e si rifà ad una antica tradizione che utilizza il grasso animale fuso per conservare gli alimenti più a lungo. Infine il coessin co lo sgrugno è una variante del cotechino, creata per utilizzare le parti dal muso del maiale in una maniera differente rispetto alle normali utilizzazioni.

Descrizione del prodotto: Il cotechino è un insaccato di maiale fatto con cotica (coessa), parti muscolari più dure (orecchie, pezzi di tendini), polpa nervosa e lardo; il tutto viene impastato con sale grosso, con la concia (cónza) fatta con cannella, pepe, chiodi di garofano (eventualmente altri sapori a seconda delle usanze d’ogni famiglia) e aglio tritato o a spicchi; insaccato in budello di vacca o cavallo. Il prodotto finito ha una forma cilindrica, lunghezza di circa 20 cm e peso medio di 500g. Il coessin co la lèngua è un insaccato a forma cilindrica, ma più corto, pesante e grosso rispetto ai normali cotechini e al taglio presenta ben visibile la lingua, non inserita distesa bensì a forma di “u”. Nella variante con lo sgrugno il muso di maiale viene inserito intero o sezionato in due parti per farne due cotechini.

Processo di produzione: La preparazione dell’impasto del cotechino avviene macinando assieme le parti di carne appositamente selezionate, e aggiungendovi il lardo, il sale e le spezie. La lingua o il muso del maiale, se utilizzati, vengono messi a salare su di un ripiano mobile di legno di castagno, leggermente inclinato per farlo sgocciolare. Tolto il sale residuo non assorbito con un canovaccio, la lingua viene ricomposta per essere inserita all’interno dell’insaccato in modo che la sezione trasversale risulti concava, a forma di “u”. Il budello viene punzecchiato con la c.d. sponciròla per far uscire il liquido (e grasso) e l’aria, che impedirebbero alle componenti di aderire. L’asciugatura in locali adatti e la conservazione in luoghi umidi e bui segue la procedura normalmente utilizzata per questi insaccati. La tradizionale modalità di conservazione sotto ònto consiste invece nel riporre i cotechini in olle (pegnàte) di terracotta o in bocce di vetro scuro con del lardo fuso versato all’interno.

Reperibilità: La produzione di cotechini è diffusa sul territorio e la produzione è consistente. Nella variante con la lingua o con lo sgrugno però la reperibilità è scarsa perchè le produzioni sono ridotte. Infine la conservazione sotto onto è ormai una rarità che solo poche famiglie continuano a fare.

Usi: I cotechini si cuociono in acqua e vengono ripetutamente punti con uno stuzzicadente perché la pelle non si laceri e lessati a fuoco lento per 3 ore e più.

Lardo del Basso Vicentino

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: LARDO DEL BASSO VICENTINO; LARDO IN SALAMOIA; LARDO STECCATO CON LE ERBE

Territorio interessato alla produzione: Basso vicentino e Altopiano di Asiago

La storia: L’utilizzo del “lardo”, sia come condimento che come companatico, è molto antica e legata alla tradizione dell’allevamento dei suini nella civiltà contadina. Il lardo, utilizzato molto in passato sia come alimento che come conservante naturale per prodotti a base di carne, mantiene a tutt’oggi una certa importanza soprattutto nella preparazione di piatti tradizionali. Il lardo in salamoia è una variante tipica dell’Altopiano di Asiago. Questo metodo di preparazione del prodotto sotto sale è stato creato per consentirne una conservazione più prolungata. Il lardo steccato con le erbette è un’altra variante che permette la conservazione di questo prodotto, e che mantiene integro il suo gusto particolare e il suo alto potere energetico.

Descrizione del prodotto: Si tratta del grasso sottocutaneo del maiale, maggiormente presente vicino al fegato, nella zona renale e sui fianchi dell’animale. Si presenta in forme squadrate, di colore biancastro. Fuso diviene strutto (colà, ònto). Talvolta viene conservato arrotolato all’interno di budelli ciechi della cavità appendicolare del cavallo o della mucca caratterizzata da una maggior capienza la c.d. Mànega. Nella variante steccato si presenta di colore bianco-rosato, con ben visibili in superficie le spezie utilizzate.

Processo di produzione: Il lardo, liberato dalla cotenna, viene dapprima ridotto in forme geometriche, generalmente quadrate, dette medène o tej, quindi ricoperto di sale grosso e posto su assi di castagno inclinate per 4/5 giorni. Dopo questo trattamento viene sistemato in una cassa coperta di sale protetta dalla c.d. moscaròla. In alcune famiglie, dopo la salatura, le forme di lardo scrollate dal sale residuo vengono appese ai travi (o alle pertiche) in cantina e legate con dei classici incastri di rami di salice giallo, particolarmente flessibile (le c.d. stròpe, da cui stropàre=legare). Il lardo si può arrotolare in modo che la cotica rimanga esterna, oppure, senza cotica, insaccato all’interno di un budello capiente, la manèga e legato con dello spago (ogni 2 cm come la soprèssa). Se conservato intero, il lardo viene tagliato a fettine e mangiato come companatico. Se invece viene fuso deve essere filtrato e riposto in olle di terracotta (con l’interno smaltato), in bocce di vetro scuro o nella vescica di maiale. Il lardo in salamoia, dopo essere stato cosparso di spezie, viene immerso in acqua precedentemente bollita e lasciata raffreddare. Sopra al lardo viene messo un gran peso e il tutto lasciato in salamoia per almeno 60 giorni. Secondo un’antica credenza popolare, l’operazione deve essere effettuata in luna calante altrimenti il lardo ingiallisce. Trascorso il tempo di salamoia il lardo viene lasciato a sgocciolare ed asciugare su un tavolo di legno, successivamente viene messo sottovuoto e conservato in frigo o in luoghi freschi e asciutti. Il lardo alle erbette invece si prepara distribuendo omogeneamente un strato di circa mezzo centimetro di sale sulla parte superiore, per 7-8 giorni. Successivamente i pezzi vengono sbattuti del sale non assorbito e si aggiunge un trito di pepe, uno spicchio d’aglio, peperoncino secco, dei semi di cumino, distribuendo il tutto sulla superficie superiore; si favorisce l’assorbimento battendolo un po’ sulla superficie. Il pezzo di lardo viene messo in morsa per 2-3 ore per ottenere una pressione costante su tutto il pezzo con 4 stecche di legno di acacia priva della corteccia. Si appende in cantina, assieme agli altri insaccati, a maturare per 90-120 giorni.

Reperibilità: Il lardo è un prodotto di facile reperibilità. Si può trovare direttamente presso i produttori oppure presso rivenditori al dettaglio della zona e delle limitrofe aree del padovano e del veronese. Anche la variante alle erbette si può trovare con una certa facilità nella zona di produzione, mentre quello in salamoia viene prodotto solo da alcune famiglie per l’autoconsumo.

Usi: Il lardo può essere consumato crudo, tagliato a fette sottili, mangiato assieme al pane o per rivestire la faraona cotta al forno (cotta sotto ònto) in modo da mantenere la carne morbida ed insaporirla. Se fuso, viene utilizzato come conservante (per ricoprire cotechini, pezzi d’oca o altre carni messe in otri o vasi) oppure come condimento per piatti di verdure.

Lardo steccato con le erbe

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: LARDO DEL BASSO VICENTINO; LARDO IN SALAMOIA; LARDO STECCATO CON LE ERBE

Territorio interessato alla produzione: Basso vicentino e Altopiano di Asiago

La storia: L’utilizzo del “lardo”, sia come condimento che come companatico, è molto antica e legata alla tradizione dell’allevamento dei suini nella civiltà contadina. Il lardo, utilizzato molto in passato sia come alimento che come conservante naturale per prodotti a base di carne, mantiene a tutt’oggi una certa importanza soprattutto nella preparazione di piatti tradizionali. Il lardo in salamoia è una variante tipica dell’Altopiano di Asiago. Questo metodo di preparazione del prodotto sotto sale è stato creato per consentirne una conservazione più prolungata. Il lardo steccato con le erbette è un’altra variante che permette la conservazione di questo prodotto, e che mantiene integro il suo gusto particolare e il suo alto potere energetico.

Descrizione del prodotto: Si tratta del grasso sottocutaneo del maiale, maggiormente presente vicino al fegato, nella zona renale e sui fianchi dell’animale. Si presenta in forme squadrate, di colore biancastro. Fuso diviene strutto (colà, ònto). Talvolta viene conservato arrotolato all’interno di budelli ciechi della cavità appendicolare del cavallo o della mucca caratterizzata da una maggior capienza la c.d. Mànega. Nella variante steccato si presenta di colore bianco-rosato, con ben visibili in superficie le spezie utilizzate.

Processo di produzione: Il lardo, liberato dalla cotenna, viene dapprima ridotto in forme geometriche, generalmente quadrate, dette medène o tej, quindi ricoperto di sale grosso e posto su assi di castagno inclinate per 4/5 giorni. Dopo questo trattamento viene sistemato in una cassa coperta di sale protetta dalla c.d. moscaròla. In alcune famiglie, dopo la salatura, le forme di lardo scrollate dal sale residuo vengono appese ai travi (o alle pertiche) in cantina e legate con dei classici incastri di rami di salice giallo, particolarmente flessibile (le c.d. stròpe, da cui stropàre=legare). Il lardo si può arrotolare in modo che la cotica rimanga esterna, oppure, senza cotica, insaccato all’interno di un budello capiente, la manèga e legato con dello spago (ogni 2 cm come la soprèssa). Se conservato intero, il lardo viene tagliato a fettine e mangiato come companatico. Se invece viene fuso deve essere filtrato e riposto in olle di terracotta (con l’interno smaltato), in bocce di vetro scuro o nella vescica di maiale. Il lardo in salamoia, dopo essere stato cosparso di spezie, viene immerso in acqua precedentemente bollita e lasciata raffreddare. Sopra al lardo viene messo un gran peso e il tutto lasciato in salamoia per almeno 60 giorni. Secondo un’antica credenza popolare, l’operazione deve essere effettuata in luna calante altrimenti il lardo ingiallisce. Trascorso il tempo di salamoia il lardo viene lasciato a sgocciolare ed asciugare su un tavolo di legno, successivamente viene messo sottovuoto e conservato in frigo o in luoghi freschi e asciutti. Il lardo alle erbette invece si prepara distribuendo omogeneamente un strato di circa mezzo centimetro di sale sulla parte superiore, per 7-8 giorni. Successivamente i pezzi vengono sbattuti del sale non assorbito e si aggiunge un trito di pepe, uno spicchio d’aglio, peperoncino secco, dei semi di cumino, distribuendo il tutto sulla superficie superiore; si favorisce l’assorbimento battendolo un po’ sulla superficie. Il pezzo di lardo viene messo in morsa per 2-3 ore per ottenere una pressione costante su tutto il pezzo con 4 stecche di legno di acacia priva della corteccia. Si appende in cantina, assieme agli altri insaccati, a maturare per 90-120 giorni.

Reperibilità: Il lardo è un prodotto di facile reperibilità. Si può trovare direttamente presso i produttori oppure presso rivenditori al dettaglio della zona e delle limitrofe aree del padovano e del veronese. Anche la variante alle erbette si può trovare con una certa facilità nella zona di produzione, mentre quello in salamoia viene prodotto solo da alcune famiglie per l’autoconsumo.

Usi: Il lardo può essere consumato crudo, tagliato a fette sottili, mangiato assieme al pane o per rivestire la faraona cotta al forno (cotta sotto ònto) in modo da mantenere la carne morbida ed insaporirla. Se fuso, viene utilizzato come conservante (per ricoprire cotechini, pezzi d’oca o altre carni messe in otri o vasi) oppure come condimento per piatti di verdure.

Luganeghe de tripan

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali e Territorio interessato alla produzione: LUGANEGA NOSTRANA PADOVANA (Padova e provincia); LUGANEGA TREVIGIANA (Area Collinare della Pedemontana); Pezòle, LUGANEGHE DE TRIPAN; SALSICCE CON LE RAPE, (provincia di Vicenza); SALSICCIA TIPICA POLESANA (provincia di Rovigo).

La storia: La luganega è un prodotto tipicamente contadino, usualmente consumato nel periodo intercorrente tra l’uccisione del maiale e la maturazione dei salami. Per quanto riguarda la tradizione padovana i primi riscontri di questi prodotti si ritrovano fra le ricette Ruzzantiane risalenti al 1530 circa. Nella provincia trevigiana è tradizione utilizzare, per questi insaccati, le parti meno nobili del maiale, (i polmoni e il fegato) che vengono impastate con le carni migliori avanzate dopo la produzione di sopresse e salami. La tradizione di questo insaccato è antichissima, e ciò è dimostrato da un’ordinanza di un podestà di Treviso che già nel XVI secolo, ne definiva le caratteristiche per difendere il prodotto da imitazioni e contraffazioni. Le Pezòle o luganeghe de tripan sono un prodotto caratteristico della tradizione culinaria agordina confezionato dalle famiglie per riuscire ad utilizzare tutte le carni del maiale, anche quelle meno pregiate. “Tripan”, in dialetto Ladino Veneto significa cotenna e dunque il nome indica la presenza nell’impasto della cotenna del maiale. Le Salsicce con le rape sono una produzione inventata, con ogni probabilità, per “allungare” la preziosa carne del maiale con una materia prima meno pregiata come la rapa gialla (che un tempo, in inverno, era molto abbondante). Potevano essere impiegate quantità variabili della radice, anche superiori a quella della carne (oggi comunque si predilige un impasto inferiore al 50%), senza creare problemi di conservazione del prodotto. Anche nel rodigino si producono le salsicce, soprattutto nella zona del delta dove da decenni si produce la salsiccia tipica polesana.

Descrizione del prodotto: Le varie tipologie di salsicce prodotte in Veneto si differenziano tra loro per colore, forma e dimensione. Possono assumere infatti un colorito più chiaro se contengono parti maggiormente pregiate del maiale, mentre se le carni tritate sono quelle più sanguinolente il prodotto mostra un colorito più scuro. Le dimensioni variano da pochi centimetri (circa 4-5 cm per la luganega trevigiana), passando per una forma abbastanza standardizzata e usuale di circa 10 cm per 3 di diametro della maggior parte delle produzioni, fino ad arrivare alle pezòle che hanno forma cilindrica, una lunghezza di circa 25 cm e un diametro di 4-5 cm. Ovviamente differisce, a seconda del tipo, anche il gusto che varia in funzione delle carni e delle spezie utilizzate nell’impasto.

Processo di produzione: Le carni del maiale vengono macinate con coltelli a piastra con fori di diametri differenti a seconda delle usanze e vengono insaporite con sale, pepe e aromi vari. L’impastato è poi insaccato in budello di maiale accuratamente lavato e salato. La legatura avviene manualmente e il prodotto viene dunque posto in cella di asciugatura e stagionato appeso a rastrelliere in locali con temperatura, umidità e ventilazione controllate.

Reperibilità: Il prodotto è di reperibilità molto semplice, essendo disponibile presso la maggior parte delle macellerie della zona e nei menu di molti ristoranti di cucina locale. Più difficili da trovare, e prodotte soprattutto per l’autoconsumo familiare, sono le salsiccie confezionate con parti meno pregiate del maiale.

Usi: Le “luganeghe” vengono consumate cotte alla brace o bollite e solitamente si accompagnano con le verze o altre verdure bollite.

Luganeghe della Val Leogra

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: LUGANEGHE DELLA VAL LEOGRA; MORETE O BARBUSTI DELLA VAL LEOGRA; MORTANDÈLE

Territorio interessato alla produzione: Val Leogra in provincia di Vicenza

La storia: La produzione di “luganeghe” è diffusa in gran parte del territorio Veneto e a seconda delle zone ha varianti nella modalità di preparazione e negli ingredienti usati. È questo il caso della Val Leogra, in provincia di Vicenza, dove si producono salsiccie di tipo diverso. Oltre alle luganeghe tradizionali, fatte con le carni pregiate del maiale, si confezionano anche le morete e le mortandèle. Le morete prendono il nome dalla loro colorazione rosso scuro, dovuta alle parti sanguinolente del maiale utilizzate per la preparazione. Le mortandèle “sono gli insaccati del màs’cio meno pregiati, che devono essere consumati il più presto possibile. […] Con i rognòni (i reni), i piccoli pezzi di carne macchiata di sangue, il cuore e, quasi sempre, anche con la coradèla si fa, aggiungendovi dei ritagli di lardo e la stessa cònsa dei coessìni, la pasta da mortandèla.” (Civiltà rurale di una Valle Veneta – La Val Leogra) Il prodotto è dunque uno dei più umili e poveri dell’alimentazione vicentina, confezionato per utilizzare anche le parti meno pregiate del maiale, che non si potevano comunque sprecare.

Descrizione del prodotto: Le luganeghe della Val Leogra sono salsicce di carne suina, fatte con l’impasto dei salami aromatizzato con sale, pepe e chiodi di garofano (secondo le usanze) e insaccato in budelli bovini di circa 10 cm di lunghezza. Hanno un gusto saporito e leggermente speziato, variabile a seconda della lavorazione. Le morete sono salsicce fatte un impasto a base di cuore, polmoni, reni, milza, fegato e, talvolta, sangue del maiale. A questo impasto vi si aggiungono spezie: sale, pepe e una concia di spezie. Sono più piccole delle comuni salsicce, essendo solitamente lunghe circa 8 cm, sono di colore rosso scuro e presentano un sapore molto speziato e leggermente amarognolo. Le mortandèle sono insaccati fatti con un impasto di carni rosse macchiate di sangue, rognoni o reni, cuore, polmoni (coradelo), a cui si aggiungono pezzi di lardo e la stessa concia dei cotechini, ma in quantità minore. In alcuni casi vengono avvolte nel budello; possono anche essere avvolte nel radeselo (omento). Hanno forma cilindrica e di dimensione variabile dai 5 ai 15 cm. Hanno un gusto particolare, amarognolo e speziato. Si presentano di colore rosato più o meno intenso a seconda degli ingredienti.

Processo di produzione: Dopo l’uccisione del maiale, e la preparazione di sopresse e salami, si passa alla preparazione delle luganeghe. La carne viene tritata e ben amalgamata con sale e spezie. Successivamente si inserisce manualmente, o per mezzo di un apposito macchinario, in budella bovine, caratterizzate da un diametro ridotto, preventivamente ripulite con attenzione e trattate con aceto. La conservazione avviene in locali umidi e freschi oppure in frigorifero, ma sia le morete che le mortandèle devono essere consumate entro un breve periodo perchè le carni che contengono sono facilmente deperibili.

Reperibilità: Le luganeghe sono facilmente reperibili nella zona di produzione, mentre morete e mortandèle sono prodotti poveri, confezionati quasi esclusivamente per l’uso domestico.

Usi: Le luganeghe si consumano cotte in un tegame con olio oppure sulle braci. Tipico della zona della Val Leogra è l’utilizzo dell’insaccato lessato con le verze. Le morete vengono consumate anche dopo essere state cotte in acqua bollente.

Mortandele

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: LUGANEGHE DELLA VAL LEOGRA; MORETE O BARBUSTI DELLA VAL LEOGRA; MORTANDÈLE

Territorio interessato alla produzione: Val Leogra in provincia di Vicenza

La storia: La produzione di “luganeghe” è diffusa in gran parte del territorio Veneto e a seconda delle zone ha varianti nella modalità di preparazione e negli ingredienti usati. È questo il caso della Val Leogra, in provincia di Vicenza, dove si producono salsiccie di tipo diverso. Oltre alle luganeghe tradizionali, fatte con le carni pregiate del maiale, si confezionano anche le morete e le mortandèle. Le morete prendono il nome dalla loro colorazione rosso scuro, dovuta alle parti sanguinolente del maiale utilizzate per la preparazione. Le mortandèle “sono gli insaccati del màs’cio meno pregiati, che devono essere consumati il più presto possibile. […] Con i rognòni (i reni), i piccoli pezzi di carne macchiata di sangue, il cuore e, quasi sempre, anche con la coradèla si fa, aggiungendovi dei ritagli di lardo e la stessa cònsa dei coessìni, la pasta da mortandèla.” (Civiltà rurale di una Valle Veneta – La Val Leogra) Il prodotto è dunque uno dei più umili e poveri dell’alimentazione vicentina, confezionato per utilizzare anche le parti meno pregiate del maiale, che non si potevano comunque sprecare.

Descrizione del prodotto: Le luganeghe della Val Leogra sono salsicce di carne suina, fatte con l’impasto dei salami aromatizzato con sale, pepe e chiodi di garofano (secondo le usanze) e insaccato in budelli bovini di circa 10 cm di lunghezza. Hanno un gusto saporito e leggermente speziato, variabile a seconda della lavorazione. Le morete sono salsicce fatte un impasto a base di cuore, polmoni, reni, milza, fegato e, talvolta, sangue del maiale. A questo impasto vi si aggiungono spezie: sale, pepe e una concia di spezie. Sono più piccole delle comuni salsicce, essendo solitamente lunghe circa 8 cm, sono di colore rosso scuro e presentano un sapore molto speziato e leggermente amarognolo. Le mortandèle sono insaccati fatti con un impasto di carni rosse macchiate di sangue, rognoni o reni, cuore, polmoni (coradelo), a cui si aggiungono pezzi di lardo e la stessa concia dei cotechini, ma in quantità minore. In alcuni casi vengono avvolte nel budello; possono anche essere avvolte nel radeselo (omento). Hanno forma cilindrica e di dimensione variabile dai 5 ai 15 cm. Hanno un gusto particolare, amarognolo e speziato. Si presentano di colore rosato più o meno intenso a seconda degli ingredienti.

Processo di produzione: Dopo l’uccisione del maiale, e la preparazione di sopresse e salami, si passa alla preparazione delle luganeghe. La carne viene tritata e ben amalgamata con sale e spezie. Successivamente si inserisce manualmente, o per mezzo di un apposito macchinario, in budella bovine, caratterizzate da un diametro ridotto, preventivamente ripulite con attenzione e trattate con aceto. La conservazione avviene in locali umidi e freschi oppure in frigorifero, ma sia le morete che le mortandèle devono essere consumate entro un breve periodo perchè le carni che contengono sono facilmente deperibili.

Reperibilità: Le luganeghe sono facilmente reperibili nella zona di produzione, mentre morete e mortandèle sono prodotti poveri, confezionati quasi esclusivamente per l’uso domestico.

Usi: Le luganeghe si consumano cotte in un tegame con olio oppure sulle braci. Tipico della zona della Val Leogra è l’utilizzo dell’insaccato lessato con le verze. Le morete vengono consumate anche dopo essere state cotte in acqua bollente.

Pancetta col tocco (Filetto) del Basso Vicentino

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: PANCETTA COL TOCCO (FILETTO) DEL BASSO VICENTINO; PANZÉTA CO L’OSSOCOLO DEL BASSO VICENTINO

Territorio interessato alla produzione: Comuni del basso Vicentino

La storia: La pancetta con il filetto o con il capocollo sono prodotti tipici della zona del Basso vicentino. Ciò è testimoniato dalle numerose voci di persone anziane della zona, il cui ricordo della pancetta con il filetto risale alle usanze dei propri nonni, ed ai quali sembra naturale riferire che la panzéta col toco se fa da sempre. Per quanto riguarda la pancetta con il capocollo, si legge nel libro “L’Alimentazione nella Tradizione Vicentina” a cura del Gruppo di Ricerca sulla Civiltà Rurale: “nel Basso Vicentino qualcuno metteva l’ossocòlo nella panzéta anziché nelle soprésse”. Questi insaccati erano considerati una vera prelibatezza, sia per la gustosa carne che contenevano, sia perché non se ne potevano produrre più di due per animale.

Descrizione del prodotto: La pancetta col filetto o col capocollo ha forma cilindrica, di lunghezza di 30-40cm e diametro di 14-15 cm, viene insaccata nel budello cieco della cavità appendicolare del cavallo o della mucca (chiamato mànega) preventivamente lavato e messo sotto sale. L’insaccato contiene la pancetta, cioè lo strato di lardo venato di parti carnose che copre l’addome del maiale, e il filetto, cioè la massa muscolare situata all’interno, lungo la colonna vertebrale all’altezza dei reni, oppure il capocollo (chiamato in dialetto ossocòlo) cioè la massa muscolare situata lungo le vertebre cervicali del maiale.

Processo di produzione: Il processo di produzione di questo insaccato è relativamente semplice e viene svolto dopo la preparazione di sopresse e salami. La pancetta e i filetti o il capocollo vengono messi a salare separatamente su tavole mobili (tavolieri) di legno (castagno o pino) leggermente in pendenza per far scivolare il liquido che la carne conserva ancora e che tende a rilasciare in presenza di sale. Nel caso del filetto generalmente la carne viene sezionata in due parti, in senso longitudinale, per ottenere due insaccati oppure in quattro parti (aperto in lunghezza e in larghezza), a seconda della grandezza e non serve praticare incisioni sulla carne per favorire la speziatura. Nel caso del capocollo invece vengono praticate incisioni lateralmente per l’inserimento di pezzi di cannella, pepe e chiodi di garofano. Il sale cosparso viene assorbito e trattenuto nella quantità necessaria alla carne, l’eccesso rimasto in superficie viene tolto strofinando la carne e la pancetta con un canovaccio. Le carni da inserire vengono poste nel senso longitudinale sulla pancetta distesa e il tutto viene arrotolato ed inserito all’interno del budello. L’insaccato viene legato con della gavetta (i giri di spago sono distanziati 3/4 cm) per creare l’armatura del prodotto e per evitare il perdurare di vuoti d’aria. Dopo 10-15 giorni di asciugatura, la pancetta viene riposta in luoghi freschi e umidi dove si conserva a lungo, solitamente fino a primavera inoltrata.

Reperibilità: Il prodotto è confezionato soprattutto per uso familiare ma è reperibile anche presso ristoranti, agriturismi ed alcuni rivenditori nella zona di produzione.

Usi: Questi tipi di pancetta vengono consumati tagliati a fette abbastanza consistenti, solitamente cotte alla brace e accompagnate con il pan biscotto e con un contorno di sottaceti.

Panzéta co l’ossocolo del Basso Vicentino

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: PANCETTA COL TOCCO (FILETTO) DEL BASSO VICENTINO; PANZÉTA CO L’OSSOCOLO DEL BASSO VICENTINO

Territorio interessato alla produzione: Comuni del basso Vicentino

La storia: La pancetta con il filetto o con il capocollo sono prodotti tipici della zona del Basso vicentino. Ciò è testimoniato dalle numerose voci di persone anziane della zona, il cui ricordo della pancetta con il filetto risale alle usanze dei propri nonni, ed ai quali sembra naturale riferire che la panzéta col toco se fa da sempre. Per quanto riguarda la pancetta con il capocollo, si legge nel libro “L’Alimentazione nella Tradizione Vicentina” a cura del Gruppo di Ricerca sulla Civiltà Rurale: “nel Basso Vicentino qualcuno metteva l’ossocòlo nella panzéta anziché nelle soprésse”. Questi insaccati erano considerati una vera prelibatezza, sia per la gustosa carne che contenevano, sia perché non se ne potevano produrre più di due per animale.

Descrizione del prodotto: La pancetta col filetto o col capocollo ha forma cilindrica, di lunghezza di 30-40cm e diametro di 14-15 cm, viene insaccata nel budello cieco della cavità appendicolare del cavallo o della mucca (chiamato mànega) preventivamente lavato e messo sotto sale. L’insaccato contiene la pancetta, cioè lo strato di lardo venato di parti carnose che copre l’addome del maiale, e il filetto, cioè la massa muscolare situata all’interno, lungo la colonna vertebrale all’altezza dei reni, oppure il capocollo (chiamato in dialetto ossocòlo) cioè la massa muscolare situata lungo le vertebre cervicali del maiale.

Processo di produzione: Il processo di produzione di questo insaccato è relativamente semplice e viene svolto dopo la preparazione di sopresse e salami. La pancetta e i filetti o il capocollo vengono messi a salare separatamente su tavole mobili (tavolieri) di legno (castagno o pino) leggermente in pendenza per far scivolare il liquido che la carne conserva ancora e che tende a rilasciare in presenza di sale. Nel caso del filetto generalmente la carne viene sezionata in due parti, in senso longitudinale, per ottenere due insaccati oppure in quattro parti (aperto in lunghezza e in larghezza), a seconda della grandezza e non serve praticare incisioni sulla carne per favorire la speziatura. Nel caso del capocollo invece vengono praticate incisioni lateralmente per l’inserimento di pezzi di cannella, pepe e chiodi di garofano. Il sale cosparso viene assorbito e trattenuto nella quantità necessaria alla carne, l’eccesso rimasto in superficie viene tolto strofinando la carne e la pancetta con un canovaccio. Le carni da inserire vengono poste nel senso longitudinale sulla pancetta distesa e il tutto viene arrotolato ed inserito all’interno del budello. L’insaccato viene legato con della gavetta (i giri di spago sono distanziati 3/4 cm) per creare l’armatura del prodotto e per evitare il perdurare di vuoti d’aria. Dopo 10-15 giorni di asciugatura, la pancetta viene riposta in luoghi freschi e umidi dove si conserva a lungo, solitamente fino a primavera inoltrata.

Reperibilità: Il prodotto è confezionato soprattutto per uso familiare ma è reperibile anche presso ristoranti, agriturismi ed alcuni rivenditori nella zona di produzione.

Usi: Questi tipi di pancetta vengono consumati tagliati a fette abbastanza consistenti, solitamente cotte alla brace e accompagnate con il pan biscotto e con un contorno di sottaceti.

Salado co l’ajo del basso vicentino

Territorio interessato alla produzione: Comuni del Basso Vicentino.

La storia: Il salame è uno degli insaccati principi prodotto con le carni del maiale. La variante con l’aglio è tipica della zona del Basso Vicentino e fa parte da secoli della tradizione alimentare locale. Creata per dare un gusto leggermente diverso a questo salume, è stata anche modificata, mettendo come ingredienti del vino aromatizzato all’aglio piuttosto che degli spicchi interi di questo bulbo, per rendere il tutto più gradevole e meno intenso. Testimonianza dell’uso del salame si ha in numerosi testi che parlano di gastronomia locale, tra cui si ricorda “Itinerari Gastronomici Vicentini” di Eugenio Candiago (1962).

Descrizione del prodotto: Il salado co l’ajo è un salume fatto con la selezione migliore di carne di maiale, cioè la polpa senza terminazioni nervose, alla quale viene eventualmente aggiunto un po’ di lardo. A questo si addizionano la concia, del vino bianco secco e degli spicchi di aglio. Il tutto viene insaccato in budelli abbastanza piccoli, in modo da avere un diametro finale di 6-7 cm, una lunghezza di 20-25 cm circa e peso di 700-800g. Al taglio, la pasta del prodotto stagionato deve essere compatta e allo stesso tempo tenera, di colore tendente al rosso opaco.

Processo di produzione: Subito dopo aver insaccato le sopresse, si lavorano i salami. La parte pregiata di carne (polpa senza terminazioni nervose) viene macinata in un tritacarne, con una piastra dagli 0,6 agli 0,8 mm, a volte con l’aggiunta di lardo. Quindi si aggiungono gli ingredienti per la concia: sale grosso tritato, pepe spezzato a piacere, cannella e chiodi di garofano. Nel Basso Vicentino, si fa uso di spicchi d’aglio da aggiungere all’impasto, ma perché non risulti troppo evidente, soprattutto se si tratta di un prodotto da cuocere (la cottura fa risaltare l’aglio), si è affermata la pratica di non inserire gli spicchi interi ma si provvede a schiacciare l’aglio che viene macerato per 2/3 ore nel vino bianco secco (Tocai Bianco); tolto l’aglio, il vino viene asperso sul macinato ottenendo il risultato di un insaccato leggermente profumato d’aglio e di vino. Amalgamata, la pasta da salami viene inserita nel budello con l’utilizzo di uno speciale imbuto applicato alla macchina tritacarne. Il budello viene punzecchiato con la c.d. sponciròla per far uscire il grasso e l’aria. Nei primi 10/15 giorni l’insaccato viene appeso in un ambiente secco affinché asciughi, ma successivamente i locali di stagionatura devono essere freschi e garantire un corretto livello d’umidità tale da permettere l’aderenza del budello e consentire una buona conservazione. Dopo un mese il salame viene considerato stagionato da fette

Reperibilità: Prodotto in notevoli quantità, il salame è uno degli insaccati di più semplice reperibilità. Nella variante con l’aglio si trova presso i produttori e i rivenditori in tutta la zona del basso vicentino, da dicembre fino all’inizio della primavera.

Usi: Il salame crudo stagionato viene tagliato in fette sottili accompagnato tradizionalmente con pan biscotto e sotto aceti ma anche con un contorno di erbe spontanee cotte e con del cren grattugiato.

Salado fresco del basso vicentino

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: SALADO FRESCO DEL BASSO VICENTINO; SALADO FRESCO TREVIGIANO

Territorio interessato alla produzione: Comuni del basso Vicentino e della Marca Trevigiana.

La storia: Tradizionalmente il maiale si ammazzava nella corte della casa contadina, davanti alla stalla sotto el pòrtego, e si lasciava riposare sul posto (in qualche famiglia si ritirava in casa essenzialmente per paura dei ladri). Il periodo tipico d’uccisione e lavorazione del maiale inizia il 25 Novembre (De Santa Caterina còpa il màs-cio e istàla la bovina) e può continuare fino a Carnevale. Il salado fresco rientra a pieno titolo nell’ambito di un’antica tradizione culinaria ed è citato nei libri di Maffioli editi nel Novecento. Questo particolare insaccato, caratterizzato dall’essere più grasso degli altri, meno stagionato e quindi più morbido, può essere usato in maniera diversa rispetto agli altri salami ed è adatto ad essere quasi ‘spalmato’ o a condire minestre e sughi. Nel 1962 Eugenio Candiago scrive: “Nelle trattorie Riviera e sui Colli Berici si serve il salame arrostito sulla graticola, con polenta calda e fritta, o arrostita.” Successivamente cita la tipicità del salame alla graticola di una trattoria dei Colli Berici, (“Itinerari gastronomici Vicentini”, 1962).

Descrizione del prodotto: Il salame del Basso Vicentino viene prodotto utilizzando la selezione migliore delle carne di maiale, cioè la polpa senza terminazioni nervose, alla quale, se risulta un po’ magra, viene aggiunto un po’ di lardo, affinchè le parti magre e grasse risultino ben amalgamate e il prodotto resti morbido. A questo si addizionano il sale e la concia. Non viene invece aggiunto l’aglio perchè risulterebbe troppo evidente al gusto e all’odorato. Il tutto è insaccato in budelli abbastanza piccoli, in modo da avere un diametro finale di 6-7 cm, una lunghezza di 20-25 cm circa e un peso di 700-800g. Al taglio, la pasta del prodotto stagionato deve essere compatta ma allo stesso tempo tenera e di colore tendente al rosso opaco. Il salame fresco trevigiano è caratterizzato dal leggerissimo profumo conferito dal vino bianco aromatizzato all’aglio con cui si bagnano le carni macinate e per questo, a prodotto finito, presenta un leggerissimo profumo d’aglio. La forma del prodotto è cilindrica con un diametro variabile tra 6 a 8 cm ed una lunghezza dai 20 ai 25 cm. Il peso del prodotto finito si aggira attorno ai 6-700 grammi. Inoltre, essendo un prodotto che va consumato fresco si presenta molto morbido e gustoso. Al taglio mostra un’omogenea distribuzione e proporzione di grasso e magro.

Processo di produzione: La parte pregiata di carne del maiale (polpa senza terminazioni nervose) destinata ai salami viene macinata in un tritacarne, con una piastra dagli 0,6 agli 0,8 mm, a volte con l’aggiunta di lardo e addizionata con la concia: sale grosso, pepe, cannella e chiodi di garofano. Amalgamato il tutto vi inserisce nel budello con l’utilizzo di uno speciale imbuto applicato alla macchina tritacarne. Il budello viene punzecchiato con la c.d. sponciròla per far uscire il liquido e l’aria, che impedirebbe alle componenti di aderire e viene legato solo alle estremità. Dopo essersi asciugato in locali secchi (una volta era essenzialmente accanto al focolare domestico), si ripone in ambienti umidi, freschi e bui per la conservazione.

Reperibilità: Il salame è uno degli insaccati di più semplice reperibilità. Si trova facilmente presso i produttori e i rivenditori in tutta la zona del basso vicentino e del trevigiano, da dicembre fino all’inizio della primavera.

Usi: Il consumo tipico del salado è quello tramite cottura in un tegame con un po’ d’olio, per aver di che far pòcio con la polenta, oppure, ancora più diffusamente, aperto in lunghezza e cotto alla griglia. In quest’ultimo modo tende a piegarsi ad accartocciarsi costituendo un involucro per il gustosissimo sugo che si forma all’interno.

Sopressa co l’ossocolo del basso vicentino

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: SOPPRESSA CO L’OSSOCOLO; SOPPRESSA CO LA BRASOLA; SOPPRESSA COL TOCO (filetto)

Territorio interessato alla produzione: Comuni del basso Vicentino

La storia: La soppressa col capocollo, con la braciola o con il filetto sono varianti della classica soppressa , e fanno parte della tradizione culinaria del basso vicentino. La presenza e la tipicità di queste sopresse nel territorio del Basso Vicentino è testimoniata dalle numerose voci di persone anziane della zona, il cui ricordo di questi prodotti risale alle usanze dei propri nonni. L’utilizzo delle carni inserite all’interno dell’impasto serve per impreziosire l’insaccato e creare un prodotto apprezzato e gustoso.

Descrizione del prodotto: La soppressa è un insaccato di carne di maiale, impastato utilizzando le parti qualitativamente migliori delle carni del suino. Nelle varianti col capocollo, con la braciola o con il filetto vengono inserite le carni assieme all’impasto, longitudinalmente all’interno del budello (di cavallo o di mucca). L’insaccato assume una forma cilindrica, di diametro di 15-20 cm e lunghezza variabile dai 30 ai 40 cm a seconda del budello utilizzato, mentre il peso può raggiungere i 5 kg. È di colorazione rosso opaco su cui spiccano macchie bianche dovute alla presenza del grasso, e al taglio sono ben visibili i filoni inseriti.

Processo di produzione: Le soprèsse sono i primi insaccati ad essere lavorati con le carni del maiale ucciso. La parte pregiata di carne (polpa senza terminazioni nervose) destinata alle soprèsse viene macinata in un tritacarne, a volte con l’aggiunta di lardo. Quindi vengono cosparsi gli ingredienti per la concia: sale grosso tritato, pepe, cannella e chiodi di garofano. L’aglio, utilizzato talvolta anche per le soprèsse, non è indicato per la variante con le carni a filetto, principalmente perché il suo sapore forte rischia di alterare il gusto del prodotto finito. Amalgamata, la pasta da soprèssa viene inserita nella mànega. Se si inserisce il capocollo o la braciola, per insaporire ulteriormente queste carni, vengono praticate incisioni per l’inserimento di pezzi di cannella, pepe e chiodi di garofano; se invece si inserisce il filetto, che solitamente viene tagliato in 2 o 4 parti per ottenere più prodotti, non sono necessarie incisioni perché la carne è morbida e consente un ottimo assorbimento delle spezie. Nei primi 10/15 giorni l’insaccato viene appeso in un ambiente secco affinché asciughi. Successivamente viene portato in locali di stagionatura freschi, umidi e protetti dalla luce. La soprèssa impiega molto tempo per maturare perché deve compiere due fermentazioni: la prima, quella stessa dei salami, avviene dopo circa 40 giorni, la seconda dopo almeno 4 mesi (e fino a 7/8, se la carne è grassa). Queste sopresse saranno pronte per i mesi di maggio/giugno ed ottimali nei mesi di luglio.

Reperibilità: Le soppresse col capocollo, con la braciola o con il filetto sono prodotti di nicchia, confezionati in quantità molto ridotte e quindi di reperibilità scarsa. Tuttavia si può trovare presso alcuni ristoranti e agriturismi del basso vicentino e delle limitrofe aree del padovano e del veronese, oltre che direttamente presso i produttori.

Usi: Queste sopresse vengono tagliate in fette abbastanza consistenti e possono essere consumate sia cotte, in tegame con un po’ d’olio per aver di che far pòcio con la polenta, che crude accompagnate con il pan biscotto e un contorno di sottaceti, oppure con le tipiche tèghe de pearòn, peperoni lunghi messi in compòsta (sott’aceto).

Sopressa co la brasola del basso vicentino

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: SOPPRESSA CO L’OSSOCOLO; SOPPRESSA CO LA BRASOLA; SOPPRESSA COL TOCO (filetto)

Territorio interessato alla produzione: Comuni del basso Vicentino

La storia: La soppressa col capocollo, con la braciola o con il filetto sono varianti della classica soppressa , e fanno parte della tradizione culinaria del basso vicentino. La presenza e la tipicità di queste sopresse nel territorio del Basso Vicentino è testimoniata dalle numerose voci di persone anziane della zona, il cui ricordo di questi prodotti risale alle usanze dei propri nonni. L’utilizzo delle carni inserite all’interno dell’impasto serve per impreziosire l’insaccato e creare un prodotto apprezzato e gustoso.

Descrizione del prodotto: La soppressa è un insaccato di carne di maiale, impastato utilizzando le parti qualitativamente migliori delle carni del suino. Nelle varianti col capocollo, con la braciola o con il filetto vengono inserite le carni assieme all’impasto, longitudinalmente all’interno del budello (di cavallo o di mucca). L’insaccato assume una forma cilindrica, di diametro di 15-20 cm e lunghezza variabile dai 30 ai 40 cm a seconda del budello utilizzato, mentre il peso può raggiungere i 5 kg. È di colorazione rosso opaco su cui spiccano macchie bianche dovute alla presenza del grasso, e al taglio sono ben visibili i filoni inseriti.

Processo di produzione: Le soprèsse sono i primi insaccati ad essere lavorati con le carni del maiale ucciso. La parte pregiata di carne (polpa senza terminazioni nervose) destinata alle soprèsse viene macinata in un tritacarne, a volte con l’aggiunta di lardo. Quindi vengono cosparsi gli ingredienti per la concia: sale grosso tritato, pepe, cannella e chiodi di garofano. L’aglio, utilizzato talvolta anche per le soprèsse, non è indicato per la variante con le carni a filetto, principalmente perché il suo sapore forte rischia di alterare il gusto del prodotto finito. Amalgamata, la pasta da soprèssa viene inserita nella mànega. Se si inserisce il capocollo o la braciola, per insaporire ulteriormente queste carni, vengono praticate incisioni per l’inserimento di pezzi di cannella, pepe e chiodi di garofano; se invece si inserisce il filetto, che solitamente viene tagliato in 2 o 4 parti per ottenere più prodotti, non sono necessarie incisioni perché la carne è morbida e consente un ottimo assorbimento delle spezie. Nei primi 10/15 giorni l’insaccato viene appeso in un ambiente secco affinché asciughi. Successivamente viene portato in locali di stagionatura freschi, umidi e protetti dalla luce. La soprèssa impiega molto tempo per maturare perché deve compiere due fermentazioni: la prima, quella stessa dei salami, avviene dopo circa 40 giorni, la seconda dopo almeno 4 mesi (e fino a 7/8, se la carne è grassa). Queste sopresse saranno pronte per i mesi di maggio/giugno ed ottimali nei mesi di luglio.

Reperibilità: Le soppresse col capocollo, con la braciola o con il filetto sono prodotti di nicchia, confezionati in quantità molto ridotte e quindi di reperibilità scarsa. Tuttavia si può trovare presso alcuni ristoranti e agriturismi del basso vicentino e delle limitrofe aree del padovano e del veronese, oltre che direttamente presso i produttori.

Usi: Queste sopresse vengono tagliate in fette abbastanza consistenti e possono essere consumate sia cotte, in tegame con un po’ d’olio per aver di che far pòcio con la polenta, che crude accompagnate con il pan biscotto e un contorno di sottaceti, oppure con le tipiche tèghe de pearòn, peperoni lunghi messi in compòsta (sott’aceto).

Sopressa col toco (filetto) del basso vicentino

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: SOPPRESSA CO L’OSSOCOLO; SOPPRESSA CO LA BRASOLA; SOPPRESSA COL TOCO (filetto)

Territorio interessato alla produzione: Comuni del basso Vicentino

La storia: La soppressa col capocollo, con la braciola o con il filetto sono varianti della classica soppressa , e fanno parte della tradizione culinaria del basso vicentino. La presenza e la tipicità di queste sopresse nel territorio del Basso Vicentino è testimoniata dalle numerose voci di persone anziane della zona, il cui ricordo di questi prodotti risale alle usanze dei propri nonni. L’utilizzo delle carni inserite all’interno dell’impasto serve per impreziosire l’insaccato e creare un prodotto apprezzato e gustoso.

Descrizione del prodotto: La soppressa è un insaccato di carne di maiale, impastato utilizzando le parti qualitativamente migliori delle carni del suino. Nelle varianti col capocollo, con la braciola o con il filetto vengono inserite le carni assieme all’impasto, longitudinalmente all’interno del budello (di cavallo o di mucca). L’insaccato assume una forma cilindrica, di diametro di 15-20 cm e lunghezza variabile dai 30 ai 40 cm a seconda del budello utilizzato, mentre il peso può raggiungere i 5 kg. È di colorazione rosso opaco su cui spiccano macchie bianche dovute alla presenza del grasso, e al taglio sono ben visibili i filoni inseriti.

Processo di produzione: Le soprèsse sono i primi insaccati ad essere lavorati con le carni del maiale ucciso. La parte pregiata di carne (polpa senza terminazioni nervose) destinata alle soprèsse viene macinata in un tritacarne, a volte con l’aggiunta di lardo. Quindi vengono cosparsi gli ingredienti per la concia: sale grosso tritato, pepe, cannella e chiodi di garofano. L’aglio, utilizzato talvolta anche per le soprèsse, non è indicato per la variante con le carni a filetto, principalmente perché il suo sapore forte rischia di alterare il gusto del prodotto finito. Amalgamata, la pasta da soprèssa viene inserita nella mànega. Se si inserisce il capocollo o la braciola, per insaporire ulteriormente queste carni, vengono praticate incisioni per l’inserimento di pezzi di cannella, pepe e chiodi di garofano; se invece si inserisce il filetto, che solitamente viene tagliato in 2 o 4 parti per ottenere più prodotti, non sono necessarie incisioni perché la carne è morbida e consente un ottimo assorbimento delle spezie. Nei primi 10/15 giorni l’insaccato viene appeso in un ambiente secco affinché asciughi. Successivamente viene portato in locali di stagionatura freschi, umidi e protetti dalla luce. La soprèssa impiega molto tempo per maturare perché deve compiere due fermentazioni: la prima, quella stessa dei salami, avviene dopo circa 40 giorni, la seconda dopo almeno 4 mesi (e fino a 7/8, se la carne è grassa). Queste sopresse saranno pronte per i mesi di maggio/giugno ed ottimali nei mesi di luglio.

Reperibilità: Le soppresse col capocollo, con la braciola o con il filetto sono prodotti di nicchia, confezionati in quantità molto ridotte e quindi di reperibilità scarsa. Tuttavia si può trovare presso alcuni ristoranti e agriturismi del basso vicentino e delle limitrofe aree del padovano e del veronese, oltre che direttamente presso i produttori.

Usi: Queste sopresse vengono tagliate in fette abbastanza consistenti e possono essere consumate sia cotte, in tegame con un po’ d’olio per aver di che far pòcio con la polenta, che crude accompagnate con il pan biscotto e un contorno di sottaceti, oppure con le tipiche tèghe de pearòn, peperoni lunghi messi in compòsta (sott’aceto).

Prosciutto della Val Liona dolce e affumicato

Territorio interessato alla produzioneProvincia di Vicenza, comuni di Grancona, Orgiano, San Germano dei Berici, Sossano e Zovencedo.Descrizione del prodottoÈ una coscia di suino, senz’osso, di varie forme, con e senza gambuccio e tipo fi occo (è il più magro).Il tipo “dolce” al taglio presenta colore rosso-rosato, con leggere venature di colore bianco candido o bianco-rosato. Il profumo è robusto con finale delicato, accompagnato da un gradevole e complesso gusto di mandorla amara; il sapore è dolce e morbido.Il tipo “affumicato” al taglio presenta colore rosso-rosato nella parte magra e bianco perlaceo o bianco-rosato nella parte grassa. Il profumo è gradevole ed aromatico in funzione delle spezie aggiunte con la concia; il gusto è intenso, sapido, con una delicata e armoniosa nota di affumicato.Processo di produzioneÈ ottenuto previa disossatura della coscia di suino allo stato fresco, di peso non inferiore ai 7,5 kg, che poi viene salata e stagionata, secondo la tipologia, da un minino di 85 giorni fi no ad un massimo di 170 giorni.Nella tipologia “dolce” è salato a secco con sale marino e pepe nero; completate le fasi di salagione e riposo, viene lavato, asciugato e sugnato, ultimando la stagionatura in appositi locali.Nella tipologia “affumicato” è invece salato a secco con sale marino e spezie; l’affumicatura è fatta a caldo in appositi ambienti utilizzando legna naturale cui segue la stagionatura, eseguita in ambienti controllati.Durante il processo produttivo si effettuano manualmente, in più fasi, delle rifi lature sul prodotto a mezzo di coltelli. I locali di lavorazione e di stagionatura garantiscono il giusto equilibrio microclimatico per la graduale maturazione del prodotto.UsiLe singolari peculiarità ambientali hanno dato al prodotto particolari caratteristiche organolettiche che lo hanno fatto diventare unico sia per la dolcezza che per la delicatezza dell’affumicatura.ReperibilitàIl prosciutto della Val Liona dolce e affumicato è reperibile tutto l’anno nella zona di produzione e presso alcuni dettaglianti.La storiaNella Val Liona l’arte della lavorazione della coscia di suino senza osso e dell’affumicatura si diffuse sin dagli inizi dell’anno 1000, grazie al contributo dato dai pastori Cimbri, popolo di origine nordica che qui si stabilì. Nella pianura che circonda la vallata, anche il popolo Veneto da sempre ha coltivato l’arte della lavorazione del prosciutto con osso. L’insieme di questi saperi ha dato origine al prosciutto dolce e a quello affumicato

Sopressa vicentina DOP

Zona di produzione: intera provincia di Vicenza

Caratteristiche: Ha forma cilindrica con legatura caratterizzata da uno spago non colorato, che può essere elasticizzato, posto in verticale (imbragatura) e da una serie di anelli dello stesso materiale posti in orizzontale sopra l’imbragatura lungo tutta la lunghezza della Soprèssa. La superficie esterna si presenta ricoperta da una patina chiara che si sviluppa naturalmente in fase di stagionatura. Al taglio la pasta appare compatta e allo stesso tempo tenera. La fetta presenta colori leggermente opachi, una grana medio grossa con il magro e il grasso privi di confini ben definiti. Il profumo è speziato, con eventuale fragranze di erbe aromatiche con o senza aglio e il sapore è delicato, leggermente dolce e pepato o di aglio

Note: Sin dagli anni 50 sono dedicate a questo prodotto diverse manifestazioni e feste contadine, tra le quali spicca quella del Comune di Valli del Pasubio, in programma la seconda settimana di agosto, che vanta una grande risonanza anche a livello regionale. Il tradizionale processo produttivo della Sopressa vicentina vive ancora oggi nei piccoli stabilimenti di macellazione e lavorazione delle carni suine disseminati nel territorio vicentino, che continuano a operare secondo quanto prescritto e tramandato dalle consuetudini contadine locali.

Riferimenti normativi: Prodotto DOP, Registrazione europea con regolamento CE n. 492/03 del 18/3/03

Vitellone padano

Territorio interessato alla produzione: Province di Verona, Padova, Vicenza, Venezia e Treviso.

La storia: La produzione del vitellone padano è realizzata nell’ampio arco territoriale che va dal basso Friuli al medio Veneto, alla bassa Lombardia, alla parte orientale del Piemonte ed alla pianeggiante Emilia Romagna. Nel Veneto la produzione è localizzata nelle aree pianeggianti: alluvionali con caratteristiche pedologico-ambientali adatte alla coltivazione intensiva di specie a destinazione foraggiera quali erba medica, prati polititi e monoliti, cereali foraggieri. L’allevamento del vitellone è una produzione tipica dell’area della Pianura Padana. Soprattutto nella seconda metà del secolo sono sorte numerose strutture cooperative tra allevatori aventi lo scopo di gestire direttamente una o più fasi produttive. Inoltre, l’evoluzione tecnologica avvenuta negli ultimi anni in questi allevamenti ha raggiunto livelli difficilmente riscontrabili in altri paesi, ponendo questo settore della zootecnia italiana ai primi posti in un’ipotetica graduatoria mondiale per quanto concerne la razionalità dei sistemi produttivi.

Descrizione del prodotto: La carne di vitellone padano deriva dalla macellazione di capi bovini adulti di sesso maschile, non castrati e di età inferiore ai 2 anni, o femminile di età inferiore ai 19 mesi, che hanno raggiunto un peso variabile da 400 a 600 kg. Le carni sono di colore rosso-rosa brillante, con una fibra sottile e poco grasso. È una carne molto saporita e apprezzata per l’elevata resa dei tagli magri e morbidi.

Processo di produzione: L’allevamento del vitellone padano avviene in strutture adeguatamente attrezzate alla densità degli animali, in grado di consentire sufficienti ricambio d’aria, distribuzione di acqua e alimenti e facilità di interventi sanitari e controlli. Per l’identificazione dei capi in allevamento si utilizzano marchi auricolari applicati agli animali. La materie prime utilizzate per l’alimentazione sono prevalentemente a base di farine di mais e orzo, crusca, farina di soia, eventualmente siero, se disponibile, e integrazioni vitaminico-minerali. Vanno esclusi dalla razione tutti gli elementi che incidono negativamente sulle caratteristiche del grasso o conferiscono odore sgradevole alla carne (pula di riso, oli e farina di pesce, fieno greco, ecc.). Le tecniche e i mezzi di trasferimento degli animali dalla stalla al macello hanno una forte influenza nella qualità, in particolare nella tenerezza della carne: è necessaria l’adozione di modalità di carico, scarico, trasporto e sosta al macello in grado di limitare al massimo lo stress del bestiame. Gli animali vengono trasportati in macelli che aderiscono al marchio e che hanno sottoscritto il “Disciplinare di Macellazione”. Per la commercializzazione, se il punto vendita non vende solo il vitellone padano, il prodotto deve essere debitamente separato da altri tipi di carne. Le carni vengono identificate apponendo sulle carcasse e sui tagli anatomici un marchio tramite striscia di carta o cartellino inamovibili o timbratura; sui prodotti confezionati l’apposizione del marchio avviene tramite prestampa sull’involucro, o, con etichetta inamovibile sull’involucro, o con cartellino all’interno dell’involucro.

Reperibilità: Presso i rivenditori al dettaglio specializzati in tutto il territorio regionale, il prodotto è reperibile durante tutto l’anno.

Usi: La carne del vitellone, magra e molto digeribile, è adatta a tutti i tipi di dieta. A seconda dei tagli trova in cucina differenti e numerosi utilizzi, sia cotta al forno, che alla brace, che in padella.

Vitellone ai cereali

Territorio interessato alla produzionetutta la Regione Veneto.Descrizione del prodottoLa specificità della carne del “vitellone ai cereali”, è legata all’utilizzo di animali della specie Bos taurus, esclusivamente appartenenti a razze da carne, a doppia attitudine e incroci fra tali razze, di età compresa fra 12 e 24 mesi, allevati tradizionalmente e alimentati prevalentemente a base di cereali.Si ottengono così animali maturi ad un’età più giovanile e, di conseguenza, caratterizzati da carni tenere di un colore chiaro e luminoso con buona attitudine alla conservazione.Processo di produzionePer ottenere le caratteristiche della carne tipiche del “vitellone ai cereali”, i vitelloni sono alimentati in modo da poter raggiungere la maturità ad un’età giovanile, attraverso l’utilizzo di diete ad alto livello energetico ed elevato indice di conversione, che promuovono un ottimale accrescimento giornaliero e permettono di ottenere una buona conformazione e una equilibrata costituzione e distribuzione del grasso di marezzatura e di quello di copertura.UsiLa carne di “vitellone ai cereali”, in base ai tagli, trova numerosi e differenti utilizzi in cucina, in particolare cotta al forno o alla brace.ReperibilitàÈ reperibile tutto l’anno presso la grande distribuzione moderna e tradizionale.La storiaIn passato il mais era usato prevalentemente per l’alimentazione umana mentre i sottoprodotti della sua lavorazione costituivano l’integrazione energetica nelle razioni dei bovini. A partire dagli anni ’50 del secolo scorso, con il miglioramento delle rese e l’evoluzione dell’alimentazione umana, quote elevate di cereali, in particolare di mais, sono entrate a far parte della razione alimentare dei bovini.La produzione veneta si è quindi specializzata, in particolar modo nel vitellone, in quanto l’utilizzo di tale cereale, ad elevato valore energetico, unito all’erba medica, ad alto valore proteico, permetteva di ottenere carni di maggior pregio da animali in età inferiore ai 24 mesi.Si sono così sviluppate delle filiere produttive dedicate al “vitellone ai cereali”, per la valorizzazione di questa peculiare tipologia di carne della pianura Padana.

Salame di asino

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Padova e Vicenza.

La storia: Il salame d’asino è tipico della provincia padovana e della zona della Comunità Montana Leogra Timonchio in provincia di Vicenza. La produzione di questo salume è antica e si lega alla disponibilità di asini nella zona, ampiamente utilizzati come animali da soma, da tiro e da lavoro. Nella zona di Valdagno in provincia di Vicenza, si allevano da diversi secoli asini dei razza furlana, a pelo grigio e di taglia media, un tempo utilizzati per trasportare le merci sulle mulattiere. Dell’asino si usano solo le carni magre e, per rendere l’impasto più morbido anche dopo la stagionatura, si aggiunge pancetta oppure lardo di maiale. Ci sono differenze nella produzione di questo salume sia nell’uso di ingredienti aggiuntivi (spezie, aromi e percentuali di altri tipi di carne) sia nei tempi di stagionatura, legate ad usanze tipicamente locali. La comunità Montana Leogra Timonchio ha creato un presidio ad hoc teso a far conoscere questo antico salume, a tutelare i pochi produttori rimasti e ad incrementare sia l’allevamento diella razza locale di asini che il numero di produttori di salame.

Descrizione del prodotto: L’aspetto è quello d’un salame abbastanza grosso, cilindrico, del diametro di circa 8-9 cm, lungo 25-28 cm e di circa 1-1,2 kg. Al taglio, la pasta del prodotto stagionato deve essere compatta e allo stesso tempo tenera, di colore abbastanza scuro.

Processo di produzione: L’impasto viene ottenuto selezionando le varie carni con particolare cura. Dell’asino vengono scelte le parti più magre evitando il grasso che tende ad irrancidire velocemente. A queste si aggiungono carni di suino in una percentuale di circa il 40% del totale, scegliendo pancetta e/o lardo a seconda delle tradizioni familiari. Le carni vengono quidi tritate con coltelli a piastra a fori e opportunamente salate e pepate. Taluni aggiungono una concia di cannella, pepe, chiodi di garofano, salvia e aglio in quantità variabili. Il tutto viene quindi impastato e insaccato utilizzando budello naturale di bovino, legandolo a mano, e ponendolo su appositi carrelli, in cella di asciugatura con temperature variabili da 18° a 12°C. La conservazione avviene in apposite celle con temperatura, umidità e ventilazione controllate; infine il salame è appeso a rastrelliere. Nella produzione contadina l’asciugatura avviene in locali debolmente riscaldati e la stagionatura in tradizionali granai aerati dove l’insaccato viene appeso alle travi o su apposite “stanghe da salàdi” (pali appesi al soffitto). La maturazione avviene dopo circa due mesi e mezzo ma, come detto precedentemente, varia a seconda delle tradizioni locali.

Reperibilità: Prodotto in quantità ridotte è reperibile solo presso i produttori o, occasionalmente, presso rivenditori specializzati o in alcuni agriturismi sia nella zona del padovano che del vicentino.

Usi: Il salame d’asino si può mangiare crudo, a fette sottili e accompagnato con la tradizionale polenta di mais Marano, oppure cotto in tegame o alla griglia.

Coniglio veneto

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Il coniglio domestico europeo deriva dal coniglio selvatico. Pochissimi sono i reperti archeologici su cui ci si può basare per la ricostruzione della diffusione del coniglio nella preistoria. Tuttavia è probabile che i conigli, o i loro predecessori, fossero migrati dall’ Asia all’Europa all’inizio dell’era terziaria. I primi ad allevarlo furono i Fenici attorno al 1100 a.C. e successivamente i Romani. Dopo la caduta dell’impero romano, il suo allevamento fu abbandonato e ripreso soltanto verso il 1700 nei monasteri, dove furono selezionate razze per la produzione di pelliccia e di carne. È soprattutto nella seconda metà del secolo scorso che si sviluppò la differenziazione di nuove razze. Oggi esistono 50 e più razze di coniglio allevate in tutto il mondo. In Italia se ne contano una quarantina, ma se ne utilizzano solo alcune per effettuare incroci da cui ottenere animali vigorosi, produttivi e adatti per l’allevamento. La diffusione dell’allevamento del coniglio ha trovato interesse principalmente in tre province: Padova, Treviso e Venezia.

Descrizione del prodotto: La carne di coniglio per la sue proprietà alimentari e organolettiche ha mantenuto negli anni un’immagine salutista confermata tutt’oggi da studi dietologici. E’ una carne di colore rosa chiaro, gustosa, particolarmente magra e molto delicata. Il coniglio viene allevato fino ad una età di 84/90 giorni, al raggiungimento di 2,5kg di peso e prima della maturazione sessuale per evitare che la carne assuma un odore forte e caratteristico non apprezzato dai consumatori. Il coniglio, dopo la sua macellazione, può essere lasciato intero oppure porzionato in tre tagli caratteristici: spalle, carrè o lombo e cosce.

Processo di produzione: Le particolari tecniche di allevamento e soprattutto l’alimentazione dell’animale basata su materie prime di elevata qualità, garantiscono le buone caratteristiche della carne. L’alimentazione del coniglio si basa prevalentemente su erba medica ed è integrata con frumento, orzo, crusche, soia e girasole. L’animale è molto sensibile alla presenza di micotossine negli alimenti, per cui tutte queste materie prime devono essere di buona qualità e conservate con grande attenzione. La carne di coniglio è un prodotto che viene lavorato e commercializzato fresco entro cinque giorni dalla macellazione al fine di conservare inalterate le proprie caratteristiche. Trattandosi di prodotto fresco, la carne non subisce manipolazioni se non nella fase di confezionamento per la quale si utilizza materiale atossico per uso alimentare.

Reperibilità: La carne di coniglio è facilmente reperibile presso i produttori o presso qualsiasi rivenditore al dettaglio.

Usi: La carne del coniglio è molto ricca di vitamine e sali minerali (fosforo, magnesio, potassio) ad alto contenuto di acidi grassi polinsaturi con bassissimo contenuto di colesterolo e sodio. È molto digeribile e quindi indicata nell’alimentazione della primissima età, nello svezzamento e per gli anziani.

Anatra Germana veneta

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: L’anatra Germanata Veneta discende direttamente dal germano reale che è un’anatra selvatica. Essendo una specie rustica e poco esigente, si è adattata con facilità all’addomesticamento mantenendo intatta solo la colorazione, in quanto la selezione operata in cattività l’ha portata, a modificare le dimensioni originarie. Non sembrano esistere indicazioni bibliografiche specifiche riguardo a questa razza, tuttavia è certa la sua origine locale ed è probabilmente l’unica razza autoctona ancora presente sul territorio che gode di una buona diffusione. Questa razza fa parte del “Progetto di conservazione razze avicole con particolare riguardo verso quelle a rischio di estinzione”. Dal 1998 questo progetto è gestito da Veneto Agricoltura per conto della Regione Veneto, precedentemente, dal 1981 era controllato dal Consorzio per lo sviluppo avicunicolo e della selvaggina del Veneto di Rovigo e ancor prima (1917) dalla Stazione Sperimentale di Pollicoltura di Rovigo.

Descrizione del prodotto: L’anatra Germanata Veneta presenta un tronco leggermente cadente e carnoso, il collo lungo a forma di “S”, (leggermente più corto nella femmina), il becco forte di color verde chiaro, petto ampio, ali ben aderenti al corpo e zampe di media lunghezza di color arancio. Nel maschio il piumaggio è grigio, con sfumature marrone di varie tonalità su dorso, ali e coda, mentre testa e collo sono di color verde. Le femmine invece presentano colorazione marrone su tutto il corpo. I maschi adulti raggiungono il peso di 3-3,2kg, mentre le femmine sono leggermente più piccole pesando circa 2,6-2,8kg.

Processo di produzione: E’ un animale rustico che si adatta molto bene all’allevamento all’aperto. Le femmine possono essere impiegate nell’incrocio con maschi di anatra Muta (Barberia) per la riproduzione di Mulard, utilizzati per la produzione di fegato grasso. Questi animali sono ottimi pascolatori in grado di cibarsi anche di erbe che crescono sulle sponde o sui fondali dei canali di limitata profondità. I paperi dopo la schiusa vengono allevati per poche settimane in ambienti chiusi per poi essere liberati al pascolo. Per la loro alimentazione possono essere impiegate erbe e verdure di scarto. Nell’allevamento all’ingrasso non è necessaria la presenza di stagni o canali, ma l’acqua è necessaria nell’allevamento dei riproduttori che manifestano una maggiore fecondità se gli accoppiamenti avvengono nell’acqua. Sono animali rustici e facili da allevare, infatti a parte i primi giorni di vita, richiedono pochissime cure, specialmente se il loro allevamento è praticato vicino a corsi d’acqua. La maturità commerciale viene raggiunta a 4-5 mesi e le carni sono molto saporite.

Reperibilità: Diffusa in tutto il territorio regionale, è reperibile facilmente direttamente presso le aziende agricole o presso i canali di distribuzione al dettaglio.

Usi: La carne di anatra è molto utilizzata per la preparazione di arrosti.

Anatra mignon

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: L’anatra Mingon è una razza presente nel nord est d’Italia, allevata prevalentemente nelle aree lagunari dell’alto Adriatico. Le prime notizie ufficiali su quest’anatra, tuttavia, si hanno nel 1962 quando i soggetti di razza Mignon sono stati esposti ad una manifestazione avicola ad Ascoli Piceno. Selezionata definitivamente e migliorata durante gli anni ottanta, alla stazione Sperimentale di Pollicoltura di Rovigo, è stata inclusa nell’elenco “delle razze avicole italiane in pericolo di estinzione”: progetto realizzato nel 1985 su incarico del ministero dell’Agricoltura ed oggi gestito dall’Azienda Regionale Veneto Agricoltura, per conto della Regione Veneto.

Descrizione del prodotto: È un’anatra di taglia ridotta, di aspetto grazioso. Ha portamento orizzontale, cioè col dorso parallelo al terreno. Le zampe sono palmate, la pelle ed il becco di colore giallo. Il piumaggio si presenta bianco candido negli adulti, mentre gli anatroccoli, mostrano un folto piumino giallo. Il peso degli adulti, sia maschi che femmine, si aggira attorno agli 800g. Può venire confusa col germano reale bianco da cui si differenzia principalmente per la colorazione delle uova. Le uova della Mignon si presentano di colore bianco e di peso di circa 40-50 g, mentre quelle del germano sono verdi e leggermente più grandi.

Processo di produzione: Sono animali rustici e facili da allevare, infatti a parte i primi giorni di vita, richiedono pochissime cure, specialmente se il loro allevamento è praticato vicino a corsi d’acqua. La Mignon è una razza a lento accrescimento, che per dare i migliori risultati deve essere allevata con metodo estensivo all’aperto. Gli anatroccoli sono allevati al chiuso fino all’età di 40/60 giorni. Queste anatre devono poter disporre di pascolo per almeno 10 mq/capo. La presenza di acqua in stagno o pozze è importante ai fini dell’allevamento, soprattutto per i riproduttori, in quanto l’accoppiamento è facilitato e si ottiene un maggior numero di uova feconde. Viste le caratteristiche di rusticità, questa razza può essere allevata anche con metodo biologico. Le carni sono molto apprezzate perché saporite. La macellazione avviene solitamente dopo 12-13 settimane di vita, al raggiungimento di un peso medio di 750-800 g.

Reperibilità: Presso aziende agricole, agriturismi e rivendite al dettaglio specializzati, dislocati in gran parte del territorio regionale. Il prodotto è reperibile durante tutto l’anno.

Usi: L’Anatra Mignon viene utilizzata cotta arrosta o allo spiedo.

Faraona camosciata

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: La faraona domestica discende dalla faraona africana, ancora presente allo stato selvatico nella zona occidentale dell’Africa e della quale mantiene identica morfologia. I primi ad addomesticarla, nonostante le sue origini africane, furono i Greci, mentre in Italia arrivò grazie ai Romani. Tuttavia, con la caduta dell’Impero questa razza non venne più allevata e si ridusse drasticamente di numero; fu solo nel basso Medioevo (XVII secolo d. C.) che essa riapparve in Europa, grazie ai Portoghesi che riportarono nel continente alcuni esemplari africani. La razza camosciata fu selezionata a partire da un esiguo gruppo di soggetti presentati erroneamente come faraone bianche alla Esposizione Avicola di Parigi. Il Ghigi, osservando la pelle di questi soggetti, si rese conto di trovarsi di fronte ad una nuova mutazione e dopo aver acquistato gli animali visti a Parigi cominciò nel 1922 la selezione di questa nuova razza di faraone.

Descrizione del prodotto: Il corpo della faraona Camosciata ha un profilo curvilineo ricoperto da penne che presentano la caratteristica “perlatura”, ovvero il disegno formato da piccole e regolari macchie rotonde di colore bianco, che spiccano sulla colorazione delle penne. La pelle è pigmentata, presentandosi nerastra nella zona della gola e del collo. Le penne hanno una tinta fortemente bianca sfumata leggermente di gialliccio, sulla quale spiccano in modo evidente le macchie a perla. La testa e il collo sono nudi, con bargigli maggiormente sviluppati nel maschio. Il portamento nella femmina è quasi orizzontale, mentre nel maschio è più eretto. I pulcini di questa razza sono facilmente riconoscibili poichè sono di un tenue colore giallastro, e presentano sottili strisce dorsali di color camoscio. Le femmine, raggiungendo anche i 2 kg di peso, sono leggermente più grandi dei maschi che arrivano in media a 1,8kg. Depongono uova di colore rossastro e del peso medio di 45 g.

Processo di produzione: Le faraone Camosciate sono animali rustici, di indole gregaria e ottimi pascolatori, che per la produzione di carni di qualità si prestano all’allevamento estensivo all’aperto a lento accrescimento. I pulcini vengono allevati al chiuso fino all’età di 40/60 giorni, poi, una volta impiumati, vengono allevati in arche per l’allevamento all’aperto. Gli animali devono poter disporre di pascolo per almeno 10 mq/capo. Viste le caratteristiche di rusticità della razza può essere allevata anche con metodo biologico.

Reperibilità: Allevata da aziende agricole specializzate, la faraona camosciata è reperibile presso le aziende stesse o presso dettaglianti in tutto il territorio regionale.

Usi: La carne di faraona, gustosa e molto apprezzata, è usata prevalentemente cotta arrostita.

Galletto nano di corte padovana – Pepoa

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: I progenitori degli attuali polli domestici (Gallus gallus) abitavano la zona meridionale e centrale dell’India; furono portati in Cina verso il 1400-1500 e successivamente in Europa. In quasi tutte le civiltà antiche, i polli sono stati usati dapprima come animali da combattimento, poi hanno assunto significato religioso, infine, sono diventati una risorsa alimentare; da qui la storia del pollo è soprattutto storia di cucina e di ricette, ad iniziare dagli antichi Romani, che lo consideravano un piatto prelibato. Sino all’ottocento l’allevamento del pollo fu confinato nell’ambito dell’attività domestica, di competenza delle donne. Le razze si sono via via diversificate per morfologia, colorazione e zona geografico-climatica di “colonizzazione”. La razza “pepoi” è di origine Veneta, molto diffusa nella zona nord orientale del Veneto e del Friuli, ed è l’unica razza nana rurale da reddito attualmente disponibile sul mercato.

Descrizione del prodotto: I pulcini alla nascita hanno una colorazione marron chiaro con striature più scure sul dorso e sul capo. La colorazione del piumaggio degli adulti è “tipo dorato” con piccole differenze tra i sessi. Nel gallo, ad esempio, il petto deve essere scuro (nero) mentre nella gallina tende al dorato (salmone). La pelle e i tarsi sono di colore giallo. Gli animali adulti raggiungono pesi di 1,3-1,5 kg il maschio e 1-1,1 kg nella femmina. Le galline producono uova a guscio colorato di dimensioni abbastanza piccole (40-45 gr) con la particolarità di avere una percentuale di tuorlo superiore alle uova di altre galline. Hanno masse muscolari del petto molto sviluppate che ben si adattano alla preparazione allo spiedo o alla griglia e forniscono carni molto saporite.

Processo di produzione: Questa razza, rustica, a lento accrescimento e di dimensioni ridotte, si presta bene all’allevamento estensivo all’aperto. I pulcini devono essere allevati al chiuso per 40-60 giorni e successivamente all’aperto, in arche appositamente preparate, fino al momento della macellazione. L’alimentazione deve integrare, con apposite farine di cereali, gli alimenti che gli animali raccolgono razzolando. Le galline di questa razza, oltre a essere ottime produttrici di uova, possono anche essere utilizzate per la cova e l’allevamento naturale. I “pepoi” possono essere utilizzati per il consumo fresco già all’età di 4-5 mesi, e sono impiegati per la produzione del cosiddetto pollo/porzione al raggiungimento del peso di circa 600-700 gr. Nel passato gli esemplari maschi venivano frequentemente castrati per ottenere il “capponino”, utilizzato dalle massaie come balia al posto della chioccia e macellato in occasione delle feste natalizie.

Reperibilità: Questi polli sono reperibili presso le aziende agricole che li allevano o presso i rivenditori al dettaglio, in tutto il territorio regionale durante tutto l’anno.

Usi: Le carni magre e saporite di questa razza di polli sono molto apprezzate dai consumatori, utilizzate cotte allo spiedo o arrosto.

Gallina dorata di Lonigo

Territorio interessato alla produzione: Zona di Vicenza e pedemontana.

La storia: La gallina Dorata di Lonigo è un’antica razza diffusa in tutta la pianura veneta. Ha la tipica morfologia del “pollo italiano” che all’inizio del secolo era diffuso in quasi tutti gli ambienti rurali del nostro Paese. Già nella prima metà del Novecento polli locali dell’area vicentina erano stati recuperati, migliorati e poi diffusi nelle campagne dalla Cattedra ambulante di agricoltura di Lonigo (VI). Soggetti di questa razza erano quindi già presenti alle varie manifestazioni prima dell’ultimo conflitto mondiale. Dagli anni Cinquanta in poi si sono perse le tracce di questa razza che, come altre, è stata per fortuna allevata da qualche agricoltore a scopo di autoconsumo, consentendole di sopravvivere fino ai giorni nostri.

Descrizione del prodotto: “La Vicentina” è una gallina di taglia media, con cresta semplice formata da 4-6 denti, con bargigli di colore rosso e tarsi e pelle di colore giallo. Il piumaggio è fulvo scuro con una mantellina leggermente dorata che scende sul petto; alcune penne della coda possono tendere al nero. I galli adulti hanno un peso variabile da 2,4 a 3 kg, mentre le femmine pesano 2,2-2,6 kg. All’età di macellazione (22 settimane) i polli pesano mediamente 2 kg. Le uova prodotte da questa razza hanno colorazione rosata e peso medio di 55-60 g. La qualità della carne, grazie anche alle tecniche di allevamento e alimentazione estensive, è ottima e perciò adatta ai consumatori più esigenti.

Processo di produzione: La gallina dorata di Lonigo è una razza molto rustica e pascolatrice. Produce ottime carni, ma cresce bene solo se allevata con sistema estensivo, quando può razzolare nei prati e nutrirsi di erbe e di mais. Questa razza, inoltre, dimostra una buona attitudine alla cova e all’allevamento della prole, e la rende assai idonea all’allevamento rurale e in aziende agrituristiche. Le produzioni tipiche sono il pollastro e il cappone, preparato castrando gli esemplari maschi e macellato solitamente in prossimità delle feste natalizie. Pregiata è anche la gallina a fine carriera: a fine produzione l’ovaiola vicentina non è considerata un prodotto di scarto come nell’allevamento intensivo, ma una vera e propria produzione di qualità. Anche se attualmente questa razza è allevata in purezza, si ottengono ottimi risultati anche incrociandola con altre razze.

Reperibilità: Essendo un prodotto di nicchia, esemplari di questa razza sono reperibili solo presso alcune aziede agricole della provincia di Vicenza.

Usi: La carne della razza dorata di Lonigo è molto apprezzata, sia cotta bollita che arrosto o allo spiedo.

Gallina ermellinata di Rovigo

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: L’avicoltura italiana, negli anni Cinquanta del secolo scorso, avviò uno sviluppo teso a produrre carni sane e di qualità. Era però necessario selezionare una linea femminile in grado di trasmettere buone caratteristiche produttive senza “coprire” le tipicità delle linee maschili con le quali veniva accoppiata. A questo scopo presso la Stazione Sperimentale di Pollicoltura di Rovigo iniziò un lungo lavoro di selezione che terminò nel 1957 con la nascita di una nuova razza, l’Ermellinata di Rovigo, alla cui formazione hanno concorso le razze Sussex e Rhode Island. Verso gli anni 60 e 70 del secolo scorso questa razza fu diffusa in tutto il Veneto, e in altre regioni, dai Consorzi Agrari. Anche questa razza è inserita nella lista di razze avicole che fanno parte del “Progetto di conservazione razze avicole con particolare riguardo verso quelle a rischio di estinzione”, che, partito nel 1985 per volontà del Ministero dell’Agricoltura, è oggi gestito dall’Azienda Regionale Veneto Agricoltura.

Descrizione del prodotto: I pulcini alla nascita hanno un piumino giallo e soffice. Da adulti sia il maschio che la femmina portano il tipico piumaggio con disegno ermellinato, ossia mantello fondamentalmente bianco con mantellina, timoniere e remiganti macchiate di nero e coda perfettamente nera. I maschi si distinguono facilmente dalle femmine a partire dall’ottava settimana di vita, perchè più grandi e con postura più eretta. La pelle e i tarsi sono di colore giallo, produce uova con guscio di color roseo/bruno. Il peso dei galli adulti si aggira attorno ai 3-3,5 kg, mentre le femmine raggiungono un peso di 2,2-2,6 kg. Le uova pesano mediamente 55-60 grammi. Se i galletti vengono castrati si ottengono i capponi, ottimi per la produzione di carne da brodo.

Processo di produzione: L’Ermellinata di Rovigo è una razza rustica con buone attitudine al pascolo e in grado di adattarsi ai diversi ambienti agrari. Si presta bene sia per l’allevamento estensivo all’aperto, che per l’allevamento con metodo biologico. I pulcini vengono allevati al chiuso fino all’età di 40/60 giorni, poi, una volta impiumati, vengono allevati in arche per l’allevamento all’aperto. È una tipica “linea femminile” da utilizzarsi, per produzioni di nicchia e di qualità, in incroci di prima generazione con razze da carne leggere o pesanti. Incrociando, per esempio, un gallo di razza Livornese dorato con galline di razza Ermellinata di Rovigo si ottengono galletti (piumaggio ermellinato argentato) con un peso medio di 1,250 Kg per la produzione del pollo novello, mentre le pollastre presentano un piumaggio rosso dorato e sono delle ottime ovaiole medio – leggere (peso a 12 mesi 1,90-2,30 Kg.) eccellenti produttrici di uova a guscio avorio rosato. Per ottenere produzioni più pesanti si realizza l’incrocio tra gallo New Hampshire e gallina Ermellinata di Rovigo, ottenendo soggetti maschi ermellinati (che a 10 settimane raggiungono il peso medio di 1,350 Kg.) e femmine rosse ovaiole medio pesanti.

Reperibilità: Abbastanza diffusa in tutto il territorio veneto, e specialmente nella zona del Delta del Po, gli esemplari di questa razza sono reperibili presso aziende agricole e rivenditori specializzati.

Usi: I polli vengono consumati cotti alla brace o arrosto. I capponi vengono utilizzati per il brodo o per l’arrosto mentre la carne di gallina viene bollita e utilizzata per il brodo. Sono consumate e apprezzate anche le uova prodotte da questa razza.

Oco in onto dei Berici

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: OCA IN ONTO PADOVANA; OCO IN ONTO DEI BERICI (carne d’òco nella pegnàta)

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Padova e Vicenza

La storia: La conservazione della carne dell’oca, all’interno di un recipiente, nel suo grasso fuso (chiamata appunto oca in onto) permetteva di dilazionare le risorse alimentari nel tempo e quindi di avere a disposizione carni nutrienti durante tutto l’inverno. La ricetta sembra essere di origine ebraica e fa parte dell’antica tradizione culinaria padovana. È stata codificata nel libro, edito nel 1967, “La cucina padovana” di Giovanni Bianco Mengotti e successivamente da Giuseppe Maffioli ne “La cucina padovana” edito nel 1981. La tradizione gastronomica locale vede l’utilizzo dell’oca in onto in numerosi piatti; uno dei più particolari è la ricetta rìsi, bìsi e òca, secondo un’usanza che si tramandava dai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia. Si tratta chiaramente di una ricetta tipicamente primaverile: di qui la necessità di conservare almeno una parte dell’oca, da Novembre, fino alla buona stagione. Nel libro “Itinerari Gastronomici Vicentini”, del 1962, Eugenio Candiago scriveva: “Anche la più modesta, la meno provvista delle cucine vicentine, ha le sue riserve”…” in ogni occasione, perché non una famiglia rimane, d’inverno, senza l’oco onto”…”La carne si conserva perfettamente per tutti i mesi dell’inverno e fornisce la mensa nei giorni in cui non si abbia altro da portare in tavola. Ottima è la compagnia dell’oco onto che si cuoce in svariate maniere, con una buona minestra di risi e bisi, specie se i piselli sono quelli di Lumignano”.

Descrizione del prodotto: L’oca in onto è carne di oca disossata, salata e conservata nel grasso dell’oca stessa, o del maiale o nell’olio. Ha un sapore molto particolare, intenso e particolarmente aromatico.

Processo di produzione: Dopo l’uccisione degli animali si procede al processo di conservazione in “onto” delle carni, secondo due modalità differenti. Il primo metodo consiste nel togliere il grasso dalla carne dell’animale e riporre la stessa, tagliata in quarti, sotto sale per 8-10 giorni. Dopo questo periodo il sale residuo viene tolto con un canovaccio e, una volta fuso a fuoco lento per un’ora il grasso, si ripongono le carni in olli di terracotta (chiamati pegnàe de tèra) o in vasi di vetro e ricoperte col grasso fuso stesso, integrato qualora non sia sufficiente, con olio d’oliva o lardo di maiale fuso. L’altro metodo consiste, invece, nel tagliare le carni in pezzi e metterli sotto sale per una notte, per poi essere posti in una pentola con un po’ d’acqua e cotti fino allo scioglimento del grasso. Successivamente vengono messi negli otri e ricoperti col loro stesso grasso. I contenitori vengono conservati in cantina, luogo fresco e in penombra.

Reperibilità: Il prodotto oggi viene ancora usato da alcune famiglie e si può trovare in determinate botteghe o in alcuni locali che cercano di recuperare le tradizioni gastronomiche locali. Tuttavia “l’oca in onto” che si trova in commercio è fatta con le carni di oca bianca Romagnola, in quanto le oche tradizionali venete sono particolarmente rare.

Usi: L’oca viene estratta dall’orcio solo al momento del bisogno e nella quantità di cui si necessita. La si può cuocere in casseruola per servirla come sugo o come secondo piatto, oppure, come ingrediente gustoso per il sugo della pasta e fagioli. “L’oca in onto” è inoltre ottima con la salsa di cren, accompagnata da un buon cabernet sauvignon.

Tacchino comune bronzato

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Il tacchino comune bronzato è una razza veneta assai diffusa in ambito locale. “Attualmente alcune aziende venete, orientatesi verso la produzione di pollame biologico, commercializzano questo tipo di animale durante le festività natalizie ottenendo un certo riscontro. Il tacchino Bronzato Comune conserva una buona attitudine materna e una discreta deposizione, potendo quindi essere utilizzato nella cova di razze meno propense all’allevamento naturale.” (M. Arduin). Il tacchino Bronzato dei Colli Euganei si differenzia dal Bronzato Comune per un piumaggio più ricco di riflessi bronzati.

Descrizione del prodotto: Il tacchino Bronzato appartiene ad una razza di tacchini “leggeri”; i maschi raggiungono il peso di 6-7 kg, mentre le femmine pesano circa 3-3,5 kg. Presentano piumaggio di colore nero brillante, con riflessi bronzei intensi. Le penne della coda sono molto larghe, di colore bruno nero con fasce nere. Testa e collo sono privi di piumaggio e sono ricoperti da escrezioni carnose (caruncole) di colore rosso acceso; la pelle invece e di color biancastro o a volte giallastra. Le femmine producono uova di color rosato del peso di 70-85 g e sono in grado di portare a buon fine anche 4 o 5 covate consecutivamente, rimanendo nel nido complessivamente per più di 100 giorni. Possono covare uova anche di altre specie come pollo, faraona, fagiano e anatra, funzionando da “incubatrice” naturale. Il tacchino Comune Bronzato è utile anche per l’allevamento destinato all’autoconsumo in quanto la piccola mole degli animali è adeguata per soddisfare le esigenze di una famiglia poco numerosa. La carne del tacchino è molto apprezzata perchè saporita e soda, simile a quella del pollo.

Processo di produzione: Animali rustici, a lento accrescimento, i tacchini Bronzati sono ottimi pascolatori e cacciatori di insetti, cavallette e serpi. Sono allevati con sistema intensivo all’aperto, ma possono anche essere allevati con metodo biologico. Non necessitano di particolari cure e vengono alimentati con mangimi e lasciati liberi di integrare la loro dieta con quanto recuperano pascolando. La macellazione deve avvenire non prima dei 140 giorni di vita.

Reperibilità: Presso le aziende agricole che li allevano, ma anche presso i rivenditori al dettaglio in tutto il territorio regionale, il prodotto è reperibile durante tutto l’anno.

Usi: La carne del tacchino è abbastanza magra, tenera, facilmente digeribile e contiene una buona quantità di ferro. Ottima cotta arrosto può anche essere lavorata per ottenere salami e petti affumicati. Piatto tipico e particolare è il “tacchino in onto”: la carne dell’animale viene tagliata a pezzi, introdotta in contenitori, ricoperta da grasso fuso di maiale o di oca e utilizzata dopo alcuni mesi per la preparazione di zuppe o di secondi piatti.

Tacchino ermellinato di Rovigo

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Il tacchino è originario del continente americano, dal quale fu importato in Europa nel XVI secolo. Presso la Stazione Sperimentale di Pollicoltura di Rovigo, nel 1958 per migliorare le prestazioni del tacchino Comune Bronzato, si iniziò l’introduzione di sangue della razza americana “Narra Gansett”, ottenendo soggetti con piumaggio grigio e tarsi color bruno rossastri. Nel gruppo, per mutazione, comparvero alcuni soggetti con piumaggio ermellinato e tarsi color carnicino. La selezione di questi animali portò alla formazione di una nuova razza denominata Tacchino Ermellinato di Rovigo, di taglia media, precoce e a rapido impennamento. Anche questa razza avicola è inserita nell’elenco delle razze a rischio di estinzione ed è tutelata da uno specifico Progetto di Conservazione portato avanti dall’Azienda Regionale Veneto Agricoltura.

Descrizione del prodotto: Il tacchino è il più grosso gallinaceo da cortile, ha testa e collo nudi con pelle ricoperta da escrescenze rosse ed è provvisto di un bergiglio sottogolare. È caratterizzato da un piumaggio bianco con striature nere; le piume della coda terminano con una fascia nera e striature bronzate; la pelle invece è bianca. I pulcini presentano piumaggio completamente giallo. Gli animali adulti raggiungono pesi di 10-12 kg il maschio e 4-6 kg nella femmina. Le tacchine producono uova di 70/80g con guscio leggermente rosato. Ha carni saporite e sode, molto apprezzate dai consumatori.

Processo di produzione: I tacchini ermellinati sono animali rustici, a lento accrescimento, ottimi pascolatori e cacciatori di insetti, cavallette e serpi. Si prestano bene per l’allevamento all’aperto o con metodi biologici. Inoltre si adatta molto bene anche negli allevamenti ad alte quote. I pulcini vengono svezzati al chiuso per i primi 40-60 giorni di vita e successivamente sono allevati in arche all’aperto. Gli animali devono poter disporre di pascolo per almeno 10-15 mq/capo. L’alimentazione deve contemplare sia gli alimenti che gli animali si procurano razzolando che miscele di mangimi cereali. Dopo 140 giorni di vita è possibile procedere alla macellazione degli animali.

Reperibilità: Il prodotto è reperibile presso le aziende produttrici e presso i rivenditori al dettaglio in tutto il territorio regionale.

Usi: Dall’allevamento del tacchino si ottengono sia ottime carni per il consumo fresco, sia prodotti stagionati da consumarsi nel tempo. Anche le uova possono essere utilizzate per l’alimentazione umana.

Salsiccia con le rape

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali e Territorio interessato alla produzione: LUGANEGA NOSTRANA PADOVANA (Padova e provincia); LUGANEGA TREVIGIANA (Area Collinare della Pedemontana); Pezòle, LUGANEGHE DE TRIPAN; SALSICCE CON LE RAPE, (provincia di Vicenza); SALSICCIA TIPICA POLESANA (provincia di Rovigo).

La storia: La luganega è un prodotto tipicamente contadino, usualmente consumato nel periodo intercorrente tra l’uccisione del maiale e la maturazione dei salami. Per quanto riguarda la tradizione padovana i primi riscontri di questi prodotti si ritrovano fra le ricette Ruzzantiane risalenti al 1530 circa. Nella provincia trevigiana è tradizione utilizzare, per questi insaccati, le parti meno nobili del maiale, (i polmoni e il fegato) che vengono impastate con le carni migliori avanzate dopo la produzione di sopresse e salami. La tradizione di questo insaccato è antichissima, e ciò è dimostrato da un’ordinanza di un podestà di Treviso che già nel XVI secolo, ne definiva le caratteristiche per difendere il prodotto da imitazioni e contraffazioni. Le Pezòle o luganeghe de tripan sono un prodotto caratteristico della tradizione culinaria agordina confezionato dalle famiglie per riuscire ad utilizzare tutte le carni del maiale, anche quelle meno pregiate. “Tripan”, in dialetto Ladino Veneto significa cotenna e dunque il nome indica la presenza nell’impasto della cotenna del maiale. Le Salsicce con le rape sono una produzione inventata, con ogni probabilità, per “allungare” la preziosa carne del maiale con una materia prima meno pregiata come la rapa gialla (che un tempo, in inverno, era molto abbondante). Potevano essere impiegate quantità variabili della radice, anche superiori a quella della carne (oggi comunque si predilige un impasto inferiore al 50%), senza creare problemi di conservazione del prodotto. Anche nel rodigino si producono le salsicce, soprattutto nella zona del delta dove da decenni si produce la salsiccia tipica polesana.

Descrizione del prodotto: Le varie tipologie di salsicce prodotte in Veneto si differenziano tra loro per colore, forma e dimensione. Possono assumere infatti un colorito più chiaro se contengono parti maggiormente pregiate del maiale, mentre se le carni tritate sono quelle più sanguinolente il prodotto mostra un colorito più scuro. Le dimensioni variano da pochi centimetri (circa 4-5 cm per la luganega trevigiana), passando per una forma abbastanza standardizzata e usuale di circa 10 cm per 3 di diametro della maggior parte delle produzioni, fino ad arrivare alle pezòle che hanno forma cilindrica, una lunghezza di circa 25 cm e un diametro di 4-5 cm. Ovviamente differisce, a seconda del tipo, anche il gusto che varia in funzione delle carni e delle spezie utilizzate nell’impasto.

Processo di produzione: Le carni del maiale vengono macinate con coltelli a piastra con fori di diametri differenti a seconda delle usanze e vengono insaporite con sale, pepe e aromi vari. L’impastato è poi insaccato in budello di maiale accuratamente lavato e salato. La legatura avviene manualmente e il prodotto viene dunque posto in cella di asciugatura e stagionato appeso a rastrelliere in locali con temperatura, umidità e ventilazione controllate.

Reperibilità: Il prodotto è di reperibilità molto semplice, essendo disponibile presso la maggior parte delle macellerie della zona e nei menu di molti ristoranti di cucina locale. Più difficili da trovare, e prodotte soprattutto per l’autoconsumo familiare, sono le salsiccie confezionate con parti meno pregiate del maiale.

Usi: Le “luganeghe” vengono consumate cotte alla brace o bollite e solitamente si accompagnano con le verze o altre verdure bollite.

Cornioi di Crespadoro

Territorio interessato alla produzione: Alta valle dell’Agno Chiampo (VI) ed in particolare il comune di Crespadoro (VI).

La storia: La consuetudine di raccogliere questi molluschi è molto antica ed alcuni vi riconoscono usanze alimentari dei Cimbri, il popolo di origine germanica che colonizzò queste montagne nel Medioevo. La tradizione della raccolta e vendita di chiocciole nel comune di Crespadoro è infatti antichissima, e risale sicuramente all’età medioevale quando era attivo uno dei mercati principali del nord Italia. Vi sono pubblicazioni del 1600 in cui si riferisce di nobili vicentini che inviavano la loro servitù a far provvista di cornioi di Crespadoro considerati una vera leccornia.

Descrizione del prodotto: I corgnoi sono chiocciole selvatiche, raccolte ed allevate prima della vendita, appartenenti alla specie “Helix Pomatia” varietà opercolata, l’unica che chiude con un opercolo il proprio guscio. Tale procedimento le permette di svernare e permette ai raccoglitori/allevatori di trasportarla facilmente nei mesi freddi. Il corpo è un mollusco molle ed è costituito dalla testa, con una bocca e quattro tentacoli, e dal piede, formato da numerosi tubercoli irregolari. Il colore del guscio varia molto in quanto dipende dall’alimentazione e dal tipo di ambiente circostante. Le dimensioni sono variabili dai 25 mm a oltre i 36 mm di diametro boccale; il peso va dai 17 g ad oltre 25 g.

Processo di produzione: La raccolta è consentita solo nel periodo estivo ed è fatta generalmente a mano o con l’aiuto di un attrezzo, il “raspa-cornioi”, per prelevare le chiocciole interrate. Le chiocciole, dopo la raccolta, vengono sistemate nella “corgnolara”, un piccolo recinto di rete metallica, sistemato in luogo protetto dalla luce diretta del sole, in cui è stato preparato un letto di sabbia di 30-40 cm di spessore, dove vengono alimentate con erba fresca, zucca e altro. La commercializzazione si effettua nel tardo autunno.

Reperibilità: Il prodotto è reperibile del tardo autunno direttamente presso i produttori nella zona oppure nei ristoranti e durante le sagre e le manifestazioni locali.

Usi: La carne dei corgnoi è ricca di proteine e minerali, e povera di grassi. Si consuma tradizionalmente. Dopo una lunga bollitura (almeno 8 ore) in un tegame, speziate e abbinate alla polenta.

Torresano di Breganze

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali e Territorio interessato alla produzione: TORRESANI DI TORREGLIA (Torreglia, Montegrotto Terme, Abano Terme, Teolo, Rovolon, Galzignano Terme, Vo’, Cinto Euganeo, Baone, Arqua’ Petrarca, Monselice, Battaglia Terme, Due Carrare, Este, Lozzo Atestino); TORRESANO DI BREGANZE, (Comunità Montana dell’Astico-Brenta e Comunità Montana di Leogra-Timonchio) (VI).

La storia: Una volta il colombo era un’ambita preda per i cacciatori sia perchè motivo d’orgoglio, essendo di non semplice cattura, sia per la sua carne molto apprezzata e riservata alle mense più prestigiose. Oggigiorno questo animale si è ambientato molto bene nelle nostre città, dove trova cibo in abbondanza, molti luoghi dove nidificare e pochissimi predatori. Il colombo è anche un animale adatto all’allevamento ed è reperibile con relativa facilità. Viene macellato giovane e per questo ha caratteristiche organolettiche di sapidità e morbidezza delle carni non riconoscibili nella selvaggina. Il colombo viene anche chiamato comunemente torresano perché è solito nidificare sulle torri dei castelli o delle città murate e dunque un tempo i nobili potevano reperirli direttamente presso le loro dimore. L’allevamento domestico del colombo si è diffuso successivamente presso le case rurali, anche grazie alla notevole prolificità di questi uccelli. Talvolta addirittura, il numero degli esemplari è sfuggito al controllo degli stessi allevatori e i colombi hanno invaso la campagna in cerca di cibo. Nella zona dei Colli Euganei questi animali sono abbastanza diffusi e il loro uso in cucina risale ad un’antica tradizione. Nel libro La cucina padovana di Giovanni Bianco Menegotti del 1967 viene citata una ricetta cinquecentesca, riferita all’uso dei Torresani di Torreglia. Tra le manifestazioni nel territorio vicentino in cui si possono acquistare e gustare i colombi, si cita l’importante “Fiera degli uccelli”, che si tiene ad Arzignano ogni 25 aprile e la manifestazione “Ristorante in piazza”, organizzata a Breganze il 30 agosto, con tipico menù di “Torresani allo spiedo” accompagnati dai vini DOC del territorio.

Descrizione del prodotto: I colombi sono uccelli di dimensioni relativamente ridotte, che si presentano con piumaggio di vari colori (nero, bianco o marrone, con varie sfumature e disegni variopinti soprattutto sulle ali), anche se il colore dominante rimane il grigio scuro del piccione selvatico. Gli esemplari allevati sono soprattutto ibridi francesi, considerati fra i più produttivi, anche se sono abbastanza diffuse anche altre razze come la Texana, la Californiana e la King. I torresani vengono uccisi quando raggiungono i 30 giorni di vita ed un peso medio di 500-660g.

Processo di produzione: Gli allevamenti sono di piccola dimensioni, gestiti come attività a tempo parziale, ma che assicurano la presenza della carne di questo volatile sulle tavole dei consumatori. Solitamente le voliere si trovano all’interno di capannoni, dove lo spazio è suddiviso in “recinti” di circa due metri per tre e le coppie di colombi nidificano su uno di questi. L’alimentazione si basa su mangimi, cereali ma anche su ortaggi di scarto e piccoli insetti. Raggiunta la maturazione, i torresani vengono uccisi e avviati alla commercializzazione.

Reperibilità: Il prodotto è reperibile, con una certa difficoltà, presso gli allevatori, alcuni rivenditori specializzati e presso i ristoranti e gli agriturismi che lo propongono.

Usi: I torresani hanno carni magre e proteiche, molto apprezzate soprattutto cotte allo spiedo e in abbinamento con la polenta.

Bovolo

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, sale, lievito naturale e di birra.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: la farina viene impastata a lungo con il lievito e l’acqua tiepida nell’impastatrice. Quando l’impasto ha raggiunto una giusta consistenza si divide in grossi pezzi che si lasciano lievitare a lungo in appositi contenitori. Successivamente si reimpastano e si formano tante pagnottelle del peso di 150 gr. a cui viene data la forma di chiocciola. Pane oblungo con le due estremità circolari. Si inforna e si cuoce.

Area di produzione: tutto il Veneto.

Note: il nome deriva dalla forma di chiocciole – lumache – che in dialetto veneto si chiamano bovoli. La caratteristica della pasta dura è quella di avere una bassa percentuale di umidità, quindi impastare la farina diventa cosa molto faticosa, tant’è che in passato, prima dell’impastatrice elettrica, si utilizzava una macchina di legno girata a mano. Dove anche la macchina era un lusso, nelle case contadine più povere e in quelle operaie, la farina si impastava con i piedi utilizzando un paio di zoccoli fatti apposta per questa operazione. Si segnala che anticamente anche a Roma c’era un panino che assomigliava al bovolo chiamato “ciumachella”, piccola chiocciola, che oggi non c è più.

Cioppa vicentina

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, lievito acido, sale, lievito di birra.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: alla sera farina, lievito e acqua in quantità inferiore a quella adoperata per l’impasto morbido vengono impastati nell’impastatrice. Si lascia lievitare per diverse ore fino a raddoppiare il volume. Poi si aggiunge altra farina, si reimpasta, si confezionano le pagnotte nei diversi formati e si lasciano riposare. Il peso delle forme varia dal mezzo etto ai 4 etti; le incisioni nella parte superiore possono essere trasversali o a croce nelle forme rotonde. A cottura ultimata la mollica è compatta e si può tagliare a fette. Si cuoce per circa un’ora al forno a legna.

Area di produzione: tutto il Veneto.

Note: il termine “cioppa” sta soprattutto per pagnotta rotonda, anche se con questo nome si identificano pani come il “corno padovano” certamente non di forma rotonda. Con lo stesso impasto e delle stesso peso vengono fatte le “foglie”, panini di piccole dimensioni a forma, appunto, di foglia, e le “giraffe” trevigiane, pagnotte attorcigliate sull’allungato che ad Asolo vengono chiamate “corni”. “Cornetto” o “montasù” sono invece la stessa cosa. Nella regione, comunque, le tipologie di pane più diffuse sono proprio le cioppe.

Rosette

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, strutto, acqua, olio, chiara d’uovo, lievito acido e di birra, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici: pizzico di zucchero.
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: alla farina viene aggiunto il lievito acido, di birra sciolto in acqua, lo strutto, l’olio, un pizzico di zucchero. L’impasto viene lavorato fino a quando l’elaborato non risulti omogeneo ed elastico. Si lascia lievitare per qualche ora fino a che non raddoppia di volume. Si taglia poi in tanti pezzi ai quali viene data, tramite abili manipolazioni, la forma di rosetta. Si lascia alzare per altro tempo e si cuoce in forno caldo.

Area di produzione: le rosette, tipiche in tutto il Veneto, sono fatte manualmente solo nella zona di Venezia.

Note: rispetto alle rosette industriali, quelle veneziane artigianali hanno l’interno pieno. Questi panini o piccoli pani, fatti con burro o strutto, hanno origine nelle regioni settentrionali dell’Italia romana. Secondo Plinio (N.H., XVIII, 105) essi potevano essere fatti solo da gente pacifica, che aveva molto tempo da perdere e non doveva più pensare alla guerra. Nella cucina romana il burro, che Plinio chiama “cibum lautissimum barbarorum”, cibo molto nutriente dei barbari, era infatti assente, così come non si conosceva l’uso dello strutto nella panificazione. Lo stesso manufatto a Firenze prende il nome di “Semelle”.

Trionfi

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, grasso, lievito di birra, sale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: l’impasto viene fatto lievitare per circa 24 ore. Si formano dei panini, del peso di circa 70 gr., di forma ovoidale, un po’ gonfia nella parte centrale. Si cuociono nel forno e a cottura ultimata il prodotto risulta morbido al tatto e dolce di sapore.

Area di produzione: Bassano del Grappa.

Note: la lunga lievitazione fa sì che questi panini al momento della cottura per effetto del calore espandono la pasta che, così dilatata, “trionfa”: da cui il nome. Adatti per preparare tartine e antipasti, si accostano bene a qualsiasi alimento.

Zoccoletti

Composizione:
a. Materia prima: farina di grano tenero, acqua, lievito naturale.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: è la stessa lavorazione della ciabatta (vedi scheda). Cambia solo la forma, che è quella di un piccolo panino irregolare, dal peso di 120 gr., dall’interno quasi cavo, croccante.

Area di produzione: in tutto il Veneto e altre parti d’Italia, dove viene fatta anche la “ciabatta Italia”.

Note: fruisce della stessa tecnologia della ciabatta. Essendo più piccolo della ciabatta, viene detto “zoccoletto”, termine usato in passato per indicare un tipo di scarpa. Questa terminologia oggi è quasi in disuso.

Pan biscotto veneto

Territorio interessato alla produzione: E’ un prodotto è tradizionale per quasi tutto il territorio del Veneto, ma è ancora oggi particolarmente prodotto e consumato nel Basso Vicentino e nel Polesine.

La storia: Nel Polesine il pan biscotto era tradizionalmente preparato nelle “casade” (fattorie) di campagna, dove vi era un forno a legna che veniva adoperato dai salariati. Mediamente si faceva il pane per la famiglia ogni 15 giorni, ed era quindi necessario ottenere un prodotto facilmente conservabile. Nel Basso Vicentino il pan biscotto viene fatto da molte generazioni in tutti i panifici proprio dove si trovano antichi mulini ad acqua.

Descrizione del prodotto: Pane di pasta molto dura, ottenuto da farine di media forza. Gli ingredienti caratteristici sono i seguenti: lievito di birra, una volta e in qualche esempio ancora oggi, si conservava dal precedente impasto un 10% di pasta da aggiungere al nuovo perché contribuiva alla lievitazione (detta bìga), sale fino, acqua, farina, olio extravergine d’oliva o strutto, utilizzato soprattutto un tempo.

Processo di produzione: Si ottiene un impasto molto consistente, duro, del peso di 30-40 kg. Dopo la lunga lievitazione, della durata di 4-5 ore, le forme di pane vengono messe su tavole La procedura di lavorazione inizia con l’impasto di tutti gli ingredienti, effettuato a mano una volta e nell’impastatrice, oggi, per circa 20-30 minuti. Nel Polesine è tipico l’impiego dl lievito dei giorni precedenti (lievito madre), rinfrescato di giorno in giorno.

Reperibilità: In tutti i panifici del Veneto lungo tutto il corso dell’anno.

Usi: Il pan biscotto viene consumato solitamente inzuppato nel caffelatte o nelle zuppe, ma anche per accompagnare gli affettati e i salumi.

Pane di mais

Composizione:
a. Materia prima: farina di mais e frumento, lievito naturale, sale, zucchero.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: le farine di mais e di frumento, unitamente al lievito stemperato in acqua e ad un pizzico di sale e zucchero, vengono impastate a lungo. Si lascia lievitare per diverse ore. L’impasto viene ripreso e lavorato ancora sulla spianatoia infarinata, dividendolo poi in tante parti uguali, alle quali viene data sia la forma rotonda che quella allungata del filone. Dopo breve riposo vengono infarinate e cotte.

Area di produzione: tutto il Veneto.

Note: nell’Italia settentrionale, soprattutto in Lombardia e nel Veneto, dove il consumo di polenta è stato più marcato; non in tutte le località, sia di pianura che di montagna, il pane era alimento abituale. Solo negli ultimi decenni, con la progressiva modernizzazione dello stile di vita, c’è stata una sua maggiore diffusione. Un tempo nei piccoli paesi di montagna della regione il pane, quello bianco e più ambito, si faceva arrivare da grossi centri e le rare volte che i montanari facevano il pane, lo facevano con il mais. Forse è per una questione di nostalgia o di affezione se in questa regione il pane di mais trova tanti estimatori. In verità, trattandosi di una miscela, sarebbe più corretto chiamarlo pane al mais. Ma l’uso è quello accolto nella denominazione della scheda.

Zaeti

Composizione:
a. Materia prima: farina di mais, pinoli, uvetta, burro, uova, acqua.
b. Coadiuvanti tecnologici:
c. Additivi:

Tecnologia di lavorazione: la farina di mais viene impastata con tutti gli ingredienti. Quando l’impasto è ben amalgamato si formano manualmente dei cilindri che vengono tagliati in tanti pezzi di circa 4/5 cm. che a loro volta vengono appiattiti con le mani lasciando le estremità a punta. Si cuoce a temperatura superiore a quella richiesta per la farina di cereali.

Area di produzione: zona di Bassano del Grappa, e in tutto il Veneto centrale.

Note: “Zaeti” in dialetto significa gialletti, dal colore della farina di mais.

Pandoli di Schio

PANDOLI DI SCHIO: provincia di Vicenza area di Schio e Malo.
TRECCIA D’ORO DI THIENE: comune di Thiene e comprensorio.
PAN CO L’UA: vari comuni del Veneto in particolar modo nella provincia di Treviso.
PAN CO LA SUCA: molti comuni del territorio Veneto in particolar modo nella fascia pedemontana della provincia di Treviso.
PAN DE LE FESTE: Valbelluna, Alpago, Belluno.
PANE DI MAIS: provincia di Vicenza e anche altre province Venete.

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Sono pani tipici delle feste come prodotti rustici e caserecci che fanno parte della cultura tradizionale contadina da molto tempo.

Descrizione del prodotto:

Pandoli di Schio: pane dolce formato da farina di grano tenero, latte e uova.

Treccia d’oro di Thiene: realizzato con farina, burro, zucchero, uova, rosso d’uovo, aromi, lievito naturale, uvetta, cedro e arancia candita. E’ lievitato e ha forma di treccia.

Pan co l’ua: per 1 kg di farina di frumento bianca 00, zucchero 150 g, burro 150 g, uva sultanina 250 g, lievito di birra 50 g, sale q.b., acqua q.b. La forma dei panetti può essere diversa: quelli fatti in casa sono piccoli e rotondi; in panificio se ne fanno a forma di parallelepipedo

Pan co a suca: per ogni Kg di zucca lessata e asciugata si aggiungono 250 g di farina di frumento 00, 100 g di zucchero, 50 g di lievito.

Pan de la festa: per ogni Kg di farina di frumento si aggiunge farina di sorgo 500 g, burro 100 g, zucchero 100 g, lievito 50 g, sale q.b., liquore q.b., buccia di limone grattugiata q.b., noci, nocciole e fichi secchi a pezzetti 300 g. Per quanto riguarda la forma: a Natale assomiglia alla focaccia, a Capodanno e all’Epifania viene confezionato a forma di ciambellone.

Pane al mais: farina di mais, frumento, lievito, sale e zucchero.

Processo di produzione: Il processo di produzione dei pani è simile per tutti i prodotti in elenco. Si differenzia per alcuni tempi di lievitazione o la temperatura di cottura, per gli ingredienti di condimento aggiunti oltre che, ovviamente, per le diverse forme date alle pagnotte. Generalmente gli ingredienti vengono impastati alla sera, lasciati riposare e lievitare; vengono quindi reimpastati, infornati e successivamente lasciati raffreddare.

Reperibilità: I vari prodotti sono facilmente reperibili presso panetterie e panifici nelle zone di produzione.

Usi: Ottimi da assaporare da soli come alternativa al prodotto dolciario.

Treccia d’oro di Thiene

PANDOLI DI SCHIO: provincia di Vicenza area di Schio e Malo.
TRECCIA D’ORO DI THIENE: comune di Thiene e comprensorio.
PAN CO L’UA: vari comuni del Veneto in particolar modo nella provincia di Treviso.
PAN CO LA SUCA: molti comuni del territorio Veneto in particolar modo nella fascia pedemontana della provincia di Treviso.
PAN DE LE FESTE: Valbelluna, Alpago, Belluno.
PANE DI MAIS: provincia di Vicenza e anche altre province Venete.

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Sono pani tipici delle feste come prodotti rustici e caserecci che fanno parte della cultura tradizionale contadina da molto tempo.

Descrizione del prodotto:

Pandoli di Schio: pane dolce formato da farina di grano tenero, latte e uova.

Treccia d’oro di Thiene: realizzato con farina, burro, zucchero, uova, rosso d’uovo, aromi, lievito naturale, uvetta, cedro e arancia candita. E’ lievitato e ha forma di treccia.

Pan co l’ua: per 1 kg di farina di frumento bianca 00, zucchero 150 g, burro 150 g, uva sultanina 250 g, lievito di birra 50 g, sale q.b., acqua q.b. La forma dei panetti può essere diversa: quelli fatti in casa sono piccoli e rotondi; in panificio se ne fanno a forma di parallelepipedo

Pan co a suca: per ogni Kg di zucca lessata e asciugata si aggiungono 250 g di farina di frumento 00, 100 g di zucchero, 50 g di lievito.

Pan de la festa: per ogni Kg di farina di frumento si aggiunge farina di sorgo 500 g, burro 100 g, zucchero 100 g, lievito 50 g, sale q.b., liquore q.b., buccia di limone grattugiata q.b., noci, nocciole e fichi secchi a pezzetti 300 g. Per quanto riguarda la forma: a Natale assomiglia alla focaccia, a Capodanno e all’Epifania viene confezionato a forma di ciambellone.

Pane al mais: farina di mais, frumento, lievito, sale e zucchero.

Processo di produzione: Il processo di produzione dei pani è simile per tutti i prodotti in elenco. Si differenzia per alcuni tempi di lievitazione o la temperatura di cottura, per gli ingredienti di condimento aggiunti oltre che, ovviamente, per le diverse forme date alle pagnotte. Generalmente gli ingredienti vengono impastati alla sera, lasciati riposare e lievitare; vengono quindi reimpastati, infornati e successivamente lasciati raffreddare.

Reperibilità: I vari prodotti sono facilmente reperibili presso panetterie e panifici nelle zone di produzione.

Usi: Ottimi da assaporare da soli come alternativa al prodotto dolciario.

Gargati

GARGATI (provincia di Vicenza);
SUBIOTI ALL’ORTICA (territorio regionale soprattutto provincia di Treviso).

Territorio interessato alla produzione: Vicenza, Treviso

La storia: Ideati nel dopo-guerra per la crescente richiesta di forme diverse di pasta che arricchissero le tavole venete.

Descrizione del prodotto:

Gargati: pasta simile ai maccheroni, realizzata con farina di grano tenero, semola di grano duro, uova (6 per ogni Kg. di farina). Il diametro è di circa 1,2 cm., la lunghezza è di circa 5 cm.

Subioti all’ortica: prodotti con farina, acqua, sale, uova e ortiche.

Processo di produzione: L’impasto viene realizzato con gli ingredienti descritti, poi viene inserito in uno a piccola pressa con trafilatrice. L’impasto non deve essere troppo umido, perché altrimenti la pasta risulterà troppo liscia e non tratterrà bene il sugo.

Reperibilità: I prodotti sono reperibili presso alcuni pastifici che li producono o in alcuni ristoranti che li propongono.

Usi: Ottimi se accompagnate con sughi di carne o verdure.

Casunziei

CASUNZIEI; RAVIOLI CON RADICCHIO ROSSO DI VERONA

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Belluno, Vicenza, Verona.

La storia: I casunziei sono un prodotto che in passato veniva fatto in casa con i prodotti che la terra offriva. Per questo motivo le ricette più antiche ed originali sono quelle dei “casunziei rossi” fatte con la barbabietola rossa, le patate e la rapa gialla ed i “casunziei verdi” fatta con gli spinaci ma soprattutto l’erba cipollina raccolta nei prati in primavera. Era un piatto che si cucinava nelle occasioni importanti, come le festività natalizie o pasquali o di domenica. La tradizione del raviolo ripieno di radicchio rosso di Verona si lega alla presenza e utilizzo nella zona del veronese ed del basso vicentino dello stesso radicchio rosso di Verona, che da decenni è coltivato in queste zone.

Descrizione del prodotto

Casunziei: sono dei ravioli. La sfoglia è fatta con farina, uova ed acqua; il ripieno, nella tipologia dei “casunziei rossi”, comprende barbabietole rosse, patate, rape gialle e semi di papavero (questi ultimi non sempre presenti); nel caso dei “casunziei verdi”, il ripieno è composto da spinaci, ricotta, burro, erba cipollina e formaggio. Altre varianti sono i “casunziei con la zucca o con il radicchio”.

Ravioli con radicchio rosso di Verona: pasta realizzata con un impasto all’uovo (farina di grano tenero, semola e uova) e con un ripieno di radicchio rosso di Verona cotto con olio d’oliva, ricotta, uova, sale, pepe e pane grattugiato. Si tratta di ravioli con lato 3,5×3,5cm.

Processo di produzione: La sfoglia è prodotta amalgamando a mano farina, uova ed acqua. Il ripieno, invece, viene preparato cuocendo assieme i vari ingredienti e una volta pronto è adagiato tra due sfoglie e il tutto viene ritagliato nella forma desiderata.

Reperibilità: Laboratori artigianali di lavorazione della pasta fresca o ristoranti.

Usi: Nella tradizione agordina la notte di Natale, a Cencenighe, i casunziei venivano conditi con semi di papavero pestati e miele, mentre in altre parti venivano conditi col burro. I ravioli al radicchio rosso, invece, una volta cotti vengono conditi con burro e salvia o con una salsa al radicchio spolverati con formaggio grana.

Ravioli con radicchio rosso di Verona

CASUNZIEI; RAVIOLI CON RADICCHIO ROSSO DI VERONA

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Belluno, Vicenza, Verona.

La storia: I casunziei sono un prodotto che in passato veniva fatto in casa con i prodotti che la terra offriva. Per questo motivo le ricette più antiche ed originali sono quelle dei “casunziei rossi” fatte con la barbabietola rossa, le patate e la rapa gialla ed i “casunziei verdi” fatta con gli spinaci ma soprattutto l’erba cipollina raccolta nei prati in primavera. Era un piatto che si cucinava nelle occasioni importanti, come le festività natalizie o pasquali o di domenica. La tradizione del raviolo ripieno di radicchio rosso di Verona si lega alla presenza e utilizzo nella zona del veronese ed del basso vicentino dello stesso radicchio rosso di Verona, che da decenni è coltivato in queste zone.

Descrizione del prodotto

Casunziei: sono dei ravioli. La sfoglia è fatta con farina, uova ed acqua; il ripieno, nella tipologia dei “casunziei rossi”, comprende barbabietole rosse, patate, rape gialle e semi di papavero (questi ultimi non sempre presenti); nel caso dei “casunziei verdi”, il ripieno è composto da spinaci, ricotta, burro, erba cipollina e formaggio. Altre varianti sono i “casunziei con la zucca o con il radicchio”.

Ravioli con radicchio rosso di Verona: pasta realizzata con un impasto all’uovo (farina di grano tenero, semola e uova) e con un ripieno di radicchio rosso di Verona cotto con olio d’oliva, ricotta, uova, sale, pepe e pane grattugiato. Si tratta di ravioli con lato 3,5×3,5cm.

Processo di produzione: La sfoglia è prodotta amalgamando a mano farina, uova ed acqua. Il ripieno, invece, viene preparato cuocendo assieme i vari ingredienti e una volta pronto è adagiato tra due sfoglie e il tutto viene ritagliato nella forma desiderata.

Reperibilità: Laboratori artigianali di lavorazione della pasta fresca o ristoranti.

Usi: Nella tradizione agordina la notte di Natale, a Cencenighe, i casunziei venivano conditi con semi di papavero pestati e miele, mentre in altre parti venivano conditi col burro. I ravioli al radicchio rosso, invece, una volta cotti vengono conditi con burro e salvia o con una salsa al radicchio spolverati con formaggio grana.

Bigoi

Territorio interessato alla produzione: Regione del Veneto, in particolare nelle province di Padova, Treviso e Vicenza.

La storia: I bigoli sono probabilmente la pasta più tradizionale del Veneto, un prodotto di tradizione contadina in uso fin dai tempi della Serenissima Repubblica di Venezia. La leggenda vuole che nel 1604 un pastaio di Padova, detto “Abbondanza”, venne autorizzato dall’allora Consiglio del Comune a godere del brevetto di un macchinario per lavorare la pasta, usando frumento padovano. Il signor Abbondanza riuscì a produrre con questo macchinario anche vermicelli ed altri tipi di pasta lunga. La predilezione dei padovani cadde sui “bigoli” una sorta di spaghettoni, tutti tondi, divenuti appunto la pasta tipica veneta. Da quasi 30 anni si svolge a Zanè (VI), la sagra dei “bigoi co l’arna” cioè i bigoli con il sugo di anitra.

Descrizione del prodotto: I Bigoli sono spaghetti di grosse dimensioni (il diametro è circa 2 millimetri), lunghi 20-25 cm e preparati con farina bianca, burro, latte e uova di anatra o di gallina. Un tempo le famiglie più modeste omettevano l’aggiunta di uova e burro, oggi usati per rendere l’impasto più morbido. La variante “bigoi neri” viene ottenuta con farina integrale o aggiungendo all’impasto del nero di seppia.

Processo di produzione: L’impasto ottenuto amalgamando e lavorando per circa 20 minuti gli ingredienti, viene immesso in un apposito torchietto di bronzo chiamato “bigolaro” e pigiato: da questa operazione si ricavano questi spaghetti ruvidi e grossolani. Il prodotto viene quindi messo a riposare ed asciugare su appositi teli infarinati per circa 24 ore.

Reperibilità: Diffusissimi in quasi tutta la regione, i bigoli si trovano in commercio presso la maggio parte dei negozi alimentari e si trovano spesso nei menu di ristoranti e agriturismi.

Usi: I bigoli vanno consumati, dopo una breve cottura in acqua. Il condimento tradizionale dei bigoli è quello a base di frattaglie di anatra cotte con burro, olio, sale e un’aggiunta del brodo di anatra nel quale viene fatta bollire la pasta. Ma sono molto famosi anche i bigoli “in salsa”, conditi con un sugo a base di cipolle soffritte, olio e acciughe.

Riso di grumolo delle abbadesse

Territorio interessato alla produzione: Comune di Grumolo delle Abbadesse (VI)

La storia: Nel libro“Le Abbadesse di Grumolo”, l’autore G. Ardinghi scrive “L’area di produzione denominata “Antico territorio delle Abbadesse” è situata a sud-est di Vicenza, fra Bacchiglione e Brenta e più precisamente tra i fiumi Tesina e Ceresone”. Inoltre nella pubblicazione “L’Italia dei Presìdi”, edita da Slow Food nel 2002 si legge: “A Grumolo delle Abbadesse il riso, introdotto dalle monache dell’abbazia benedettina di San Pietro di Vicenza, si coltiva dal Cinquecento. Alle badesse si devono la bonifica dei terreni, il disboscamento e il prosciugamento delle paludi e degli acquitrini, e l’irrigazione con la costruzione di canali – parecchi dei quali tuttora utilizzati – “per condur a Grumolo acque per risara”, come citano documenti di archivio. La Moneghina, che attraversa il centro di Grumolo, in passato era la via principale per il trasporto di riso che avveniva per mezzo di barche e barconi trainati da cavalli lungo gli argini; il riso era poi stipato nel magazzino delle badesse in attesa della vendita”. Furono infatti le Abbadesse a sfruttare le loro proprietà per dare vita alla risicoltura nella zona, che però ha cominciato a declinare fin dagli inizi dell’ottocento dopo la soppressione degli ordini religiosi per opera di Napoleone. I territori sono stati quindi suddivisi tra vari proprietari, ma col tempo la crisi di questa coltivazione ha drasticamente ridotto le dimensioni delle risaie e quindi la produzione. Oggigiorno sono circa 200 gli ettari coltivati da una dozzina di aziende specializzate, per una produzione annua a 8700 quintali. Annualmente si tiene in paese, nel mese di settembre, la tradizionale festa del riso.

Descrizione del prodotto: Le varietà di riso coltivate sono il Vialone nano e il Carnaroli. Presentano colorazione bianca e dimensioni medie di circa 6 mm di lunghezza e 3-3,4 mm di larghezza.

Processo di produzione: Il terreno di risaia deve rimanere sommerso da uno strato di acqua durante quasi tutto il ciclo produttivo. La semina avviene a cavallo tra aprile e maggio. La concimazione e la lotta alle infestanti sono molto importanti per la coltivazione. A giugno le piante vanno in spiga e ad agosto imbiondiscono. Prima della raccolta si procede all’asciutta finale allontanando le acque e attendendo che le piante siano completamente ingiallite, per poi procedere alla trebbiatura. Successivamente si procede all’essiccazione che deve essere effettuata in essiccatoi e non è ammesso l’uso di additivi (oli, conservanti, sbiancanti, ecc.). Una volta essiccato, il riso viene lavorato (pilato), attraverso vari passaggi, per staccare i granelli dalla lolla (sbramatura) da cui si ottiene il riso integrale, poi con la con l’asportazione della gemma, della pula e del farinaccio (sbiancatura) e ottenere un prodotto commestibile. La lavorazione deve essere a bassa produzione oraria, tale da differenziare ed esaltare le caratteristiche del prodotto da quello industriale.

Reperibilità: Il Riso di Grumolo è reperibile sia durante la Festa del riso che presso i ristoranti e i rivenditori al dettaglio della zona.

Usi: Il riso fornisce una buona percentuale di calorie e di zuccheri. Possiede discrete quantità di vitamine, ferro e fosforo e ha proprietà antiuriche. È ampiamente utilizzato in cucina sia per la preparazione di primi piatti, in particolar modo risotti, che come contorno.

Farina di Mais Biancoperla

Territorio interessato alla produzione: Province di Padova, Treviso e la parte orientale del territorio vicentino.

La storia: Giacomo Agostinetti, agronomo di Cimadolmo, nei suoi Cento e dieci ricordi che formano il buon fattor di villa, edito a fine ‘600, segnala la presenza diffusa di un sorgoturco bianco, progenitore del’attuale varietà Biancoperla, specie nei “Quartieri della Piave”. La sua massiccia diffusione si colloca tuttavia nella seconda metà dell’800, grazie alla sua maggiore conservabilità che la fa preferire alle concorrenti varietà dell’epoca. Una descrizione della pianta e delle caratteristiche della granella del Mais Biancoperla viene riportata dettagliatamente in “Granoturchi da seme per riproduzione da granella e per semine da erbaio” edito da Consorzio Agrario Provinciale di Udine, 1950. Negli atti del 1° Congresso Nazionale dei Mais Ibridi tenutosi nel 1954 (Istituto di genetica e sperimentazione agraria “N.Strampelli” di Lonigo) viene riportato come nel 1950 la coltivazione del Mais Biancoperla interessi nel Veneto e Friuli Venezia Giulia circa 58.200 ha. Questa varietà di mais ha tuttavia subito la schiacciante concorrenza degli ibridi commerciali, riducendo la propria presenza a limitate aree nella provincia di Padova e Treviso. In ogni modo, negli ultimi anni si è sviluppata una maggiore sensibilità per la conservazione delle biodiversità e il recupero di prodotti agrari locali e alcuni appassionati agricoltori, riuniti nell’Associazione Conservatori Mais Biancoperla, hanno continuato a coltivarlo.

Descrizione del prodotto: La farina viene prodotta utilizzando unicamente seme derivante dalla varietà di Mais Biancoperla a cariosside bianca. Tale varietà presenta caratteristiche qualitative superiori per l’ottenimento di farina bianca da polenta. In particolare, la cariosside è vitrea e di colorazione bianco perlaceo da cui deriva il nome stesso della varietà. Le pannocchie sono affusolate, allungate, senza ingrossamento basale e misurano mediamente dai 23 ai 25 cm, con grandi chicchi bianco perlacei, brillanti e vitrei. Il prodotto a seconda del tipo di lavorazione può essere di diverse tipologie ed in particolare: farina bianca, farina bianca integrale e farina bianca integrale macinata a pietra.

Processo di produzione: Il mais è una coltura con esigenze idriche elevate, che necessita di un terreno ricco di sostanze organiche e ben concimato. La semina si effettua in primavera, in file distanti 75 cm e ad una profondità di 2-4 cm. La raccolta avviene normalmente ancora oggi a mano o mediante macchine spannocchiatrici in modo da raccogliere le spighe intere. Queste vengono essiccate all’aria e conservate tali quali fino al momento della sgranatura e della successiva macinazione della granella. Nel caso in cui vengano utilizzate mietitrebbie la conservazione avviene direttamente in granella. La macinazione viene effettuata di norma in molini della zona e in alcuni casi viene effettuata anche la macinazione a pietra. La conservazione delle spighe avviene in ambienti idonei o in gabbie appositamente predisposte, presso le aziende agricole. Nei casi in cui la granella venga sgranata direttamente mediante l’ausilio di mietitrebbie,
questa viene conservata in silos.

Reperibilità: Prodotta in quantità ridotte, la farina di mais biancoperla è reperibile presso alcuni mulini e rivenditori specializzati nella zona di produzione.

Usi: La farina di Mais Biancoperla viene utilizzata in diversi piatti; nelle campagne si usava consumarla con il latte freddo, ottenendo una sorta di semolino. Ideale e insuperabile il suo abbinamentocon la polenta, con i piatti di pesce povero di fiume e di laguna. Due piatti possono essere considerati fattori di identità culturale specie nelle aree collinari specie con polenta e “speo” e polenta e “osei”.

Farina di Mais Marano

Territorio interessato alla produzione: Sono interessati i seguenti comuni: Marano Vicentino, Schio, San Vito di Leguzzano, Malo, Isola Vicentina, Torrebelvicino, Valli del Pasubio, Santorso, Piovene Rocchette, Monte di Malo, Zane’, Thiene, Zugliano, Sarcedo, Breganze, Mason, Molvena, Pianezze, Isola Vicentina e tutti i comuni ricadenti nella Val Leogra e nella fascia pedemontana della Provincia di Vicenza.

La storia: Il Mais Marano è una varietà di mais creata nel 1890 da Antonio Fioretti, un agricoltore che provò ad incrociare due varietà di mais locali, Pignoletto d’Oro e Nostrano, nella speranza di adattare al meglio la pianta alle terre ghiaiose del Leogra, coniugando la qualità del primo alla resa del secondo. Si rivelò una felice intuizione e, dopo un’opera di selezione durata ben vent’anni, nacque il nuovo granoturco. Nel 1940 il grano Marano ottenne il marchio governativo dallo Stato e ancor oggi è custodito nella banca del germoplasma dell’Istituto di Genetica e Sperimentazione Agraria Strampelli di Lonigo. In quegli anni la coltivazione del Marano si diffuse in gran parte del nord Italia, tanto da essere una delle varietà più utilizzate ma dal secondo dopoguerra il prodotto conobbe una forte crisi, che divenne poi tracollo con l’affermarsi dei mais ibridi che garantivano una resa molto più elevata. Negli ultimi anni, tuttavia, grazie ad un rinato interesse per i prodotti di qualità di antica tradizione, la farina di questo mais è ritornata ad essere apprezzata e ricercata da un sempre maggior numero di estimatori. Annualmente, all’inizio di ottobre, si tiene a Marano Vicentino, la festa del Mais.

Descrizione del prodotto: Il mais Marano presenta caratteristiche qualitative peculiari per l’ottenimento di farina gialla da polenta. In particolare la pannocchia è di taglia piccola, la cariosside è completamente vitrea e di colorazione rosso aranciato acceso. La farina presenta un contenuto proteico normalmente più elevato e una colorazione gialla più intensa, rispetto alle farine derivate dagli ibridi più diffusi. A seconda del tipo di lavorazione può produrre farine di diverse tipologie ed in particolare: farina gialla, farina gialla integrale e farina gialla integrale macinata a pietra. La particolarità della polenta è data dal colore più carico: un giallo intenso screziato da pagliuzze marroni. Il profumo è intenso ed il gusto è quello di una polenta particolarmente saporita.

Processo di produzione: Il mais ‘’Marano” è un mais a ciclo breve (si può seminare fino ai primi di giugno). Tale precocità rende questo granoturco prezioso quando la semina non può essere fatta presto e quando il terreno è ancora occupato da altre colture. La pianta, malgrado sia a sviluppo modesto, produce più pannocchie per gamba grazie all’elevata fertilità e alla capacità di sopportare investimenti piuttosto elevati. Esso si adatta bene a terreni leggeri, come quelli della zona pedemontana. La raccolta avviene ancora oggi quasi sempre a mano o mediante macchine spannocchiatrici
raccogliendo le spighe intere. Queste vengono essiccate all’aria e conservate tal quali fino al momento della sgranatura e della successiva macinazione della granella. Nel caso in cui vengano utilizzate mietitrebbie la conservazione avviene direttamente in granella. La conservazione delle spighe avviene in ambienti idonei o in gabbie appositamente predisposte presso le aziende agricole. La macinazione della granella viene effettuata in molini della zona di Marano Vicentino.

Reperibilità: Di questa farina originale oggi se ne produce una quantità molto limitata ed è reperibile sia presso le aziende agricole o i molini, che in alcuni ristoranti attenti alla valorizzazione della cultura gastronomica locale.

Usi: La farina di mais Marano viene utilizzata per preparare la polenta, la quale si presta in modo particolare a farsi “onta” (condita) o abbrustolita, ma si trova anche in una vastissima gamma di piatti della tradizione gastronomica vicentina.

Trota fario delle Valli Vicentine

Territorio interessato alla produzione: Prodotto locale della Comunita’ Montana dell’Astico – Posina nei comuni di Valdastico, Posina, Laghi e Velo d’Astico (VI). E’ allevato anche nelle acque sorgive del comune di Cismon (VI).

La storia: L’Italia è uno dei Paesi maggiori produttori al mondo di trote e nel Veneto gli allevamenti si concentrano nella provincia di Vicenza. Pesce caratteristico di torrenti e ruscelli, la trota può vivere anche in laghi e corsi di fondovalle purché con acque fresche e molto ossigenate. Sin dal 1956 nelle acque che scorrono nei comuni di Valdastico, Posina, Laghi, Cismon e Velo d’Astico (Vi) vengono allevate le trote Fario. Sono le caratteristiche delle acque presenti nelle valli, nonché quelle dell’acqua montana limpida e fredda, a dare un habitat ideale allo sviluppo dell’allevamento di questi pesci. Per quanto riguarda la produzione di Cismon, l’allevamento è sorto nel canale inutilizzato dopo la costruzione della diga del Corlo nei primi anni sessanta. Inizialmente questo canale alimentava una piccola centrale idroelettrica, poi smantellata. è stato quindi utilizzato dall’azienda Bassani di Cismon del Grappa che ha diviso il canale originario in 14 vasche dove vengono allevati i pesci divisi per grandezza e per tipo.

Descrizione del prodotto: La trota Fario è un pesce di acqua dolce della famiglia dei Salmonidi, a carne bianca e da sapore molto delicato. È la specie più pregiata di trota ed allevata in acque fredde, presenta colore e striature variabili (a seconda dell’ambiente in cui vengono allevate) e la classica puntinatura arancione lungo i fianchi. Misura una lunghezza di 25-70 cm e un peso che può raggiungere anche i 6-7 kg.

Processo di produzione: Le caratteristiche morfologiche delle acque presenti nella valle e quelle dell’acqua di montagna, limpida e fredda, hanno dato un habitat ideale allo sviluppo dell’allevamento della trota Fario. Infatti data la rusticità di questo salmonide, l’allevamento è impostato con caratteristiche corrispondenti al suo habitat naturale. Sia la spremitura, che l’incubazione delle uova, che l’allevamento vero e proprio pur adottando tecniche di moderna concezione prevede dei tempi molto lunghi di permanenza del pesce nelle vasche ma anche che la biomassa presente nelle vasche sia molto bassa, favorendo così l’ottenimento di un prodotto di alta qualità e che generalmente viene venduto per ripopolamento dei fiumi. L’alimentazione è fornita da mangimi a base di farina di pesce con basso tenore di grassi ed alto contenuto in proteine, e con cereali. Essendo un prodotto che viene quasi esclusivamente venduto vivo, viene selezionato e trasportato con automezzi con cisterne (vasche) adibite esclusivamente a tale specifico trasporto. Nell’allevamento di Cismon il pesce viene lavorato e insacchettato.

Reperibilità: Il prodotto è commercializzato presso i normali canali di vendita al dettaglio in gran parte del territorio regionale.

Usi: La trota fario ha una carne magra, che contiene proteine, fosforo, ferro e vitamine. Si impiega cotta al cartoccio, alla griglia o lessa.

Trota iridea della Valle del Chiampo

Territorio interessato alla produzione: Prodotto locale della Comunità Montana Agno-Chiampo nei comuni di Altissimo, San Pietro Mussolino, Crespadoro, Recoaro, Valdagno, in provincia di Vicenza.

La storia: Il comparto dell’acquacoltura è uno dei settori probabilmente più vitali del Veneto, la cui rapida crescita ha avuto un’altrettanta rapida evoluzione delle sue tecniche produttive, sperimentando ed applicando soluzioni nuove, sia nella fase della riproduzione artificiale, sia della lavorazione e commercializzazione del prodotto. Lo sviluppo di questo comparto è legato alla maturazione della cultura alimentare, e della consapevolezza dei vantaggi e delle proprietà nutrizionali del pesce. Nella Valle del Chiampo, in provincia di Vicenza, vengono allevate le trote della specie Iridea, che rispetto alle altre razze sono di più facile allevamento e minor costo di produzione. Questo allevamento viene attuato sin dagli anni sessanta del secolo scorso, dopo che nella vicina valle dell’Astico si era avviato con successo l’allevamento delle trote fario.

Descrizione del prodotto: La trota iridea è un pesce d’acqua dolce, caratterizzata da un corpo slanciato punteggiato di nero (comprese le pinne e la codale) e da squame piccole. Ricca di riflessi multicolori, con sfumature di color verde, viola e azzurro, possiede lungo i fianchi una fascia iridescente di color arancio o rosea che diventa particolarmente evidente durante il periodo riproduttivo.Possiede carni molto buone di colore rosato e dal sapore delicato.

Processo di produzione: Un buon allevamento di trote richiede una buona quantità e qualità dell’acqua disponibile. Il problema della quantità è avvertito maggiormente nella Valle del Chiampo, dove il carattere torrentizio dei corsi d’acqua che scendono dai monti Lessini comporta una grande variabilità della loro portata. Nel caso di siccità estiva prolungata, la diminuzione dell’acqua che alimenta le vasche dell’allevamento rallenta il ricambio di ossigeno, e per non compromettere la vitalità della trota, si ricorrere ad un’ossigenazione artificiale dell’acqua per mezzo di appositi ossigenatori gassosi. Nei casi più gravi di scarsità d’acqua, può essere addirittura necessario intervenire anche con l’ossigeno liquido in bombole. L’allevamento avviene in vasche appositamente create, dove i pesci vengono divisi a seconda delle fasi di crescita e sono allevatti in maniera naturale. Gli allevatori della zona si sono specializzati nel fornire al mercato di trote di pezzatura dagli 800 grammi al 1 chilo. Il prodotto destinato alla lavorazione viene catturato vivo nelle vasche di purga, quindi lavorato immediatamente, confezionato e spedito a destinazione nell’arco di poche ore seguendo rigorosamente la catena del freddo. La preparazione viene effettuata presso macelli presenti presso gli allevamenti stessi, che utilizzano speciali macchine evisceratrici e filettatrici nonché di manodopera specializzata per la rifinitura del prodotto (soprattutto per quanto riguarda i filetti).

Reperibilità: Il prodotto è reperibile tutto l’anno presso qualsiasi mercato ittico al dettaglio.

Usi: La trota iridea è un alimento dotato di elevata digeribilità e adatto anche per un’alimentazione ipocalorica. Contiene proteine, vitamine e ferro e ha numerosi impieghi culinari potendo essere cotta al cartoccio, alla griglia o lessa.

Trota affumicata

Materia prima: trote.

Tecnologia di lavorazione: le trote vanno eviscerate e lavate in acqua e aceto o acqua e limone. Metterle in salamoia aromatizzata con pepe, alloro, coriandolo, seme di finocchio, ecc. e lasciarle per 3-5 giorni, a seconda della grandezza, riguardandole almeno una volta al giorno. Tolte dalla salamoia, vanno appese all’aria per qualche giorno. Successivamente vengono affumicate esponendole al fumo per 3-4 giorni, ad intervalli di 4-5 ore. Conservare all’asciutto in luogo fresco.

Maturazione: 10-15 giorni.

Area di produzione: Trentino Alto Adige, Piemonte, Lombardia, Veneto,
Marche, Umbria.

Calendario di produzione: primavera, inizio estate, fine estate, inizio autunno.

Note: é un prodotto che si conserva bene per qualche tempo in zone non molto umide. Diversamente é meglio tenerlo in frigorifero. Si consuma in insalata, o sulle tartine come antipasto. La specie di trota più indicata per questo tipo di preparazione é quella salmonata.

Asparago Bianco di Bassano DOP

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Vicenza nei comuni di Bassano del Grappa, Cartigliano, Cassola, Mussolente, Pove del Grappa, Romano d’Ezzelino, Rosà, Rossano Veneto, Nove, Tezze sul Brenta e Marostica.

La storia: La coltivazione dell’asparago nel Bassanese sembra avere origini molto antiche e numerose sono le citazioni documentali e le testimonianze derivanti dalla tradizione popolare. “La scoperta dell’asparago è stata del tutto casuale. In data imprecisata, pare nel cinquecento, una violenta grandinata avrebbe rovinato la parte aerea della pianta; il contadino cercò allora di cogliere quello che rimaneva sottoterra dell’asparago, cioè la parte bianca. Si accorse che era buona e da allora cominciò a cogliere l’asparago prima che spuntasse da terra” (da: Antonio F. Celotto, L’Asparago di Bassano, Neri Pozza Editore Vicenza, 1979). Un’altra leggenda racconta che “Sant’Antonio da Padova aveva portato dall’Africa delle sementi dell’asparago. Tornando da Bassano, dove era andato per ammansire il tiranno Ezzelino, percorrendo la strada che congiunge Bassano a Rosà, cosparse tra le siepi le sementi che rendono tuttora quella terra come la più indicata e feconda per la coltura del turione”. In una nota spese della Repubblica Veneta del 1534 relativa ad un banchetto organizzato in onore di messer Hettor Loredan, è indicata la spesa che il Doge Andrea Gritti sostenne per l’acquisto nell’agro bassanese di “sparasi mazi 130, lire 3 et soldi 10”. Durante il concilio di Trento (1545-1563) i padri conciliari, che con il numeroso seguito sostavano a Bassano, trovavano tra i prodotti locali anche “i sparasi”. In un famoso dipinto del pittore veneziano Giovanbattista Piazzetta (1682-1754) “La Cena di Emmaus” è ben visibile il piatto di asparagi preparato secondo la tradizionale ricetta bassanese “sparasi, e ovi, sale e pevare, oio e aseo” (asparagi e uova, sale e pepe, olio e aceto). Ancor oggi, nella tradizione popolare il consumo di asparagi rimane legato al periodo primaverile ed alla Pasqua: un noto detto locale ricorda che “quando a Bassan vien primavera se verze la ca’ e la sparasera” per la tradizionale “sparasada” che segue la festa.

Descrizione del prodotto: La denominazione ”Asparago Bianco di Bassano” designa i turioni di asparago riferibili all’ecotipo locale, rappresentato dalla varietà “Comune – o Chiaro – di Bassano”. Il diametro medio minimo al centro è di 10 mm, con una lunghezza compresa entro i valori minimi e massimi di 18 e 22 cm. La commercializzazione avviene in mazzi omogenei di peso variabile da 1 a 1,5 kg. È inoltre ammessa la presenza di alcune spaccature trasversali dei turioni, elemento di pregio e di identificazione del prodotto bassanese, vista la sua fragilità. Gli asparagi di Bassano presentano un gusto dolce-amaro caratteristico, che li rende del tutto particolari.

Processo di produzione: Quella dell’asparago è una pianta poliennale, che vive e produce in media per una decina d’anni. Il fusto sotterraneo (rizoma) produce delle gemme da cui derivano i fusti, chiamati turioni, che sono la parte commestibile del prodotto. Questi turioni crescono e si sviluppano sottoterra, in terreni appositamente preparati, in modo da restare al riparo dalla luce del sole e rimanere bianchi. Vengono raccolti a mano, tagliandoli alla base con un apposito coltello. Gli asparagi bassanesi vengono quindi refrigerati in acqua e sono commercializzati in mazzi legati manualmente tra loro con un succhione di salìce chiamato “stroppa”.

Reperibilità: Il prodotto è reperibile direttamente presso i produttori o presso alcuni rivenditori della zona, nel periodo di raccolta da aprile a giugno.

Usi: Gli asparagi di Bassano sono utilizzati in diversi modi nella cucina locale, spesso bolliti e consumati assieme alle uova o per la preparazione di primi piatti.

Broccolo di Bassano

Territorio interessato alla produzione: Bassano del Grappa, Rosà, Pove (VI)

La storia: Il Cavolo broccolo appartiene alla famiglia delle Crucifere ed ha una grande varietà di biotipi. Si coltivano specie in Veneto, Lazio, Campania, Calabria; si ritiene sia una pianta di origine italiana. Nella zona di Bassano viene coltivato da secoli e sebbene non siano disponibili attestazioni documentali che ne dimostrino la presenza storica nella zona, sicuramente testimonianze ne confermano la tradizionale diffusione di questa coltura.

Descrizione del prodotto: Il broccolo bassanese prodotto appartiene a diverse varietà, a seconda del periodo in cui viene raccolto. La varietà più precoce (chiamata bonorivo) si presenta di colore verde intenso, con diametro di 8 cm e foglie larghe ed allungate. Infiorescenza di colore verde chiaro di 10 cm di diametro, con foglie esterne larghe e lunghe 30 cm. La varietà mediastagione si suddivide in due categorie: il mediastagione bonorivo, che si presenta più chiaro con foglie leggermente più larghe; il mediastagione tardivo, simile al precedente ma con foglia frastagliata e infiorescenza più aperta. In quella tardiva l’infiorescenza è di colore verde pallido, del diametro di 15 cm. Le foglie sono frastagliate e lunghe 30 cm. La pianta ha un’altezza di 30-40 cm fuori terra.

Processo di produzione: Il broccolo di Bassano si semina in semenzaio (pieno campo) nella terza decade di giugno. Si protegge con paglia o tessuto fino alla nascita; subito dopo la semina avviene il diserbo. Il terreno per il trapianto si prepara tra agosto e settembre, con aratura profonda 30-40 cm., interrando letame maturo e concimi minerali. Il trapianto si può eseguire a mano (su modeste superfici) o con macchine agevolatrici, con piantine di 30-40 giorni, alte 15-20 cm. e con 5-6 foglie (è opportuno scartare piantine deboli e malformate), disposte in file distanti 85 cm l’una dall’altra. Dopo il trapianto si diserba e si irriga fino alla crescita della pianta, dopo di che si concima con elementi chimici. La raccolta del bonorivo si esegue a mano da fine ottobre a metà gennaio; nei periodi scalarmente successivi, fino a marzo, per le altre due varietà. La pianta priva di radici viene portata in azienda dove viene ripulita dalle foglie in eccesso e messa poi in cassette, pronte per la vendita. Nel caso in cui il prodotto sosti in azienda, viene conservato in frigo per non più di due giorni.

Reperibilità: Questo ortaggio, coltivato soprattutto per l’autoconsumo e prodotto solo da alcune aziende, è reperibile presso le stesse o nei mercati della zona, nei mesi invernali.

Usi: Il broccolo è un ortaggio che va consumato bollito o cotto al vapore ma può anche essere utilizzato per la preparazione di zuppe, da solo o con altri vegetali.

Cipolla rosa di Bassano

Territorio interessato alla produzione: Bassano, Rosà, Cassola, in provincia di Vicenza.

La storia: In Veneto, la zona attorno a Bassano del Grappa è rinomata per la produzione di una varietà tradizionale di cipolla: la cipolla rosa, o cipolla piatta. Nell’ambiente bassanese questo ortaggio cresce molto bene e con caratteristiche organolettiche molto apprezzabili, grazie alle caratteristiche pedo-climatiche locali e ai terreni sciolti e fertili. Secondo la tradizione, la cipolla rosa di Bassano era coltivata nel territorio fin dal XIV secolo. La nota famiglia di ortolani bassanesi Zonta si è sempre dedicata alla coltivazione e alla conservazione del patrimonio genetico della cipolla almeno fino dal 1830. Questa cipolla è stata diffusamente coltivata fino agli anni cinquanta del secolo scorso, quando si è verificato un progressivo disinteresse in quanto i “cipollari” di Vicenza volevano soltanto la cipolla bianca perchè più redditizia.

Descrizione del prodotto: La cipolla è una pianta biennale dotata di numerose radici fascicole, di medie dimensioni, bianche e carnose, sulle quali si sviluppa la parte commestibile, il bulbo, costituito dall’ingrossamento della parte basale delle foglie, che si inseriscono le une sulle altre. Della cipolla rosa di Bassano ne esistono due varietà: una precoce ed una tardiva. Nel passato assumeva una colorazione rosa intenso, che nel corso degli anni è andato sbiadendo. È un ortaggio pregiato soprattutto per il suo sapore dolce. Le cipolle ideali per la vendita hanno un peso che va dai 120 ai 200 g e un diametro di 7-8 cm.

Processo di produzione: Si semina dopo la metà di agosto fino a metà ottobre direttamente nel campo. Si copre con tessuto-non tessuto o tessuto nero ombreggiante, per mantenere l’umidità del terreno; viene innaffiata periodicamente fino al trapianto, che avviene dai primi di novembre ai primi di aprile su terreno precedentemente preparato. La cipolla precoce si raccoglie manualmente da fine maggio a metà giugno, quella tardiva si raccoglie da metà giugno fino ad agosto-settembre asportando l’intera pianta e tagliando il gambo vicino al bulbo. Poi viene fatta asciugare al sole per alcune ore, spazzolata al fine di togliere la terra ed eventuali impurità; quindi raccolta e messa in cassette pronte alla vendita.

Reperibilità: Con le due varietà (precoce e tardivo), la cipolla rosa o piatta di Bassano è reperibile sui mercati locali da fine maggio a fine settembre.

Usi: La cipolla rosa di Bassano si può consumare in vari modi: lessata, impanata, fritta, o sott’olio (se raccolta in anticipo per avere una giusta dimensione), ma la sua prerogativa è consumata cruda, grazie alla sua “dolcezza”, risultando gradita anche a chi non ama il gusto forte e piccante delle normali cipolle.

Patata cornetta

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Rosà e Cassola in provincia di Vicenza

La storia: La patata è un tubero arrivato in Europa dopo la scoperta dell’America. Per l’economicità e la facilità di coltura, è stato alla base dell’alimentazione della popolazione più povera. La patata è dotata di una notevole capacità di adattamento ai vari tipi di terreno e alle diverse peculiarità climatiche dei luoghi di coltivazione. Nella zona a sud di Bassano del Grappa, si coltiva una particolare tipologia di patata: la cornetta. Qui tale coltivazione era molto diffusa all’inizio del 1900, ma in seguito, sia per il mutare delle condizioni economiche e alimentari della popolazione, sia per il diffondersi di varietà maggiormente produttive, questa coltivazione è andata riducendosi.

Descrizione del prodotto: Attualmente viene coltivata in poche aziende come specie contorno e la sua produzione, non supera i 100 quintali. Le patate cornette sono di piccola pezzatura e di forma cilindrica. Lunghe mediamente dai 5 agli 8 centimetri e dal diametro compreso tra 1 e 3 centimetri. La buccia è gialla e la pasta, molto compatta, è di color avorio.

Processo di produzione: Le patate cornette vengono coltivate in pieno campo, dopo un’opportuna preparazione del terreno che deve essere soffice e ben strutturato perchè questi tuberi hanno scarso potere di penetrazione radicale. I terreni inoltre devono essere ben lavorati e tenuti curati e areati con sarchiature e rincalzature e la concimazione avviene solo con sostanze organiche. La semina avviene verso aprile e si raccoglie da ottobre. La conservazione di queste patate avviene in luoghi asciutti e all’oscuro (cantine) oppure avvolte nella paglia di frumento.

Reperibilità: Date le esigue quantità prodotte, queste patate sono utilizzate quasi esclusivamente per l’autoconsumo familiare e si possono trovare commercializzate occasionalmente presso alcuni rivenditori della zona di produzione.

Usi: Le patate cornette, per le loro caratteristiche di compattezza della pasta, si prestano ad essere cotte in tegame con varie carni oppure fritte.

Patata di Rotzo

Territorio interessato alla produzione: Rotzo (VI)

La storia: La patata di Rotzo ha un’antica tradizione agricola, data dal fatto che il tubero ha trovato nei prati, boschi e nel clima della zona un contesto ambientale ideale per esaltare le sue qualità organolettiche. La prima testimonianza documentale che attesta della coltivazione del tubero nella zona di Rotzo risale alla fine del 1700, nel volume “Memorie storiche dei Sette Comuni Vicentini” scritto dall’abate Agostino Dal Pozzo ed edito dal Comune di Rotzo nel 1820. L’antica varietà non è più coltivata, ma la produzione odierna è ancora molto apprezzata. La proverbiale bontà di queste patate di montagna deriva da un concorso di elementi ambientali: suolo di struttura ideale; inverni rigidi che neutralizzano molte malattie; estati fresche e asciutte, che favoriscono al meglio la fruttificazione. La maggiore concentrazione di amidi che ne deriva contribuisce a dare al prodotto qualità uniche e inconfondibili. In ottobre di ogni anno, si svolge la tradizionale Festa della Patata, occasione per poter assaggiare molti piatti tipici a base di patate.

Descrizione del prodotto: Le varietà coltivate sono: la Bintje, la Desirèe, la Spunta, la Monalisa, l’Alba che sono tutte patate a pasta bianca o giallo-chiara e buccia bianca o rossa. Le patate di questa zona si distinguono per un’alta presenza di sostanza secca che ne consente una maggiore conservabilità (soprattutto la Desirèe) e vengono commercializzati direttamente dai produttori in sacchetti di diverso peso (da 5 a 50 kg.)

Processo di produzione: La patata viene coltivata in terreni di montagna, ad una altezza variabile da 700 a 1.000 metri. Il seme per la riproduzione viene acquistato o riprodotto direttamente in azienda. La concimazione si attua con letame bovino o con sovescio di prato di leguminose, integrata da piccole quantità di concimi minerali. I trattamenti fitosanitari, quando vengono fatti, sono ridotti al controllo della peronospora; dorifora e afidi vengono trattati una o due volte all’anno e solo in annate particolari. Le lavorazioni e la raccolta, che avviene in ottobre, sono manuali o meccaniche. La conservazione del prodotto avviene in cantine adatte (fresche e buie). Il confezionamento e la pesatura sono eseguite manualmente. L’ammasso delle patate viene effettuato in cantine o locali aziendali, spesso interrati, adatti alla conservazione del prodotto, opportunamente oscurati, aerati o chiusi al fini del mantenimento della temperatura ideale di conservazione.

Reperibilità: Prodotto di nicchia, coltivato da poche piccole aziende, le patate di Rotzo si possono trovare durante la festa della patata o presso i rivenditori della zona, nei mesi autunnali.

Usi: Il tradizionale piatto locale preparato con le patate di Rotzo è la “polenta considera”, che è una polenta di mais bianco a cui vanno aggiunte le patate lessate, farcita di burro e un pizzico di cannella, da accompagnare al formaggio mezzano e alla sopressa.

Patata dorata dei terreni rossi del Guà

Territorio interessato alla produzione: Il territorio situato tra le province di Padova, Vicenza e Verona e localizzato nei comuni di Montagnana, Saletto, Megliadino San Fidenzio, Ospedaletto Euganeo, Cologna Veneta, Pressana, Roveredo di Guà, Lonigo, Noventa Vicentina e Poiana Maggiore.

La storia: Nel 1894 il Sindacato Agrario di Padova intraprese una campagna di propaganda a favore della patata, mentre uno scambio epistolare tra il Vice Prefetto di Este e il Podestà di Montagnana, datato 1915, evidenzia come fosse ancora difficile introdurre la solenacea in quelle campagna. Fu solo in tempi successivi che venne individuato come vocato a tale coltivazione un bacino costituito dai terreni alluvionali lungo i fiumi Adige e il Guà (noto nel suo tratto vicentino come Agno e in quello padovano come Frassine o Fratta). Da una testimonianza diretta del dr. Gianfranco Cantarella, laureato in scienze agrarie e agricoltore Colognese, si desume che la coltivazione della patata nella zona del Colognese si diffuse rapidamente negli anni ‘50, inizialmente come coltura alternativa dopo periodi di forti grandinate, successivamente come coltura da reddito. Quanto prima gli agricoltori si accorsero che le produzioni più rilevanti si avevano proprio nei terreni argillosi rossi, in cui si poteva ottenere una qualità particolarmente apprezzata sia per le caratteristiche organolettiche che per una particolare colorazione e lucentezza della buccia. In quell’epoca si andava diffondendo la “Cipolla dorata di Parma” e da tale fatto gli operatori della zona ebbero l’idea di chiamare “Patata dorata” quel particolare tipo di patata prodotta in zona. A Roveredo di Guà si tiene, ad inizio luglio, la tradizionale “Festa della patata dorata del Guà”.

Descrizione del prodotto: Con la denominazione “Patata dorata dei terreni rossi del Guà” si comprendono diverse varietà coltivate: Primura, quella più diffusa, Agata, Vivaldi, Cicero, Monalisa, Liseta e Alba. Comune a tutte è la forma ovale e ovale-lunga; pezzatura uniforme nella quale le differenze di calibro non superino i 15 mm; buccia gialla, sottile, priva di screpolature, intatta; gemme (occhi) superficiali; pasta giallochiara. Il prodotto è distinto in 3 tipologie:
– tipo A: patata da insalata; pasta soda, che non sfiorisce, non farinosa, piuttosto umida, a grana molto fine, con sapore molto delicato e basso contenuto di sostanza secca (18-19%);
– tipo B: patata per tutti gli usi; pasta piuttosto soda, che sfiorisce leggermente, si apre poco alla cottura, ha consistenza media, debolmente farinosa, leggermente asciutta, con sapore delicato e medio contenuto di sostanza secca (19-22%);
– tipo C: patata per puree; pasta tenera, farinosa, grana piuttosto grossolana che sfiorisce dopo la cottura, sapore piuttosto forte, contenuto di sostanza secca medio-alto.

Processo di produzione: La Patata dorata si coltiva nei terreni alluvionali, argillosi, profondi e di colore rosso formati in tempi remoti dal divagare dell’Adige. Il tratto che interessa la patata è quello mediano del fiume: soprattutto qui, infatti, alla base sabbiosa, si sono aggiunte le argille ricche di ferro, di origine vulcanica, che gli conferiscono l’aspetto di “terre rosse” e ne fanno un ottimo suolo da ortaggi. Gli accorgimenti utilizzati dagli operatori per ottenere un prodotto di qualità sono la concimazione con letame bovino, l’unico a non influenzare il sapore del prodotto e la lavorazione del terreno. Il prodotto dopo la raccolta, che viene effettuata a mano, è insaccato in sacchi di iuta o nylon con pesature da 1, 2.5 o 5 kg e inviato alla commercializzazione.

Reperibilità: La patata dorata del Guà si trova in vendita in confezioni da 1, 2.5 e 5 chili presso i magazzini di alcune catene di grande distribuzione del Nord Italia. A questi canali va aggiunta la vendita diretta presso lo stabilimento di raccolta e confezionamento dell’Associazione Produttori Patate a Montagnana

Usi: Le patate possono essere utilizzate in cucina per la preparazione di numerosissimi piatti. A seconda delle varietà vengono cotte al forno, fritte o utilizzate nella preparazione di gnocchi, minestre e purea. Inoltre sono utilizzate a livello industriale per l’estrazione di alcool, fecola o come base per foraggio.

Radicchio variegato bianco di Bassano

Territorio interessato alla produzione: Comune di Bassano del Grappa (Vicenza), in particolare nella zona di San Francesco e comuni di Rosà, Cassola, Marostica, Romano d’Ezzelino, Tezze sul Brenta.

La storia: Il radicchio variegato di Bassano è coltivato nella zona fin dall’ottocento, e sembra derivare da una selezione attuata dagli agricoltori bassanesi della varietà “Variegato di Castelfranco”. La particolarità del prodotto è determinata dal clima mite della zona, ventilato e asciutto che ostacola la formazione di muffe e di marcescenze, e dalle caratteristiche dei terreni, caratterizzati da una tessitura di tipo franco o franco-sabbiosa, con un sottosuolo ricco di ghiaia, con buona permeabilità e di una discreta presenza di sostanza organica. Il radicchio di Bassano è un ortaggio molto apprezzato, in particolar modo nei pranzi in occasione delle festività natalizie e di fine anno.

Descrizione del prodotto: Il radicchio variegato di Bassano è una pianta dalla foglia larga e molto sottile, dal sapore dolce. Quando viene commercializzato, dopo il processo di imbianchimento, i germogli si presentano con colore di fondo dal verde al bianco crema e variegature, distribuite in modo equilibrato su tutta la pagina fogliare, che assumono colorazioni diverse dal viola chiaro al rosso violaceo al rosso vivo. A maturazione avvenuta, il cespo della pianta si presenta semiaperto e le dimensioni possono raggiungere i 20-25 cm e del peso di circa 150 g. Si presenta tenero e croccante allo stesso tempo, dal gusto particolarmente delicato.

Processo di produzione: Il radicchio bianco di Bassano viene seminato da metà Luglio ai primi di Settembre in semenzaio o in pieno campo, si copre con tessuto-non tessuto per riparare dall’umidità, dalla luce, dal freddo e dagli uccelli. Se piantata in semenzaio dopo 30 giorni la pianta viene trapiantata in terreni lavorati e concimati e non necessita di cure particolari. La raccolta avviene manualmente dai primi di Novembre fino alla fine di Marzo. Le piantine raccolte vengono ripulite delle foglie più vecchie o marce e messe in contenitori chiusi, con dell’acqua a coprire le radici, per la fase di imbianchimento o forzatura attraverso la quale il prodotto diviene più tenero e dolce. Rimangono per circa una settimana in una stanza calda (circa 15-20°C) e buia, e in condizioni di umidità idonee alla formazione di foglie nuove che, accresciute in tali condizioni a spese delle sostanze di riserva delle radici, presenteranno le migliori caratteristiche organolettiche. Le foglie accresciutesi, infatti, si arricchiscono d’acqua, divengono croccanti e friabili, di sapore delicatamente amarognolo. Dopo aver pulito la pianta dalle foglie rovinate, raschiato e sagomato il fittone e selezionate ulteriormente le piantine, vengono immerse in una vasca di acciaio per il lavaggio. Infine vengono confezionate in cassette di plastica e inviate alla vendita. La coltivazione può avvenire in serra.

Reperibilità: Dal tardo autunno alla fine dell’inverno, il prodotto è reperibile presso i mercati al dettaglio della zona di produzione.

Usi: Il Radicchio Bianco di Bassano si presta bene ad essere consumato fresco in insalate.

Sedano di Rubbio

Territorio interessato alla produzione: Comune di Conco, Località Rubbio (VI)

La storia: Rubbio si trova sulla strada che da Bassano sale all’Altopiano di Asiago: un minuscolo paese a 1057 mt sul livello del mare, di soli 300 abitanti, dove uno dei fiori all’occhiello della piccola comunità è la coltivazione del sedano, che viene praticata con successo dai primi del 900, grazie alla tipicità del suolo e al clima, che alterna ai rigori invernali estati asciutte e ventilate. In un articolo apparso su “Il Giornale di Vicenza” qualche anno fa, si leggeva “Gerla piena di sedano sulle spalle, uomini e donne di Rubbio da secoli scendevano a vendere la loro specialità a Breganze, Thiene, Marostica e Bassano. La fama dell’ortaggio era forte ma geograficamente compressa. Ci fu chi pensò, in occasione della trasferta a Vicenza per la festa della “Madona dei Oto” (l’8 settembre, festa della Natività della Vergine) di portarsi appresso anche del sedano da vendere, unendo così l’utile al dilettevole. La trovata si rivelò una cassa di risonanza formidabile e il sedano di Rubbio non conobbe più confini”. L’ 8 settembre, quindi, è diventata naturalmente anche la data della “Sagra del Sedano”, una delle manifestazioni più antiche dell’altopiano dei 7 Comuni, un appuntamento che abbina aspetti religiosi al divertimento e alla valorizzazione dei prodotti locali. Sul rinomato ortaggio è stata scritta anche un’apposita pubblicazione, “Il sedano di Rubbio” di A. Celotto 1981, edizioni La Bassanese.

Descrizione del prodotto: Il sedano è un ortaggio caratterizzato da lunghe coste grosse e succose, ricche di filamenti interni e foglie poste lungo la parte superiore. Il sedano di Rubbio è un sedano della varietà bianco, di colore bianco-giallognolo chiaro, molto tenero e dal sapore delicato.

Processo di produzione: Il terreno per la coltivazione si prepara in autunno, con letame e cenere per concimare e in primavera viene rivangato. Dal 1° al 10 di Giugno si mettono a dimora le piantine a circa 40 cm di profondità, con all’interno uno strato di letame e si ricoprono con terra, in doppia fila e con 15 cm di distanza tra le piante. Per l’irrigazione si utilizza l’acqua piovana raccolta in vasca, fatta intiepidire al sole. Si innaffia sempre dopo il tramonto per evitare sbalzi di temperatura. Dopo 20 giorni la terra viene rimossa in modo da consentire un’ottimale crescita delle piante. Dopo un ulteriore mese si rincalza la terra in modo da coprire i gambi del sedano, che così riparati dalla luce del sole, rimangono bianchi. La raccolta avviene manualmente ai primi di settembre.

Reperibilità: Prodotto di nicchia, coltivato per l’autoconsumo, si può trovare principalmente durante la festa dell’8 settembre.

Usi: Il sedano contiene vitamine e sali minerali e possiede proprietà aperitive, diuretiche, depurative, antireumatiche. In cucina può fornire ottimi succhi aperitivi (unito a limone o carota), insalate, minestre o piatti di contorno. Tipico utilizzo del sedano di Rubbio è la ricetta che lo vede accompagnato, in un soffritto, alle lumache.

Bietola di Bassano

Territorio interessato alla produzione: Comune di Bassano del Grappa

La storia: La bietola è una pianta orticola originaria del bacino del mediterraneo. La varietà di Bassano è coltivata nel territorio da un centinaio d’anni. La coltivazione nella zona è favorita dal microclima mite, ventilato e non umido caratteristico del bassanese e della zona del Brenta, che ostacola la formazione di muffe e di marcescenze, privo dei repentini abbassamenti della temperatura e delle gelate, che interessano invece la pianura. Nel comune di Bassano sono presenti produttori che coltivano il prodotto dagli anni quaranta del secolo scorso e si possono trovare informazioni sulla coltivazione locale nel volume “Orticoltura”, edito nel 1990 da Patron Editore.

Descrizione del prodotto: La varietà di Beta vulgaris coltivata a Bassano è tipica della zona ed è una bietola precoce. Si caratterizza per una radice all’interno completamente bianca e per un gusto particolarmente dolce. Le foglie variano dal verde scuro al rosso violaceo e si inseriscono su una radice rotonda, ben formata e leggermente appuntita. L’altezza della pianta arriva fino a 50-60 cm e il diametro della radice fino a 8-10 cm (la raccolta si effettua normalmente quando le radici hanno raggiunto un diametro superiore ai 5 cm). L’intera pianta, foglie e radice, è commestibile.

Processo di produzione: Il terreno viene preparato attraverso le consuete lavorazioni (aratura, fresatura, concimazione). La coltivazione è primaverile, ovvero si semina in epoche scalari (in modo da rifornire regolarmente il mercato) in aprile-maggio e si raccoglie il prodotto a 60-90 giorni dalla semina (50-70 giorni dal trapianto). Si può seminare in pieno campo, coprendo i semi in fase vegetativa con un tessuto non tessuto per proteggere dalla luce e dal freddo e per mantenere l’umidità, oppure in semenzaio, effettuando il successivo trapianto. La coltivazione può essere effettuata anche in serra, seminando verso gennaio e raccogliendo in marzo-aprile. L’irrigazione è indispensabile durante tutto il ciclo vegetativo per assicurare un rapido e continuo accrescimento. La lotta alle malerbe è molto importante e viene effettuata meccanicamente con sarchiature oppure con diserbanti chimici selettivi. La raccolta per il consumo diretto viene realizzata manualmente, estirpando scalarmente le piante che presentano le radici di idonee dimensioni. Le piantine vengono portate in azienda, lavate e selezionate. Quindi si procede al confezionamento e alla vendita: tradizionalmente le bietole vengono legate in mazzi ma possono essere anche commercializzate in cassette e vendute a peso.

Reperibilità: Le produzioni di Bietola di Bassano sono esigue ed interamente assorbite dal mercato locale; pertanto sono reperibili solo nei mercati al dettaglio della zona, durante i mesi di raccolta.

Usi: Il prodotto viene venduto fresco e viene usualmente consumato bollito o al vapore insieme alle cipolle piatte di Bassano.

Broccolo fiolaro di Creazzo

Territorio interessato alla produzione: Zona collinare di Creazzo (VI)

La storia: Il broccolo fiolaro di Creazzo è un prodotto oggi molto apprezzato per le sue proprietà alimentari, mentre tempo era definito cibo dei poveri. Il nome di questo ortaggio deriva dalla presenza di germogli inseriti lungo il fusto della pianta, conosciuti in termine dialettale come “fioi” e che vengono cotti in padella, insieme alle foglie più giovani, come una vera prelibatezza. Si tratta di un prodotto che ha la particolarità di non assomigliare né per forma, né per gusto alle altre varietà di broccolo. Come ricorda Antonio di Lorenzo, in un saggio dedicato al broccolo di Creazzo, il primo ad innamorarsi di questo prodotto tipicamente vicentino fu Johann Wolfgang Goethe, durante la tappa a Vicenza del viaggio in Italia che il poeta tedesco intraprese nel 1786. La produzione ed il commercio del broccolo hanno costituito un’importante fonte di sostentamento per numerose famiglie di Creazzo negli anni “60/70”, quando il prodotto raccolto veniva commercializzato soprattutto nella città di Vicenza, dove giovani e vecchi conferivano il prodotto confezionato nelle “sacare”, specie di corone ottenute infilando i broccoli nelle “strope” (rami di salix viminalis). Alcune fonti storiche (baroni Scola) indicano che già nel 1800 le piante messe a dimora nel Creazzese erano 150.000, a fronte di una produzione odierna che si aggira sulle 30/40.000 piante, coltivate principalmente in due aziende di Creazzo ed altrettante nei comuni limitrofi.

Descrizione del prodotto: Il broccolo fiolaro si presenta con un’infiorescenza carnosa e compatta, a fiori atrofizzati. Ha un apparato radicale molto sviluppato e presenta delle foglie lunghe, frastagliate di colore verde scuro.

Processo di produzione: Si semina a mano in semenzaio a fino giugno, per ottenere le piantine da trapianto. Ogni agricoltore produce la semente in proprio, selezionando le piante ritenute più idonee. Le piantine, raggiunta l’altezza di circa 10 cm, vengono trapiantate in pieno campo nel mese di agosto ad una distanza di circa 40 cm sulla fila e 70 cm tra le file. La messa a dimora avviene praticando manualmente delle buchette nel terreno con la zappa o con un paletto, anche se negli ultimi anni si sono diffusi i trapianti meccanici nei terreni quando la pendenza lo permette. Dopo il trapianto si eseguono 3-4 annaffiature per innalzare la percentuale di attecchimento. A distanza di un mese viene eseguita una sarchiatura con una leggera concimazione. Senza ulteriori particolari cure, i primi broccoli sono pronti già nel mese di novembre; infatti la tradizione vuole che i broccoli più saporiti si possono consumare solo dopo il verificarsi delle prime gelate, tant’è che i caratteri organolettici dell’ortaggio migliorano nel prosieguo dell’inverno, poichè la pianta, in quanto sempreverde, è in grado di difendersi naturalmente dal gelo, limitando i processi biologici: ne consegue un aumento della concentrazione di saqli e zuccheri nelle foglie, che ne esaltano il sapore. La raccolta si protrae per tutto il periodo invernale fino al mese di febbraio. Dopo la raccolta, fatta manualmente, i broccoli vengono mondati delle foglie più vecchie, confezionati in cassette ed immessi subito nel mercato.

Reperibilità: Il prodotto è reperibile da novembre a febbraio, presso i mercati e alcuni rivenditori del basso vicentino o direttamente presso le aziende produttrici.

Usi: Il broccolo fiolaro trova molteplici impieghi nell’arte culinaria, infatti viene utilizzato per realizzare torte salate o sfornati. Può essere assaporato anche crudo in insalata assieme ad altre verdure. Trova valido utilizzo per i primi piatti, come ripieno di tortelli, gustosi pasticci, zuppe e minestre. Come contorno, da abbinare preferibilmente a bolliti od arrosti, viene servito in vari modi: cotto al tegame, gratinato con la besciamella, bollito e condito con olio, sale e pepe. Ottimo infine come ripieno delle carni di pennuti.

Germoglio di radicchio bianco nostrano di Bassano

Territorio interessato alla produzione: Bassano, Rosà, Cassola, Marostica, Romano d’Ezzelino, Tezze sul Brenta.

La storia: Il germoglio di radicchio bianco nostrano è coltivato nel territorio bassanese dall’ottocento e sembra derivare da una selezione della varietà “Variegato di Castelfranco”, attuata dagli agricoltori bassanesi. La coltivazione del Radicchio Bianco di Bassano è favorita dal microclima mite, ventilato e non umido caratteristico della zona, che ostacola la formazione di muffe e di marcescenze, privo dei picchi di freddo e delle gelate non seguite da un disgelo diurno che interessano, invece, la pianura.

Descrizione del prodotto: Nella prima fase del ciclo colturale la pianta presenta foglie completamente verdi, con nervatura principale poco accentuata. Successivamente, diventando grandi, a superficie ondulata, rotondeggianti a margine frastagliato. All’approssimarsi dell’inverno manifestano maculature più o meno estese di colore rosso o viola che si mantengono tali fino alla raccolta. Dopo la forzatura le foglie centrali si accrescono e il colore di fondo vira dal verde al bianco crema. Le variegature, distribuite in modo equilibrato su tutta la pagina fogliare, assumono colorazioni diverse dal viola chiaro al rosso violaceo al rosso vivo. Si ottiene così un cespo a foglie aperte differente da quello raccolto in campo. A maturazione avvenuta, il cespo della pianta si presenta semiaperto e le dimensioni possono raggiungere i 20-25 cm e del peso di circa 150 g. Si presenta tenero e croccante allo stesso tempo, dal gusto particolarmente delicato.

Processo di produzione: Si semina da metà Luglio ai primi di Settembre in semenzaio o in pieno campo, si copre con tessuto-non tessuto per riparare dall’umidità, dalla luce, dal freddo e dagli uccelli. La pianta cresce per 30 giorni per poi essere trapiantata in terreni preventivamente preparati. Dopo il trapianto il terreno viene lavorato, concimato e diserbato. La raccolta è manuale e va dai primi di Novembre fino alla fine di Marzo. Raccolte le piantine, vengono attentamente tolettate e ripulite delle foglie più vecchie o marce e messe in contenitori chiusi con dell’acqua a coprire le radici per la cosiddetta fase di imbianchimento o forzatura attraverso la quale il prodotto diviene più tenero e dolce. Qui restano per circa una settimana in una stanza calda (circa 15- 20°C) e buia, in condizioni di umidità idonee alla formazione di foglie nuove che, accresciute in tali condizioni a spese delle sostanze di riserva delle radici, presenteranno le migliori caratteristiche organolettiche. Le foglie accresciutesi o formate in tale situazione, infatti, perdono la loro consistenza fibrosa, private come sono dei pigmenti clorofilliani, si arricchiscono d’acqua, divengono croccanti e friabili, di sapore delicatamente amarognolo. Dopo aver pulito la pianta dalle foglie rovinate, raschiato e sagomato il fittone e selezionate ulteriormente le piantine, vengono immerse in una vasca di acciaio per il lavaggio. Infine vengono confezionate in cassette di plastica e inviate alla vendita. La coltivazione può avvenire in serra.

Reperibilità: Dal tardo autunno alla fine dell’inverno, il prodotto è reperibile presso i mercati al dettaglio della zona di produzione.

Usi: Il germoglio di radicchio Bianco di Bassano si presta bene ad essere consumato fresco in insalate.

Patata di Posina

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Posina, Laghi, Arsiero, Tonezza ed in generale tutto il territorio ricompreso nella Valle del Posina (VI)

La storia: La tradizione e la fama delle patate di Posina va di pari passo con quella dei fagioli della vallata. Si tratta di produzioni sviluppatesi dove le condizioni di scarsità di terreno e di profondità dello stesso, consentivano pochissime colture per la sopravvivenza delle comunità locali. La coltivazione della patata di Posina è annoverata in una pubblicazione del 1885 (estratto dell’Ateneo Veneto del dott. Pasqualigo) tra le produzioni oggetto di commercio con le vallate di Terragnolo. Inoltre è citata, nel 1962, da Eugenio Candiago nel suo libro sulla gastronomia vicentina ove si legge “Particolarmente pregiate le patate della Val di Posina per il loro gusto”. Si dice che negli anni ‘30 la patata ed il fagiolo di Posina fossero quotati in borsa merci.

Descrizione del prodotto: Le patate coltivate nella zona della Val Posina appartengono a diverse varietà e sono per la maggior parte la Bintje, la Desirèe e la Kennebek mentre una piccola percentuale è di Spunta, Lisetta e Primura. Tutte le varietà impiegate sono a pasta bianca o giallo-chiara e la buccia è bianca o rossa (prevalentemente bianca). Il seme per la riproduzione viene acquistato o riprodotto direttamente in azienda. Si tratta di una produzione di nicchia realizzata in modo tradizionale da piccoli coltivatori, commercializzata direttamente dai produttori in sacchetti di diverso peso o in cassette.

Processo di produzione: La patata viene coltivata ad una altezza variabile da 400 a 1.000 metri. Il terreno della zona è sabbioso, con ciottolato piccolo e friabile e questo, assieme al microclima locale favoriscono la produzione di amido e quindi di sostanza secca migliorando la consistenza della pasta e favorendo la conservabilità della patata. I terreni si preparano in autunno, arando, concimando e fresando. Si attuano concimazioni molto basse, in genere con letame bovino o equino maturo. Tradizionalmente le patate si piantano nella zona intorno al 25 Aprile. I trattamenti fitosanitari sono molto ridotti o del tutto assenti. Le lavorazioni e la raccolta sono per lo più manuali. Le patate precoci sono pronte a metà settembre mentre le medio-tardive, la maggioranza, a metà ottobre. La conservazione del prodotto avviene in cassette oppure in cumuli, in cantine adatte, fresche e buie.

Reperibilità: Essendo un prodotto coltivato quasi esclusivamente per l’autoconsumo, è reperibile durante la Festa del fagiolo che si tiene annualmente a Posina nel mese di Ottobre, o presso alcuni rivenditori locali.

Usi: Nella vallata si perpetua la tradizione del trasformato: tipici sono gli gnocchi di Posina, generalmente conditi con burro fuso e ricotta affumicata, la tradizionale polenta di patate di Posina, la classica polenta impatatà. Per prepararla si cucinano le patate e si schiacciano nell’acqua di cottura aggiungendovi un po’ d’olio. Quindi si versa la farina di mais e si cuoce normalmente per 40 minuti per fare la polenta; quando questa è quasi pronta si aggiungono pezzettini di formaggio fresco (di primo sale). Si può consumare morbida al cucchiaio o, meglio ancora, abbrustolita.

Scarola o insalata d’inverno di Bassano

Territorio interessato alla produzione: Bassano, Rosa’, Cassola, Marostica (VI)

La storia: La scarola è una varietà di insalata originaria delle zone temperate dell’Europa. Apprezzata fin dall’antichità per le sue proprietà toniche, depurative e diuretiche, ha trovato terreni adatti alla sue necessità di crescita. Nella zona attorno a Bassano del Grappa la coltivazione di questo ortaggio vanta una tradizione centenaria, infatti il microclima mite e ventilato della zona e i terreni dotati di buona permeabilità e presenza di sostanza organica hanno favorito la coltura di questo ortaggio. La possibilità inoltre di avere a disposizione la scarola durante il periodo invernale, un tempo usualmente caratterizzato da scarsità di verdure che integrassero l’alimentazione, ha reso il prodotto particolarmente ricercato e gradito tanto da entrare a far parte, a pieno titolo, della tradizione culinaria locale.

Descrizione del prodotto: La scarola presenta un cespo allungato, tendente al cilindrico, di 50-70 foglie a portamento più o meno eretto che presentano una nervatura centrale molto estesa di colore bianco ed un lembo fogliare tanto più involucrante quanto più è sviluppato in larghezza. La radice si presenta approfondita nel terreno con ramificazioni parallele che possono superare i 100 cm di profondità. La pianta può crescere 30cm e si presenta di colore verde intenso. l prodotto si presenta particolarmente dolce e tenero.

Processo di produzione: Il terreno viene preparato con le consuete lavorazioni (aratura, fresatura, concimazione, etc.) per la semina che avviene in epoche scalari da metà Agosto a metà Ottobre direttamente nel campo, dove il seme viene interrato 1- 2 cm e l’emergenza delle plantule avviene in 7 – 10 giorni, oppure in semenzaio (in questo caso può essere leggermente anticipata) e si copre con tessuto-non tessuto per riparare i semi e mantenere l’umidità. La scarola non ha particolari esigenze idriche avendo una buona radice e una buona capacità di attecchimento, gli interventi irrigui sono necessari nelle prime fasi della coltura. La raccolta viene effettuata manualmente circa tre mesi dopo la semina quando le piante presentano “cuore” con elevato numero di foglie eziolate. I cespi vengono recisi a livello del colletto, ripuliti delle vecchie foglie e disposti in cassette o contenitori generici per il trasporto. Previa mondatura e selezione degli ortaggi, la pianta viene collocata per la forzatura in contenitori chiusi con dell’acqua a contatto con le radici dove rimangono per circa una settimana, periodo variabile a seconda anche del grado di maturazione delle piante, in ambiente buio e caldo (dai 15 ai 20°C ovvero in ambienti riscaldati) e in condizioni di umidità idonee per la formazione di nuove foglie che, accresciute in tali condizioni a spese delle sostanze di riserva delle radici, presenteranno le migliori caratteristiche organolettiche. Le foglie accresciutesi o formate in tale situazione, infatti, perdono la loro consistenza fibrosa, private come sono dei pigmenti clorofilliani, si arricchiscono d’acqua, divengono più tenere e dolci. Si procede, infine, ad una nuova selezione delle piante commercializzabili, alla pulizia, al lavaggio, al confezionamento e alla vendita.

Reperibilità: Le produzioni di Scarola di Bassano sono esigue ed interamente assorbite dal mercato locale, dove il prodotto può essere acquistato presso i rivenditori durante il periodo autunno-invernale.

Usi: La scarola viene generalmente consumata cruda, in insalata.

Bisi de Lumignan

Territorio interessato alla produzione: Lungo la fascia dei Colli Berici (Vicenza) che si estende nei comuni di Lumignano, S.Germano, Grancona, Sossano, Orgiano, Lonigo, Sarego, Alonte, Pozzolo di Villaga, Brendola, Zovencedo, Arcugnano, Barbarano, Mossano, Castegnero, Nanto.

La storia: Secondo la monografia che Ferdinando Tescari scrisse sui “Piselli di Lumignano”, ad introdurre questa coltivazione furono i frati Benedettini, i quali attorno all’anno Mille diedero inizio alla bonifica dei terreni posti ai piedi dei colli Berici ed Euganei. In quest’area il dolce legume trovò un habitat ideale, dove l’esposizione al sole e il calore trattenuto dalle rocce, permetteva una produzione eccezionalmente precoce, primizia tra le primizie. Alle favorevoli condizioni climatiche, si aggiunse poi l’abilità dei coltivatori, che nei secoli seppero selezionare un prodotto di eccezionale qualità dal sapore prelibato, tanto che i Dogi di Venezia lo richiedevano per celebrare, con il tipico piatto dei “Risi e bisi”, la festa di San Marco. Cent’anni fa questi semi raggiunsero Chioggia e la varietà “chioggiotta”, attualmente scomparsa, portata nei Berici sulla schiena di muli, era richiestissima, tanto che non mancavano mai nelle ricette delle migliori famiglie del tempo. E’ scomparsa anche la varietà Monselesana, mentre la Principe Alberto, Senatore ed Express trovano ancora buoni cultori. Famosissima è la sagra dei bisi de Lumignan che cade la seconda domenica di maggio dove è possibile gustare le tajadele coi bisi o i risi e bisi secondo antica ricetta.

Descrizione del prodotto: Il mercato del prodotto fresco, nel territorio dei Colli Berici, è stato, in passato, quasi esclusivamente quello dei tipici cosiddetti “Verdoni”, caratterizzati da piantine nane (che non pretendono spese di impalazione), che resistono bene ai normali freddi, hanno buona produttività, con grani di buon gusto e bacelli medi. Nel 1962 per rispondere alle esigenze di produzioni elevate vi è stata l’inrtoduzione dei bianchini con resistenza alle malattie e problemi derivanti dalla variabilità degli ambienti pedoclimatici, dei “Bianchini”, varietà nane con baccelli tendenti al bianco, produttività inferiore ma maggior precocità. In particolare abbiamo testimonianza delle seguenti varietà:
– Principe Alberto, semi-nano, baccelli di colore verde chiaro (fa parte del gruppo dei “bianchini”), di lunghezza media, con 7-9 semi di colore verde chiaro per bacello, di sapore dolce. Ha buona precocità.
– Palladio, selezionato dall’Istituto di Genetica di Lonigo (VI), dotato di elevata produzione, precocità, resistenza ai freddi, adatto per collina e pianura. Ha baccelli verde-scuro, ottima granigione, buone rese in semi.
– Piccolo Provenzale, baccelli verde-scuro, contenenti 7-9 grani, produzione elevata, buona precocità, ritarda di qualche giorno sul Palladio, adatto per pianura e collina. Il prodotto è ricercatissimo dal mercato per la sua ottima qualità: finezza, sapore, tenerezza, delicatezza.

Processo di produzione: Il pisello resiste bene ai climi freddi invernali, anche se intensi, teme, invece, le gelate tardive o le basse temperature in primavera; per questo il microclima dei Colli Berici soddisfa le esigenze della coltivazione. Necessita di un terreno ben preparato e concimato e l’epoca di semina costituisce un elemento di grande importanza per ottenere una produzione precoce e allo stesso tempo abbondante. Per la zona dei Berici l’epoca per seminare va dal 20 Novembre alla metà di Dicembre. La raccolta cade da aprile a maggio, inserendosi fra le produzioni precocissime dell’Italia Meridionale e quelle normali e la raccolta si fa a mano per tradizione, delicatamente per non rompere il fusto.

Reperibilità: Il pisello dei Berici non è commercializzato fuori daal’area di produzione, perché è un prodotto del tutto locale, ma si può gustare nei ristoranti della zona e durante la Festa dei Bisi.

Usi: I piselli di Lumignano sono utilizzati per la preparazione della minestra di riso, di sughi per le tagliatelle e per la ricetta tipica di rìsi, bìsi e òca, una variante, caratteristica del Basso Vicentino, della minestra di rìsi e bìsi, che viene resa più appetibile dalla presenza del brodo e dei pezzettini di carne d’oca.

Fagiolo di Posina “Scalda”

Territorio interessato alla produzione: Posina, Laghi, Arsiero (VI)

La storia: Testimonianze raccolte presso i produttori confermano la presenza della coltivazione dell’antica varietà del Fagiolo di Posina Scalda da lunghissimo tempo. Durante la mostra mercato, che si svolge ogni anno a Posina l’ultima domenica di ottobre, questo fagiolo è ricercatissimo essendo la quantità di Fagiolo Scalda destinata al mercato solamente di circa 50 Kg. È coltivato per lo stretto consumo familiare e la migliore produzione è destinata a rimanere tra le mura domestiche. I produttori locali sostengono, curiosamente, che questi fagioli sebbene essiccati correttamente, se portati fuori dal paese possono essere attaccati dal baco del fagiolo e quindi sconsigliano la conservazione, fuori Posina, Arsiero e Laghi.

Descrizione del prodotto: Si tratta di un fagiolo marroncino con una riga color oro (fresco si presenta di colore verde), abbastanza piccolo (1,2 cm x 0,8 cm circa) con un baccello di circa 15 cm ed all’interno fagioli in disposizione abbastanza fitta. E’ un fagiolo rampicante, supera i due metri di altezza e continua a crescere su sé stesso oltre l’infrascatura. Ha un fiore bianco scritto di viola. Una pianta ha una produttività di circa 3 kg di fagioli.

Processo di produzione: Questo fagiolo necessita di un terreno fresco, sciolto, poco argilloso com’è quello di Posina e dei Comuni limitrofi, e si semina a mano nei primi di giugno. La concimazione avviene con letame maturo prima della semina oppure il fagiolo può sfruttare la concimazione effettuata per la coltura realizzata sullo stesso terreno l’anno precedente (si cerca di alternare la coltura del fagiolo con quella della patata). Durante la crescita non necessita di particolari cure, essendo resistente alle malattie, se non l’infrascatura al momento giusto. E’ un fagiolo tardivo che si raccoglie a fine settembre. E’ destinato soprattutto ad essere essiccato: lo si lascia seccare sulla pianta e successivamente si stendono i baccelli, in una stanza aerata, asciutta e fresca, su dei graticci. Alcuni stendono i fagioli anche al sole per togliere tutta l’umidità residua, ma generalmente si continua l’essiccazione all’ombra in un posto aerato; sono pronti per la vendita nel giro di 10 giorni. Si sgranano per la vendita appena prima d’esser messi nelle cassette o nei sacchetti. Questi ultimi sono tradizionalmente due, uno esterno di carta da pane e uno interno di tela; si usa, in qualche azienda, porre una posata in ogni sacchetto per evitare il cosiddetto tarlo del fagiolo.

Reperibilità: Date le esigue quantità prodotte, il fagiolo di Posina si può reperire solamente durante la festa del Fagiolo che si tiene annualmente.

Usi: E’ un fagiolo che tiene la cottura nonostante la buccia sottile, non si disfa nel minestrone e si sposa lesso nell’insalata. E’ un fagiolo che, anche per le caratteristiche ambientali, si presenta dolce. Da secco per cuocerlo abbisogna di 3-4 ore di cottura a fuoco lento.

Fasola posenata

Territorio interessato alla produzione: Posina, Arsero (VI)

La storia: La presenza e la tipicità della Fasola Posenata è testimoniata dalle voci e dalle cure di persone anziane che ne tramandano la sua coltivazione da numerose generazioni. I fagioli nella zona di Posina, infatti, sono coltivati da secoli per l’autoconsumo familiare e hanno sempre mantenuto un’importanza non secondaria nell’economia domestica e nell’alimentazione degli abitanti della zona. Anche la pianta trova una sua utilità in quanto, avendo un fiore rosso intenso, ancora oggi viene posta intorno alle altre colture per spaventare eventuali animali, soprattutto caprioli (anche il gusto delle foglie contribuiva in questo senso). Eugenio Candiago nel suo libro del ’62 cita i famosi fagioli di Posina adatti ad accompagnare magnificamente il riso e le tagliatelle fatte in casa.

Descrizione del prodotto: Le fasole costituiscono, anche scientificamente, una specie particolare. E’ un fagiolo che si presenta particolarmente grande: è circa 3 x 1,5 cm, schiacciato ed è all’interno di un baccello molto lungo (può raggiungere i 50 cm) che mediamente contiene 8-10 fagioli ciascuno. Il fagiolo è di colore rosso, chiazzato di nero o viola con sfumature bluastre, colore che si accentua dopo l’essiccazione. Ogni pianta ha 10-12 baccelli, un numero inferiore di fagioli rispetto alla produttività di un borlotto (ma peso maggiore). E’ rampicante e supera i due metri di altezza, crescendo quindi su sé stessa dopo l’infrascatura. Il fagiolo è robusto, dalla buccia abbastanza spessa, dal tipico sapore di castagna, dalla pasta interna farinosa, “croccante” e sempre violastra (se freschi, cucinati hanno una pasta marrognola).

Processo di produzione: Il fagiolo si semina sullo stesso terreno ad anni alterni sfruttando la concimazione effettuata per la coltivazione precedente, in genere la patata (concimazione con letame maturo). E’ un fagiolo tardivo, si semina i primi di maggio e si raccoglie tra settembre e ottobre. La coltivazione si effettua in pieno campo. Si tratta di una pianta forte, resistente alle malattie e durante la crescita non necessita di particolari cure, se non l’infrascatura al momento giusto. Dato il clima di Posina e dei Comuni limitrofi, con umidità notturna molto elevata, il fagiolo non richiede mai acqua. E’ un fagiolo tardivo che si raccoglie a fine settembre. E’ destinato ad un consumo da fresco ma anche ad essere essiccato: lo si lascia seccare sulla pianta fino al giusto grado di essiccazione e poi si stendono i baccelli, in una stanza aerata, asciutta e fresca, su dei graticci. Si sgranano per la vendita appena prima d’esser messi nelle cassette o nei sacchetti perchè dentro ai baccelli si conserva meglio. I sacchetti sono tradizionalmente due, uno esterno di carta da pane e uno interno di tela.

Reperibilità: Reperibile nel periodo di produzione, intorno al mese di ottobre.

Usi: La fasola tiene molto bene la cottura e non si disfa. Si mangia spesso in insalata con aglio, prezzemolo e olio.

Mamma bianca di Bassano

Territorio interessato alla produzione: Bassano del Grappa e Comuni del comprensorio (VI)

La storia: I fagioli nel Veneto hanno avuto nella storia una grande diffusione ed hanno trovato terreno fertile anche nel territorio bassanese, dove una varietà particolare, a frutto di grande dimensione e colore biancastro, è coltivata da secoli dalle famiglie di contadini. Oggigiorno sfortunatamente questa produzione ha subito un notevole ridimensionamento e viene praticata solo da poche aziende agricole.

Descrizione del prodotto: Il fagiolo di Bassano si presenta bianco, rotondeggiante e leggermente schiacciato. È di dimensioni abbastanza grandi, circa 2,5 x 1 cm. Può avere due colorazioni: bianca (mamma bianca), giallognola (mamma). La pianta del fagiolo è rampicante e un tempo si consociava al mais, che fungeva da sostegno, mentre oggi viene coltivato facendolo crescere su apposite frasche.

Processo di produzione: Il fagiolo di Bassano cresce bene su terreni sciolti e poco argillosi. Si semina a mano a fine giugno (per tradizione si seminava nel giorni vicini al 29, in cui si festeggia S. Pietro). La concimazione avviene con letame maturo prima della semina e durante la crescita non necessita di particolari cure tranne l’infrascatura, essendo resistente alle malattie. La raccolta avviene dopo la metà di settembre e viene consumato fresco o essiccato su graticci, in luogo areato.

Reperibilità: Prodotto in quantità ridotte e soprattutto per l’autoconsumo, questa varietà di fagiolo si può trovare nella zona di produzione presso alcuni rivenditori nei mesi di settembre e ottobre.

Usi: Il fagiolo di Bassano è delicato ma tiene bene la cottura, che deve avvenire a fuoco lento per alcune ore. Se essiccato deve essere lasciato in ammollo prima di venire cotto. Si presta ed essere preparato in umido o in insalata.

Conserva di granoturco

Materia prima: pannocchie di granoturco allo stadio di maturazione cerosa, intere o
sgranate.

Iecnologia di lavorazione si fa cuocere il mais per non piu di 5 minuti. Si lascia
raffreddareeonservando neivasi divetro in soluzionesaiina, atemperatura non
superiore ai 14-15øC.

Maturazione

Area diprodazione: tutta la Padania.

Calendario di produzione: agosto-settembrc.

Note: ii prodotto si consuma saltato in padella fino all’apertura dei chicco. 13 mollo
gradito alle nuove generazioni, tanto che la produzione industriale e in costante

espansione.

Composte delle Valli dell’Agno e del Chiampo

Territorio interessato alla produzione: Valdagno, Recoaro; Chiampo, Altissimo, Crespadoro, Durlo (VI)

La storia: La produzione di conpòste è molto antica e sembra risalire ad oltre un secolo fa. Essa riguarda in particolare, nell’area di produzione, paesi e contrade la cui altitudine rendeva incerto l’approvvigionamento di verdure durante l’inverno. Le conpòste costituivano un tentativo in più di garantirsi scorte di verze per la stagione dura e permettevano di preparare piatti estremamente saporiti nelle contrade dei monti attorno alla valle dell’Agno, come ad esempio le Conpòste in tècia con sàta de màscio.

Descrizione del prodotto: I conpòsti sono un trasformato a base di cavoli verza, conservati nella loro salamoia. Una variante viene preparata anche nell’alta Valle del Chiampo ed in particolare a Durlo nella variante delle Biscòte: cavoli cappucci tagliati in quarti, la cui salamoia é arricchito di aceto aromatizzato con erbe profumate, semi e spezie e con graspìa o pimpinella (un vinello rosato ottenuto dalla macerazione delle vinacce in acqua con poco sale ed, a piacere, bacche di ginepro), nelle proporzioni di 2 l di aceto ogni secchio di graspìa.

Processo di produzione: Dopo aver ben lavato le verze, si tagliano a metà, quindi si sbollentano. Sgocciolate, si sistemano, alternandole con manciate di sale, in un apposito contenitore di vetro o di terracotta e ricoperto con un foglio di carta oleata stretto da uno spago. Il recipiente va mantenuto per 3-4 settimane in un ambiente sempre riscaldato fra i 22° ed i 15° C, per innescare e protrarre il processo di fermentazione (bisognerebbe partire con le temperature più alte nei primissimi giorni e mantenere quelle più basse nel resto del mese). Le verze cominciano così ad assorbire il sale e ad emettere la loro acqua, formando una salamoia naturale. Dopo il mese di bagno detto (bèva) , il contenitore va mantenuto in un ambiente fresco con temperature non superiori ai 10°C (tradizionalmente veniva riposto in cantina). Pur potendosi mangiare già dopo un mese, le conpòste sono più appetibili dopo 2-3 mesi, e comunque vanno consumate preferibilmente entro la stagione fredda.

Reperibilità: Essendo un prodotto preparato quasi esclusivamente per l’autoconsumo familiare, è di difficile reperibilità nel mercato e può essere acquistato solo presso alcuni rivenditori o durante alcune manifestazioni con prodotti tipici locali.

Usi: Le conpòste vengono utilizzate come contorno da accompagnare a piatti di carne bollita o arrosto.

Crauti delle Bregonze

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Vicenza area delle Bregonze: Comuni di Carrè e Caltrano.

La storia: L’uso dei crauti fu introdotto nel vicentino durante la dominazione asburgica. Osteggiati all’inizio, trovarono successivamente vari abbinamenti con alcuni salumi locali. In particolare, la produzione di Crauti ha per lungo tempo riguardato paesi e contrade la cui altitudine rendeva incerto l’approvvigionamento di verdure durante l’inverno. I Crauti costituivano scorte per la stagione fredda da consumarsi tal quale o come base per preparazioni estremamente saporite. In particolare i Crauti si affiancano a carni di maiale e ai lessi. Ci sono ancora delle famiglie che continuano la tradizionale produzione (ma utilizzando per la fermentazione dei vasi di vetro). I Crauti prodotti artigianalmente conservano più facilmente il sapore antico in quanto non viene interrotto il processo di fermentazione, come invece prevede l’industria, che effettua la pastorizzazione. Il Candiago, nel ‘62, cita i Crauti di Caltrano con il cotechino musetto come il piatto tradizionale che si offre all’ascensione.

Descrizione del prodotto: I crauti sono un trasformato a base di cavoli cappucci conservati e fermentati nella loro salamoia. Tale processo può essere favorito da un microrganismo, il Lactobaillus Plantarum, presente nel latticello e nel siero di latte vaccino, che viene aggiunto in piccole quantità (mezzo litro per 25 kg di cappucci). In mancanza del siero può bastare semplicemente il sale (150 g su 25 kg di cappucci, generalmente il sale viene impiegato al 2%). Se la salamoia naturale dei cappucci non dovesse essere sufficiente a ricoprirli costantemente, si dovranno preparare aggiunte di salamoia con 15 g di sale per litro d’acqua. Si possono aggiungere a piacere semi d’erbe aromatiche come il finocchio selvatico e grani di pepe. Una variante più delicata prevede l’impiego di poche mele a fettine da mischiare ai cappucci.

Processo di produzione: Dopo aver ben lavato i cappucci, si dividono a metà, si mondano dei torsoli e si tagliano a fettucce il più possibile sottili. Volendo si possono tagliare e mischiare anche i torsoli delle mele. La verdura si sistema poi in un apposito contenitore alternando gli strati con manciate di sale. Se é disponibile, si aggiunge il latticello. E’ molto importante riempire i contenitori per 3/4 o poco più, poichè nel processo di fermentazione viene prodotta anidride carbonica. I cappucci, assorbendo il sale, emettono la loro acqua, formando una salamoia naturale. Per una buona conservazione del prodotto, é fondamentale che i crauti rimangano sempre sommersi nella loro acqua (se scarseggia si aggiunge della salamoia fatta a parte) detta (bèva). Il recipiente dev’essere mantenuto per 3-4 settimane in un ambiente sempre riscaldato fra i 15° e i 22° C e successivamente, il contenitore va mantenuto in un ambiente fresco con temperature non superiori ai 10°C. Solitamente venivano riposti in cantina, sollevati dal piano di terra con pietre o altri materiali. I crauti sono commestibili già dopo un mese, tuttavia risultano più appetibili dopo 2-3 mesi e comunque vanno consumati preferibilmente entro l’arrivo del caldo.

Reperibilità: Essendo un prodotto preparato quasi esclusivamente per l’autoconsumo familiare, è di difficile reperibilità nel mercato e può essere acquistato solo presso alcuni rivenditori o durante alcune manifestazioni con prodotti tipici locali.

Usi: I Crauti vengono generalmente utilizzati come contorno da accompagnare a piatti di carne bollita o arrosto.

Culàti di Valdagno

Territorio interessato alla produzione: Valdagno (Vicenza)

La storia: La produzione di culàti risale indietro nel tempo di oltre un secolo, ma è una tradizione che sta scomparendo. L’economicità del procedimento ha avuto il suo peso in periodi passati di grande povertà ma oggigiorno è portata avanti solo da pochi anziani attaccati più alla tradizione che a una effettiva necessità. Questa produzione riguarda un’area in cui la cultura dell’utilizzo delle rape si esprime anche in altre ricette originali e prese vita per sfruttare i principi semplicissimi dell’essiccazione al fine di conservare le carnose radici delle rape bianche (altrimenti messe in cantina o nei sottoscala in cassoni con terra). Preparare le culàte secche era un modo in più per garantirsi scorte di verdure per la stagione difficile, creando un prodotto base per la cucina locale, come i culàti spaelà: le fette essicate vanno lasciate in ammollo per una notte e successivamente vengono passate in un soffritto e completano la loro cottura con del latte.

Descrizione del prodotto: I culati sono un trasformato a base di fette di rapa (var. Milano, a pasta bianca, piuttosto piccola e morbida: ravéte biànche) essiccate.

Processo di produzione: Dopo aver ben lavato le ravéte, si fanno a fettine dello spessore di mezzo cm o poco più, il più uniformi possibile, e si infilzano con un grosso ago da cucina e gavetta pulita, sistemandole a breve distanza l’una dall’altra. I festoni così ottenuti si mettono ad essiccare in un luogo ventilato e coperto come ad esempio un porticato. L’essiccazione condotta in modo tradizionale, senza apparecchiature, dà i migliori risultati con clima sufficientemente asciutto. All’inizio le verdure perdono umidità abbastanza rapidamente, con una sensibile diminuzione di volume e di peso, e con un graduale aumento della consistenza al tatto. Verso la fine del processo, queste trasformazioni rallentano gradualmente fino a fermarsi del tutto. Appena le culàte non subiscono più restringimenti, né mutazioni di aspetto l’essiccazione é completa. A seconda delle condizioni della temperatura, dell’umidità e dello spessore delle fette, possono essere necessari 15-20 giorni. A questo punto le fette si sfilano e vengono messe in vasi di vetro chiusi al riparo dalla luce, affinché non solo l’aspetto ma anche il sapore non si alteri.

Reperibilità: Prodotti quasi esclusivamente per l’autoconsumo familiare, i colati si trovano solo presso alcuni rivenditori o durante le manifestazioni gastronomiche di prodotti tipici.

Usi: I culati sono utilizzati cotti solitamente in padella e accompagnano i piatti a base di carne.

Carline sott’olio

Materia prima: carlina (acaulis).

Tecnologia di preparazione: i ricettacoli dei capolini delle carline vengono mondati
e fatti bollire in acqua e aceto per alcuni minuti, si fanno asciugare per alcune ore, si
aromatizzano con aglio, pepe, sale, foglie di alloro o chiodi di garofano e invasettati
si ricoprono di olio chiudendo ermeticamente.

Maturazione: circa due mesi.

Area di produzione: nelle zone montane del paese.

Calendario di produzione: fine estate-autunno.

Note: la carlina che, secondo leggende popolari, fu indicata da un angelo a Carlo
Magno (da cui il nome) come rimedio contro la peste, è una pianta erbacea tipica
dei pascoli montani e delle radure dei boschi di castagno e dei terreni di brughiera.

Peperoni sott’aceto

Materia prima: peperone, della varieta “piacentino” verde da orto.

Tecnologia di lavorazione: i peperoni, previa lavatura e pulitura, sono bolliti in
aceto per 2 o 3 minuti, insieme al sale e alle spezie, che ogni famiglia sceglie sulla
base del proprio gusto. Una volta bolliti e raffreddati vengono sistemati in
damigiane a bocca larga coperti di aceto e un filo d’olio. In superficie viene
sistemato un pezzo di marmo (non poroso), che tiene pressati i peperoni evitando
il contatto con l’aria.

Maturazione: 10-15 giorni.

Area di produzione: tutta la Padania, ma con altre varietà in tutta Italia.

Calendario di produzione: agosto-settembre.

Note: il consumo viene fatto durante il periodo invernale e accompagna i lessi misti
e i piatti grassi come cotechino, zampone, lingua di vitello, ecc. Nell’alto Sannio ottengono il caratteristico nome di “pipauri”.

Tartufo nero dei Berici

Territorio interessato alla produzione: Nella provincia di Vicenza le zone tartuficole sono ubicate in prevalenza nel settore orientale dei Monti Lessini e sui Colli Berici, a Nanto e nei limitrofi Comuni di Arcugnano, Longare, Castegnero, Mossano, Barbarano Vicentino, Villaga e Zovencedo.

La storia: Il tartufo ha una storia molto antica. I greci lo chiamavano Hydnon (da cui deriva il termine “idnologia” la scienza che si occupa dei tartufi), mentre in latino era il Tuber, dal verbo tumere (gonfiare). Plinio il Vecchio nel libro della ‘Hystoria Naturale’ parlava del tartufo che “sta fra quelle cose che nascono ma non si possono seminare”, mentre Plutarco affermava che il “Tubero” nasceva dall’azione combinata dell’acqua, del calore e dei fulmini. Nell’Europa del passato, il tartufo era anche chiamato “aglio del ricco” per il suo leggero sentore agliaceo. Anche nel veneto ci sono delle zone in cui questo tubero cresce spontaneo, e una di queste si trova sui Colli Berici e nella zona orientale dei Monti Lessini. Qui, da secoli, questo prodotto è ricercato e apprezzato e rientra in numerose ricette tradizionali. Un’antica ricetta dei principi Giovanelli di Lonigo (Vi) del 1890 propone il piatto “Tartufo alla Berica”, e la bibliografia sui tartufi vicentini è particolarmente fornita, basti qui ricordare “Itinerari Gastronomici Vicentini” di Eugenio Candiago (1962) in cui si parla di particolari e rinomati tartufi di Nanto e dei Colli Berici, e le due carte gastronomiche del Vicentino, edite nel ’64 e ’66 a cura dell’Ente provinciale per il turismo, che citano i tartufi de Nanto. Inoltre la presenza e particolarità si ha anche dalla tradizionale festa dell’Ulivo e del Tartufo dei Colli Berici che si tiene annualmente a Nanto, nella prima metà di Luglio.

Descrizione del prodotto: La specie di prevalente interesse è il tartufo nero estivo, o scorzone, cui si affianca il tartufo uncinato. Sono presenti ma in quantità poco significative anche altre varietà: il T. Melanosporum,il T. Macrosporum e il T. Mesentericum. Lo scorzone, Tuber Aestivum Vittadini, è un tartufo ad ampio spettro ecologico, molto adattabile sia per tipo di suolo tanto da trovarlo anche su terreni superficiali e sassosi. Il tubero estivo è di colore bruno nerastro, ha forma ovale o rotondeggiante, con grosse profonde verruche screpolate agli angoli e forate alla sommità. La polpa interna, chiamata gleba, è di colore grigio marrone, con venature bianche numerose e ramificate, che scompaiono con la cottura. Le sue dimensioni non vanno oltre quelle di una grossa mela ed ha profumo e sapore meno pronunciati delle altre varietà.

Processo di produzione: Gli abbozzi dei carpofori si formano a metà febbraio e già a fine aprile si notano sulla superficie del suolo delle screpolature che segnalano la possibile presenza di tartufi che in questa prima produzione di maggio-giugno sono poco profumati. Il grosso della fruttificazione si ha da agosto a settembre. In genere i corpi fruttiferi dello scorzone sono abbastanza superficiali e addirittura raso al suolo se prodotti in terreni molto compatti. Essi, sviluppandosi, sollevano la terra e formano caratteristiche fessure La ricerca dei tartufi si effettua con l’ausilio di un cane addestrato allo scopo e lo scavo con un apposito attrezzo chiamato vanghetto.

Reperibilità: La maggior parte del raccolto viene venduto ai ristoratori locali, presso i quali il prodotto può essere gustato. Altrimenti i tartufi dei Berici si possono trovare solo presso alcuni rivenditori nel mercato dei funghi sotto la Basilica palladiana a Vicenza (nei mesi estivi ed autunnali), e durante la festa del Tartufo di Nanto nella seconda domenica di luglio.

Usi: Oltre che utilizzato come ingrediente in numerose ricette, come la frittata o le tagliatelle ai tartufi, il prodotto si presta ad essere utilizzato per la preparazione dei cosiddetti prodotti tartufati: si va dal burro all’olio aromatizzati, dalla farina da polenta al riso al tartufo, fino a prodotti più complessi come formaggi, paste e salse pronte all’uso.

Funghi di Costozza

Territorio interessato alla produzione: Costozza di Longare.

La storia: La coltivazione dei funghi è una attività agricola relativamente giovane. I primi esempi di realizzazione di coltura in grotta si ebbero a Vicenza, nelle grotte di Costozza, nelle quali già naturalmente esistevano le condizioni climatiche di temperatura ed umidità per lo sviluppo dei funghi. Alla fine degli anni 50 le prime “Fungaie” o “case dei funghi”, fecero la loro apparizione e ci fu subito un salto di qualità con l’imposizione del cosiddetto “Sistema Americano”: prevede l’uso di ripiani fissi sovrapposti in cui viene sistemato il substrato per la coltivazione. Nel libro “Bere e magiare nel Vicentino”, Guida Gastronomica a cura di Pierluigi Lovo e Maurizio Onorato si legge: “Fu merito di Giulio Da Schio se dal 1912 queste colture sono diventate una realtà e se ancora oggi vantano rinomanza nel Vicentino, superando indenni la guerra e le innovazioni tecnologiche (le grotte durante la seconda guerra mondiale furono requisite per uso bellico). Negli anni ’50 la passione del Conte Alvise Da Schio fece tornare nelle antiche grotte quei funghi bianchi, saporiti e deliziosi.”

Descrizione del prodotto: I funghi coltivati nelle grotte di Costozza sono della varietà Piopparello, caratterizzato da cappello marrone chiaro o scuro, di diametro fino a 10 cm, convesso o piano. Il gambo è cilindrico, leggermente affusolato alla base, di color bianco brunastro. La carne è biancastra o bruna, molto soda con odore e gusto gradevole.

Processo di produzione: Le grotte costituiscono un ambiente naturale ideale per la coltivazione di funghi consentendo di evitare gli investimenti strutturali e di produrre anche quando le condizioni climatiche non sono buone, come d’inverno. L’ambiente delle grotte è suddiviso in reparti funzionali con cicli produttivi. Il compost specifico per il Pioppino, si ottiene macinando paglie di grano tenero e duro, paglia di erba medica da seme, stocchi di mais. L’insieme viene miscelato e abbeverato con acqua, e successivamente avviene la fermentazione. Il compost viene messo nelle stanze coperto da sacchi di plastica preforati e si insemina con le spore del fungo, intorno a fine agosto. L’incubazione dura circa un mese: si tratta di una fase vegetativa del fungo per la quale non avviene nessun condizionamento dell’ambiente. Comparsi i primi carpofori, si aprono le porte degli stanzoni immettendo l’aria necessaria e eliminando l’anidride carbonica. Il fungo, raggiunta la maturazione (in 8-10 giorni dai primi carpofori), viene raccolto a mano, riposto in cassette di legno ed avviato al mercato.

Reperibilità: I funghi di Costozza sono reperibili durante tutto l’anno nella maggior parte dei mercati ortofrutticoli al dettaglio del Veneto.

Usi: I funghi coltivati nelle grotte si prestano bene per svariati utilizzi culinari e presentano caratteristiche organolettiche migliori rispetto a quelli coltivati in serra.

Tartufo in salamoia

Materia prima: tartufo sia bianco che nero.

Tecnologia di preparazione: i tartufi vengono selezionati a mano, ripuliti
dalla terra con uno spuzzolino uno per uno, lavati, messi in barattoli. Si
aggiunge la salamoia e si sterilizza in autoclave. Si conservano in lungo
fresco e buio.

Maturazione:

Area di produzione: Piemonte, Toscana, Marche, Umbria, Abruzzo.

Calendario di produzione: autunno, inizio inverno.

Note: oltre al tartufo hianco (Tuber magnatum pico) e a quello nero (Tuber
melanosporum) anche il tartufo estivo scorzone (Tuber aestivum) è oggetto
di trasformazione. Di colore blu-nerastro con cuticola verrucosa, si
distingue dal più pregiato tartufo nero di Norcia per la carne più chiara
tendente al bianco nocciola marmorizzato. Il melanosporurm è invece nero.
Un altro (Tuber mesentericum) è molto diffuso nella zona di Ariano Irpino
oltrechè nel Lazio, in Toscana e nel sud delle Marche e dell’Umbria, dove
viene consumato insieme a formaggi freschi di capra in insalata.

Durona del Chiampo

Territorio interessato alla produzione: Comuni di Chiampo, Arzignano, Nogarole Vicentino, Altissimo, S.Pietro Mussolino (VI)

La storia: Nel territorio del Chiampo la coltivazione del ciliegio risale all’epoca medievale e la “durona” è una varietà di ciliegie presente da molto tempo nella cerasicoltura locale. La coltivazione del ciliegio era originariamente attuata soprattutto per il consumo locale ma nel tempo è andata specializzandosi una produzione di qualità, che ha visto espandersi sia la produzione che il mercato di sbocco per questo gustoso frutto. Da oltre quarant’anni a Chiampo, nel mese di giugno, si svolge la Mostra delle Ciliegie, una manifestazione rinomata che attrae l’attenzione di numerosissimi visitatori.

Descrizione del prodotto: Il frutto è di pezzatura grossa (100 frutti = 700gr), forma sfereoidale, buccia di colore rosso intenso, polpa grossa, soda, poco aderente al nocciolo, di ottimo sapore. Peduncolo di media lunghezza e sottile. I frutti hanno caratteristiche simili a quelle della Mora di Cazzano, leggermente più appuntiti. Si tratta di un varietà molto interessante per il consumo fresco, molto resistente alle manipolazioni ma sensibile alle spaccature dei frutti.

Processo di produzione: L’albero è molto vigoroso con portamento mediamente espanso, caratterizzato da una lenta messa a frutto e da una produttività media fortemente condizionata dalle condizioni climatiche durante la fioritura. Necessita di pochi trattamenti anticrittogamici e il prodotto si conserva a lungo. La raccolta si effettua manualmente, dopo la terza decade di giugno. Compiuta la raccolta, si effettua la cernita e quindi la vendita al consumo fresco. Le durone del Chiampo vengono spesso conservate sotto grappa. In questo caso, dopo un accurato lavaggio, i frutti vengono asciugati, si recide il picciolo e si mettono in vaso aggiungendovi la grappa. In tal modo si possono conservare da giugno, periodo di raccolta, fino a dicembre.

Reperibilità: La “durona del Chiampo” è un prodotto di reperibilità relativamente semplice, essendo disponibile presso tutti i mercati al dettaglio del vicentino e delle limitrofe province nei mesi di maggio e giugno.

Usi: La “durona”, oltre ad essere consumata fresca o sotto grappa, si presta bene ad essere lavorata per la produzione di marmellate e confetture.

Marrone di Valrovina

Territorio interessato alla produzione: Valrovina, San Michele, Privà, Sarson, frazioni del Comune di Bassano, in provincia di Vicenza

La storia: La selezione del castagno da frutto dalla specie selvatica si deve ai Romani, che lo diffusero sulle montagne di tutta la penisola. Questo frutto ha da sempre rappresentato un pilastro dell’economia montana, sia come fonte alimentare che per la produzione di ottimo legname. La castanicoltura ha tuttavia subito un certo declino a causa dello spopolamento delle montagne nel corso dell’ultimo secolo, ma nei luoghi dove i montanari hanno continuato a curare le piante, controllando il proliferare del sottobosco e potando i castagni, la produzione di questo frutto è continuata conservando inalterata le sue caratteristiche tradizionali. Nel vicentino, la zona della Valrovina attorno a Bassano del Grappa è a tutt’oggi una delle più famose per la castanicoltura e la produzione di marroni molto apprezzati e ricercati. Da oltre trent’anni si tiene, nel mese di ottobre, presso l’omonima località vicino a Bassano, la tradizionale festa dei Marroni.

Descrizione del prodotto: Il marrone della Valrovina è un frutto di forma ovoidale a buccia striata di colore bruno scuro. Sulla base del frutto c’e’ un’area chiara detta “ilo”. All’apice la castagna si restringe e i residui del perianzio e degli stili formano la cosiddetta “torcia”. Il frutto si trova protetto da un riccio ricoperto di aculei all’interno del quale si possono trovare 2 o 3 marroni. La parte commestibile del frutto è soda, farinosa, zuccherina, saporita, consistente, resistente alla cottura, croccante e molto dolce, di colore biancastro all’interno e giallastro all’esterno, avvolta da una sottile pellicola chiamata episperma. La pezzatura è grossa e di norma varia dai 48 ai 65 frutti per kg.

Processo di produzione: Il marrone di Valrovina è innestato su pianta selvatica e l’innesto si effettua quando la pianta, in avanzato germogliamento, è in succhio (scortecciamento). La pianta fiorisce in primavera e si feconda in luglio. La raccolta avviene in ottobre raccogliendo i marroni privi di riccio, caduti al suolo autonomamente o a seguito di una bacchiatura effettuata per mezzo di lunghe pertiche. Per facilitare la conservazione i marroni vengono messi in una vasca contenente acqua per otto o dieci giorni, vengono poi tolti e posti in locali ben arieggiati dove avviene l’asciugatura (in tre – cinque giorni). Successivamente vengono ammassati e conservati. Il prodotto può anche essere conservato in frigo subito dopo la raccolta, facendo attenzione che sia ben asciutto.

Reperibilità: Dalla fine di settembre e fino alla fine di ottobre, i marroni della Valrovina sono reperibili nella zona del Bassanese e in alcuni mercati del Vicentino, durante manifestazioni, sagre e presso i rivenditori ortofrutticoli al dettaglio

Usi: I marroni sono generalmente consumati arrostiti ma sono ottimi anche lessati e trovano largo impiego in pasticceria.

Noce dei grandi fiumi

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Treviso: Cessalto, Chiarano; provincia di Venezia: Musile di Piave, Eraclea, San Donà di Piave, Ceggia, Cona

La storia: In passato la produzione di noci in Italia era sostanzialmente limitata alla regione Campania. Le difficoltà di meccanizzazione e l’abbattimento di molti alberi, venduti per il legno, ha fatto crollare tale produzione, cosicchè l’Italia, un tempo tra le prime produttrici mondiali ed esportatrice di noci, ne è divenuta importatrice per oltre la metà del suo fabbisogno. La coltura di noce da frutto non ha grandi tradizioni nel Veneto in quanto è sempre stato diffuso il noce da frutto e legno di tipo domestico. Nella zona a cavallo tra le province di Treviso, Venezia e Rovigo la nocicoltura è rimasta infatti per anni a livello di silvicoltura, piuttosto che evolversi in frutticoltura specializzata, ma è da sempre presente nel territorio regionale dove si sono sviluppati ecotipi locali.

Descrizione del prodotto: È un albero molto vigoroso, che può raggiungere anche i 30 metri d’altezza. Ha foglie caduche, ogni foglia è composta paripennata da 5-7-9 foglioline con superficie liscia. Il frutto è una drupa costituita da un seme (gheriglio), stretto tra due gusci legnosi (endocarpo) avvolti dal mallo carnoso di color verde che, quando il frutto è maturo, annerisce e si stacca. Il frutto ha un aspetto globoso e di fronte si presenta rotondo, ad ovoide con base e sommità arrotondate; di profilo oblungo, molto corto, con base piana leggermente rientrante, punta pistillare poco sviluppata. La noce dei grandi fiumi deriva da varietà a fioritura laterale, con epoche di germogliamento tardive che riescono ad evitare attacchi di batteriosi. Sono innestate su portainnesti vigorosi (Juglans Regia) o ibridi interspecifici; hanno vigore vegetativo medio-basso con piante a portamento semi-eretto, caratterizzate da rapida messa a frutto. Le noci maturano in autunno; già in settembre, tuttavia, il loro guscio legnoso ha raggiunto una definitiva solidità. Dopo la raccolta le noci dovranno essere esposte al sole per un periodo di 10-12 giorni per l’essiccamento. Il seme viene consumato tanto allo stato fresco quanto allo stato secco, ha un ottimo sapore e gusto leggermente amarognolo

Processo di produzione: Il noce predilige terreni profondi, freschi e ben drenati, teme i ristagni d’acqua. Resiste bene al freddo pur prediligendo climi miti e non troppo umidi. La zona ideale è la collina con altitudini non superiori ai 600-800 metri, è molto diffusa anche la coltivazione in pianura. Normalmente il noce comune viene propagato per seme, mentre per altre selezioni si pratica l’innesto. La forma di allevamento è sicuramente quella naturale, visto il grande sviluppo della pianta. Per quando riguarda le potature, è importante tener presente che i tagli cicatrizzano male e spesso possono causare infezioni di vario tipo. Sono perciò da evitare grossi tagli, limitandosi allo sfoltimento dei piccoli rametti. La concimazione va fatta possibilmente ogni uno o due anni, con letame ben maturo o altri concimi d’origine organica, integrandoli con concimi chimici complessi.

Reperibilità: Durante l’autunno il frutto è facilmente reperibile presso tutti i mercati al dettaglio del Veneto.

Usi: Come tutta la frutta secca, la noce ha un alto valore energetico essendo ricca di calorie e di sali minerali. Le noci hanno svariati utilizzi alimentari, olre che direttamente nella preparazione di sughi, secondi piatti e soprattutto in pasticceria. Le noci si possono inoltre utilizzare prima ancora che raggiungano la piena maturazione; in giugno o in luglio, per ottenere confetture, o un liquore chiamato il nocino. D’interesse non secondario, è l’estrazione dell’olio, utilizzato nella preparazione di emollienti cosmetici.

Marinelle sotto spirito

Territorio interessato alla produzione: Provincia di Vicenza

La storia: Le marinelle sotto spirito sono un prodotto tipico della provincia di Vicenza, preparato solitamente dalle famiglie per l’autoconsumo. La conservazione della frutta in alcool si rifà ad una tradizione antica, che mirava all’ottenimento di prodotti che potessero essere utilizzati anche a distanza di mesi dal periodo di produzione.

Descrizione del prodotto: Le marinelle sotto spirito sono degli ibridi di cilegia che vengono invasettate con zucchero e alcool puro al 95%. Le marinelle sono dette anche Amarene, e appartengono alla varietà caproniana e sono i frutti di un alberello ad andamento arbustivo che può trovarsi spontaneo, ma generalmente si propaga per innesto e che rimane abbastanza piccolo rispetto ad altri alberi di ciliegie (2-3 metri). La produzione è abbastanza tardiva ed il prodotto è maturo verso la metà di giugno. Le marinelle hanno un gambo corto, sono abbastanza piccole e di colore rosso vivo, non molto scuro e molli. A maturazione non risultano mai molto dolci, ma hanno un sapore acidulo, asprigno (sono più aspre della ciliegia perché maturano più tardi). Al consumo risultano particolarmente tenere, succose ed acquose. Processo di produzione Le marinelle mature vengono raccolte e, tolto il picciolo, vengono invasettate con zucchero e alcool puro. La quantità di frutti dev’essere pari a quella di zucchero, mentre l’alcool si aggiunge fino a riempire il contenitore. Vanno conservate al riparo da fonti di luce e calore e possono venire consumate dopo alcuni mesi, ma l’alcool ha un effetto di conservazione che ne consente il consumo anche a 2-3 anni dalla data di produzione.

Reperibilità: Prodotte soprattutto per l’autoconsumo familiare, le marinelle sottospirito si possono comunque trovare durante le manifestazioni di prodotto alimentari tradizionali o presso alcuni negozi nella zona berica.

Usi: Tolte dall’alcool le marinelle sono utilizzate sia per il consumo immediato che per la preparazione di dolci e dessert.

Mostarda vicentina

Territorio interessato alla produzione: Comuni della provincia di Vicenza

La storia: La mostrarda è una confettura di frutta candita e speziata. È un alimento nato dalla necessità di conservare la frutta fuori stagione, attraverso la canditura e l’uso di senape, spezie o mosto che sono conservanti con proprietà antibatteriche. Il nome deriva dal latino “mustum ardens” che significa mosto piccante e cioè il mosto ottenuto dalla pigiatura dell’uva e reso piccante dall’aggiunta di farina di senape e utilizzato per la conservazione di preparati a base di frutta. Nel vicentino, la tradizione culinaria legata alla mostarda è antica e la particolarità di questo prodotto è legata all’uso di mele cotogne, frutto tipico del Veneto, importato dalla Repubblica di Venezia dal Medio Oriente. La ricetta Vicentina sembra essere stata elaborata per la prima volta dalla famiglia Breganze, in un ricettario familiare del 1879. Dal 1920 esiste, a Montecchio Maggiore, un’azienda artigianale che produce mostarda. Notizie su questo prodotto si possono trovare sia sul volume “Itinerari Gastronomici Vicentini” di Eugenio Candiago – Edizioni T.E.V., 1962 che nel più recente “La cucina vicentina” di Giovanni Capnist, Muzio Editore, 2002.

Descrizione del prodotto: La mostarda vicentina si presenta come una confettura opaca, di color giallo paglierino e la pasta è abbastanza densa, con la presenza interna di pezzi di frutta, in percentuale non molto elevata. Il sapore e l’odore sono molto forti, piccanti e acri ma è, parallelamente, dolce e gradevole. Per la produzione si utilizzano mele cotogne, senape bianca, zucchero e frutta candita. Viene commercializzata in vasetti di vetro di varie pezzature.

Processo di produzione: La polpa di mela cotogna viene fatta cuocere, sottovuoto in recipiente di acciaio per alimenti a doppio fondo a 60°C per circa 45 minuti, con un 40% di zucchero. Successivamente si lascia raffreddare e si mescola minutamente; infatti le mele cotogne contengono pectine addensanti e gelificanti. Quindi si aggiunge la senape in giusta quantità (essa varia a seconda del fatto che si utilizzi la senape pura o quella supportata per esempio da alcool buongusto) e la frutta candita, di qualsiasi genere, in piccola quantità. Si confeziona in contenitori per alimenti di tutte le dimensioni non necessariamente sottovuoto; la mostarda è di per sé un conservante e non ha bisogno di protezioni
antimicrobiche.

Reperibilità: Prodotta in autunno e da consumarsi entro 6-8 mesi, la mostarda è reperibile facilmente presso i rivenditori alimentari della provincia di Vicenza.

Usi: Tradizionalmente viene mangiata a Natale per accompagnare il mascarpone (dato i due sapori contrastanti) oppure sulla carne per insaporirla e per conservarla meglio.

Conserva di rose

Materia prima: petali di rosa canina.

Tecnologia di lavorazione: le rose vengono sfogliate e ad ogni petalo si recide la “unghia”, ossia quella parte del petalo attaccata alla corolla, perché di sapore amarognolo. I petali così tagliati si mettono in una terrina aggiungedovi una pari quantità di zucchero e del limone spremuto. Strofinarli bene con le mani per favorire la rottura delle fibre e la fuor uscita degli umori. Si lascia macerare il tutto per qualche tempo, si incorpora dello sciroppo di zucchero preparato a parte lasciando bollire fino al raggiungimento della giusta consistenza. Si mette nei barattoli e si chiudono ermeticamente conservandoli al buio.

Maturazione:

Area di produzione: tradizionale in Piemonte, Veneto e Toscana.

Calendario di produzione: maggio e giugno.

Note: La conserva di rose, tradizionale in Piemonte, viene fatta anche nel convento dell’isola di S.Lazzaro, ad opera dei fratelli armeni, ma solo per uso interno. Le conserve di rosa che si trovano in commercio sono quasi tutte importate dai paesi dell’Est europeo, soprattutto dalla Bulgaria.

Savor

Materia prima: mosto d’uva, mele cotogne, pere, fichi e zucca.

Tecnologia di lavorazione: al mosto si aggiungono le mele cotogne, i fichi, la zucca, le pere, talvolta anche le scorze d’arancio, senza aggiungere zucchero. Si lascia bollire fino a completa evaporazione dell’acqua, si conserva per anni nei vasi di vetro riposti al riparo dalla luce in luogo fresco.

Maturazione:

Area di produzione: Emilia Romagna, Veneto, Friuli e altre parti d’Italia con diverse varietà di frutta e di gusti. A Bologna e in altre aree emiliane ne esiste una versione semplificata senza scorze d’arancio, senza fichi e persino senza zucca.

Calendario di produzione: tutto l’autunno, periodo della vendemmia.

Note: il “savor” é la base dei tortelli di castagne e delle crostate familiari del modenese. Un tempo la conserva veniva fatta essiccare, al pari della cotognata, e conservata in scatole di latta. Si racconta che per neutralizzare i sali di rame provenienti dal recipiente di cottura – di solito il paiuolo di rame – le massaie ci mettessero una noce. Al gesto gli antropologi attribuiscono un valore apotropaico. Tradizionalmente il savor veniva utilizzato per accompagnare ogni tipo di bollito compresi cotechino e zamponi. Nelle altre regioni d’Italia era (ed é) ingrediente fondamentale di alcune preparazioni dolciarie.

Fugassa veneta

FUGASSA PADOVANA (Padova e provincia);
FUGASSA VENETA (prodotto in gran parte della regione Veneto ed in particolare nelle province di Padova e Venezia).

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Dolce tipico di cucina casalinga, prodotto in tutta le province del Veneto da tempo immemorabile, codificato nella raccolta di ricette di cucina tipica di Giovanni Bianco Menegotti (1967), raffigurata anche nei disegni dei mosaici di Erode nella Basilica di San Marco.

Descrizione del prodotto:

Fugassa padovana: prodotto con farina, lievito, latte, uova, zucchero, burro, buccia di limone e sale.

Focaccia: farina, burro, zucchero, uova, ricoperto di marzapane, mandorle e granella di zucchero.

Sono entrambe di forma rotonda con un diametro variabile di circa 25-30 cm e un colorito giallo-dorato.

Processo di produzione: Prodotto artigianalmente nell’impasto e nella lavorazione: gli ingredienti vengono amalgamati, lasciati a riposo e cotti in forno. Per una buona riuscita della focaccia è necessario ripetere l’impasto più volte prima della lievitazione finale. La conservazione del prodotto imballato può durare anche per 9 – 12 mesi.

Reperibilità: Il prodotto si può trovare presso alcune pasticcerie o nei menù di alcuni ristoranti.

Usi: Inizialmente dolce poverissimo della cucina popolare, oggi è diventato tipico della festività di Capodanno, arricchita con le mandorle e lo zucchero. Ottimo se accompagnato con vino dolce.

Torta Ortigara

TORTA FIGASSA: Padova e provincia.
TORTA PAZIENTINA: Padova e provincia.
TORTA SGRIESOLONA (rosegota): Padova e provincia.
TORTA CIOSOTA: solo nel Comune di Chioggia–Venezia.
TORTA NICOLOTTA: solo in alcuni panifici di Venezia.
TORTA ORTIGARA: Asiago–Vicenza.
TORTA FREGOLOTTA: Fanzolo di Vedelago.
TORTA ZONCLADA: Treviso.

La storia: Sono dolci di tradizione contadina, elaborati con ingredienti poveri, e si presume risalgano al periodo successivo alla prima guerra mondiale.

Descrizione del prodotto:

Torta figassa: dolce da forno di forma rotonda, prodotto con farina gialla di mais, rossi di uovo, fichi secchi macerati in grappa, burro, zucchero, farina 00, sale.

Pazientina: torta a strati (pasta bresciana, pan di spagna imbevuto di liquore, crema di zabajone) sormontata da larghi e sottili nastri di cioccolata.

Torta sgriesolona: dolce da forno di forma rotonda, alto circa 1 cm, particolarmente duro e nel contempo friabile, prodotto con farina gries, mandorle sgusciate e tritate, burro, rosso di uovo, zucchero, ricoperto con un foglio di pasta di mandorle scottata alla fiamma.

Ciosota: specialità con radicchio di Chioggia e carote. Prodotto dolciario da forno, semi secco e non farcito, di impasto unico fatto su stampo di carta, di colore prevalentemente marroncino. Prodotto soggetto a calo di peso naturale. Ingredienti: radicchio, zucchero, farina 00, uova, margarina vegetale, nocciole, carote, pan di spagna, mandorle, lievito, sale, aromi naturali. Il prodotto è ricco di umidità e necessita la commercializzazione entro 40 gg dalla produzione. Si consiglia la conservazione in frigo

Torta Nicolotta: dolce popolare veneziano, tipico delle panetterie, prodotto con mollica di pane, latte, farina di fiore, uvetta, finocchi, olio, sale. Testimonianze di questo dolce sono presenti nella pubblicazione “Il Veneto in Cucina” di Ranieri Da Mosto.

Torta Ortigara: è un dolce secco, preparato in tre pezzature da 500g, 750g e 1kg. La forma è circolare con un’altezza di tre centimetri circa.; il colore interno è giallo zabaione, mentre all’esterno si presenta con una morbida crosticina di colore nocciola chiaro. Nei primi 30-40 giorni dalla preparazione la sua consistenza è morbida e fragrante; col passare del tempo tende ad asciugarsi e quindi ad essere adatta per essere inzuppata nel vino amabile o passito. Prima di essere consumato questo dolce va cosparso di zucchero a velo.

Fregolotta: si tratta di un dolce semplice, di pastafrolla, a base di farina, latte, uova, burro, aromi di bacche esotiche, privo di conservanti.

Zonclada: torta a base di frutta secca e candita, alta circa 4 cm., con crostata superiore, prodotta con latte, farina, mandorle, semolino, fichi secchi, albicocche candite, uova, burro, zucchero, uva passita, aranci canditi, pinoli, gherigli di noci, sale, limone, cannella.

Processo di produzione: Le varie produzioni, differenti per ingredienti sono tuttavia simili nel processo di produzione. Amalgamati i vari prodotti a mano o con l’aiuto di normali strumenti di pasticceria, l’impasto viene inserito in apposite forme e infornato. Ci sono, ovviamente, differenze nei tempi e nelle temperature di cottura a seconda delle varie torte.

Reperibilità: Si trovano in commercio presso pasticcerie e forni nelle varie zone di produzione.

Usi: Ottime se accompagnate con Recioto della Valpolicella.

Forti Bassanesi

BISCOTTI BUSSOLAI: Venezia – Burano e altri comuni della provincia di Venezia e Treviso;
SAGAGIARDI: comune di Chioggia;
BISCOTTI PAZIENTINI: Padova e provincia;
FORTI BASSANESI: area di Bassano.

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Sono dolci antichi della Costa Veneziana e dell’entroterra Veneto conosciuti da circa un secolo.

Descrizione del prodotto:

Bussolai di Burano: di forma circolare con il buco in mezzo, prodotti con farina 00, burro, zucchero, sale, lievito, vaniglia o limone, Mistrà (un bicchierino), uova.

Sagagiardi: di colore marroncino pallido, prodotto con farino di tipo 0, uova, zucchero, aromi naturali.

Biscotti pazientini: preparati con mandorle, nocciole, burro, senza uso di uova.

Forti bassanesi: di colore marrone scuro lungo circa 7-8 cm e largo 2 cm realizzati con melassa, farina, zucchero, mandorle, burro, uova, briciole di pan di spagna, spezie (pepe, chiodi di garofano, noce moscata), lievito, aromi.

Processo di produzione: Gli ingredienti, nell’impasto, vengono mescolati con gradualità per ottenere un composto morbido e ben miscelato, cotti in forno e, una volta raffreddati, possono essere confezionati e hanno una self-life fino a 12 mesi.

Reperibilità: Si trovano nei normali laboratori di pasticceria artigianale.

Usi: Sono ottimi con vini dolci.

Frittelle con l’erba amara

Territorio interessato alla produzione: I comuni di Arzignano, Chiampo, Valdagno, Schio in provincia di Vicenza.

La storia: La ricetta delle Frìtole co la Maresìna, nelle sue numerose varianti, inaugura una felice tradizione gastronomica nelle zone di crescita spontanea dell’Erba Amara. A Valdagno, in particolare, le “ fritolare” che detenevano i segreti della ricetta, forse in parte personalizzata, ma immutata nella sostanza, si può dire abbiano fatto storia per circa 150 anni. Iniziò la Lora Pierina, seguita dalla Bija Balzi e dalla Nina Nea, cui subentrò l’indimenticabile Bice (ricordata ancor oggi come la più nota e migliore fritolàra della zona), e infine i coniugi Balzi: tutti personaggi che vivono tra realtà, ricordo e poesia dialettale (”frìtole bone, dai mille sapori- bocòn da poarèti e anca da siòri- canta M.Cazzola a proposito delle Frìtole co la Maresìna). Ma al di là delle personalità riconosciute, i ricettari delle famiglie che da generazioni coltivano la passione della cucina tradizionale fra Arzignano, Valdagno e Schio hanno perpetuato queste ricette dalla seconda metà dell’Ottocento ad oggi.

Descrizione del prodotto: Frittelle “povere” ottenute con un impasto a base di pane raffermo ammollato nel latte, con piccole quantità di farina, uova, zucchero, sale e lievito. Si aggiunge scorza di limone grattugiato oppure grappa a piacere. Le varianti più ricche dei giorni di festa a Valdagno e ad Arzignano prevedono del riso, bollito finchè si sfrange, in luogo del pane. L’Erba Amara o Matricale, detta anche Atanasia o Tanaceto (Chrysanthemum vulgare, var. Parthenium), tritata al momento, conferisce a queste frittelle un bel colore verde marmorizzato ed un inconfondibile sapore amaro, aromatico ma gentile (l’erba é detta non a caso “Maresina”). Ricordiamo che, nello stesso ambito territoriale, di riflesso alle celebri frittelle, la Maresìna é ingrediente pure di torte e frittate.

Processo di produzione: Si scioglie in mezzo bicchiere di latte una rosetta di pane, e se non si riesce ad avere un buon risultato con il solo liquido e le mani, la si passa poi eventualmente al setaccio o al passaverdure con fori piccoli. Quindi si aggiungono 3 cucchiai e mezzo di farina, 3 di zucchero, un uovo (il guscio va velocemente lavato prima di essere rotto), un’abbondante presa di sale e mezza bustina di lievito, nonché, a piacere, la grattugia di un limone o poca grappa. Quando tutto é ben amalgamato, si aggiunge una scodella di Maresina ben lavata, asciugata e tritata, che conferirà all’impasto un bel colore verde marmorizzato. Si lascia riposare la pastella per almeno due ore. Una variante Valdagnese dell’impasto vede sostituito il più povero pane raffermo con 1 kg di riso di buona qualità e ridotto a una crema. Raffreddatosi a sufficienza, si incorpora un cucchiaio colmo di farina ed un uovo intero, e si mischia ben bene. Quindi si aggiungono 100 gr di zucchero, un cucchiaio d’olio e se occorre qualche cucchiaio di latte per rendere fluido l’impasto, la grattugia di un limone a piacere. Ed infine abbondante Erba Maresina (3 ciotole) ben lavata, asciugata e tritata (alcuni preferiscono lasciare la pastella senza l’erba, e distribuirne poi un abbondante pizzico sopra ogni frittella. Questa pastella va lasciata riposare per almeno un’ora in luogo tiepido, senza correnti d’aria, in una terrina coperta con un canovaccio. La variante che si fa solitamente ad Arzignano prevede più o meno lo stesso impasto, reso più sodo con un paio di cucchiai di farina bianca in più. Queste frittelle presentano una forma allargata e piatta, più che tonda: in particolare quelle Valdagnesi di riso dovrebbero assumere un diametro di 7-8 cm, mentre ad Arzignano si fanno larghe anche 10-12 cm, friggendole in pochissimo olio o strutto e facendole girare di continuo, con piccoli colpi di forchetta. Si devono servire subito, ancora calde, a piacere cosparse di zucchero a velo, o semolato, che viene meno assorbito dalle frittelle calde.

Reperibilità: Si possono trovare presso alcune pasticcerie della zona o in alcuni ristoranti.

Usi: Questo prodotto ben si accompagna a liquori dolci di confezione casalinga, come il centerbe, e a vini cotti (con cannella, chiodi di garofano e foglie di lauro, oppure con giovani foglie di pesco o di vite). Nelle occasioni, si potrà azzardare con queste frittelle, dolci-amare, un buon Recioto frizzante.

Galani e crostoli

Territorio interessato alla produzione: L’intera provincia di Venezia ma è diffuso anche in tutto il territorio regionale.

La storia: La ricetta viene riportata come ricetta tipica nel libro “Il Veneto in cucina” di Ranieri Da Mosto anno 1978.

Descrizione del prodotto: Tipico dolce del carnevale saporito e leggero, fragilissimo e vaporoso, con forme bizzarre. Ingredienti: farina, zucchero a velo, burro, zucchero, grappa, uova, latte, sale, vino bianco, olio di semi, buccia d’arancio e di limone.

Processo di produzione: Prendere la farina, impastarla con qualche uovo, un po’ di latte, un po’ di zucchero in polvere, burro, un cucchiaio di grappa, vino bianco ed un pizzico di sale (condimento necessario). La pasta va fatta molto soda lavorata su una tavola di legno o su una lastra di marmo. La si fa riposare un po’ senza farla seccare, poi la si stende con un mattarello fino a ridurla allo spessore di una moneta, con un coltello o una rotellina si taglia la pasta a strisce di 4-5 cm di larghezza e 20 cm di lunghezza, infine nel mezzo di ciascun “galano” si fanno altre incisioni che favoriscono la crescita della sfoglia durante la frittura. I galani vanno cotti in padella con molto olio; quando non sono più caldi, li si spolvera di zucchero a velo e si mettono nei vassoi a catasta, cioè a strati disposti per diritto e traverso, facendo attenzione a non romperli, perché i “galani” sono fragilissimi.

Reperibilità: Nei mesi di gennaio e febbraio il prodotto è reperibile presso pasticcerie, forni e negozi alimentari.

Usi: Tipico dolce del carnevale veneto.

Olio Veneto – Euganei e Berici DOP

Area di produzione: La denominazione di origine protetta comprende tre zone: “Veneto Valpolicella”, “Veneto Euganei e Berici”, “Veneto del Grappa”
Euganei e Berici:
nelle province di Padova e Vicenza, l’intero territorio amministrativo dei seguenti comuni: Arzignano, Montorsi Vicentino, Zermeghedo, Montebello Vicentino, Gambellara, Lonigo, Castelgomberto, Sovizzo, Montecchio Maggiore, Brendola, Sarego, Alonte, Creazzo, Altavilla Vicentina, Zovencedo, Grancona, Villaga, S. Germano dei Berici, Orgiano, Sossano, Campiglia dei Berici, Vicenza, Arcugnano, Longare, Castegnero, Nanto, Mossano, Barbarano Vicentino, Rovolon, Vò Euganeo, Lozzo Atestino, Teolo, Cinto Euganeo, Baone, Este, Torreglia, Galzignago Terme, Arquà Petrarca, Monselice, Abano Terme, Montegrotto Terme, Battaglia Terme.

Materia prima:
Euganei e Berici: riservata all’olio extravergine di oliva ottenuto dalle seguenti varietà di olivo presenti, da sole o congiuntamente, negli oliveti: Leccino e Rasara per almeno il 50%; Frantoio, Maurino, Pendolino, Marzemino, Riondella, Trep o Drop, Matosso in misura non superiore al 50%.

Caratteristiche:
Acidità massima: 0,6%
colore: verde-oro da intenso a marcato
odore: fruttato di varia intensità
sapore: fruttato con leggera sensazione di amaro

Abbinamenti: grigliate di pesce, verdure bollite, legumi

Note: La coltivazione dell’olivo è stata introdotta in Veneto dai coloni romani, ma le prime testimonianze storiche risalgono al IX secolo. L’olivicoltura nella regione ha alternato periodi di forte sviluppo a momenti di crisi dovute a motivi economici e climatici, ma ha vissuto una marcata ripresa dopo la prima guerra mondiale, anche grazie al sostegno economico degli enti locali. La qualità dell’olio del Veneto e le sue proprietà organolettiche sono riportate in opere letterarie del secolo scorso, mentre la tipicità del prodotto è ribadita già dal 1500.

Riferimenti normativi: Prodotto DOP, Registrazione europea con regolamento CE 2036/01 del 17.10.01

Olio Veneto – del Grappa DOP

Area di produzione: La denominazione di origine protetta comprende tre zone: “Veneto Valpolicella”, “Veneto Euganei e Berici”, “Veneto del Grappa”
Olio Veneto del Grappa:
nelle province di Vicenza e Treviso, l’intero territorio amministrativo dei seguenti comuni: Zugliano, Sarcedo, Thiene, Fara Vicentino, Breganze, Molvena, Pianezze S. Lorenzo, Mason Vicentino, Marostica, S. Nazario, Solagna, Pove del Grappa, Bassano del Grappa, Romano d’Ezzelino, Mussolente, Borso del Grappa, Crespano del Grappa, S. Zenone degli Ezzelini, Fonte, Possagno, Cavaso del Tomba, Castelcucco, Monfumo, Asolo, Maser, Pederobba, Cornuda, Valdobbiadene, Vittorio Veneto, Conegliano, Sussegana.

Materia prima:
Olio Veneto del Grappa: riservata all’olio extravergine di oliva ottenuto dalle seguenti varietà di olivo presenti, da sole o congiuntamente, negli oliveti: Frantoio e Leccino per almeno il 50%; Grignano, Pendolino, Maurino, Leccio del Corno, Padanina in misura non superiore al 50%.

Caratteristiche:
Acidità massima: 0,5%
colore: verde-oro con modeste variazioni del giallo
odore: fruttato di varia intensità
sapore: fruttato con sensazione di amaro per gli oli freschi

Abbinamenti: grigliate di pesce, verdure bollite, legumi

Note: La coltivazione dell’olivo è stata introdotta in Veneto dai coloni romani, ma le prime testimonianze storiche risalgono al IX secolo. L’olivicoltura nella regione ha alternato periodi di forte sviluppo a momenti di crisi dovute a motivi economici e climatici, ma ha vissuto una marcata ripresa dopo la prima guerra mondiale, anche grazie al sostegno economico degli enti locali. La qualità dell’olio del Veneto e le sue proprietà organolettiche sono riportate in opere letterarie del secolo scorso, mentre la tipicità del prodotto è ribadita già dal 1500.

Riferimenti normativi: Prodotto DOP, Registrazione europea con regolamento CE 2036/01 del 17.10.01

Liquore all’uovo

Territorio interessato alla produzione: Veneto

La storia: Il prodotto crema marsala figurava già negli anni ‘30 tra i liquori commercializzati. La validità della sua composizione si conferma immutata negli anni, grazie all’impiego di materie prime semplici e naturali.

Descrizione del prodotto: Il liquore all’uovo viene preparato usando torlo d’uovo fresco sbattuto, zucchero, aromi naturali e marsala fine DOC. Si presenta con uno spiccato aroma di crema, un gusto dolce e delicato; ha una gradazione alcolica moderata (16° VOL) e assume un colorito giallognolo.

Processo di produzione: I tuorli delle uova fresche spaccate a mano vengono sbattuti in alcol buongusto puro e zucchero. La crema così ottenuta viene refrigerata e filtrata; si ottiene un liquido limpido a 75° circa, a cui viene aggiunto il marsala, gli aromi naturali e altro zucchero per ottenere il prodotto finito. Il grado finale del prodotto viene controllato ed eventualmente corretto con piccole aggiunte di marsala o di alcol buongusto. Il prodotto viene stagionato in apposite cisterne per un periodo medio di 9 mesi o comunque mai inferiore ai tre. Solitamente viene filtrato 2-3 mesi dopo la preparazione, preferibilmente nei mesi freddi dell’anno. Dopo il periodo di stagionatura, il prodotto viene imbottigliato.

Reperibilità: Ampiamente diffuso in tutto il Veneto, il prodotto si trova facilmente presso qualsiasi rivendita al dettaglio.

Usi: Data la gradazione alcolica contenuta di questo liquore e la carica energetica dovuta all’uovo, si adatta bene ad essere consumato come rigenerante e riscaldante dopo la pratica di sport invernali.

Vicenza DOC

Zona di produzione: gran parte della provincia di Vicenza, inclusa una parte del territorio dello stesso capoluogo

Vitigni: Doc Vicenza monovarietali: da uve provenienti dai corrispondenti vitigni per almeno l’85%, possono concorrere fino a un massimo del 15% le uve di altri vitigni di colore analogo non aromatici raccomandati o autorizzati per la provincia di Vicenza. Bianco: da uve Garganega per almeno il 50% e da altri vitigni a bacca bianca non aromatici (congiuntamente o disgiuntamente) fino a un massimo del 50%. Rosso: uve Merlot per almeno il 50% e da altri vitigni a bacca rossa non aromatici (congiuntamente o disgiuntamente) fino a un massimo del 50%

Gradazione alcolica minima: Bianco e Rosato 10,5 gradi. Rosso 11 gradi.

Tipologie: Bianco, Rosso, Rosato, Chardonnay, Garganego, Manzoni bianco, Moscato, Pinot bianco, Pinot grigio, Riesling, Sauvignon, Cabernet, Cabernet Sauvignon, Merlot, Pinot nero, Raboso

Caratteristiche organolettiche: Vicenza Doc Bianco: colore giallo paglierino anche carico; odore vinoso e delicatamente intenso, sapore asciutto o rotondo e fresco. Rosso: colore rosso rubino piu’ o meno intenso, odore vinoso e sapore asciutto. Rosato: colore rosato piu’ o meno intenso, odore leggero e gradevole, sapore da secco ad amabile e fruttato.

Abbinamenti: Vicenza Doc Bianco: riso con anguilla, asparagi e cozze. Rosso: formaggio ubriaco, Asiago e Piave, pasta e fagioli o polenta e osei. Rosato: soppressa vicentina, Monte Veronese, Piave e polenta,

Riferimenti normativi: La Doc Vicenza è stata riconosciuta con DM del 18.09.2000, pubblicato sulla GU 225 del 26.09.2000

Arcole DOC

Zona di produzione: diversi comuni in provincia di Verona, fra cui Arcole, e in provincia di Vicenza: Lonigo, Sarego, Monte, Orgiano e Sossano.

Vitigni: Bianco: uve Garganega per almeno il 50% e Pinot Bianco e/o Pinot Grigio e/o Chardonnay fino a un massimo del 50%; i monovitigni bianchi Garganega, Pinot Bianco, Pinot Grigio, Chardonnay si ottengono dalle omonime uve per almeno l’85%; il Rosso e il Novello si ottengono da uve Merlot per almeno il 50% e da Cabernet Franc e/o Cabernet Sauvignon e/o Carmenère fino a un massimo del 50%; i monovitigni rossi derivano da uve Cabernet (Franc e/o Sauvignon e/o Carmenère), Cabernet Sauvignon, Merlot

Gradazione alcolica minima: bianco 10,5 gradi, rosso 11 gradi, merlot 11,5 gradi

Caratteristiche organolettiche: Arcole Bianco Doc: colore giallo paglierino, a volte tendente al verdognolo; odore vinoso, con caratteristico profumo intenso e delicato; sapore asciutto, di medio corpo, armonico e leggermente amarognolo. Arcole Rosso: colore rosso rubino, odore vinoso, intenso e delicato; sapore asciutto, di medio corpo e armonico. Arcole Merlot Doc: colore rosso rubino se giovane, tendente al granato se invecchiato; odore vinoso, piuttosto intenso, gradevole, caratteristico; sapore asciutto, leggermente amarognolo.

Qualificazioni: nessuna

Tipologie: Bianco, Rosso, Chardonnay, Garganega, Pinot bianco, Pinot grigio, Cabernet, Cabernet Sauvignon e Merlot

Abbinamenti: Arcole Doc Bianco: con formaggi come il Piave fresco, prosciutto veneto, insalata con gamberi, risotto al nero di seppia e baccalà alla vicentina. Arcole Doc Rosso e Merlot: prosciutto veneto, soppressa, Asiago, Piave, risotto con le quaglie, piccione allo spiedo

Riferimenti normativi: La Doc Arcole è stata riconosciuta con DM del 04.09.2000, pubblicato sulla GU 214 del 04.09.2000

Gambellara DOC

Zona di produzione: i territori dei comuni di Gambellara, Montebello Vicentino, Montorso e Zermeghedo, in provincia di Vicenza.

Vitigni: Garganega con eventuali aggiunte di Trebbiano di Soave (Trebbiano nostrano) e/o Trebbiano toscano fino ad un massimo del 20%.

Resa massima per ha: 140 qli.

Resa massima di uva in vino: 70%.

Gradazione alcolica minima: 10,5%.

Acidita’ totale minima: 5 per mille.

Estratto secco netto minimo: 15 per mille.

Invecchiamento: nessuno.

Caratteristiche organolettiche: colore giallo, da paglierino a dorato chiaro; profumo leggermente vinoso, con aroma accentuato caratteristico; sapore asciutto o talvolta abboccato, delicatamente amarognolo, di medio corpo e giusta acidita’, armonico e vellutato.

Qualificazioni: con una gradazione alcolica minima
dell’11,5% può portare la qualifica “Superiore”.

Abbinamenti :pesce azzurro e di lago arrosto, alla griglia ed in carpione, zuppe di pesce, frittate e torte di verdura.

Tipologie: Recioto di Gambellara, Vin Santo di Gambellara

Monti Lessini DOC

Zona di produzione: diversi comuni alle pendici dei Monti Lessini, in provincia di Verona e Vicenza

Vitigni: da uve del vitigno Durello per almeno l’85%. Possono concorrere, da sole o congiuntamente, le uve delle varietà Garganega, Trebbiano di Soave, Pinot bianco, Pinot nero e Chardonnay fino a un massimo del 15%

Gradazione alcolica minima: Monti Lessini Doc 10 gradi. Monti Lessini Doc Spumante 11 gradi

Caratteristiche organolettiche: Monti Lessini Doc: colore giallo paglierino più o meno carico, odore vinoso, profumo delicato e caratteristico. Il sapore è asciutto, acidulo, di corpo, talvolta leggermente tannico. Monti Lessini Doc Spumante: spuma fine e persistente, colore giallo paglierino tenue con riflessi verdognoli, odore vinoso, profumo delicato e caratteristico, lievemente fruttato. Il sapore è acidulo, fresco, caratteristico.

Tipologie: bianco e spumante

Abbinamenti: cocktail di scampi, gamberi fritti, verdure fritte. La versione Spumante va servita con dolci da cucchiaio e torte paradiso.

Riferimenti normativi: Riferimenti normativi La Doc Monti Lessini è stata riconosciuta con DPR del 25.06.1987, pubblicato sulla GU n. 6 del 09.01.1988

Mieli dell’altopiano di Asiago

Nome del prodotto, compresi sinonimi e termini dialettali: MIELI DELL’ALTOPIANO DI ASIAGO (miele di tarassaco, miele dei fori di fieno-millefiori di Asiago), miele di alta montagna.

Territorio interessato alla produzione: Altopiano di Asiago (VI)

La storia: L’apicoltura è un’attività ancora molto diffusa ed il Veneto è una tra le regioni italiane maggiori produttrici di miele. Nell’altopiano di Asiago, dove sono presenti numerosissime specie floreali, questa attività è presente da secoli nel sistema economico locale. Uno dei primi documenti ufficiali è un riconoscimento rilasciato all’Apicoltura Guoli Giacomo in seguito alla partecipazione ad una mostra di prodotti locali svoltasi ad Asiago, recante la data 14 agosto 1927.

Descrizione del prodotto: Sull’altopiano di Asiago si producono principalmente tre tipi di mieli, differenti per caratteristiche organolettiche perchè derivanti da nettari di diverse varietà di fiori. Il miele di tarassaco è la prima dominante fioritura che si presta alla raccolta di nettare da parte delle api. Ha profumo intenso e colore giallo-oro come il fiore da cui proviene e cristallizza facilmente. Ha un particolare gusto dolce-amarognolo. Successivamente si produce il miele di Millefiori, ricavato dagli innumerevoli fiorellini di specie diverse presenti nel fieno; è un miele delicato, dal gusto rotondo e dal colore ambrato. E’ molto pregiato perché caratterizzato da un particolare sapore dipendente dal tipo di fioritura dell’Altopiano e anche perché la produzione in Asiago risulta limitata. Il miele di Alta Montagna, contenendo anche una percentuale di melata di abete, è più scuro, più intenso di sapore ed è l’ultima produzione stagionale sull’altopiano. Anche questo è un miele molto pregiato.

Processo di produzione: Gli alveari vengono portati, secondo l’apicoltura cosiddetta nomade, in zone abbastanza periferiche (di modo che non vi possano essere contaminazioni, l’ape è molto sensibile all’inquinamento) per il Tarassaco intorno al 10 maggio e per il Millefiori durante i primi di giugno. Terminato il periodo di fioritura per il Tarassaco e con il taglio del fieno per il Millefiori, si procede alla smielatura. Essendo un prodotto naturale, non servono molti passaggi per arrivare al prodotto finito. Tagliati gli opercoli che chiudono i favi, con una particolare lama adeguatamente riscaldata tramite immersione in acqua calda, questi vengono introdotti nello smielatore, che è una centrifuga in acciaio che rotando consente al prodotto di uscire per colamento. Il miele viene quindi filtrato (anche più volte) per togliere i residui di cera con un filtro a rete. Poi, all’interno di contenitori di acciaio, si lascia decantare e, trascorsi 4-5 giorni, viene tolta la schiuma che si forma in superficie. Quindi viene invasettato manualmente in vasetti di vetro trasparente.

Reperibilità: Il miele dell’altopiano di Asiago è facilmente reperibile durante tutto l’anno, presso i produttori e i rivenditori in tutto il territorio dei Sette Comuni.

Usi: Ottimo come dolcificante viene ampiamente utilizzato per la produzione di dolci. Molto apprezzato per il suo gusto e l’aroma piacevole, il miele è un alimento facilmente digeribile.

Miele del Grappa

Territorio interessato alla produzione: La zona di produzione interessa il territorio della Comunità Montana del Grappa e nei comuni appartenenti alle tre province confinanti. In particolare per la provincia di VICENZA i comuni di Cismon, Mussolente, Pove, S.Nazario, Romano e Solagna; per quella di TREVISO i comuni di Asolo, Borso, Castelcucco, Cavaso, Possano, Segusino, S.Zenone, Valdobbiadene e Vidor; per BELLUNO i comuni di Alano, Arsie, Quero, Seren e Vas.

La storia: Nella zona del Grappa, ricca di specie floreali, la produzione di miele ha avuto un notevole sviluppo e, soprattutto nell’ultimo secolo ha assunto dimensioni notevoli e produzioni di qualità elevate, apprezzate per le particolari caratteristiche organolettiche che il prodotto riesce a manifestare. Storicamente, questo è un territorio ideale per l’apicoltura, soprattutto perché è possibile valorizzare il cosìddetto Nomadismo Interno, intendendo con ciò la possibilità di spostare gli alveari da 200 metri sul livello del mare , fino ai 1780 m. del Monte Grappa. Tutto questo favorisce maggiore forza e sviluppo delle colonie d’api ed una qualità e quantità indiscussa di produzione. L’associazione Apicoltori del Grappa, istituita più di 20 anni fa, è costituita da soci apicoltori che discendono da generazioni di produttori di miele.

Descrizione del prodotto: Il miele è un prodotto naturale che proviene dalla trasformazione del nettare dei fiori o della melata, raccolto e elaborato dalle api, e immagazzinato dagli insetti nei favi dell’alveare protetti con un sottile velo di cera. I mieli del Grappa provengono da una grande varietà di specie botaniche che presentano una fioritura scalare tipica della zona che va da un’altitudine di 100 m fino ai 1700 m dell’alta montagna. Grazie alla possibilità di trasferire gli alveari ad altitudini diverse, i mieli che ne risultano presentano delle caratteristiche di tipicità specie nel colore, nell’aroma e nel gusto. Tipiche produzioni della zona sono: il miele “Acacia”, il miele “Castagno”, il miele “Multiflora di Collina” (prodotto da nettare di fioriture di altitudine media dai 200 ai 800 m), il miele “Alta Montagna” (prodotto da nettare di fioriture di altitudine superiore ai 1000 m).

Processo di produzione: Il miele viene prodotto naturalmente dalle api e necessita di pochi trattamenti da parte dell’uomo. Il miele del Grappa deve provenire da api il cui allevamento avviene esclusivamente all’interno del territorio, per mantenere la tipicità della produzione e nello stesso tempo facilitare il piano dei controlli. Dopo la raccolta dei favi dagli alveari, si procede alla disopercolatura degli stessi, viene cioè tolto lo strato di cera che le api mettono a protezione dei favi e alla centrifuga per mezzo di un apposito macchinario che, facendoli roteare, favorisce la fuoriuscita del prodotto. Terminata questa operazione il miele viene filtrato, per togliere eventuali impurità, e quindi posto in confezioni di vetro ed etichettato con sigilli “Miele del Grappa”.

Reperibilità: Prodotto da circa 160 produttori in tutto il territorio del Grappa, è facilmente reperibile durante tutto l’anno in tutta la zona, presso produttori e rivenditori e durante le numerose manifestazioni specializzate nei prodotti di nicchia e biologici.

Usi: Apprezzato per la facilità di assimilazione e per il gusto molto gradevole, il miele contiene sostanze molto utili all’organismo, come zuccheri, vitamine e sali minerali. Viene ampiamente usato sia in cucina che nell’industria dolciaria.