I cappelletti sono un particolare tipo di pasta ripiena diffuso tra l’Emilia Romagna e le Marche. Generalmente vengono associati alla tradizione culinaria ferrarese, alla quale appartengono anche prodotti come la salama da sugo e il pampapato.
Parimenti, però, sono diffusi nelle province di Bologna, Modena, Reggio Emilia, Parma, Ravenna e Forlì e nelle Marche centro-settentrionali. Il caplit (questo il nome ferrarese) si distingue dal tortellino per la maggiore dimensione e spessore della sfoglia.
Rispetto a Ferrara, poi, non vanno confusi con i cappellacci, che sono più grandi e vengono riempiti generalmente con la zucca. Questi ultimi, dal 2016, si fregiano del titolo di Indicazione Geografica Protetta.
Per quanto concerne il complesso della cucina emiliana, una prima e riscontrabile evidenza dei cappelletti è del 1556, a opera di Messisbugo. Questi, cuoco personale di Alfonso I d’Este, codifica alcuni dei punti cardine della ricetta. Si parte dal batù, o battuto, con carni di pollo, maiale, vitello e manzo. Si aggiungono guanciale, cotechino, parmigiano, uova e noce moscata.
Il risultato di questo battuto è poi racchiuso all’interno di una sfoglia, quest’ultima senza specifiche differenze rispetto alla ricetta canonica. La ricetta riportata in Vademecum della gastronomia tipica ferrarese I edizione- dicembre 1970 è quella scritta nel 1500 da Messer Cristoforo Messisburgo, grande maestro di cucina e di tavola del Duca d’Este.
In Romagna, per contro, le fonti sono più recenti ma sottolineano la grande varietà di ricette diffuse sul territorio. Per Giovanni Manzoni da Lugo se contano ben sette, per l’Artusi la più importante è a base di cappone e ricotta. Nel riminese, addirittura, storicamente si preferiva il solo formaggio, mentre a Imola si usava la carne.
In Umbria è diffusa una variante di cappelletti che si differenzia da quella emiliano-romagnola per alcuni fattori. Tra questi l’uso di un ripieno fatto con carni miste di maiale, pollo, vitello e tacchino. Il tutto viene fatto cuocere sotto forma di brodo, e lavorato poi per ottenere il “contenuto” per la sfoglia.
Mentre la variante ferrarese prevede due passaggi per la cottura della carne e del brodo, qui l’una è funzionale all’altra.
La preparazione del ripieno dei cappellacci richiede generalmente l’uso di carne tritata. Come evidenziato di seguito, le fonti storiografiche e gastronomiche sono discorsi rispetto alla sussistenza di una singola ricetta.
Volendo dare un’evidenza singola e ripetibile, possiamo accettare come buona la variante con l’impiego di maiale, petto di pollo e vitello, rigorosamente tritati. Questi vengono lavorati a guisa di ragù, aggiungendo cipolle, sedano e carote. Il tutto viene poi arricchito con sale, pepe, uova e noce moscata.
Si ottiene così il ripieno, da riporre tra due strati di sfoglia fresca.
I cappelletti sono spesso associati alle celebrazioni natalizie e sono un piatto che unisce le famiglie intorno a una tavola festiva. La preparazione è un’attività collettiva, dove nonni, genitori e bambini si riuniscono per condividere segreti e tecniche, passando così la tradizione di generazione in generazione.
Scriveva nel 1811 il prefetto di Forlì: “L’avidità di tale minestra è così generale, che da tutti, e massime dai preti, si fanno delle scommesse di chi ne mangia una maggior quantità, e si arriva da alcuni fino al numero di 400 o 500”.
Il nome “cappelletti” deriva dalla loro forma che ricorda un cappello. La ricetta originale prevede un ripieno di carne mista, ma esistono varianti vegetariane e di pesce. Inoltre, il brodo in cui vengono cotti è spesso preparato con lo stesso tipo di carne utilizzata per il ripieno, creando un sapore armonico e completo.
I cappelletti in brodo sono un piatto che racchiude l’anima della cucina italiana. Per un abbinamento perfetto, si consiglia un vino bianco come il Pignoletto dell’Emilia-Romagna o un Lambrusco per chi preferisce il rosso. Se desiderate un secondo piatto, un arrosto di maiale o vitello sarebbe l’ideale.
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