La città che muore, a due passi da Roma il borgo dove andare il prossimo weekend d’autunno

Marianna Di Pilla  | 16 Set 2025

Appena la curva si apre, sembra sospesa. Il ponte che la raggiunge disegna una linea sottile tra la Valle dei Calanchi e il cielo, mentre il borgo, posato su uno sperone di tufo, appare come una visione di pietra color miele. Siamo nella Tuscia viterbese, a nord del Lazio, in un paesaggio che alterna argille scoscese, vigne e ulivi, a pochi chilometri dal confine umbro e dal blu del lago di Bolsena.

Una città che “muore”, ma insegna a vivere

Il soprannome “la città che muore” affonda nel Novecento e nella penna dello scrittore Bonaventura Tecchi, che qui trascorse la giovinezza. L’espressione non è un vezzo letterario: Bagnoregio poggia su un banco tufaceo fragile, appoggiato a sua volta su strati di argilla d’origine marina. L’azione combinata di piogge, ruscelli e vento — insieme agli interventi dell’uomo nel passato, come il disboscamento — ha scolpito il paesaggio dei calanchi, con frane ed erosioni che da secoli rosicchiano il perimetro del colle in continuo equilibrio dinamico.

Il ponte, la soglia: come si entra (e perché si paga)

L’accesso a Civita è soltanto pedonale, attraverso il ponte in cemento armato inaugurato nel 1965, oggi simbolo e arteria vitale del borgo. Da lontano sembra leggero, ma l’ultimo tratto sale deciso: un invito a rallentare il passo prima di passare sotto la Porta Santa Maria. Per preservare un luogo così vulnerabile e finanziare manutenzione e servizi, l’ingresso è a pagamento: il ticket ordinario è di 5 euro, acquistabile online o in loco (riduzioni e gratuità per diverse categorie). Una misura introdotta più di un decennio fa e spesso citata come esempio di gestione dei flussi in destinazioni delicate.

Se arrivate con i mezzi pubblici, gli snodi utili sono Viterbo e Orvieto (ferrovia), collegati a Bagnoregio/Civita da autobus Cotral: sul sito ufficiale trovate istruzioni aggiornate e link per i biglietti.

Dentro Civita: un manuale di pietra

Varcata la Porta Santa Maria (o della Cava), lo sguardo incrocia subito due leoni in pietra che stringono teste umane: un bassorilievo che rievoca la rivolta dei cittadini contro i Monaldeschi di Orvieto, signori invisi al borgo nel Quattrocento. È un dettaglio eloquente del carattere di Civita, piccolo ma fiero. La piazza è un invito alla sosta. La Chiesa di San Donato, romanica all’esterno e sorprendente all’interno, custodisce un Crocifisso ligneo del Quattrocento che la tradizione vuole miracoloso. A Civita le storie non mancano, ma qui le leggende camminano fianco a fianco con opere d’arte e memorie di processioni secolari. A pochi passi, al secondo piano di Palazzo Alemanni, il Museo Geologico e delle Frane spiega con chiarezza la “vita breve” delle rupi e il lavoro di monitoraggio che rallenta, per quanto possibile, l’erosione. Modelli, rilievi e fotografie raccontano la Valle dei Calanchi come un “paesaggio vivente” in continua trasformazione. È la visita che cambia la prospettiva: dopo, ogni crepa diventa un paragrafo della stessa storia. Più silenziosa, sul bordo del colle, la Grotta di San Bonaventura: in origine una tomba etrusca, è legata alla leggenda della miracolosa guarigione del piccolo Giovanni di Fidanza da parte di san Francesco. Della casa di san Bonaventura, divenuta in parte oratorio e poi rovinata dai crolli, resta una scala sospesa e la suggestione di un affaccio che invita alla contemplazione.

La Tuscia nel piatto, cosa mangiare a Bagnoregio e dintorni

Pane, olio, erbe di campo, legumi, carni saporite e il pesce di lago: la cucina della Tuscia è un incrocio felice tra mondo contadino, pastorizia e bonifiche vulcaniche che hanno reso fertile la terra. La regina povera è l’acquacotta viterbese, zuppa contadina di cicoria, patate, pomodoro, mentuccia e pane raffermo (talvolta con l’uovo in camicia o baccalà): semplice, profumata, capace di raccontare un territorio con pochissimi ingredienti. Sulla tavola delle feste, i maccheroni di Canepina, detti fieno, sottili tagliolini all’uovo tirati a mano e tagliati al coltello, oggi bene segnalato nell’Arca del Gusto di Slow Food: si condiscono volentieri “alla viterbese”, con ragù, o in bianco con pecorino e pepe. I legumi sono protagonisti identitari: i Fagioli del Purgatorio di Gradoli, piccoli e cremosi, perfetti lessi con olio e salvia, e la Lenticchia di Onano IGP, dalla buccia sottilissima, ideale per zuppe e insalate. Due prodotti che, dalla conca bolsense, trovano a Bagnoregio la loro stagionalità più sincera. Olio e nocciole sono due firme di questo paesaggio. Nel viterbese l’olio extravergine di oliva vanta due denominazioni dal profilo diverso — DOP Tuscia e DOP Canino — che certificano cultivar, raccolta e parametri di qualità: ideali per assaggiare in purezza, su pane bruscato o a crudo sulle zuppe. Il bicchiere giusto? La Tuscia si muove tra bianchi fragranti e rossi schietti. Qui vicino, a Montefiascone, il DOC Est! Est!! Est!!! — nome che è già leggenda — accompagna antipasti e zuppe con sapidità vulcanica; sulle colline di Gradoli l’Aleatico DOC regala un rosso aromatico e suadente, perfetto anche da meditazione o con dolci secchi. Sono etichette che parlano la lingua del territorio e meritano la visita in cantina.

Marianna Di Pilla
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