Il finger food perfetto si trova ad Ascoli Piceno, la città marchigiana che rappresenta una delle migliori espressioni dell’urbanistica in Italia. Questo luogo è realizzato in travertino, una pietra color avorio che dona alle strade e alle sontuose piazze una luce incredibile. Chiunque visiti Ascoli non può fare di meglio che passeggiare incantato, gustando un cartoccio di olive all’ascolana: scopriamo insieme i segreti delle regine dello street food e perché sono così buone.
Siamo al massimo della certificazione per questo prodotto tipico e la ragione è abbastanza evidente: questa creazione è talmente geniale che si è pensato di proteggerla con un marchio che la distinguesse in maniera inequivocabile. La DOP è sia per le olive che per la ricetta delle olive all’ascolana.
I latini conoscevano già le “Ulivae Picenae” che provenivano dall’odierna Ascoli e zone limitrofe. La tecnica di lavorazione che trasformava il prodotto di base in uno commestibile, senza le sostanze amare naturalmente presenti, era in mano ai Monaci Benedettini Olivetani del Piceno, che si adoperarono per primi nella concia.
Queste olive da tavola avevano dei pregi evidenti e le prime notizie sulla farcitura risalgono al 1600, vista la loro grandezza: venivano denocciolate e riempite di erba.
Per la ricetta di oggi, una delle più famose delle Marche, dobbiamo aspettare il XIX secolo, quando la farcitura a base di carne venne elaborata nelle cucine nobiliari. Il piatto nasce per la necessità da parte dei cuochi delle famiglie più nobili di consumare nuovi piatti prelibati con la carne che avanzava.
Se vogliamo realizzare le olive ascolane in casa, bisognerà fare attenzione a trovare una dimensione che sia simile alla Tenera Ascolana, in modo da ottenere il miglior risultato.
Servono inoltre carni fresche con almeno il 40% di manzo, poi maiale e per finire un massimo di 10% pollo: questo indica proprio che la ricetta viene da un ambiente dove si disponeva di materie prime preziose.
Dobbiamo fare anche una considerazione sul pomodoro: ad oggi nessuno vi proporrà delle olive con un ripieno “rosso’’, ma probabilmente queste carni venivano cotte con il pomodoro e poi venivano usate per il ripieno. Se volete fare un bel sugo con queste carni siete assolutamente autorizzati: scoprirete un ripieno rosato, dal gusto davvero imperdibile.
Una volta stufate le carni con una base di soffritto, olio EVO e sfumatura di vino bianco, gli ingredienti vanno passati al tritacarne: la tradizione vorrebbe il vecchio utensile delle nonne, in modo che si ottenga una pasta dalla consistenza giusta per la farcitura. L’impasto vede la trita condita con 2 – 3 uova, 150 gr di parmigiano grattugiato, noce moscata, scorza di limone. Per le proporzioni va considerato che per 1 kg di carne si fanno circa 130 – 140 olive.
Le olive vanno denocciolate rigorosamente a mano, procedendo con un movimento che stacchi l’oliva dal nocciolo, ottenendo una forma elicoidale: grazie a questa operazione sarà possibile farcire le olive ricreando la forma originale. La panatura va fatta passando le olive nella farina, nell’uovo sbattuto e poi nel pangrattato. La frittura richiede poco tempo: appena si dorano sono pronte.
In generale si sconsiglia un abbinamento con le bollicine: è vero che l’oliva è fritta e questo trae un po’ in inganno, ma l’acidità di uno spumantizzato non va molto d’accordo con l’amarognolo dell’oliva. È meglio orientarsi su un bianco fermo e l’abbinamento ideale è con un vino Piceno, il Falerio.
La DOC Falerio: “Falerio” e “Falerio Pecorino” sono le due tipologie di questa DOC. Con gli aromi floreali e un buon tenore di acidità, risultano freschi e armonici, con una buona persistenza. Ideali per le olive da gustare appena fritte, in tutta la loro croccantezza.
Manuela Titta, cuoca per passione, gastronomo di professione e sommelier per vocazione
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