Pane d’orzo

PaesidelGusto  | 10 Gen 2019  | Tempo di lettura: 3 minuti

Area di produzione: Sardegna, specie in provincia di Nuoro e Sassari.

Composizione:
Materia prima: farina di orzo finissima, acqua, lievito, sale.

Tecnologia di lavorazione: può essere definita a più stadi. L’orzo contiene poco glutine rendendo difficoltosa la panificazione, in quanto la minore capacità di sviluppare l’anidride carbonica durante la lievitazione rende l’impasto poco elastico. Per ovviare a questo inconveniente si preparano i ghimisones, grossi pani ottenuti impastando la farina d’orzo più fine con acqua tiepida. Le forme di 4 chili l’una vengono cotte al forno fino a completa doratura della superficie: sfornati, i ghimisones vengono sistemati ancora caldi nelle corbule, quindi coperti di farina e avvolti in panni di lana, cotone o canapa e fatti maturare per 5/6 giorni. Ciascuno dei ghimisones viene aperto praticando un taglio trasversale sulla crosta, ottenendo due emisferi contenenti un composto morbido e cremoso di colore nocciola grigiastro. Poi i ghimisones sono rinchiusi e lasciati fermentare ancora per 1-2 giorni. Il composto così ottenuto costituisce il pre lievito che viene sciolto in acqua tiepida e poi rimpastato nella madia di legno, con una parte della farina destinata alla panificazione, per favorire la successiva lievitazione. L’impasto viene messo dentro contenitori di sughero cilindrici detti molunes, aggiungendo il vero lievito sciolto in acqua e impastato con farina d’orzo. Viene fatto riposare per ore finché l’impasto inizia a spaccarsi in superficie. Si lavora ancora l’impasto con le mani e i pugni aggiungendo acqua tiepida e si rimette nei molunes per altre 3-5 ore. Dopo averla ancora lavorata viene divisa in porzioni tonde di circa un chilo. Ogni porzione viene posta su una pala di legno e schiacciata con le mani, usando molta farina, fino ad ottenere una sfoglia sottile delle dimensioni della pala. Con abili tocchi si trasferisce la pasta sulla pala infornatrice, si rifinisce la forma della sfoglia e si regolarizza lo spessore dei bordi. Si inforna la sfoglia e quando comincia a gonfiarsi viene pressata e rigirata con una paletta ovale di ferro con manico lungo, per favorire la distribuzione del vapore caldo che separa la sfoglia in due strati. Estratta ancora gonfia dal forno viene rapidamente pressata su una tavola bassa e aperta facendo scorrere il coltello lungo i margini, si asporta la mollica rimasta, e le due parti vengono rimesse nel forno per completare la cottura.

Note: l’orzo, Hordeum sativum, era comunissimo nell’antico Egitto, in Grecia ed a Roma, dove peraltro venivano con esso alimentati i soldati meno valorosi, ritenuti indegni del farro e del frumento. In Sardegna la confezione di S’oriattu è stata descritta da Grazia Deledda, premio Nobel della letteratura 1926, in un articolo della Rivista delle tradizioni popolari italiane (1894). Per farlo occorrono non meno di 4 donne. Ma non tutto il ghimisone finisce in pane. “Adoperata la mollica, che resta di un colore plumbeo, dolcissima, come primo lievito, la crosta del ghimisone il più delle volte viene fatta a pezzi e posta a bollire. Poi la condiscono come i maccheroni e riesce un piatto quasi squisito nella sua rozzezza. Mangiata così semplicemente, senza esser bollita, la crosta del ghimisone, dicono ridendo le ragazze nuoresi, fa sviluppare e crescere il seno delle donne”.
Il pane d’orzo rappresentava il pane dei contadini più poveri. Periodo di preparazione: nel periodo metà maggio – metà luglio, quando le scorte di grano duro sono esaurite e ancora non si è raccolto quello nuovo, si era soliti preparare il pane di farina d’orzo poiché il raccolto dell’orzo precedeva quello del grano di circa due mesi. Nelle famiglie più povere l’utilizzo si estendeva ben oltre questo periodo perché non ci si poteva permettere la farina di grano duro. Secondo il racconto delle persone anziane di Gerrei, questa produzione era diffusa in tutto il territorio (altre testimonianze lo situano anche a Burchi) fin dal 1800 ed è rimasta in uso sino agli anni ’50. A partire dagli anni ’60, in concomitanza col diffondersi di un relativo benessere, la produzione di pane d’orzo è scomparsa anche perché troppo legata ai ricordi dei periodi di miseria.

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