Sfoglia dell’Emilia-Romagna, Spója, Spòia

PaesidelGusto  | 10 Gen 2019  | Tempo di lettura: 7 minuti

Area di produzione
tutto il territorio della Regione Emilia-Romagna

 

Descrizione
Per “sfoglia” si intende il risultato finale della lavorazione di un impasto di farina di grano tipo 00 e di uova fresche.
La proporzione è di circa un etto di farina per ogni uovo.
L’impasto avviene attraverso la rottura delle uova nello spazio creato in modo circolare al centro della farina.
La lavorazione avviene rigorosamente a mano finché si ottiene un impasto elastico e senza grumi.
La “sfoglia” viene stesa con un matterello di legno su di un tagliere, parimenti di legno.

 

Cenni storici e curiosità

La preparazione della pasta onde si fanno le tagliatelle – la “sfoglia”, in dialetto spòia – richiede un complesso d’attenzioni e di cure che sono il segreto, o la prerogativa, dei cuochi e delle massaie d’Emilia e di Romagna. E’ composta di farina di puro grano, ben setacciata, e d’uova freschissime, convenientemente manipolata e lavorata a braccia e tirata col matterello: essa è soda, fragrante, saporosa. (Provincia di Bologna n.d.r.)
La preparazione della pasta fatta in casa è anche in Romagna un’operazione veramente rituale per le cuoche e le massaie: pura farina di grano ed uova, lavorate a braccia, e tirate a matterello, danno la sfoglia sottile, tenera ed insieme consistente che è l’elemento essenziale delle più gustose minestre in brodo ed asciutte della regione, di fritti e di dolci svariatissimi. (Provincia di Forlì-Cesena n.d.r.)
Touring Club Italiano, Guida Gastronomica D’Italia, Milano 1931;

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Come in tutta l’Emilia, in Romagna le minestre rappresentano le più importanti specialità gastronomiche.
La sfoglia fatta in casa, la spoja, con farina di grano ed uova fresche, lavorata sul tagliere e spianata a suon di matterello e “sugo di gomiti”, ne è la insostituibile materia prima e rappresenta il caposaldo della nostra cucina tradizionale.
Famosa e celebrata, essa è una della massime illustrazioni della Gastronomia italiana, specie nella versione di tagliatelle, non mai abbastanza lodate: larghe o strette siano, ma lunghe, assolutamente lunghe. Quelle corte e spezzate sono il naufragio della massaia incapace. Sentenzia l’Artusi: “Conti corti e tagliatelle lunghe”.
Tagliatelle dunque, e pappardelle, stricchetti, quadrettini, malfattini, maltagliati, che sono le più semplici fogge in cui le nostre donne laboriosamente trasformano la bella sfoglia ampia, gialla, tondeggiante, compatta, “tirata” con fatica di braccia ed ondeggiar di fianchi, distesa a prosciugare un poco sul tagliere con ampio lembo pendente di fuori.
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Fare la sfoglia non è, come il profano potrebbe pensare, affare da poco. Vi sono donne che da decine d’anni la fanno, ma non come si deve.
Anzitutto l’impasto (e’ spassèl) deve risultare omogeneo, sodo, alquanto elastico, il che richiede lungo e vigoroso rimenare; indi la spianatura, cioè l’assottigliamento a forza di matterello (e’ stciadùr), che esige mano robusta e sperimentata, occhio vigile, senso della misura: poiché la sfoglia deve essere tirata più o meno sottile a seconda del tipo di minestra che con essa si vuol preparare.
A volte succede che nel laborioso spianare, tirando qua e là e rigirando la sfoglia, scappino alla massaia buchi o strappi. Ciò rappresenta una non lieve umiliazione per lei, che brontolando tra i denti cerca di cancellare il misfatto saldandovi sopra un pezzetto di sfoglia e spianando affannata e rapida fino a far scomparire le tracce de rappezzo.
Nessuna macchina potrà mai eguagliare il lavoro della sfoglia fatta in casa; è un’arte questa e non può uscire che dalle mani. Conosciamo bene molti tipi di tagliatelle all’uovo, di fabbrica. Sono buone, sono sode, tengono la cottura, ma quella lievissima, importantissima granulosità della superficie non c’è ed hanno sempre alcunché di liscio e di scivoloso che il buongustaio tollera ma non apprezza.
Eugenio Cavazzuti, poeta nostrano, così descrive, in scarna sintesi, come debbono essere fatte le tagliatelle:
“Sôl d’öv e ’d fiôr ‘d faréna,
Sol di uova e di fior di farina,
amörti duri.
impastate sode;
La spója ch’ la sèpia grossa; e lêrghi un did:
la sfoglia sia spessa e larghe [le tagliatelle] un dito,
pròpi a la cuntadéna”.
proprio alla (maniera) contadina.

C. Contoli, Guida alla veritiera cucina romagnola, Officine Grafiche Calderini, 1972

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Sfoglia e pasta
Il pianeta dell’”amnëstra” romagnola ruota su se stesso e gira attorno al sole della sfoglia, gialla di torli d’uovo, pergamenosa per miniarci sopra le fogge d’una plurisecolare fantasia, ruvida perché vi si fissino i colori (e i sapori) dei condimenti.
Fior di farina e torli, cuori del frumento e delle uova colpiti dalla freccia a matterello di un cupido in gonnella, fan l’amore sul tagliere… e quando gli ardori son sopiti ed è finito il tempo dell’attesa, la levatrice “azdora”, assiste al lieto evento.
Saranno quadrotti farciti a cappelletti o “orecchioni”, grandi rettangoli per lasagne al forno e piccoli per “stricchetti” e “garganelli”, quadrucci, losanghe per maltagliati, minutaglia per manfettini, strisce per pappardelle e tagliatelle, striscioline per tagliolini, spezzoni per lunghetti?
Attribuire alle amnëstre, in brodo o asciutte che siano, una simbologia che risponda a cose di Romagna, significa esercitarsi in immagini d’ambiente.
I cappelletti gonfi e rotondi sono i colli che bodano la via Emilia e la via Emilia stessa è una tagliatella srotolata dall’Adriatico al Santerno; gli “orecchioni” sono terre opime del piano; le lasagne sono cataste ordinate dilegna e schiappe di legno sono i “sbrofaberba”, gli “stricchetti” sono una coppia di ballerini del “liscio”, i “garganelli” maccheroni tirati sul pettine in onore della trachea dei polli, i “curzul” vincastri da fascine, i quadrucci coriandoli di carnevale, i passatelli che galleggiano sul brodo il mare pescoso, un risotto all’onda è la valle; la polenta multiforme e tuttofare è colle, terra, mare. (Renzo Amadei)
G. Pozzetto, La cucina romagnola, Padova, F. Muzzio Editore, 1997

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Si trovano tra di noi delle massaie inarrivabili nel fare la sfoglia (la spoia).
Una ragazza che non sappia tirare la sfoglia e cucirsi la camicia, da sposa non sarà mai una buona massaia, dicevano i nostri vecchi, e non avevano poi tutti i torti.
In Romagna si preferisce in generale la minestra all’uovo manipolata sulla spianatoia a quella delle fabbriche, perché più buona e più nutriente.
A. Sassi, “Alla tavola dei romagnoli”, Riviera Romagnola, n. 9, 28 febbraio 1925;

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Spója, sf. Sfoglia. Il notissimo foglio di farina di grano, intrisa con acqua (meglio se calda), o uova sole, di forma circolare, da cui si ottengono tutte le minestre, lunghe, o corte, fatte in casa.
G. Quondamatteo, Grande dizionario (e ricettario) gastronomico romagnolo, Imola, Grafiche Galeati, 1978
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Proprio per la loro complessità (ma si deve riconoscere, sempre, o quasi, elegante e non involgarita da chi vuol strafare), le ricette emiliane sono, fra quelle del nostro Paese, le più adatte ad allinearsi con quelle della grande cuisine.
Il fenomeno di tale trionfo è così ampio e complesso da non consentire un semplice esame tecnico, basato sul rapporto immediato fra materie prime, accostamenti e sapori equilibrati, frutto soltanto di abilità e inventiva di cuochi. Se la cucina emiliana e romagnola appaiono così attraenti, intime, e, diciamolo alfine, sensuali, lo devono al rapporto immediato, cordiale, diretto stabilitosi qui più che altrove, fra belle donne e buona tavola.
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Tuttavia, all’educato distacco delle torinesi, alla scontrosità toscana, all’irruenza trasteverina (la storia dello spillone da capelli che si trasforma in arma da offesa e da difesa) la donna bolognese contrapponeva una cordialità quasi badiale, una accoglienza materna espressa sì dal largo sorriso, ma anche da taiadeli sotti a piatti colmi. Fare le tagliatelle e fare all’amore, sono, per queste donne ammirevoli, due azioni assolutamente parallele. Le leggende legate alla “sfoglia” (il tortellino modellato sull’ombelico di Venere; le chiome di Lucrezia Borgia, tema al cuoco per i tagliolini sottili) hanno sempre un contenuto sanamente erotico, accompagnato da un Leitmotiv sempre caro agli innamorati italiani: “Mo’ tu te ne stai tranquillo, in santa pace, e io ti preparo qualcosina”.
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Da quel ceppo vengono le mogli dei repubblicani “storici” che si sposano solo in municipio e vogliono il funerale civile, coi tre giri attorno al monumento di Garibaldi prima della cremazione. Ma anche per quelle amazzoni, la “sfoglia” è una espressione di vita. Tutt’al più adottano i princìpi esposti, in una “tirata” celebre, dalla Polonia, moglie di Sandrone, maschera modenese, quando, durante il carnevale o nel teatro dei burattini, proclama i suoi criteri sul reggimento della famiglia: “Care le mie signore, ricordatevi che la casa va avanti con la “cannella” che tenete in cucina. Se il marito l’è buono, gli fate le tagliatelle: se fa il birichino, la “cannella” gliela date sulla testa”.
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Il va e vieni delle dita femminili su impasto, sfoglia e “cannella” richiama la premura delle stesse mani nel rimboccare le coperte o nell’accarezzare. Alla “sfogline” di Rubiera o di Imola può essere ripetuto l’elogio che Giovanni Ansaldo scrisse per celebrare le ventiquattro bellezze della torta pasqualina della Liguria: “Sigillo messo sulla pasta da amate dita, bellezza spirituale creata da care mani industriose”. Gran bevitore di Albana e Sangiovese, pronto a correr dietro, con propositi bellicosi, alle tedeschine e alle svedesi, il dongiovanni della Porrettana ha bisogno, un bel momento, di sentirsi dire: “Ma lo sai che sei ancora un ragazzino? Adesso mettiti lì tranquillo, che io faccio la sfoglia”.
Nel 1965, per diversi mesi, curai una rubrica di divagazioni gastronomiche per la radio. Fra gli ospiti, arrivò un giorno Giovanni Poggi, gran prevosto della dotta confraternita del Tortellino e, come tale, continuatore di quella cordialità petroniana, cardinalizia e popolaresca di cui Bologna è alma mater. A una giovane interlocutrice che gli chiedeva il segreto della sfoglia, Poggi ispiratamente rispose: “Signora, preparare la sfoglia è sooprattutto opera spirituale: deve essere tonda come la luna e leggera come una carezza”. Ossia,
e qui la voce divenne “tecnica”, “sei decimi di millimetro”.
Questo suo ruolo di accompagnatrice dei riposi del guerriero, la sfoglia lo adempie sovente.
Negli anni (adesso li definiamo oscuri) del colonialismo, il mio amico capitano Ricciardi comandava un battaglione di ascari libici nel Gebel cirenaico. Al seguito, col resto, Ricciardi si portava anche una ragazza tripolina, già allieva delle suore, appassionata e battagliera. Durante gli scontri coi ribelli, lei ricaricava i moschetti di goitana. Ricciardi: dopo, mentre i muntaz e i buluk-basci, ossia i sottufficiali indigeni, riordinavano i plotoni, contando le perdite e disponevano per la fucilazione dei ribelli catturati, l’amazzone, usando una bottiglia al posto del mancante mattarello, preparava la sfoglia per tagliatelle e ravioli.
Massimo Alberini, Emiliani e Romagnoli a tavola – Itinerario gastronomico da Piacenza a Viserba – Longanesi & C. – maggio 1969 Cromotipia E. Sormani – Milani

 

Manifestazioni

Sagra delle sfogline – Massalombarda Ravenna (Ra) –  fine Agosto
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Sfoglino d’oro è una gara organizzata dal Comune di Bologna e dedicata alla sfoglia, che vuole premiare lo sfoglino che dimostra maggiore abilità ed esperienza nel prepararla.

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Il Matterello d’oro (Bologna, presso lo Studio Tv dell’Antoniano, lo stesso dello Zecchino d’Oro)

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Il Tortellino d’Oro (Bologna)

PaesidelGusto
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