Zona di produzione
Provincia di Forlì-Cesena, Romagna
Materia prima
Farina, olio, rosmarino
Ricette
Spianeta (o spianeda)
La pastella (quanto ne bastava) veniva lavorata con sale e bicarbonato e infine schiacciata sul tagliere come una grossa piada, che si lasciava lievitare in fondo all’asse del pane e si ricopriva, al momento dell’infornata, con isole di strutto³ (o olio) e foglioline di rosmarino. Le nocche delle dita, in leggera pressione, avevano creato strategici fossati per accogliere il condimento. In una decina di minuti avveniva la cottura presso il forno surriscaldato, che andava cercando, lentamente, la temperatura giusta nel prosieguo del suo lavoro.
Vittorio Tonelli, A Tavola con il contadino romagnolo, 1986 Grafiche Galeati;
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La spianata
Si preparava il giorno della panificazione, in un largo padellone velato di strutto, e si consumava subito, ancora calda e fragrante, mentre i filoni di pane finivano di cuocere nel forno.
Si lavora la pasta di pane con altro strutto, si stende col matterello tirandola alta 1 cm.
Si mette in un padellone leggermente unto di strutto e, con le nocche della mano chiusa a pugno, si formano sulla superficie tante piccole cavità. Si condisce con fiocchetti di strutto, sale grosso e aghi di rosmarino, poi si manda in forno, per circa 20-25 minuti, a 180-190°C.
Ingredienti
1 kg di pasta di pane; 3 cucchiai di strutto freschissimo; 1 manciatina di sale grosso; 1 bel rametto di rosmarino.
Liliana Babbi Cappelletti, Civiltà della tavola contadina in Romagna, 1993 Idealibri s.r.l. Milano;
Cenni storici
S-ciazêda, [o Piê int e’ fôran] sf. Schiacciata
L. Ercolani, Vocabolario romagnolo – italiano, italiano – romagnolo, Ravenna, Edizioni del Girasole, 2002 (prima edizione 1971);
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Questa specie di focaccia – chiamata spianeta (o spianeda) nel Sarsinate e in altre località della Romagna¹, scaciata e scacigna in Alto Savio – si faceva con la pasta già lievitata del pane e si può dire sempre, se non c’erano micche, quando si panificava. Sul tagliere c’era l’impasto base, e il forno era caldo . C’era poi un altro motivo, logistico, d’estate, allorché si cominciava a lavorare presto e si aveva bisogno di anticipare la colazione.² Il pane aveva tempi più lunghi di cottura e non era mangiabile caldo, al contrario della schiacciata, croccante e desiderabile appena sfornata, quando entrava nella metafora del ladro incorreggibile, ch’u rubarìa enca e’ föm m’al spianeti.
La pastella (quanto ne bastava) veniva lavorata con sale e bicarbonato e infine schiacciata sul tagliere come una grossa piada, che si lasciava lievitare in fondo all’asse del pane e si ricopriva, al momento dell’infornata, con isole di strutto³ (o olio) e foglioline di rosmarino. Le nocche delle dita, in leggera pressione, avevano creato strategici fossati per accogliere il condimento. In una decina di minuti avveniva la cottura presso il forno surriscaldato, che andava cercando, lentamente, la temperatura giusta nel prosieguo del suo lavoro.
La spianata, come la micca, poteva essere farcita di uva fresca: questa si spargeva a chicchi sul ripiano tondeggiante della pasta schiacciata, piegata, subito dopo, a mezzaluna.
A San Piero, la scacina era molto apprezzata e portava a svuotare il sacco della provvista, come i tortelli-guscioni, di cui parleremo:
Chi vuol consumà la farina
Ch’u facci i tortej e la scacina!
¹E si dice spianêda pur nel Riminese, come informa Gianni Quondamatteo alla voce “schiacciata” nel Grande dizionario (e ricettario) citato.
²D’estate, le donne s’alzavano di notte per impastare. Potevano essere le due o le tre: ma non sempre lo sapevano, dovendosi fidare del gallo, il cosidetto “orologio del contadino”. Durante la lievitazione, accendevano esse stesse il forno, se gli uomini erano già nel campo.
³In Alto Savio, si cercava un maggior sapore: infatti, invece dello strutto, si riempivano le “fosse” con un battuto di lardo rancido, salvia e rosmarino, oltre al sale, se non si preferiva ungere l’intero disco con la sfregatura di una cotica. Quanto al grasso rancido, si aveva un gran dire della sua digeribilità e delle sue proprietà medicamentose. Ma le lodi nascondevano anche l’apprezzamento per un tal condimento invecchiato, che u feva piö riuscita, durava di più.
Vittorio Tonelli, A Tavola con il contadino romagnolo, 1986 Grafiche Galeati;
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