Un forno che non dorme dal 1725, 200 coperti che sembrano 10 e un vino che intrappolò Hemingway per sempre: il ristorante più antico del mondo è questo, e lo dice anche il Guinness dei Primati

Marianna Di Pilla  | 13 Giu 2025
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Scendendo lungo Calle de Cuchilleros 17, appena dietro Plaza Mayor a Madrid, l’aria cambia: profuma di legna ardente e di storia viva. È qui che si apre la porta di Sobrino de Botín, il ristorante più antico del mondo secondo il Guinness World Records, in attività ininterrotta dal 1725.

Un primato che non è mera curiosità da almanacco: è la chiave per comprendere come un esercizio di cucina possa diventare monumento, emozione, identità collettiva. Botín non è solo un locale; è un organismo pulsante che da tre secoli sfama viaggiatori, madrileñi, letterati, re e, oggi, intere comitive di food-lover globali. Non rinunciando al contempo ad essere una impareggiabile finestra sul Settecento.

Nel maggio 2025 una storica taverna madrilena, Casa Pedro, ha rivendicato origini anteriori (1702) chiedendo il titolo Guinness. Botín ha risposto con la sicurezza dei propri archivi notarili: licenza di mesón del 1725 e prove di continuità d’insegna. Risolto in un baleno quello che si preannunciava come un vero e proprio duello di anzianità.

Dai Botín ai González: tre secoli di passaggi di testimone

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La fondazione si deve al cuoco francese Jean Botín e alla moglie segoviana, che aprirono una “casa de comidas” con forno a legna nel 1725. Alla morte di Jean, il nipote — Candido Remís — ribattezzò il locale “Sobrino de Botín”, letteralmente “nipote di Botín”, facendone un marchio che resistette a guerre, rivoluzioni e pandemie.

Dal 1901 le redini sono nelle mani della famiglia González: oggi Antonio, terza generazione, e i figli Carlos e José María custodiscono la fiamma di un’impresa che ha fatto della continuità un valore assoluto.

La loro filosofia è semplice: “Non cambiare ciò che funziona, perfezionarlo con discrezione”.

Il vero cuore di Botín è il grande horno de leña del piano terra, un arco di mattoni refrattari dove il fuoco arde senza sosta da quasi 300 anni: la brace viene alimentata ogni mattina con legna di quercia e il ceppo incandescente non si spegne neppure la notte.

In un’epoca di induzioni e microonde, quel crepitio perpetuo sembra un canto dantesco che accompagna il pellegrino gourmand fin dentro le viscere della Castiglia. La temperatura, sui 200 °C costanti, garantisce cotture lente e omogenee, punteggiate dal profumo di resina che avvolge le carni.

Cochinillo, cordero & co.: il manifesto del gusto castigliano

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Se c’è un piatto-icona che ha attraversato i secoli con immutata perfezione è il cochinillo asado: un maialino da latte di 21 giorni, inciso a rombi per agevolare la fusione del grasso, massaggiato con sale di Villacastín e poco più, infornato a lungo finché la cotenna non “canta” come vetro che si incrina.

Accanto, il cordero lechal — agnello da latte — offre un’esperienza più austera ma altrettanto succulenta. Il contorno è essenziale: patate arrostite nei succhi della carne e una salsa ottenuta deglassando il fondo del tegame.

La carta, volutamente breve, celebra la classicità castigliana: sopa de ajo rinvigorita da un soffritto di pimentón, callos a la madrileña per cuori forti, e “viejas recetas” come il merluza a la romana. La tradizione resta viva grazie a fornitori fidelizzati: gli agnelli arrivano da Sepúlveda, i maialini da Segovia, le verdure dall’ortofrutticolo di Mercamadrid con preferenza per il prodotto di prossimità. In cantina, ovviamente, il vino è Riojano: la “Rioja Alta” che Hemingway immortalò nei suoi versi.

Assaggiare la cotenna che si frantuma come vetro è un micro-racconto: l’esterno crepita, la carne cede con dolcezza lattiginosa, il grasso si scioglie e lubrifica il palato con note di burro nocciola e crosta di pane antico.

Il vino amplifica: il Tempranillo scolpisce tannini che ripuliscono senza cancellare. Intorno, la sala vibra di clangori d’argenteria, idiomi intrecciati, lampade di ottone che riflettono la brace — ed è qui che il tempo sembra curvarsi.

Improvvisamente si capisce perché Botín sopravvive: non per la nostalgia, ma per la continua rigenerazione emotiva che il cibo sa innescare in chi varca quella soglia.

Hemingway, Goya e altri fantasmi illustri

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L’aura letteraria di Botín è palpabile. Ernest Hemingway lo definì “uno dei migliori ristoranti del mondo” in The Sun Also Rises, facendo banchettare Jake e Brett a suon di cochinillo e tre bottiglie di Rioja Alta. Molti lettori americani ancora si siedono “al tavolo di Papa”, al primo piano, nella speranza di assaggiare la stessa epifania.

Ma non fu solo Hemingway: Benito Pérez Galdós ambientò qui un passaggio dei suoi Episodios Nacionales, e si racconta che il giovane Francisco Goya vi abbia lavato piatti per pagarsi gli studi d’arte.

Miti, forse; ma la pittura a olio che ritrae il forno, appesa alla scala interna, sembra dare un volto verosimile a quelle leggende.

Oggi: fra turismo di massa e autenticità protetta

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In tutto, circa 200 coperti, ma la percezione è intima: ogni stanza appare una bomboniera dove il brusio si fonde con lo schiocco della cotenna che si spezza sotto il coltello di un cameriere in giacca bianca.

Con l’esplosione del turismo enogastronomico, Botín serve oltre 400 coperti al giorno in alta stagione. Il 70 % dei clienti è straniero, con punte di americani e asiatici, attratti dal passaporto Guinness e dall’eco hemingwayana.

Botín si sviluppa come un piccolo labirinto verticale:

  1. La bodega: un sotterraneo del XVI secolo, archi in pietra viva e umidità perfetta per i rossi robusti.

  2. Il piano forno: la liturgia della brace a vista e tavoli di legno fissati al pavimento.

  3. Il primo piano “Infanta Isabel”: sale luminose in stile isabellino, ceramiche di Talavera, quadri ottocenteschi.

  4. La mansarda: travi a vista, finestrelle sull’Austrias e la magia di un convivio sospeso sopra la città.

La famiglia González ha digitalizzato le prenotazioni e introdotto turni di sala cadenzati, ma ha resistito alla tentazione di “modernizzare” l’offerta: niente fusion, niente spume, pochissima distrazione.

Anche la pandemia, che nel 2020 ha imposto la chiusura di 99 giorni (l’interruzione più lunga in tre secoli), non ha spinto a riforme radicali: anzi, il 2021 ha visto il restauro conservativo della facciata e l’installazione di filtri HEPA invisibili nei soffitti lignei. Un equilibrio virtuoso fra tutela storica e sicurezza.

Perché Botín è ancora paradigma?

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Ogni mattina, alle 9:00, Jesús, maestro asador da vent’anni, controlla il letto di carbonella; alle 10:30 arrivano i cochinillos: peso ideale 4 kg, certificati da allevamenti di Arévalo. La marinatura è inesistente: “solo acqua, sale e l’aria di Madrid”, scherza Jesús.

In sala, il personale veste la livrea nera con polsini e colletto bianchi, identica ai ritratti fotografici del 1930 appesi nel corridoio. La formazione? Rigorosa: sei mesi di affiancamento e un decalogo d’accoglienza che mette al primo posto “trattare ogni cliente come un ospite di casa nostra”.

Nel panorama gastronomico globale, in cui l’avanguardia corre su tecniche ed estetiche sempre nuove, Sobrino de Botín offre la controprova che la grandezza può anche risiedere nell’invariabile.

Il segreto è la coerenza narrativa: una storia autentica, un rito di cottura immutato, un servizio che rispetta forme antiche senza cedere al “vintage” di maniera. È un’esperienza che parla di Madrid, della Castiglia, dell’Europa che fu e di quella che sarà. In quel forno acceso senza pause dal 1725 c’è il cuore caldo di un continente.

Chi ama viaggiare con il palato e con la mente troverà in Botín non un semplice pasto, ma un capitolo di romanzo: fatto di pietra, legna e carne, plasmato da cuochi anonimi e da giganti della penna; scritto ogni giorno dalle mani che alimentano la fiamma e da quelle che poggiano la forchetta, in un dialogo gastronomico che non conosce fine.

E quando, all’uscita, alzerete gli occhi sulle tegole rosse del tetto, vi verrà spontaneo un pensiero: finché in quel camino salirà fumo, Madrid avrà un pezzo di anima in più — rovente, fragrante, eternamente accogliente.

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Marianna Di Pilla
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